Pietro Pagliardini
Dopo circa un mese dal suo esordio non si può non prendere atto che il tanto inizialmente vituperato Piano Casa sta ottenendo lo scopo di cui parlavo nei precedenti post e negli innumerevoli commenti lasciati nei vari blog: oltre alla futura finalità economica, far discutere in positivo sulla città contemporanea, sull’urbanistica, sui suoi fallimenti e sui criteri da seguire per modificarla profondamente.
Una legge semplice, senza astruserie e ridondanze (ma ancora devono arrivare le Regioni), senza dichiarazioni di principio come è d’uso ormai nelle varie leggi urbanistiche che sembrano catechismi urbanistici da Stato Etico che impongono “comportamenti” , e quindi stabiliscono “colpe”, più che norme legislative, che dettano regole e stabiliscono infrazioni, ma una legge che ha riacceso un interesse sopìto da tempo.

Densificazione è una bruttissima parola che possiede tuttavia il dono di farsi capire da tutti anche se la legge non la utilizza mai; la legge dice solo che è possibile demolire e ricostruire con un premio volumetrico.
Da questa possibilità ne ricavavo la necessità di utilizzarla soprattutto in quelle aree marginali alla città del tutto prive dei requisiti urbani per renderle più dense e integrarle con le città stesse.
Densificare è però necessario ma non sufficiente; questa legge ha il pregio di essere uno strumento affidato alle scelte della società civile che potrà farne l’uso che vuole e di cui sarà capace; non impone regole se non quantitative e il resto spetta al mondo della cultura e della politica. Densità non dice infatti nulla sul risultato qualitativo che si intende ottenere.
Se dietro non c’è un’idea di città, se si intende proseguire con la cultura urbanistica dominante fino ad oggi che ha portato alle periferie e alle aree marginali attuali non solo si perde un’opportunità grande, ma si rischia di aggravare la situazione di parti di città già degradate. E a poco varrà affidarsi al solo risparmio energetico che, in termini di apporto globale non avrà un valore significativo, perché è lecito supporre che gli edifici da demolire siano prevalentemente dismessi, quindi a consumo zero, mentre quelli da ricostruire consumeranno, se pur poca, energia; per cui il bilancio energetico totale, alla fine, non potrà che essere negativo o prossimo allo zero.
Demolire e ricostruire nelle periferie vuol dire tessere l’ordito stradale che ancora non esiste, riempire i vuoti per unire brandelli di città, trovare spazi pubblici e verde urbano.
E’ il momento della svolta, è il momento di disegnare città con le regole che hanno sovrainteso alla crescita delle nostre città storiche.
E’ il momento in cui la strada deve tornare ad essere l’elemento generatore della trama urbana, abbandonando il lotto razionalista con l’edificio che vi fluttua dentro, indifferente agli edifici e alla strada stessa, banale accostamento casuale di oggetti di (scarso) design.
E’ il momento dell’isolato che aumenta la densità senza eccessivi sviluppi in altezza che restituisca ai cittadini il piacere di abitare in una città autentica e dia loro la possibilità di intessere normali rapporti sociali con gli altri individui lungo la strada finalmente percorribile anche a piedi e non solo funzionale al traffico veicolare. La città è il luogo della socialità, dello scambio di merci, di cultura e anche di sentimenti umani che non sono affatto cambiati come da più parti si tende a far credere. Senza città non esiste forma di civiltà umana possibile e l’unica città in grado di garantirla è quella tradizionale.
Le piazze non dovranno più chiamarsi tali solo per via della targa, ma diventarlo realmente quali risultanti di nodalità cui concorre il disegno gerarchico della rete stradale, la quale dovrà tenere conto delle relazioni territoriali esistenti e delle preesistenze naturali o artificiali.
Dovrà finire la zonizzazione funzionale, che ha diviso la città in reparti stagni ognuno dei quali è abitato alternativamente solo di giorno o solo di notte, per fare posto al mix di funzioni.
L’edilizia sociale non dovrà avere niente che la possa distinguere come tale e dovranno avere fine i quartieri popolari che nascono, oggi più che mai con il fenomeno dell’immigrazione, con il marchio della diversità e dell’emarginazione.
