Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


5 ottobre 2009

ELOGIO DELL'IMPERFEZIONE URBANA

Pietro Pagliardini

Uno scambio di commenti su Architettura Catania con un architetto con il quale sono in assoluto e insanabile disaccordo ma verso il quale nutro rispetto, mi ha fatto venire il dubbio che coloro i quali come me auspicano un ritorno alla città tradizionale possano dare l’impressione di aspirare ad una sorta di modello di città della perfezione dove tutto sia preordinato e concluso, una specie di città-spettacolo o città-parco più simile ad una Disneyland governata dall’alto che ad una città vera e viva, quotidianamente vissuta e trasformata dalle esigenze e dagli impulsi vitali della società in genere e dei suoi abitanti in particolare.

Per rappresentare in maniera paradigmatica le nostre reciproche differenze mi è stato opposto, dal mio interlocutore, il modello di San Gimignano, preso a simbolo della cristallizzazione di un’idea di città medioevale perfetta nella sua unità, una città-cartolina così come oggi la vediamo, attribuendolo alle mie aspirazioni, a quello di Dubai, simbolo antitetico della contemporaneità e della trasformazione continua, nel suo condensare da un giorno all’altro, almeno prima della crisi, tutto quanto viene sperimentato in campo architettonico, attribuendolo a sè.



Evidentemente il collega mi e ci considera antichisti nostalgici e romantici, innamorati di un’idea di città anacronistica, bella ma priva di vita, e soprattutto non modificabile e fissata una volta per tutte. Impossibile cercare di convincerlo del contrario ma spiegare alcune cose voglio tentare di farlo.



Dagli studi della scuola muratoriana, anche se decisamente faticosi e tanto ostici da sembrare quasi roba da iniziati (del libro di Caniggia e Maffei esiste anche una traduzione in inglese che non so che impatto possa avere sui lettori con quel vocabolario difficilmente traducibile), risulta con grande evidenza la permanenza di precise regole nella crescita delle nostre città storiche, certamente ricche di molte varianti, ma pur sempre riconoscibili da coloro che ne hanno appreso (“appreso”, altro termine iniziatico) le modalità di lettura. Regole analoghe sono state individuate da Nikos Salìngaros, facendo riferimento però a princìpi della matematica e della teoria delle reti.
Dovendole sintetizzare a pochi concetti essenziali direi che esse sono così riassumibili:

-Il processo di occupazione dell’ambiente antropico è caratterizzato da:


"un sistema di progressive modularità tra ciascuno dei termini scalari, dall’arredo al territorio: così che la partecipazione individuale dell’uomo al suo mondo strutturato è connessa alla molteplicità degli uomini e delle cose mediante una progressione di grandezze crescenti, ciascuna comprensiva e compresa dalle altre"

(Caniggia e Maffei, Lettura dell’edilizia di base, Marsilio 1979) e

tutta l’architettura popolare ha proprietà frattali. Credo che il nostro cervello sia fatto per costruire le cose in un determinato modo, così, inevitabilmente, noi sviluppiamo delle strutture frattali. La maggior parte delle grandi creazioni dell’umanità oltrepassa la struttura rigorosamente necessaria; abbiamo il bisogno di generare determinati tipi di forme e di correlazioni geometriche ….Le città, almeno quelle più piacevoli, sono frattali. Tutto, dai percorsi delle vie alla figura delle facciate e alla disposizione degli alberi è frattale nelle grandi città come Parigi, Venezia e Londra. Questo è stato misurato matematicamente da ricercatori come Michael Batty e i suoi collaboratori (Batty e Longley, 1994) e Pierre Frankhauser (Frankhauser, 1994)

(Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009).
-Le parole chiave della città sono: strada, nodo, rete, permeabilità, gerarchia.

Tutto ciò è riscontrabile nella città europea storica ma non solo: gli stessi fenomeni si ritrovano in molte favelas brasiliane e indiane e nelle borgate abusive romane, cioè laddove il processo di crescita è totalmente spontaneo e in palese contrasto con la città ufficiale pianificata a cui sono affiancate e contrapposte.

La città che descriviamo non è affatto una città “progettata” una volta per tutte, una città immobile e statica, quella, ad esempio, rappresentata nella città ideale che fa da logo a questo blog: quella ne è solo la forma pittorica idealizzata che solo raramente ed in alcune parti di una città reale, quella monumentale e pubblica, può essere presa come esempio da coltivare. La città che descriviamo deve solo essere indirizzata verso regole di crescita analoghe a quelle della città storica, in modo tale da continuare a crescere secondo quei principi di progressive modularità che sembrano essere essenziali per il nostro cervello che necessita della continuità del passaggio da una scala inferiore a quella superiore, secondo una logica frattale che si ritrova nella natura stessa. La continuità spaziale, nel senso di permeabilità, e temporale, nel senso di possibilità di continua trasformazione, caratterizza questo tipo di città.

La città moderna e contemporanea presenta invece come caratteristica principale la discontinuità e la parcellizzazione. Tutto è separato e sincopato: le varie zone a funzione diversa, gli edifici staccati gli uni dagli altri, le strade più simili a nastri trasportatori che trasferiscono auto da un luogo all’altro così come nelle fabbriche movimentano, ad esempio, biscotti dal forno all’impacchettamento. Ma dentro alle auto ci sono persone e non merci e a nessuno, riflettendoci sopra, può far piacere essere trattato al pari di una merce qualsiasi che si sposta da una macchina all’altra per il trattamento dovuto.

Non si tratta perciò di indirizzare il progetto di città verso uno stile piuttosto che verso un altro, anche se è indubbio che l’edilizia tradizionale presenta una serie di caratteristiche tipologiche e morfologiche che sono più omogenee con il naturale processo di crescita urbano; si tratta di garantire al contempo il miglior funzionamento della città nel suo complesso e l’ambiente urbano più favorevole al benessere di chi vi abita.

La città non è dunque progettata una volta per tutte, non è una cartolina, ma deve garantire, come nella città storica e pure nelle favelas, una crescita e una trasformazione continua e naturale secondo le direttrici individuate in base alle caratteristiche geografiche e alle preesistenze. Questo tipo di città è l’esatto opposto di Disneyland, che in quanto città del divertimento e del business, è governata dall’alto e si modifica in base alle esigenze di mercato, mentre l’altra si sviluppa in base alle esigenze della società (tra cui rientra anche il mercato, ma non in maniera esclusiva) e dei suoi individui. E’, cioè, una città intrinsecamente democratica, a prescindere dalla forma politica nella quale si sviluppa.

Dubai, per restare all’esempio fatto, è invece l’esatto contrario; è una Disneyland non monotematica, che cresce in base alle esigenze di più forme di business anziché uno solo: il turismo, il commercio, il benessere, inteso come centro-benessere, il lusso, ecc. Dubai è la rappresentazione di uno status symbol che separa chi l’ha visitata dagli altri. Gli edifici devono essere perciò straordinari e inusitati nella loro fantasia per colpire l’immaginario collettivo, al pari di un manifesto pubblicitario, ma nulla conta la città in sé, perché non è vissuta da cittadini ma da clienti provenienti da ogni parte del mondo. Dubai è in fondo solo il più grande shopping center del mondo dove si vendono merci, servizi e sogni. L’architettura è in quel luogo solo comunicazione visiva e null’altro. E’, in fondo, come Las Vegas: come si potrebbe auspicare che l’architettura di Las Vegas divenisse l’esempio da esportare nel mondo? Niente di cui scandalizzarsi su Dubai ma prenderne ad esempio le sue follie architettoniche pensando che tutto il mondo sia Dubai, esaltarne come si fa nei media i suoi progetti come se avessero una valenza universale è né più né meno che un errore di comprensione.
La città che vogliamo è incompiuta, imperfetta, in continua trasformazione ed evoluzione ma basata esclusivamente sui bisogni, i desideri, i sogni dei suoi cittadini e degli uomini e delle donne che la vivono, non degli architetti. Da questa spinta ne deriverà la bellezza autentica, di cui gli architetti sono gli interpreti.
Dunque al collega dico che la vitalità sta, secondo me, in questo modello di città dietro cui c'è la società e non nella invenzione pubblicitaria in forma di architettura, dietro cui c'è solo il pur rispettabilissimo capitale, cioè una sola parte della società.

