di Ettore Maria Mazzola
Recentemente mi è stato ironicamente segnalato un articolo, firmato da Manlio Lilli, pubblicato il 4 novembre u.s. sul sito www.linkiesta.it. Chi conosca il progetto non può evitare di rimanere perplesso leggendo il titolo di quell’articolo: “Ad Amsterdam, lo Stedelijk Museum si fa attendere. Ora sappiamo che ne valeva la pena”.
L’articolo, a mio avviso, parte molto bene, lamentando la cialtroneria degli italiani che non sono in grado di tenere aperti i musei, a differenza di ciò che avviene in altro Paesi dove, nonostante la penuria di opere d’arte rispetto al nostro, i musei e i siti vengono super valorizzati. Come non dar ragione all’autore, visto che i musei italiani, come tutto ciò che ha a che fare col turismo, dovrebbero darci da campare?
Prima di andare avanti col discorso, è bene sottolineare il fatto che l’autore sia un laureato in lettere con indirizzo archeologico e che, recita il suo profilo biografico, fa l’archeologo per scelta, provando a mangiare (poco, naturalmente) con la Cultura. L’autore è una persona di tutto rispetto. Infatti, a quanto si apprende nel profilo, ha pubblicato tre interessanti monografie su centri del Lazio antico, oltre a numerosi contributi sull’Italia antica in riviste di settore, e collabora con una serie di siti culturali sparsi nel web, tra cui Libertiamo, Linkiesta, Il Futurista e l’Istituto di Politica.
È quindi un peccato, e non riesco a capacitarmi del perché, in questo articolo, egli abbia dovuto scadere nell’ideologia. Infatti, piuttosto che limitarsi a dare un eventuale benvenuto ad un nuovo museo, limitandosi al fatto che una nuova collezione possa esser stata aggiunta ad una preesistente, (indipendentemente dal fatto che possa o meno quella collezione essere apprezzabile), l’articolo è stato utilizzato come il luogo per sfogare tutta la rabbia possibile nei confronti di un presunto immobilismo italiano nel produrre opere architettoniche moderniste … quasi che i deprecabili interventi che vanno dal Museo dell’Ara Pacis, al MAXXI, passando per il MACRO – solo per citare gli esempi romani più recenti – non fossero mai esistiti. In pratica, l’articolo sembra esser figlio di un incomprensibile complesso d’inferiorità culturale verso certe cose che si fanno all’estero, un complesso che in Italia, dato il nostro patrimonio, risulta del tutto fuori luogo, tranne che nella mentalità di un certo genere di architetti cresciuti a pane e modernismo.
Del museo si racconta che, grazie alla nuova realizzazione, è stato possibile ampliare la collezione con nuove acquisizioni come, l’installazione luminosa di Dan Flavin dedicata a Mondrian e il ritratto di Bin Laden di Marlene Dumas … Se fossi Romolo Prince del programma comico Colorado commenterei con un finto apprezzamento dicendo: con certe opere possiamo dire che i 127 milioni di euro, all’incirca 20 più del previsto, siano stati davvero spesi bene!! …. Ma che …. sto a dì, sto a scherzà!!
Questo genere di spese, per la realizzazione di un museo, ricordano molto da vicino i 160 mln di euro spesi per costruire il MAXXI di Roma, per il quale ne sono stati spesi altri 60 per acquisire opere orribili e fallimentari che, come c’era da immaginare, non hanno suscitato alcun interesse, portando la struttura, come già accaduto per il MACRO, al fallimento ed al cambio del direttore, come se il problema fosse il solo direttore del museo, e non la concezione ideologica che lo abbia generato, nonché il genere di “opere” ivi esposte.
Ovviamente, ciò che sfugge a chi se la prende con il presunto immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea, è il fatto che “Mamma Italia” abbia generosamente dirottato fondi destinati ad altri beni culturali, più redditizi in termini di turismo, per il salvataggio di quell’orribile capriccio modernista, inclusi i fondi che avrebbero potuto consentire di tenere aperti dei musei! Si rammenta che, per bocca del precedente direttore del MAXXI, il budget annuale per tenere in piedi quella struttura è di circa 75 mln di euro, a fronte delle pochissime presenze giornaliere!
Alla luce di questa cosa, c’è da chiedersi come, un “archeologo per scelta” – come usa definirsi l’autore dell’articolo – possa accettare che avvengano certi dirottamenti di fondi, e soprattutto, come egli possa usare l’esempio olandese per lamentarsi dell’immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea!