Densificare per fare città belle.
E’ difficile tutto questo e forse è un’illusione ma non è né utopia né fuga in avanti.
Per ottenere questo risultato, tuttavia, dovrà essere accantonata la mentalità della complicazione burocratica fine a se stessa e il sacrificio del principio di realtà a leggi irrazionali e incomprensibili. Non che la realtà sia semplice o che la Legge debba essere disattesa ma quando questa diventa non solo ostacolo insormontabile alla realizzazione in tempi ragionevoli di piani e di opere necessarie e in più cozza contro elementari principi di libertà significa che ad essere sbagliata la Legge e non la realtà delle cose. Il rapporto tra realtà e Legge è sempre bi-univoco nel senso che l’una crea l’altra e viceversa ma quando questo rapporto diventa univoco, come sta accadendo da anni ormai a tutto vantaggio della Legge, significa che nella società si è insinuato un virus capace di fiaccare la volontà e le coscienze e di far scadere il mondo reale a pura astrazione.
E’ necessario perciò che gli architetti tornino a fare il loro lavoro e abbandonino le procedure dell’urbanistica, che nelle loro mani si sono trasformate da mezzo a fine, e le lascino svolgere a coloro che ad esse sono deputati per cultura e professione.
Sulle new-towns, che allo stato attuale credo siano un’intuizione non concretizzata in articolato, vale sempre il discorso della parola che induce a pensare male perché ci riporta all’esperienza inglese che spesso ha dato esiti negativi.
Ho letto sul Corriere della Sera che il concetto di new-town viene affiancato al nome di Hebenezer Howard, il teorico della città-giardino. Non si può escludere che il Presidente del Consiglio possa avere in testa un simile modello e ammetto anche che l’ideologia che sta dietro le new-towns inglesi del dopo-guerra non differisca molto da quella, però io interpreto quest’idea come un segnale, un simbolo che esprime il desiderio di ritrovare una città bella e funzionale dopo il fallimento della città moderna.
Ciò che non è accettabile è il fatto che coloro che apprezzano Brasilia e Chandigarh, il Corviale o lo Zen, rigettino aprioristicamente questa idea perché creerebbe ghetti! E’ forse troppo chiedere coerenza logica?
Coerenza che invece appartiene a Pier Luigi Cervellati che su Repubblica, riferendosi proprio all’Aquila, chiede di ricostruire il centro storico esattamente com’era prima, ricordando l’esempio di Varsavia. Una visione non solo coerente con il suo pensiero ma che tiene conto del valore profondo dell’identità e dell’appartenenza dei cittadini ai luoghi e alla città. Una relazione complessa questa, molto simile all’amore per un’altra persona che, quando è forte, non accetta scambi anche se l’alternativa si presenta migliore.
Ma anche nel caso delle new-towns vale il criterio sostanziale di quale dovrà essere il loro principio ispiratore che non potrà essere diverso da quello sopra esposto. In questo caso esse potranno svolgere un ruolo di esempio, di guida, di indirizzo anche per gli interventi nell’esistente. E’ abbastanza chiaro che ipotizzare 100 nuove città di fondazione non può che rappresentare un segnale simbolico per dire: le nostre città hanno fallito e devono essere cambiate e migliorate radicalmente e tornare belle come lo erano prima e come abbiamo dimenticato di farle.
Nell’ambito del territorio nazionale ci potranno essere villaggi totalmente nuovi (e non c’è niente di strano visto che anche in Gran Bretagna stanno andando in questa direzione) dotati di una loro autonomia e villaggi nuovi ma fortemente integrati con le città esistenti, in base alle diverse realtà urbane esistenti.
Perciò, se il termine città-giardino è una metafora per dire che i nuovi insediamenti dovranno caratterizzarsi per un livello alto di qualità della vita, entro cui rientra anche, ma non solo, il verde, va bene, sapendo però che la caratteristica prima della città, e di quella europea e mediterranea in particolare, sta nella densità, nello spazio racchiuso più che nello spazio aperto.
La concentrazione, in orizzontale e non in verticale, è un valore perché incrementa i contatti e lo scambio, il vuoto isola.