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27 settembre 2009

APPENDICE AL POST PRECEDENTE

Stamani compro il Giornale e trovo un’intervista a Frank Gehry che viene, come si usa dire, come il cacio sui maccheroni: nel precedente post osservavo la consuetudine di molti architetti di risolvere i problemi in base alla banale discriminante progetto-buono, progetto cattivo, cioè architetto-bravo, architetto-incapace, ed ecco cosa risponde Gehry a Luigi Mascheroni, autore dell’intervista:d
Archistar! Chi cazzo l’ha inventata questa parola? Che cazzo vuol dire questa parola? L’avete inventata voi giornalisti e non significa nulla: io non sono un’archistar, sono un architetto e basta. Non esistono le archistar, esistono architetti che progettano e realizzano opere, a volte buone, altre meno buone, a volte funzionali, a volte catastrofiche dal punto di vista architettonico o da quello economico”. I suoi edifici (questo lo sintetizza il giornalista) sono tra quelli “buoni” (quindi lui è un bravo architetto).
Eccoci qua, dunque è il progetto che conta e perciò il progettista. Ogni progetto va bene purché sia un buon progetto. Continua, come dicevo, la fiera dell’ovvio, della tautologia, del non significante.
Però Gehry ha anche una sua filosofia e la spiega:
La contaminazione è inevitabile e inarrestabile. La fusione tra culture è arrivata a un punto tale che è impossibile opporvisi, bisogna seguire il flusso e cogliere gli stimoli”.
Relativismo assoluto e assolutamente strumentale all’affermazione precedente: va bene tutto, tutto va così perché c’è il flusso da seguire e non potrebbe andare diversamente, quello che conta è la qualità del progetto e del progettista.
Non risponde alla domanda sulle accuse mossegli da John Silber nel suo libro Architetture dell’assurdo ma dice che “l’architetto deve fare i conti con i luoghi e i tempi in cui vive e lavora”.
Mah!


N.B. Non posso fare il link all'articolo in questione perhè ancora non l'ho trovato in rete

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26 settembre 2009

OGGETTI ARCHITETTONICI

Pietro Pagliardini

In questi giorni è in corso nella mia città un dibattito giornalistico sulla costruzione ormai iniziata di un grattacielino di 30 metri circa, più correttamente definibile come edificio a torre. Non siamo affatto nel campo della scelta ideologica del “grattacielo simbolo di modernità”, nel senso che il progetto nasce dall’impossibilità, se non in altezza, di altro tipo di ampliamento dell’edificio, che ospita un albergo ormai da anni in attività.
Tuttavia l’impatto visivo ed emotivo in una città di circa 90.000 abitanti è forte e la sua altezza, unita alla forma, anch’essa obbligata dal lotto e da ragioni strutturali, riduce fortemente la veduta del centro storico da una delle direttrici stradali principali; e per fortuna che, per ora, resta ancora qualcosa della veduta di Arezzo alta così come rappresentata negli affreschi di Piero della Francesca.
Chiacchierando con alcuni colleghi sull’argomento, ho constatato che c’è la tendenza a liquidare il problema spostando il tema sulla “qualità del progetto”, quindi sulla qualità dell’architetto.
Schematizzo il ragionamento in questi termini: “Il problema non è l’altezza ma la qualità del progetto”.


Non che questo tipo di ragionamento mi sia nuovo, che anzi è un ritornello sentito infinite volte, ma sono sinceramente stupito quando viene fatto non da fanatici entusiasti della modernità (almeno a parole) o della ovvia ed ineffabile “cultura del progetto” (un progettista quale cultura deve avere se non quella del progetto?), ma da colleghi attenti che, parallelamente alla loro professione, coltivano e mantengono interesse e attenzione per gli aspetti più generali legati all’architettura.

Cosa sottintende l’affermazione: “Dipende dalla qualità del progetto (cioè del progettista)”?
Intanto sottintende una serie di ovvietà:
- se il progettista è una capra è altamente probabile che qualunque progetto risulterà simile all’autore;
- un progetto ben fatto è meglio di un progetto malfatto, oppure, dovendo scegliere tra due progetti è meglio scegliere quello migliore.

L’ironia è facile ma non gratuita perché è insita proprio in quel tipo di ragionamento che è assolutamente tautologico, privo di informazione e ha, al massimo, valore solo in negativo. E non è neanche facile replicare a discorsi del genere che infatti tendono a esaurire il dialogo, restando aperto quello, scarsamente avvincente, di chi potrebbe essere l’architetto giusto per fare un progetto migliore di……. uno peggiore oppure quello del tipo “io l’avrei fatto…”.

Sforzandomi di approfondire di più, e con l’avvertenza che si tratta di una mia interpretazione, quasi di tipo psicologico, direi che un ragionamento di questo tipo rivela la difficoltà di isolare, restando al tema grattacielo, la categoria generale, cioè il tipo-grattacielo, dal caso particolare, cioè il progetto-grattacielo, che invece è un problema del secondo ordine. Una cosa è discutere della qualità del progetto specifico di un determinato grattacielo, altro è astrarre la tipologia del grattacielo e valutarla in base a considerazioni generali e comuni a tutti gli edifici di quel tipo, relative alla possibilità o meno di integrarla nella città e nel territorio, stimarne i pregi e i difetti sia su coloro che vi risiedono che sui cittadini che lo subiscono, valutare gli effetti climatici indotti (è noto che questi edifici alterano e di molto le condizioni del vento al proprio intorno), le conseguenze urbanistiche sul traffico e sulle infrastrutture in genere, l’inserimento nel contesto da vari punti di vista, tra cui quello dell’ombra prodotta intorno, il loro (pessimo) bilancio energetico, il significato simbolico, le conseguenze sui rapporti sociali e umani all’interno di quell’ambiente separato e autonomo da tutto il resto e al proprio interno tra i vari livelli, ecc.

Probabilmente il punto nodale per cui vi è questa difficoltà di cogliere gli aspetti generali (il tipo) rispetto a quelli particolari (il progetto) dipende non tanto dalle qualità dei singoli, quanto da un atteggiamento culturale che tende, ormai da decenni, a considerare l’architettura come l’arte di progettare e produrre “oggetti” architettonici in cui il contesto non esiste o peggio esiste solo in funzione e spesso in opposizione all’oggetto stesso.

Così scrive Sergio Los in Regionalismo dell’architettura, Franco Muzzio, 1990:

…..Ma quando emerse quella polarità? Penso che essa risalga al momento in cui l'architettura assunse, per la prima volta all'inizio del Rinascimento, una determinata organizzazione teorica che istituiva l'oggetto edilizio come delimitazione spaziale del suo ambito disciplinare specifico.
Da quel momento l'edificio parve estratto dal suo contesto e il livello tipologico (che esso rappresentava) cessò di essere uno dei tanti ma assunse un ruolo dominante, diventando talvolta addirittura l'unico pertinente all'ambito teorico della composizione architettonica. Questa operazione costitutiva faceva scomparire il carattere multi¬scala dell'architettura (il suo essere intreccio di tipi a vari livelli tipologici, dalla stanza al sistema insediativo), essa finì per rendere naturale l'esistenza dell'oggetto edilizio come oggetto privilegiato del lavoro progettuale. Ci furono in seguito discussioni accanite sulle differenti modalità di costruzione del progetto e sulle mutevoli caratteristiche dell'oggetto edilizio, senza riconoscere come tutte condividessero e confermassero quella iniziale operazione costitutiva che estraeva l'edificio dal suo contesto urbano (e rurale) per separarlo da esso, contrapponendone la logica evolutiva.
L'edificio dunque è diventato un oggetto formalmente chiuso e monolitico; la stessa città quando è divenuta tema di progettazione ha assunto lo statuto di grande oggetto formalmente chiuso e monolitico, di megastruttura. Basta pensare ai disegni delle città ideali, che accompagnano lo sviluppo dell'architettura teoretica
".

Pur ritenendo io che istituire questo legame così diretto tra Rinascimento e nascita dell’oggetto edilizio possa portare a risultati fuorvianti, ma riconoscendo che nella nascita della figura dell’architetto come figura autonoma e specialistica c’è il germe di quanto accaduto in seguito fino ai nostri giorni, non c’è dubbio che Los riassuma bene la condizione di differenza e opposizione tra oggetto edilizio e contesto urbano così come oggi si è ormai configurato e quindi la difficoltà culturale a staccarsi da un modo di valutare la realtà per parti separate. Questo metodo è indotto, oltre che dalle scuole di architettura, da tutta la pubblicistica, specializzata e non, che tende ad esaltare il genio architettonico e la “ricerca” sull’oggetto, trascurando del tutto ciò che sta intorno. Troppo complicato, troppe variabili in gioco che costringerebbero ad una maggiore prudenza, che è ovviamente nemica del “gesto”.

