Pietro Pagliardini
Uno scambio di commenti su Architettura Catania con un architetto con il quale sono in assoluto e insanabile disaccordo ma verso il quale nutro rispetto, mi ha fatto venire il dubbio che coloro i quali come me auspicano un ritorno alla città tradizionale possano dare l’impressione di aspirare ad una sorta di modello di città della perfezione dove tutto sia preordinato e concluso, una specie di città-spettacolo o città-parco più simile ad una Disneyland governata dall’alto che ad una città vera e viva, quotidianamente vissuta e trasformata dalle esigenze e dagli impulsi vitali della società in genere e dei suoi abitanti in particolare.
Per rappresentare in maniera paradigmatica le nostre reciproche differenze mi è stato opposto, dal mio interlocutore, il modello di San Gimignano, preso a simbolo della cristallizzazione di un’idea di città medioevale perfetta nella sua unità, una città-cartolina così come oggi la vediamo, attribuendolo alle mie aspirazioni, a quello di Dubai, simbolo antitetico della contemporaneità e della trasformazione continua, nel suo condensare da un giorno all’altro, almeno prima della crisi, tutto quanto viene sperimentato in campo architettonico, attribuendolo a sè.
Evidentemente il collega mi e ci considera antichisti nostalgici e romantici, innamorati di un’idea di città anacronistica, bella ma priva di vita, e soprattutto non modificabile e fissata una volta per tutte. Impossibile cercare di convincerlo del contrario ma spiegare alcune cose voglio tentare di farlo.
Dagli studi della scuola muratoriana, anche se decisamente faticosi e tanto ostici da sembrare quasi roba da iniziati (del libro di Caniggia e Maffei esiste anche una traduzione in inglese che non so che impatto possa avere sui lettori con quel vocabolario difficilmente traducibile), risulta con grande evidenza la permanenza di precise regole nella crescita delle nostre città storiche, certamente ricche di molte varianti, ma pur sempre riconoscibili da coloro che ne hanno appreso (“appreso”, altro termine iniziatico) le modalità di lettura. Regole analoghe sono state individuate da Nikos Salìngaros, facendo riferimento però a princìpi della matematica e della teoria delle reti.
Dovendole sintetizzare a pochi concetti essenziali direi che esse sono così riassumibili:
-Il processo di occupazione dell’ambiente antropico è caratterizzato da:
"un sistema di progressive modularità tra ciascuno dei termini scalari, dall’arredo al territorio: così che la partecipazione individuale dell’uomo al suo mondo strutturato è connessa alla molteplicità degli uomini e delle cose mediante una progressione di grandezze crescenti, ciascuna comprensiva e compresa dalle altre"
(Caniggia e Maffei, Lettura dell’edilizia di base, Marsilio 1979) e
“tutta l’architettura popolare ha proprietà frattali. Credo che il nostro cervello sia fatto per costruire le cose in un determinato modo, così, inevitabilmente, noi sviluppiamo delle strutture frattali. La maggior parte delle grandi creazioni dell’umanità oltrepassa la struttura rigorosamente necessaria; abbiamo il bisogno di generare determinati tipi di forme e di correlazioni geometriche ….Le città, almeno quelle più piacevoli, sono frattali. Tutto, dai percorsi delle vie alla figura delle facciate e alla disposizione degli alberi è frattale nelle grandi città come Parigi, Venezia e Londra. Questo è stato misurato matematicamente da ricercatori come Michael Batty e i suoi collaboratori (Batty e Longley, 1994) e Pierre Frankhauser (Frankhauser, 1994)”
(Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009).
-Le parole chiave della città sono: strada, nodo, rete, permeabilità, gerarchia.
Tutto ciò è riscontrabile nella città europea storica ma non solo: gli stessi fenomeni si ritrovano in molte favelas brasiliane e indiane e nelle borgate abusive romane, cioè laddove il processo di crescita è totalmente spontaneo e in palese contrasto con la città ufficiale pianificata a cui sono affiancate e contrapposte.
La città che descriviamo non è affatto una città “progettata” una volta per tutte, una città immobile e statica, quella, ad esempio, rappresentata nella città ideale che fa da logo a questo blog: quella ne è solo la forma pittorica idealizzata che solo raramente ed in alcune parti di una città reale, quella monumentale e pubblica, può essere presa come esempio da coltivare. La città che descriviamo deve solo essere indirizzata verso regole di crescita analoghe a quelle della città storica, in modo tale da continuare a crescere secondo quei principi di progressive modularità che sembrano essere essenziali per il nostro cervello che necessita della continuità del passaggio da una scala inferiore a quella superiore, secondo una logica frattale che si ritrova nella natura stessa. La continuità spaziale, nel senso di permeabilità, e temporale, nel senso di possibilità di continua trasformazione, caratterizza questo tipo di città.