A quanto si apprende, la prima ragione dell’intervento sul preesistente Stedelijk Museum è stata la necessità di ampliare i suoi spazi espositivi. Ma anche di ripensarne il concetto. Pare che siano stati prima approvati e poi ripudiati ben due progetti (dei quali sarei davvero curioso di vedere come fossero concepiti … almeno in che modo si relazionassero con le preesistenze) poi, una volta fallita la prima impresa di costruzioni (cosa curiosa che meriterebbe qualche approfondimento), si è deciso di affidare l’incarico allo studio di architettura Benthem Crouwel di Amsterdam … a questo punto si è deciso di aggiungere e collegare al bell’edificio del 1895 un altro dalle linee moderne … (9000 mq aggiunti agli originari 10000!) evidentemente i titolari dello studio incaricato non potevano limitarsi a restare invisibili all’interno della struttura preesistente … agli architetti autocelebrativi è geneticamente impossibile evitare di mostrarsi violentemente al pubblico: è come se ad un pavone gli venisse impedito di fare la ruota!
Ecco quindi che – come nel caso del MAXXI nato senza una collezione da esporre – anche per lo Stedelijk è nata l’esigenza di “riempire il nuovo contenitore” con nuove collezioni … già, il contenitore, perché oggi il “museo”, tra gli adepti del modernismo, non si chiama più “museo”, ma “contenitore”! Riflettendo su questa “evoluzione semantica” viene da pensare che, quando si parla di “opere consumistiche usa e getta”, il termine più appropriato è effettivamente “contenitore” … chissà quindi se, tra non molto, questa costante evoluzione porterà a chiamarlo, per coerenza, “cassonetto”!
Sebbene la totalità degli abitanti non abbiano apprezzato affatto questo progetto, ribattezzandolo “la vasca da bagno”, a detta dell’autore dell’articolo, cito testualmente:
“La gigantesca ala bianca disegnata dallo studio Benthem Crouwel, “immersa” nelle architetture storiche che la circondano, non sfigura. Tutt’altro. Il nuovo corpo dello Stedelijk, un gigantesco volume lungo cento metri e alto diciotto, anche cromaticamente “emerge”. Con il bianco del Twaron, la fibra sintetica che viene dall’aeronautica spaziale, e della fibra di carbonio Tenax”.
Sicché
“Nel complesso va salutata con soddisfazione la nuova realizzazione. Che senza dubbio risponde all’esigenza “progressista” degli olandesi. Alla loro voglia di sentirsi al passo con i tempi. All’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia. Perché l’Olanda non è l’Italia”.
Ebbene, se queste sono le ragioni per cui dovremmo ritenere bello questo edificio, allora viva la bruttezza. Se l’Italia non è l’Olanda, allora viva l’Italia!!
A me questo museo, più che ricordarmi una “vasca da bagno” sembra un gigantesco “lavello da incasso per cucina”, o forse è un enorme “lavandino da barbiere” dove oltre ai capelli possa operarsi anche un lavaggio del cervello in nome del modernismo, che della modernità rappresenta la visione distorta.
Personalmente penso che, prima di difendere l’indifendibile, sarebbe il caso di capire gli effetti collaterali di un certo tipo di “edilizia” (mi viene impossibile usare il termine “architettura” per certe cose), e mi fa specie che proprio un archeologo per scelta non se ne accorga.
Si rifletta sul fatto che, l’aver promosso questo modo di progettare e costruire anche in Italia, l’aver insegnato in maniera ideologica e monodirezionale, ha portato alla creazione di una massa di architetti che non sono assolutamente in grado di restaurare in maniera rispettosa il patrimonio storico! I crolli di Pompei e L’Aquila, ma anche quelli che di qui a breve rischiano di interessare sempre Pompei, ma anche Selinunte dovrebbero mettere in allarme chi vorrebbe “vivere di archeologia e cultura”.
L’affannosa ricerca formale verso architetture aliene ”rappresentative dell’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia” è gravemente dannosa per quel patrimonio che dovremmo tutelare. Se progetti come quello di Benthem Crouwel dovessero iniziare a proliferare anche in Italia (se ce n’è uno perché non cento? O mille?) che cosa rimarrà nel nostro Paese ad attirare i turisti? e poi, indipendentemente dal turismo, perché gli architetti dovrebbero essere autorizzati a fare edifici autocelebrativi strafregandosene del concetto di bene e bello comune?? Ma soprattutto, se intimidiamo i nostri studenti e li convinciamo della necessità di non commettere “falsi storici”, se in nome di una impellenza di progettare solo architetture futuristiche, perché appartenenti al XXI secolo, non insegniamo più a disegnare e costruire anche in maniera filologica e rispettosa dell’architettura del nostro passato, anche più recente, chi mai più sarà in grado di mantenere in vita il nostro patrimonio?