Il gesto, lo schizzo, l’intuizione, l’attimo è appunto la cifra caratterizzante del discorso architettonico contemporaneo, almeno nella sua diffusione mediatica. La figura demiurgica dell’archistar ne è il simbolo eclatante e vistoso.
Ma non solo: l’urbanistica della città per parti separate funzionalmente e geograficamente è l’altra faccia della medaglia della progettazione di oggetti architettonici. Ogni parte deve essere vista chiusa in sé, a prescindere: il centro storico è da salvaguardare come testimonianza storica, le zone residenziali devono essere studiate in base al verde, ai parcheggi e alla distribuzione dei servizi, le aree commerciali in base al bacino di utenza, le zone produttive in base alla accessibilità dalle viabilità principali e alla vicinanza alle infrastrutture. Se anche ogni parte fosse perfettamente ordinata (e non accade mai) e se ogni progetto fosse “di qualità” (idem c.s.), la città che ne risulterebbe sarebbe disgregata e dissonante, fatta di parti diverse non comunicanti, come un’orchestra composta da ottimi musicisti, ognuno dei quali suonasse un pezzo diverso e senza la guida del direttore.
Mettere in crisi questo pensiero schematico e parcellare è il primo passo per ripensare la città nella sua unità.

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20 settembre 2009

RITORNO ALLA CITTA':PARTE 2°

Concludo la sintesi del convegno "RITORNO ALLA CITTA'", iniziata nel post precedente, con l’ultima relazione, quella di Sergio Los. Chiarisco che su questa sarò molto più lacunoso in quanto mi sono distratto nel tentativo, mal riuscito, di fotografare con il cellulare le slides che ha mostrato. Per cui potrò riportare sommariamente solo i contenuti principali. Me ne scuso con lui.

SERGIO LOS
Sergio Los, di cui ho apprezzato i contenuti ma anche il suo senso dell’ironia e la serenità con cui esprime il suo pensiero spesso controcorrente, ha iniziato la sua relazione più o meno con queste parole:
Noi non siamo una generazione capace di costruire città. Siamo capaci ad andare sulla Luna, sappiamo fare ottime automobili ma le città non le sappiamo proprio fare. Lo sviluppo dell’impiantistica, che è diventata sempre più invasiva negli edifici, ci ha fatto perdere la conoscenza della bioclimatica. Le città del passato restano molto migliori delle nostre”.


Ha quindi parlato della sua idea di base che parte dal principio dell’inevitabile esaurimento del petrolio e quindi dalla necessità di risparmiare energia. E poiché dai dati risulta che il settore che maggiormente consuma energia (non solo come consumi per la gestione ma anche per la produzione) è quello dell’architettura, è necessario progettare come gli antichi, sapendo sfruttare al meglio il ciclo solare, non tanto nella produzione di energie alternative quanto nell’esposizione e nel saper prevedere il giusto rapporto di insolazione.

Ma ecco la novità, almeno per me: Los non si riferisce mai ai singoli oggetti edilizi, alle singole abitazioni svincolate dal contesto perché sa che la città è un valore, non ha un approccio specialistico e monoculare al problema; lui e il suo gruppo hanno studiato i tessuti urbani da questo punto di vita e dal confronto hanno trovato che il tipo più efficiente energeticamente è l’isolato urbano orientato in direzione nord-sud ed est-ovest, come le città romane con il cardo e il decumano orientati approssimativamente in quelle direzioni. A supporto di questa affermazione porta una serie di grafici e tabelle.

La città più efficiente dal punto di vista energetico è dunque una città di isolati correttamente orientati, densa, fatta di strade diversificate tra quelle pedonali e quelle per le auto. Di questa città (che a parte la distinzione dei percorsi corrisponde in tutto alle nostre città storiche [questa è una mia osservazione]) Los apprezza anche la possibilità dello scambio sociale tra le persone, che lui esemplifica con una vignetta: la città verticale è come un lungo tavolo da pranzo in cui i commensali però si danno le spalle mentre la città orizzontale è come un tavolo in cui le persone siedono l’una di fronte all’altra, cioè la città orizzontale è “conviviale”.

Le città devono essere solari ma anche sociali. La bioclimatica deve andare d’accordo con l’effetto città e produrre in ambito urbano un clima “conviviale.
E’ necessario un forte ridimensionamento della climatizzazione artificiale a vantaggio appunto dello studio della corretta insolazione, senza per questo continuare a polverizzare la città, anzi valorizzandola. Porta l’esempio del centro storico di Firenze che, prima dell’intasamento completo degli isolati, era dal punto di vista bioclimatico del tutto corretta. Non per questo Los si azzarderebbe mai a ipotizzare la demolizione delle costruzioni che nel corso dei secoli hanno intasato i lotti.

Los presenta poi un suo studio per un tessuto urbano fatto di isolati ma con due griglie di percorsi, quella pedonale e quella carrabile, che sono sfalsate tra loro.
Sulle energie alternative e sulla moda attuale di mettere pannelli fotovoltaici e pale eoliche ovunque è apparso se non scettico certamente disincantato. Ha infatti smitizzato, ironizzandoci sopra, l’energia fotovoltaica con una vignetta in cui le celle alimentano una…sedia elettrica, commentata con queste parole: “il fotovoltaico non è né buono né cattivo in sè, dato che con esso si può, appunto, alimentare anche una sedia elettrica”. L’intenzione dissacratoria di colpire l’idolatria del fotovoltaico è abbastanza evidente.

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Al termine di questa sintesi qualche mia impressione.
La più importante: è stata rappresentata da tutti una città con proprietà e caratteristiche comuni che rimandano alla città storica europea. Ognuno dei relatori parte da angolazioni diverse e affronta il tema in base alle proprie sensibilità ma il punto di arrivo delle analisi di ognuno è abbastanza simile quando non lo stesso. Nessuno, salvo Tagliaventi, ha parlato di architettura (ma anche lui è stato sfumato su questo), quanto di disegno urbano, di urbanistica, consapevoli del fatto che questo è il nodo di fondo da sciogliere della città moderna e contemporanea.
Certamente che le relazioni sono state influenzate dal tema del convegno, il ritorno alla città, ma in altri tempi, non lontani, le proposte sarebbero state ben diverse!
Certamente che i relatori saranno stati scelti conoscendone la loro idea di città ma questo nulla toglie al fatto che ognuno ha portato argomenti di grande razionalità a giustificazione della proprie convinzioni.

Solo Purini è stato più sfumato, più in imbarazzo nello scegliere nettamente una direzione di marcia; come spiegare diversamente il fatto di voler tenere insieme due opposti quali il Palazzo di Giustizia di Leonardo Ricci e il piano di Lèon Krier? La parola può molto ma non tutto e, comunque la si pensi, le due concezioni sono nettamente antitetiche e inconciliabili, due modelli agli antipodi che l’espediente letterario del contrasto collina-pianura, pur elegante e immaginifico, non può riuscire a far stare insieme, nemmeno come dialettica tra gli opposti.
E’ vero però che l’enunciazione delle sue parole chiave per il ritorno alla città sono coerenti con una visione di una città.

Marco Romano e Gabriele Tagliaventi sono stati per me una conferma, Sergio Los una rivelazione; le sue analisi sono originali e anticonformiste.
Qualche perplessità mi è rimasta sui risultati progettuali che ho visto ma avrei certamente bisogno di conoscerli meglio.



N.B. Mi scuso per la pessima qualità delle foto della relazione di Sergio Los.

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19 settembre 2009

RITORNO ALLA CITTA': SINTESI DI UN CONVEGNO

A Firenze il 16 settembre sé tenuto un bel convegno dal titolo “RITORNO ALLA CITTA'”, organizzato da un gruppo di giovani e attivissimi architetti che si raccolgono in una associazione chiamata STUDIUMCITY e patrocinato dall’Ordine di Firenze.
La mattina hanno parlato Marco Romano, Franco Purini, Gabriele Tagliaventi e Sergio Los.
Proverò a riassumere a memoria e con i pochi appunti presi, cercando più possibile di attenermi ai contenuti da loro espressi:

MARCO ROMANO
Marco Romano, profondo conoscitore delle città di ogni continente, dopo aver esaltato la ricchezza della città europea che ha “inventato” la piazza, ha ribadito quanto scritto nel suo ultimo libro, cioè che la città è un’opera d’arte perché gli edifici, sia quelli pubblici o rappresentativi (i temi collettivi), sia quelli privati sono stati realizzati, a partire dal 1200, con intenzione estetica.