La città moderna e contemporanea presenta invece come caratteristica principale la discontinuità e la parcellizzazione. Tutto è separato e sincopato: le varie zone a funzione diversa, gli edifici staccati gli uni dagli altri, le strade più simili a nastri trasportatori che trasferiscono auto da un luogo all’altro così come nelle fabbriche movimentano, ad esempio, biscotti dal forno all’impacchettamento. Ma dentro alle auto ci sono persone e non merci e a nessuno, riflettendoci sopra, può far piacere essere trattato al pari di una merce qualsiasi che si sposta da una macchina all’altra per il trattamento dovuto.
Non si tratta perciò di indirizzare il progetto di città verso uno stile piuttosto che verso un altro, anche se è indubbio che l’edilizia tradizionale presenta una serie di caratteristiche tipologiche e morfologiche che sono più omogenee con il naturale processo di crescita urbano; si tratta di garantire al contempo il miglior funzionamento della città nel suo complesso e l’ambiente urbano più favorevole al benessere di chi vi abita.
La città non è dunque progettata una volta per tutte, non è una cartolina, ma deve garantire, come nella città storica e pure nelle favelas, una crescita e una trasformazione continua e naturale secondo le direttrici individuate in base alle caratteristiche geografiche e alle preesistenze. Questo tipo di città è l’esatto opposto di Disneyland, che in quanto città del divertimento e del business, è governata dall’alto e si modifica in base alle esigenze di mercato, mentre l’altra si sviluppa in base alle esigenze della società (tra cui rientra anche il mercato, ma non in maniera esclusiva) e dei suoi individui. E’, cioè, una città intrinsecamente democratica, a prescindere dalla forma politica nella quale si sviluppa.
Dubai, per restare all’esempio fatto, è invece l’esatto contrario; è una Disneyland non monotematica, che cresce in base alle esigenze di più forme di business anziché uno solo: il turismo, il commercio, il benessere, inteso come centro-benessere, il lusso, ecc. Dubai è la rappresentazione di uno status symbol che separa chi l’ha visitata dagli altri. Gli edifici devono essere perciò straordinari e inusitati nella loro fantasia per colpire l’immaginario collettivo, al pari di un manifesto pubblicitario, ma nulla conta la città in sé, perché non è vissuta da cittadini ma da clienti provenienti da ogni parte del mondo. Dubai è in fondo solo il più grande shopping center del mondo dove si vendono merci, servizi e sogni. L’architettura è in quel luogo solo comunicazione visiva e null’altro. E’, in fondo, come Las Vegas: come si potrebbe auspicare che l’architettura di Las Vegas divenisse l’esempio da esportare nel mondo? Niente di cui scandalizzarsi su Dubai ma prenderne ad esempio le sue follie architettoniche pensando che tutto il mondo sia Dubai, esaltarne come si fa nei media i suoi progetti come se avessero una valenza universale è né più né meno che un errore di comprensione.
La città che vogliamo è incompiuta, imperfetta, in continua trasformazione ed evoluzione ma basata esclusivamente sui bisogni, i desideri, i sogni dei suoi cittadini e degli uomini e delle donne che la vivono, non degli architetti. Da questa spinta ne deriverà la bellezza autentica, di cui gli architetti sono gli interpreti.
Dunque al collega dico che la vitalità sta, secondo me, in questo modello di città dietro cui c'è la società e non nella invenzione pubblicitaria in forma di architettura, dietro cui c'è solo il pur rispettabilissimo capitale, cioè una sola parte della società.
5 commenti:
Il discorso sarebbe lungo e complesso, e Pietro ha ben chiarito alcuni punti al suo "accusatore". Mi limito ad aggiungere che il "modello Dubai" è un'offesa al mondo intero, uno sberleffo a tutti i movimenti ambientalisti che cercano di ridurre il buco nell'ozono e il riscaldamento globale. Dubai è il simbolo dell'arroganza di pochi nei confronti della rispettosità di tanti altri. E' il modo di dimostrare che nell'era del consumismo, del mordi e fuggi e del sogno futurista non si ragiona con il cervello ma con il portafogli ... del cuore e dei sentimenti, manco a pensarci! "Chissenefrega" se il nostro presunto benessere non si trasmetterà ai nostri figli e nipoti, noi godiamoci ciò che abbiamo "di diman non c'è certezza"
a presto
Ettore
Caro Ettore, non è facile condensare in poche righe la complessità e la bellezza della città e io ho dovuto fare una scelta, mettendo da parte non solo il problema ambientale ma anche quello delle radici di un popolo. Mi domando, infatti, quali contraddizioni produca una città come Dubai, esasperazione del peggio del modello occidentale, in una società diversa, tradizionale e con forti spinte religiose che personalmente rispetto fino a che non sconfinano nel fanatismo terroristico. Inevitabile però immaginare che, alla lunga, città come queste non aiutino a riconciliare un popolo con l'occidente.
Ciao
Pietro
infatti Pietro, per chi come noi si preoccupa di tutto ciò che gira intorno alle nostre "azioni" di architetti, ci sono tantissimi argomenti da affrontare, e il mio non voleva essere un appunto al tuo testo. Hai perfettamente ragione quando richiami anche le radici di un popolo ... ma come è possibile che alcuni architetti (soprattutto italiani) possano guardare al caso Dubai come ad un qualcosa di positivo?
Mi chiedo anche un'altra cosa, nel tuo testo dici:
"Per rappresentare in maniera paradigmatica le nostre reciproche differenze mi è stato opposto, dal mio interlocutore, il modello di San Gimignano, preso a simbolo della cristallizzazione di un’idea di città medioevale perfetta nella sua unità, una città-cartolina così come oggi la vediamo, attribuendolo alle mie aspirazioni, a quello di Dubai, simbolo antitetico della contemporaneità e della trasformazione continua, nel suo condensare da un giorno all’altro, almeno prima della crisi, tutto quanto viene sperimentato in campo architettonico, attribuendolo a sè".
Ebbene, penso che il tuo interlocutore abbia le idee un po' confuse, poiché mentre San Gimignano è perfetta proprio grazie alla sua "imperfezione" data dalla "irregolarità" medievale, Dubai è assolutamente imperfetta nella sua ossessione di perfezione, con una pianta "urbana" che si può apprezzare solo da un aereo. Mha!
Provo a descrivere le sensazioni che i ponti di Calatrava a Reggio Emilia provocano in un non addetto ai lavori come il sottoscritto (ho cercato di postare la cosa sul sito catanese, ma ci sono problemi tecnici).
Da Reggio ci passo spesso, per cui i ponti li ho visti decine di volte, sia dall'autostrada, che passa sotto quello centrale, sia dalla strada cui i ponti "appartengono".
Dal punto di vista tecnico, se mi hanno insegnato bene, i due ponti laterali sono "strallati", mentre quello grande mi sembra classificabile come "sospeso", anche se il piano di transito è, appunto, sospeso ad un arco, e non a cavi (come nel tipo "Brooklyn bridge").
Anche se le tre opere sono accomunate dal colore, si tratta di due cose diverse. La campata centrale si impone certamente per le proporzioni: fa venire la curiosità di immaginare come tecnicamente è stato possibile porre in opera un arco di tali dimensioni. Personalmente però trovo che il ponte nella sua interezza non sia omogeneo, nel senso che alla semplicità (purezza?) dell'arco, sia abbinato un impancato stradale piuttosto scoordinato con l'insieme. Capisco possibili problemi di stabilità, di controventatura eccetera, ma ho come l'impressione che apparato sospensore e strada sospesa facciano parte di due progetti diversi messi insieme quasi a caso.
Diverso il caso dei due strallati di accesso. La serie di cavi di sostegno che partendo dall'arco si protendono nelle due direzioni, si intrecciano in modo decisamente elegante. Ad una prima occhiata non appare subito evidente la semplicità dell'idea, e il gioco di intrecci continuamente mutevole a seconda del punto di vista è assolutamente affascinante. L'effetto è amplificato, almeno per il ponte sud, dal fatto che la strada di accesso si avvicina all'opera secondo una linea curva, percorrendo la quale la ragnatela di cavi sembra danzare nell'aria.
Riguardo il ponte di C. a Venezia: brutto, brutto, brutto; e scomodo, scomodo, scomodo.
enrico d., o sei un altro o io credevo tu facessi qualcosa come il medico. Non sapevo che ai medici insegnassero architettura e anche ingegneria!!!!
Hai anche avuto la pazienza di risalire all'origine di questo post!
Direi che sei quasi pericoloso nella tua precisione.
Saluti cari
Pietro
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