La città tuttavia crea disparità nei cittadini, in base all’appartenenza a classi o per censo; infatti nobili e benestanti abitano nel centro vicini alle piazze e ai temi collettivi e i meno abbienti abitano in prossimità delle porte, cioè in periferia. La periferia esisteva già 1000 anni fa e ciò che caratterizzava la periferia era non solo la distanza dal centro ma soprattutto la mancanza in essa di temi collettivi (i temi collettivi sono perciò una ricchezza).

Come fare a riequilibrare questo diverso uso della città per attenuare le differenze? Qui Romano ha portato diversi esempi di città che hanno affrontato e risolto questo argomento, tra cui San Giovanni Valdarno, città di fondazione, in provincia di Arezzo, su progetto di Arnolfo di Cambio: tutte le strade convergono nella piazza centrale e questo è un modo intenzionale, secondo Romano, per far percepire agli abitanti delle strade meno importanti e più periferiche che anch’essi fanno parte a pieno titolo della città e per farli sentire meno lontani dal centro rendendolo visibile dalla strada.

Anche a Milano e a Parigi, come a Barcellona e a Madrid ci sono viali che partono dal centro e si spingono fino in periferia. Ha poi portato ad esempio un suo piano per una parte periferica di Modena intorno alla stazione dell’Alta Velocità, risolta non imitando il centro storico ma integrandola al centro mediante una rete di strade e viali tematizzati.

FRANCO PURINI
Purini ha fatto un omaggio alla fiorentinità con un richiamo letterario a Palazzeschi che contrappone la varietà delle colline dall’anonimato della pianura leggendo questo brani da Le Sorelle Materassi:
"Dirò altresì, non per migliore chiarezza ma per scolpire meglio con un’immagine la positura, che in questa terra la collina tiene il posto della signora, e quasi sempre signora vera, principessa, la pianura vi tiene quello della serva, cameriera o ancella;…
Riporterò alcuni nomi di queste colline riuscendo essi, meglio dele parole, a dimostrarsi tale evidenza: Bellosguardo, e notate che molte ve ne sono dove lo sguardo è ancora più bello, Il Gelsomino, Giramonte, Il Poggio Imperiale, Torre del Gallo, San Gersolé, Settignano, Fiesole, Vincigliata e Castel di Poggio, Montebeni, Il Poggio delle Tortore, Montiloro, L’Apparita e L’Incontro, Monte Asinario, Il Giogo, Monte Morello… Sentite invece i nomi della pianura: Rifredi, Le Caldine, Le Panche, Peretola, Legnaia, Soffiano, Petriòlo, Brozzi, Campi, Quarto, Quinto, Sesto… anche la fantasia pedestre si spegne, sembrano gli evirati dell’immaginazione"
.

Naturalmente questa bella citazione non è stata fatta a caso ma per dire che la pianura è in qualche modo il luogo della sperimentazione e della ricerca per apportare a quel territorio naturalmente piatto e monotono quella fantasia e varietà che la collina invece possiede per dono naturale. Per questo, prosegue Purini, il Palazzo di Giustizia a Novoli di Leonardo Ricci, se pur non del tutto coerente nella sua esecuzione all’idea originaria dell’autore, deve essere valutato in questo contesto, come se fosse una collina in mezzo alla pianura. Poi prosegue dicendo che è certamente apprezzabile anche il vicino Piano di Novoli di Lèon Krier che arricchisce la pianura con le sue strade tortuose e articolate. Su questo argomento aggiungerò un mio commento nel prossimo post.

Passa poi ad indicare alcune parole chiave per il ritorno alla città:
-Densificazione
-Equivalenza teorica e pratica tra nuovo e vecchio (recupero sì ma è inevitabile costruire anche il nuovo)
-Semplificazione normativa
-Scala media: gli interventi edilizi non devono essere di dimensioni spropositate.

GABRIELE TAGLIAVENTI
Ha svolto una spumeggiante relazione che è arduo e riduttivo da raccontare con le sole parole perché faceva tutt’uno con una ricca quantità di immagini che illustravano i concetti espressi e arricchita da una notevole quantità di dati statistici significativi di cui ho potuto tenere traccia solo dei più significativi.
Prima ha decretato la morte dei grattacieli e dell’insana rincorsa verso l’alto, e questo grazie alla crisi.
Poi ha affrontato il tema della densità urbana, dichiarando che una città per essere efficiente deve essere densa e compatta e a questo proposito ha riportato i seguenti dati:
Bologna, la sua città, a fronte di un decremento notevole di popolazione è cresciuta in termini di superficie a dismisura raggiungendo attualmente i 9.000 ettari. Questo vasto territorio è cresciuto come un’ameba, completamente priva di una forma riconoscibile tanto da rendere difficilissimo un sistema di trasporti pubblici efficienti e addirittura impossibile una metropolitana che dovrebbe raggiungere quartieri sparsi ovunque e senza un disegno compatto. Il tutto a fronte di una popolazione attuale di circa 360.000 abitanti.
Nella stessa superficie territoriale di Bologna, 9.000 ettari, è invece compreso tutto il centro di Parigi che conta però circa 2.200.000 abitanti. E Parigi, dice Tagliaventi, è una città bellissima grazie a molte cose, tra cui il piano del barone Hausmann ma anche grazie alla sua densità che la rende viva ed efficiente con un piano terra occupato da negozi e botteghe, cosa ormai impossibile a Bologna perché è dispersa, non c’è la strada e soprattutto c’è una grande quantità di mall e ipermercati.

Questi, nati negli USA, sono però ormai da tempo in assoluta decadenza in quel paese, tanto che nel 2008 non ne è stato costruito nemmeno uno e quest’anno anzi ne sono stati demoliti 45 (se ho capito bene) per fare posto a cittadine vere e proprie con strade, negozi, drogherie al piano terra e abitazioni e uffici ai piani superiori.
Lo stesso fenomeno sta avvenendo in Francia dove si stanno demolendo centinaia di condomini nelle banlieue per sostituirli con piccole cittadine, sempre con le stesse caratteristiche di mescolanza di funzioni e con architettura regionale.
Porta l’esempio, tra gli altri, di Plessis Robinson (foto sopra e sotto) un comune della cintura parigina, dove sono stati distrutti i soliti fabbricati alti e anonimi per essere sostituiti con un vero centro urbano ben visibile nelle foto aeree. In effetti sembra un centro storico ma è invece quanto costruito al posto dei casermoni che ancora si vedono intorno.



Poiché il post rischia di diventare troppo lungo rimando ad un post successivo sia alcune mie considerazioni sia il resoconto dell’intervento di Sergio Los che, per me che non lo conoscevo se non di nome, è stata una vera e piacevolissima scoperta. Spero di poter mostrare alcune foto delle sue divertentissime e incisive diapositive, che però immagino saranno di pessima qualità perché scattate con il cellulare.

N.B. L'immagine di San Giovanni Valdarno è tratta dal sito Le belle città, di Marco Romano
Le immagini di Plessis Robinson sono tratte da Google earth e da Virtual Earth.


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13 settembre 2009

ANTICHISTI E MODERNISTI

Pietro Pagliardini

Il vivace scambio di commenti che c’è stato nel precedente post mi ha suggerito una riflessione non tanto sul progetto al centro del post quanto sul rapporto che corre tra due mondi e due modi diversi, e spesso opposti, di intendere l’architettura e l’urbanistica, che con una grande semplificazione per capirci chiamerò "antichista" e "modernista".
Vorrei però spersonalizzare e, a parte l'esempio di Fantozzi che riprendo, in quello che ho scritto non c'è niente che faccia riferimento diretto agli autori dei commenti stessi.
Antichista è, appunto, una grande semplificazione, al limite dell’errore, che non dice il vero perché chi auspica un ritorno alla tradizione non è un nostalgico e non pensa affatto di fermare il tempo, ma è convinto, come ne sono convito io, che nella tradizione, cioè nel patrimonio di conoscenze acquisite dall’uomo nel corso di secoli di civiltà urbana, c’è una grandissima quantità di elementi che sempre più appaiono utili e necessari alla modernità. Non è un caso che uno degli slogan di Lèon Krier sia: un’altra modernità è possibile.


Quindi gli “antichisti” si sentono a pieno titolo estremamente moderni, nel senso appunto che auspicano un miglioramento della vita urbana, e perciò della vita dei cittadini, mediante il recupero di tecniche costruttive, tipologie edilizie, tessuti edilizi già adottati con grande successo in passato, almeno fino alla rottura delle regole voluta e attuata dal movimento moderno.

Ma non è di questo che vorrei parlare, quanto della convivenza con pari dignità culturale di entrambe queste due visioni urbane e ambientali e, direi, del fatto se sia veramente possibile e a quali condizioni questa convivenza.

Per farlo è forse più facile capire quali siano i punti di conflitto insanabili, quelli cioè su cui è quasi inutile sperare in una serena discussione e quelli invece in cui è possibile e necessario, da parte di entrambe le posizioni, trovare dei punti di dialogo, tenendo però sempre presente la spaventosa asimmetria informativa che caratterizza le due visioni che rende gli antichisti necessariamente più sospettosi per la paura di essere assorbiti in discussioni fuorvianti.

Intanto l’antichista non è uno sprovveduto che vive fuori dal mondo e che non comprende la società; è un uomo del suo tempo e sa benissimo quanto questa sia frammentata, ne conosce le spinte centrifughe, sa che un mondo costituito da individui non è una società organica in cui pochi possono decidere tranquillamente per tutti. Sa anche che non esiste una concezione unitaria del mondo, solo che non si rassegna supinamente a questo fatto e, prescindendo dalle visioni politiche o religiose di ognuno, ritiene che la città sia comunque un bene collettivo da salvaguardare e, se deve scegliere tra un disegno frammentario e un disegno unitario propende per quest’ultimo, dato che non esiste motivo di assecondare, per una non giustificata coerenza intellettuale, un disegno che incrementa il caos.
Quanti progetti di grande scala urbana vengono realizzati! Quante EXPO, fiere internazionali, olimpiadi, eventi mediatici comportano la costruzione di parti di città importanti che lasciano un forte segno! E allora perché perpetrare la stessa astratta geometria che non permette alcuna vita sociale? Perché non applicare a questi grandi eventi le regole che ci hanno dato le nostre città storiche? E quando si fa un piano regolatore perché continuare con lo stesso non-disegno fallimentare che ha prodotto le periferie e i suburbi che nessuno può ragionevolmente difendere?

Esiste poi un altro aspetto che rende l’antichista particolarmente sensibile e lo fa apparire quasi ridicolo agli occhi di molti ed è legato al suo stare fuori dal pensiero collettivo. Se mi è consentito un paragone politico l’antichista oggi è considerato come lo era l’uomo di destra ai tempi della prima repubblica: un paria, un impresentabile, un intoccabile, un escluso. Questo fatto indiscutibile è legato al fatto che dice “verità” diverse, il suo non è un pensiero omologato, può essere sbagliato, ma certamente non si adegua al pensiero dominante. Progettare una casa con il tetto e la gronda, per esempio, si può fare e viene fatto quotidianamente (quasi) senza problemi, ma non si può neanche lontanamente sperare o immaginare che possa assurgere al grado di canone culturale, di regola da insegnare agli studenti. Chi lo dicesse sarebbe poco meno, o poco più, che un mentecatto, un ignorante, un incolto e certamente non degno di poter rappresentare in alcun modo qualcosa che abbia a che vedere con la cultura.
D’altronde che notizia può rappresentare per le patinate riviste di moda il progetto di un architetto che faccia le case con il tetto? Ecco, direi che l’architetto antichista non vuole stupire nessuno, non cerca la sorpresa in architettura.
Ecco perché, in questa situazione, portare ad esempio Fantozzi non significa una necessaria adesione culturale a quel modello, almeno per me, ma, inquadrato nel suo contesto storico, il dire che la Corazzata Potiomkin è una “boiata pazzesca” è un gesto oggettivamente liberatorio e dissacratorio in un periodo in cui uscivamo da una fase di conformismo da cineforum con film brasiliani, ungheresi e, naturalmente, sovietici e polacchi di una noia mortale cui era difficile opporsi. Insomma l'antichista dice cose scomode e, in opposizione ad un ambiente culturale bacchettone e conformista, le dice spesso con un linguaggio "popolare", alla Fantozzi appunto, per accentuare anche formalmente la sua diversità.

Altro elemento di differenza, questo davvero profondo, sta nell’atteggiamento rispetto all’utenza in genere, che io individuo nei cittadini, intesi come i detentori del diritto di decidere le sorti della città. Da una parte si ritiene che debbano essere gli architetti, in quanto avrebbero la conoscenza, a dover decidere, dall’altra l’architetto è solo uno strumento che aiuta, con le sue conoscenze, a prendere decisioni. Da una parte si ritiene che la gente debba essere guidata, dall’altra si crede che la gente sia capace di scegliere e decidere. Da una parte l’architettura è molto autoreferenziale, dall’altra c’è talora la pretesa di sapere quali sono i bisogni della gente. Ora si da il caso che nemmeno il medico, che pure applica una metodologia e una tecnica scientifica largamente superiore, standardizzata e condivisa che non quella degli architetti, possa imporre la sua visione al paziente, figuriamoci l’architetto.

Passiamo adesso agli elementi di contatto. Oggettivamente stento a trovarne di precisi, tanto sono distanti i due mondi, ma uno sarebbe necessario vi fosse sempre da entrambe le parti: la curiosità.

Per quanto ciascuna parte sia convinta della propria verità non è possibile che non vi sia nell’altra qualcosa da cui attingere e apprendere. Per questo, pur rimanendo il livello di scontro alto, e io non ci vedo niente di male perché è il conflitto che fa emerge chiare le posizioni e le idee, credo che sia sbagliato chiudersi del tutto, quasi sperando nella vittoria definitiva di una parte sull’altra. Poiché questo non è né possibile né auspicabile, è bene cercare di capire cosa c’è di buono nell’altro e cosa di sbagliato eventualmente c’è nel nostro, dato che lo scopo del conflitto è quello di produrre i migliori risultati possibili per la città.

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10 settembre 2009

LA CRISI FA BENE ALL’ARCHITETTURA

Leggo sul New York Times un articolo del suo famoso critico d’architettura Nicolai Ourossof, ipermodernista impenitente ma intelligente, sul nuovo progetto dello studio Herzog & de Meuron per il Parrish Art Museum a Southampton, NY.
Il titolo spiega molto: Quando la creatività diminuisce insieme ai contanti.
La storia è semplice: il progetto, partito con un budget di 80 milioni di dollari, è stato ridotto di due terzi, cioè circa 27 milioni causa crisi (purtroppo non posso pubblicare le foto perché protette da copyright ma queste sono consultabili sia nell’articolo linkato che qui.

Dalle poche immagini renderizzate disponibili del progetto si avverte il cambiamento: una di esse mostra un campo di grano con sullo sfondo un fienile o una stalla, né più né meno. Dalle altre immagini si comprende che l’edificio è composto da una serie di altri padiglioni stretti tra loro come un villaggio e gli interni sono caratterizzati da un tetto a capanna con travi di legno, il tutto rigorosamente a colori puri e privi di decorazioni: che diamine, non esageriamo.
Tuttavia il linguaggio è diverso dal solito, c’è uno sforzo di dialogo tra la campagna e l’edificio, non c’è accondiscendenza al gusto di apparire per forza creativi e di stupire. I materiali non si leggono ma nell’articolo c’è scritto che il tetto è di lamiera ondulata. In fondo per una stalla o un fienile è accettabile.
Ourossuf è combattuto tra due sentimenti: poiché non è sciocco rileva gli aspetti positivi di questo cambiamento ma teme che si vada verso un periodo di scarsa creatività, esattamente ciò che invece io auspico.

Scrive Ourossof:
"Eppure, il progetto è anche un importante passo indietro nell’ambizione architettonica. E suggerisce la possibilità di un nuovo sviluppo preoccupante nel nostro tempo di insicurezza finanziaria. Si tratta di un conservatorismo strisciante - e di avversione al rischio - che lascia poco spazio per l'invenzione creativa”.

Se per rischio intende quello degli investitori posso capire, se invece intende quello di sbagliare il progetto e quindi di ripiegare verso soluzioni più contestualizzate, evviva la paura del rischio, perché viceversa c'è certezza, non rischio, di sbagliare.

Certamente in lui prevale il rimpianto per i ricchi e grassi progetti dei tempi d’oro:
Ciò che è spaventoso è ciò che propone il progetto per il futuro. È questo tipo di riduzione di scala l'inizio di una tendenza? Herzog & de Meuron non è l'unico studio di architettura che è stato sottoposto a questo processo. Pochi giorni dopo aver visto il nuovo progetto Parrish, Rem Koolhaas mi ha detto che si trovava in una situazione simile per un condominio e per il design di una sala di proiezione a Manhattan”.

Bene, molto bene, chissà che anche da Koolhaas non si ricavi qualcosa di meglio del solito.
In fondo l’architettura si è sempre trovata a combattere con problemi economici e la penuria di denaro, se non è endemica, non può che acuire la sensibilità e costringere a pensare a ciò che è essenziale in un progetto. Herzog & de Meuron l’hanno fatto e sembra anche piuttosto bene.

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31 agosto 2009

ELOGIO DELLA NORMALITA'

Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.


Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.

E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:



Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:


Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).

Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:


Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.

Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:


Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!

E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».

Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto:



Pietro Pagliardini

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29 agosto 2009

L'ARTISTA IMPRENDITORE

Pierre Sauvanet, in Elementi di estetica, Il Mulino 2009, così descrive l’evoluzione della condizione dell’artista avvenuta tra l’800 e il ‘900:
È dunque per progressiva derivazione che la parola «artista» si è estesa alle altre arti oltre che alla pittura e la poesia. Ciò facendo, ha portato con sé in tutte le arti il suo seguito di significati simbolici: vocazione, bohème, artista maledetto, ispirazione, genio, follia, malinconia, eccetera.
La sociologa Nathalie Heinich distingue tre, anzi quattro fasi nell’evoluzione dello status dell'artista: mestiere, professione, vocazione, e vocazione accentuata in regime di singolarità. Per la prima fase, quella del mestiere, le stesse parole «arte» o «artista» non esistono; gli artigiani pittori del Medioevo appartengono a una corporazione e sono relegati ai gradi più bassi della scala sociale. La seconda fase, quella della profes¬sione, corrisponde a una volontà di emancipazione dell'artigianato, e di riconoscimento dell'arte come arte liberale.



Quanto alla vocazione come terza fase, appare verso il 1830 (con il termine «apprendista»), si conferma alla fine del XIX secolo (in particolare con la figura di Van Gogh) e non fa che affermarsi nel secolo seguente (in particolare con la posizione di Duchamp): gli artisti evocano ora il primato della vocazione sull'apprendistato, dell'innovazione sulla tradizione, e del genio sul lavoro. È questo mito dell'artista assolutamente singolare, dapprima associato alla vita da bohème, poi all'originalità a tutti i costi, che, a torto o a ragione, ancora oggi è alla base di buona parte delle nostre rappresentazioni.

L'artista in regime di singolarità moltiplica allora i paradossi: come essere ancora singolare quando l'essere fuori dalla norma diviene la norma? Come sfuggire ai modelli volendo divenirne uno? L'anti-accademismo non è a sua volta un nuovo accademismo? E così via. Da qui, questa logica conseguenza: «L'artista non sarà più colui che produce delle opere d'arte, quanto colui che riesce a farsi riconoscere come artista».

Al limite, la questione dell'artista oggi non è più quella dell'arte, e nemmeno dell'opera, ma quella del riconoscimento. Oggi ad un artista - salvo eccezioni - produrre un'opera durevole interessa meno che essere immedia¬tamente riconosciuto dal mercato fluttuante in una società effimera. Ecco per esempio cosa rispondevano rispettivamente l'austriaca Elke Krystufek e il cinese Cai Guo-Qiang a una domanda della rivista «Beaux-Arts Magazine» all'alba dell'anno 2000 («secondo voi, che cosa significa essere artista oggi?»): «Viaggiare tutto il tempo. Passare più tempo a parlare con la gente che al lavoro. Passare più serate a delle cene d'affari o delle feste che nel proprio atelier»; «significa che bisogna correre alle ambasciate per ottenere nuovi visti, passare la dogana, attendere una sistemazione, prendere aerei, ispezionare dei siti, fare proposte e calcolare budget, tutto ciò sopportando il cambiamento di fuso orario...» [«Beaux-Arts Magazine» 1999, 26]. Si potrebbe dire che l'artista contemporaneo deve comportarsi come il capo di un'impresa, il capo della propria impresa artistica, che porta il suo nome, la sua firma, e che vende i suoi prodotti attraverso una rete internazionale di distribuzione. In ogni caso, essere un artista è divenuto «fare l'artista», cioè essere obbligato a recitare un ruolo, a mettere in scena sé stesso. Per essere riconosciuto, è ridotto alla tautologia: l'artista non fa altro che produrre ritratti dell'artista come artista
”.

Mi sembra una rappresentazione distaccata dell’evoluzione della percezione che l’artista ha di se stesso e del suo ruolo nella società e in cui, sostituendo Architetto ad Artista, si può leggere lo stato dell’architettura contemporanea, di cui la manifestazione paradossale delle archistar è la punta dell’icerberg e il punto di arrivo di un processo iniziato proprio con le avanguardie artistiche.

Le archistar, al pari dell’artista contemporaneo di successo, sono vere e proprie aziende produttrici di progetti che non conterebbero molto in se stessi, se non fosse che, a differenza dei quadri, permangono nel tempo nelle città a inquinarle e, soprattutto, a sconvolgere l'evoluzione disciplinare e l’insegnamento dell’architettura.

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24 agosto 2009

LEON KRIER A FIRENZE SUL PIANO DI NOVOLI

Mi sono occupato di questo incontro di Lèon Krier con i cittadini a Firenze per illustrare il suo Piano di Novoli e confrontarlo con quanto realizzato in altro post.
Sono quattro video di circa 10 minuti ciascuno su You Tube della registrazione effettuata. Nella seconda metà del quarto video c'è una parte del dibattito.








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19 agosto 2009

EISENMANN NON VIVREBBE NELLE SUE ARCHITETTURE

Pietro Pagliardini

Questa mi era proprio sfuggita:Peter Eisenmann non vivrebbe nelle case da lui stesso progettate!
Non è calunnia o faziosa interpretazione ma la sua risposta ad una domanda nell'intervista di Piergiorgio Odifreddi su Repubblica.
Odifreddi non sembra attribuire grande importanza alla cosa mentre chi mette ben in evidenza questa che sembra una contraddizione (ma non lo è affatto) è invece Pierluigi Battista sul Corriere della Sera, con tanto di titolo ad hoc.

Non c'è contraddizione perché è ormai noto che l'architetto modernista (meglio se archistar, attuale e anche quella di qualche tempo fa) progetta per se stesso, nel senso che quel tipo di architettura è funzionale solo alla sua professione, ma vive in belle ed accoglienti case fatte da altri, magari anonimi capomastri o architetti, trattandosi generalmente di costruzioni antiche!

Mi aspetto sottili distinguo giustificazionisti o negazionisti e commenti sulla rozzezza di questo post!
Ma la verità è rozza o è solo vera?

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18 agosto 2009

ANCORA UNA PREGHIERA DI LANGONE. SU BOTTA

Come vincere la tentazione di un altro link a Camillo Langone su Mario Botta!
Io ci ho provato, ho anche aspettato tre giorni, ma alla fine ho ceduto. Nel caso fosse sfuggito a qualcuno...

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13 agosto 2009

LEGGERO POST DI MEZZ'AGOSTO

Il Direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, in una risposta ad un lettore sulla chiesa di Fuksas a Foligno, sospese il giudizio riservandosi di andare prima a visitarla. Tuttavia concluse la risposta scrivendo, più o meno: “ però mi sembra imponente…..”. Questo post di ferragosto è una lettera virtuale al Direttore.


*****
Direttore, lei chiude una sua risposta sulla Chiesa di Foligno definendola "imponente .….” e io mi attacco a questi puntini. Definizione di imponente: “che si impone all’attenzione per la propria grandezza, maestosità o potenza”. Quale scegliere tra i tre attributi? Al massimo direi l’ultimo, la potenza, come constatazione del fatto che “si impone” per la sua forma in rapporto alle dimensioni e per l’uso del materiale, il cemento armato, che è potente per natura.
E’ potente come le torri di raffreddamento delle centrali nucleari o i caveau delle banche, è potente per la sua semplicissima e, allo stesso tempo, inconsueta forma cubica e fuori scala rispetto a tutto ciò che sta intorno.

E’ la potenza della geometria astratta che si materializza nella realtà, al pari delle piramidi dice qualche entusiasta, con la non insignificante differenza che quelle rappresentano il punto di arrivo, anche tecnico, di una tradizione costruttiva millenaria , sono intimamente legate all’idea di morte degli egizi ed espressione della conoscenza geometrico-astronomica di una civiltà di circa 5000 anni fa e, soprattutto, sono montagne artificiali, luogo di contatto tra la terra e il cielo, come dice Norberg-Shultz. Ma oggi non ci stupisce più la costruzione di un cubo, di una sfera o di una piramide come, ad esempio, quella del Louvre, che non ci ha certo stupito per la sua tecnica ma per il fatto di essere stata collocata in quel determinato contesto. Né è in grado di stupirci questo para-cubo (è un parallelipedo, in realtà) con la sua rude e ordinaria tecnologia, dovuta tra l’altro agli ingegneri più che all’architetto, e neppure il simbolismo del cubo che, da solo, non appartiene al cristianesimo ma ad altri culti.

Se questo edificio ci trasmette un’idea di potenza maggiore di quella di un inceneritore, del quale richiama la poetica, questo deriva dal fatto dell’essere noi informati, senza capirlo però istintivamente, che esso è un luogo di culto cattolico. Poiché la forma è impropria e inusitata per una Chiesa, ci meraviglia e si impone all’attenzione, cioè è potente. Dunque l’unica potenza vera che esprime è quella comunicativa e mediatica in base alla quale lei ha scritto, io sto scrivendo e centinaia di altri hanno scritto, non importa se bene o male. E’ la potenza del suo autore e del sistema di cui egli fa parte che “si impone” all’attenzione dei media e che spingerà anche lei ad andare a visitarla. Siamo nel campo dell’effetto Bilbao che evidentemente ha fatto breccia anche nelle gerarchie cattoliche. Spogliata di questa componente essenziale, la Chiesa di Foligno non è una Chiesa cattolica e forse nemmeno cristiana.

Quando varcherà quella lunga feritoia che è la vetrata d’ingresso da supermercato anche lei, pure così “imponente”, dovrà abbassare la testa e piegare la schiena stringendosi nelle spalle, non per il rispetto dovuto alla sacralità del luogo, ma per la paura che quella giacobina lama di ghigliottina in c.a. possa improvvisamente scivolarle addosso e ridurla a ben più misere proporzioni. E una volta entrato esiterà nel procedere sotto quella cappa di camino in c.a., da super-villa hollywoodiana, sospesa innaturalmente in aria e incombente, anche quella, sulla testa dei fedeli, anzi fedelissimi, e una volta entrato…..questo non lo so perché, non essendoci stato, non posso prevedere quali sensazioni o emozioni possano eventualmente provocare i decantati effetti di luce.

Ma il deambulatorio idealmente tracciato intorno alla cappa non è, nell’atto necessario del sostare, nemmeno una lontana metafora del dantesco Purgatorio, perché mi risulta esserci in quel luogo l’attesa bramosa di entrare in Paradiso mentre qui temo vi sia la titubanza, se non la paura, di avanzare, per non fare la fine di Peppone intrappolato sotto la sua campana comunista e poi salvato dalla potenza, non solo fisica, di Don Camillo.

Questo edificio suggerisce un movimento esattamente contrario a quello delle Chiese a noi familiari, perché si esprime per linee di forza che agiscono verso il basso, che tendono a schiacciare e ad opprimere, non a elevare e liberare(1). Sembra un luogo di culto per un Dio vindice e non per un Dio fattosi uomo per annunciare la vita eterna; è un Dio che comunica paura e non speranza, timore e non amore.
Dunque più che “imponente” a me sembra più adeguato l’aggettivo “incombente”.

A meno che, una volta entrati sotto la cappa sia talmente forte il senso di elevazione, l’idea di essere aspirati in alto, come i fumi nel camino dell'inceneritore (e se riuscirà ad aspirare lei è probabile che lo faccia con quasi tutti i comuni mortali), da suggerire la metafora di un cammino dalla dolorosa vita terrena a quella eterna. In fondo una sola "m" divide il cammino dal camino.

Ma anche in questa ipotesi, che si potrà verificare solo di persona, permane la visione di una vita su questa terra non propriamente gioiosa. Sarebbe comunque meglio di niente.


1) A onor del vero, il Vescovo di Foligno Monsignor Gualtiero Sigismondi, ha detto all'apertura della Chiesa: "In alto i cuori: questo è l'appello che la nuova "casa della Chiesa", realizzata su progetto di Massimiliano e Doriana Fuksas, rivolge a chiunque vi entri". Mi viene il dubbio che avesse già preparato il discorso prima di visitarla! O forse mi sbaglio io...

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11 agosto 2009

VOTATE CONTRO LO SPRAWL!!!

Votate contro lo sprawl!!! Proprio così, votate on line in un concorso di urbanistica con varie proposte per le periferie.
Andate in questo sito, REBURBIA, e votate uno dei progetti.
Io consiglio questo progetto di Galina Tahchieva dello studio DPZ, cioè Duany Plater-Zyberk.
Lo so che mi tradirete ma non importa, almeno guardatelo e non fate i furbi, non tentate di mettere più di un voto, non funziona.
Il concorso è vero, con tanto di $ in premio (per il vincitore, non per i votanti).
Chissà quante bocche farà storcere ma a me decisamente piace. Una menzione merita anche il sito Veritas et Venustas che lo segnala.

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10 agosto 2009

ZAHA HADID SECONDO GREGOTTI

Pietro Pagliardini

Non sono un appassionato di Vittorio Gregotti, soprattutto non lo sono del Gregotti simbolo di una stagione dell’architettura legata intimamente alla politica; mi suona sempre stucchevole il suo rimpianto dei bei tempi (per lui) che furono, del suo snobistico atteggiamento di superiorità antropologica nei confronti di coloro che sono condannati a vivere nel suo Zen. Non può piacere a nessuno il Gregotti dell’ormai famosa intervista delle Iene e anche se quell’atteggiamento è largamente condiviso, nella quotidianità, da molti architetti questo non costituisce attenuante, a maggior ragione in un architetto di successo in ogni campo, anche se, a differenza di altri, il Gregotti progettista ha indubbiamente qualità e meriti.
Ma Gregotti ha molte sfaccettature e questa volta è riuscito a sintetizzare la condizione dell’architettura contemporanea con pochi tratti di penna, contrariamente alla sua abituale, tortuosa prosa che gira intorno ai problemi senza stringerli. E’ di qualche giorno fa sul Corriere della Sera un articolo su Zaha Hadid che è esemplare nel tratteggiare il carattere non solo dell’archistar irachena quanto di quel mondo della “architettura” globale, in ogni senso, che ha in Rem Koolhaas il suo geniale e disinvolto vate.
Dice Gregotti, con uno stile insolitamente efficace:

La nostra fortuna ……..è che (l' architetto?) Zaha Hadid ha costruito poche cose, in rapporto alla sua rutilante attività di illustratrice ed al minaccioso numero dei suoi progetti. Perché i suoi disegni, in uno stile che ricorda la fascinazione dell'idea di aerodinamica che ha travolto molti grafici e mobilieri, specie americani, negli anni post art déco (e che non ha niente a che vedere con i grandi artisti russi suprematisti e costruttivisti e con i loro ideali utopici), non possono che definirsi illustrazioni; né pittura, né scultura, né tanto meno architettura”.

E continua:
In quanto aderente alla tesi della «liquefazione» delle arti all' interno della multimedialità ed alla loro «coincidenza» con l'immagine intesa come comunicazione riproducibile, le sue illustrazioni hanno la pretesa di fondare un gusto figurativo la cui bizzarria è tutt' altro che gratuita. Ma che, invece, rappresenta bene le necessità di singolarità di forma indispensabile al commercio di ogni oggetto di consumo e la sua coincidenza con il conveniente successo del soggetto «creativo», come oggi si definiscono quasi tutte le attività. Peraltro, poiché le merci sono anche immateriali, esse comprendono anche la loro configurazione immaginaria come merce. Quindi, quando tutto è immagine e obbligatoriamente «estetico», niente è più distinguibile, né giudicabile. Abitabilità, ordine, costruzione, relazione con il contesto, senso della storia in generale e di quella dell' architettura in particolare, responsabilità civili e di disegno urbano sono i principali nemici delle illustrazioni progettuali di Zaha Hadid. Piuttosto che il nuovo fondato sulla differenza, esse sono il ritratto della sua definitiva dissoluzione per far posto ai mondi stellari di Flash Gordon. Tutto deve essere curvo e sghimbescio: aerodinamico, appunto. Non si tratta solo di oblio della tradizione classica, gotica del progetto europeo, ma anche di quella islamica o indiana, cinese o persiana. Futuro assoluto, sospeso al di sopra del suolo e di qualsiasi miseria umana?”.

Viene qui colta la caratteristica di indifferenza alla realizzabilità dei progetti di Zaha Hadid, il loro non appartenere al campo dell’architettura ma appunto dell’illustrazione e della pura immagine, capaci di avere influenza sui più disparati prodotti e perciò stesso indifferenti ad ogni contesto e totalmente svincolati dal luogo. I “progetti” di Zaha Hadid sono in fondo manifesti che si riproducono sempre simili a se stessi e che svolgono, nella loro ossessiva ripetitività, la funzione di creare un’immagine adatta ad ogni tipo di merce. Contrariamente a Koolhaas però, che è pura griffe vivente di se stesso e delle aziende che avvicina e i cui progetti contano poco ai fini della ripetizione da parte di seguaci ed emuli, quelli della Hadid esercitano una fascinazione sugli architetti e producono ricadute reali sul territorio, come osserva anche Gregotti nel suo articolo. Koolhaas è il teorico, Hadid è l’esecutrice. Koolhaas crea eventi chiusi in sé ma che contribuiscono a fare marketing pubblicitario per l’azienda e per se stesso, in un rapporto sinergico di straordinaria amplificazione del messaggio difficilmente spiegabile in maniera razionale, Hadid “illustra” forme, crea modelli riproducibili poi nelle scarpe, negli orologi, nei mobili, negli arredi dei negozi, negli accessori, nel design.

In questa capacità di stare sul mercato delle merci e di influenzarlo in maniera così pervasiva io ci vedo genialità e spregiudicatezza e non solo non ne sono scandalizzato ma piuttosto ammirato, invece quello che mi sconcerta è la creduloneria di architetti e critici vari nel discorrerci sopra, quasi fosse architettura, e nel coglierci “nuove spazialità”. Questo fatto dà il senso della crisi dell’architettura, confusa ed assimilata in maniera grossolana ad una merce qualsiasi, mentre l’architettura e la città hanno carattere di permanenza (che non vuol dire immobilità) e non di provvisorietà ed è una contraddizione che la nostra laicissima e secolarizzata società si perda in maniera fideistica, idolatrica ed irrazionale nel culto di personalità cui viene attribuita un’aura magica capace di trasformare, si suppone in meglio, il nostro ambiente e le nostre città.
Non si tratta di magia ma di illusione e Gregotti ha contribuito a svelarne il trucco.

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7 agosto 2009

CAMILLO LANGONE: PREGHIERA DEL 6 AGOSTO

UN LINK ALLA PREGHIERA DEL 6 AGOSTO DI CAMILLO LANGONE SU IL FOGLIO.
VI SI RACCONTA DI UN ARCHITETTO DI PARMA,
ANDREA PACCIANI, IL CUI SITO E' IN TESTA AI MIEI LINK

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4 agosto 2009

LA CHIESA DI FUKSAS A FOLIGNO

Giulio Rupi

Strani tempi i nostri, in cui il concetto di natura viene stiracchiato dal Politica-mente Corretto verso direzioni opposte e contraddittorie, a seconda delle convenienze del momento.
Da una parte, se ci si dispone a discutere di bioetica e di diritti civili, guai a tirare in ballo la natura e il diritto naturale: nell’uomo tutto è cultura e artificio, fin nelle differenze di genere tra maschio e femmina.
In questo campo il richiamo al diritto naturale come unico baluardo della libertà della persona nei confronti delle leggi della città viene considerato un argomento reazionario volto a bloccare qualsiasi evoluzione e autonomia dell’uomo.


Sull’altro versante, secondo i fondamenti dell’ecologismo, qualsiasi intervento artificiale, cioè eseguito dall’uomo (l’uomo: “il cancro del pianeta”) a modifica della natura aumenta il degrado entropico ed è un atto profanatore della divinità pagana di Gaia, un’entità in sé perfetta in cui la venuta dell’homo sapiens ha sconvolto ogni equilibrio, oltrepassando il punto di non ritorno verso la propria autodistruzione.

In Architettura le cosiddette Archistar, che producono oggetti di design anziché edifici, che progettano torri storte e sbilenche son certo da ascriversi al primo atteggiamento, quello del rifiuto di ogni riferimento alla natura.
Ed è questo il discrimine tra la tradizione architettonica di sempre e questa mo-dernità: la perdita del riferimento alle forme della natura, forgiate dalla forza di gravità e secondo le forme della crescita dettate dalla necessità dell’adattamento.
La primordiale capanna, al pari di una pianta secolare, si costruiva su solide fondamenta (come le radici della pianta), si erigeva sulla verticale a contrastare la gravità (come il tronco) e si concludeva in alto con un tetto a punta o a cupola a dialogare con il cielo (come la cupola trasparente di una querce o la punta svettante di un cipresso). Così un bambino disegna una casa: un segmento orizzontale, due segmenti verticali, due segmenti inclinati e convergenti.

Così per millenni, fino a quando Le Corbusier disse che odiava la confusione dei tetti dei centri antichi e che si dovevano demolire per sostituirli con delle coperture piane praticabili e che gli edifici dovevano alzarsi da terra per poggiarsi su pilotis, lasciando libero il suolo. Alla capanna poggiata sul terreno si sostituì il cubo librato nell’aria e l’edificio perse la sua funzione di mediatore tra la terra e il cielo.

Ma non fu solo questa la discontinuità del Moderno. Nella tradizione quel “pog-giarsi, levarsi, concludersi” non si limitava all’intero edificio ma si ripeteva ad ogni scala, in ogni finestra ben riquadrata, nel portale di ogni chiesa, così come nella pianta la forma totale si ritrova nella forma dei rami, fino alle venature delle foglie. E anche nell’edificio questo ripetersi ad ogni scala partiva dalla scala più minuta, perche le superfici non erano lisce e disadorne, ma articolate nella tessitura minuta del materiale e arricchite dalla decorazione.

Fino a quando Le Corbusier proclamò la sua devozione per le superfici di liscio cemento e per la somma di partizioni tutte uguali anziché per l’articolazione dell’autosomiglianza a tutte le scale.
Invece, comunque la pensi Le Corbusier, il disagio istintivo che ogni persona sensibile prova di fronte alla parola cementificazione non deriva dall’idea dell’aggregazione di nuovi volumi a una città compatta, ma dalla repulsione per le superfici di questi volumi, superfici vergognosamente lisce, opache, amorfe, non decorate che questo materiale evoca, con il richiamo ovvio e giustificato alla recinzione dei lager.

E veniamo infine alla “Casa di Dio”, dove la figura del levarsi lungo la verticale conta più che in ogni altro luogo perché assume per ogni religione un valore simbolico di evocazione della possibile ascesa dell’uomo a stati superiori dell’essere.
Così, ad esempio, nella chiesa romanica, le navate e il transetto individuano uno schema a croce che rappresenta il percorso terreno, definito dai quattro punti cardinali. Ma questo percorso converge sul punto centrale, su cui sta l’altare, cioè il punto focale del piano terrestre da cui si erge la verticale, quella verticale che attraversa la cupola nel suo punto più alto e raggiunge la cupola del cielo, dal microcosmo al macrocosmo.

Il significato di questa ascensione è rappresentato dalla dialettica tra le colonne (la terra) e le soprastanti volte o cupole (il cielo) e una Casa di Dio che non esprima, sia all’esterno che all’interno, questo valore ascensionale, è l’espressione di una religiosità che ha dimenticato la possibilità, per l’uomo, di salire su questo asse verticale. Ma questi concetti figurali valgono non solo per le chiese cristiane, valgono per la pagoda buddista, per i minareti delle moschee e per i templi di ogni religione.

Vediamo adesso, da tutte queste premesse, di progettare una Casa di Dio che realizzi l’esatto contrario di ognuno di questi principi, i principi attraverso i quali, da sempre e in ogni religione, si è tentato di raffigurare il rapporto tra l’umano e il divino.
Per eliminare ogni accenno alla verticalità ascensionale togliamo del tutto quella parte dell’edificio che simboleggiava il rapporto tra terra e cielo, la copertura a cupola, a tetto, a pagoda o che altro e chiudiamo il dialogo con una copertura piana.
Per eliminare anche dalle pareti dell’edificio questo rapporto, realizziamo pareti che sia all’esterno che all’interno, siano lisce, senza alcuna tessitura, con portali di ingresso e feritoie casuali, dettati dal design e senza accenni di verticalità, appunto pareti cementificate.
Avremo così una immagine esterna e uno spazio interno in cui viene esclusa qualsiasi possibilità di percepire, di intuire quel cammino ascensionale per via simbolica, cioè attraverso delle mediazioni materiali, umane, quali sono gli edifici, le immagini, i rituali, i simboli.

Questo è la Chiesa di Fuksas a Foligno, e la Religione che l’ha prodotta ha evidentemente perso ogni capacità di proporre ai suoi fedeli quel cammino verticale di salita verso il cielo.


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