Viollet-Le-Duc, preoccupato per il modo dittatoriale in cui si insegnava l’architettura al tempo dell’Academie des Beaux Arts di Parigi, perché a suo avviso metteva a rischio il patrimonio architettonico medievale francese, a causa dell’assenza di conoscenze tecniche in materia, disse: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze” (...) “dal fatto che fate costruire tutte le case di una strada o di una piazza con lo stampino, dal fatto che esigete che il vostro architetto riempia una facciata di finestroni simili, malgrado i servizi molto diversi contenuti nell’edificio, concludete di dar prova di rispetto per l’arte. Errore, voi la torturate; vi trasformate nel suo boia; (…) e cos’è dunque l’espressione del pensiero, se siete costretti a ripetere quanto dice il vostro vicino, o a dire bianco quando vedete nero?”.
Senza ombra di dubbio noi potremmo dire esattamente oggi le stesse cose relativamente ai danni culturali prodotti da una maniera del tutto distorta di guardare alla modernità (modernismo) e, soprattutto, di insegnare l’architettura in nome di un complesso di inferiorità culturale che non ci appartiene.
Osannare progetti come quello in oggetto, e criticare la nostra presunta limitata apertura al contemporaneo – specie da parte di chi, per scelta professionale, dovrebbe mirare alla tutela più assoluta del nostro retaggio culturale – equivale dunque all’auspicare la distruzione del nostro patrimonio … un po’ come quel marito che, per far dispetto alla moglie prese una decisione autolesionista alquanto discutibile!
32 commenti:
Grazie Pietro.
Questa bagnarola, del tipo corto, cioè con tanto di seduta è semplicemente indecente, è un'offesa all'intelligenza.
Mi sembra anche un'offesa all'Olanda, che non ha fatto una discarica del suo territorio sottratto al mare con tenacia e intelligenza, e questo è un progetto da discarica controllata.
Significativo l'ingresso dalla parte del tubo di scarico.
Un amico me la segnala simile ad una vaschetta per il cibo al supermercato.
Pietro
Secondo me ha due punti di pregio: mi pare che sia in linea con l'essenza dell'arte contemporanea preannunciando per altro in modo esplicito quello che ci si può trovare dentro, e soprattutto sembra fatta apposta per essere un giorno rimossa, cosa che (questa sì), in Olanda riuscirà meno problematica rispetto a quanto sarebbe in Italia.
Certamente vero: basta chiamare un idraulico! Quanto al contenuto, immagino che di roba da wc/doccia ve ne sarà abbastanza.
Saluti
Pietro
Complimenti per la levatura dell'articolo e dei rispettivi commenti. Ne ho sentiti di altrettanto profondi stamattina, al bar dell'angolo. E' bello sapere che la cultura italiana possa contare sulla vostra preparazione e sensibilitá!!
infatti, Lazier, fortunatamente in Italia c'è anche chi non finge di fare "antithesi" restando ancorato sempre alla solita tesi lobotomizzante. Ci faccia sapere il suo illuminato parere su questo progetto ... l'Italia ne ha davvero bisogno
Non ho scelto io il progetto da criticare, a mio parere poco interessante. Interesse che, data la miseria argomentativa del suo articolo, rischia d'esser riconsiderato, se non altro per puro diletto antiretorico
miseria argomentativa?
Ma lei in quale mondo vive? Lei ha scelto di fare un intervento su questo blog e a questo articolo, ergo nessuna l'ha invitata. Quindi, se ha qualcosa di concreto da dire lo dica, diversamente torni alle sue "illuminanti" vacuità di "antithesi". Le sue provocazioni sono patetiche, ne abbiamo già discusso sul suo discutibile blog, dove mio malgrado ho dovuto replicare alle sue assurdità offensive. E' un peccato che molta gente, piuttosto che lasciare un commento su questo blog, abbia preferito inviarmi dei messaggi privati (decine e decine), altrimenti si sarebbe potuto rendere conto che, quello che a lei pare "miserabile" o "puro diletto antiretorico", al 99% (manca solo lei) dei lettori è sembrato ben altro. Sarei curioso, ma penso tutti, di sapere cosa sarebbe in grado di dirci visto che si è autoinvitato a parlare, per poi, da par suo, non dire nulla se non offese
Mi scusi Lazier, ma questa entrata a gamba tesa non mi sembrava appartenere al suo stile. Qualunque sia il contenuto del post e dei commenti, su cui dopo dirò, ritengo non necessari nè significativi paragoni con il bar d'angolo. Dove però di calcio sono esperti.
Quanto al contenuto, alla sostanza, io credo che si può fare, come si fa, un chiosco degli hot dog a forma di hot dog o quello dei gelati a forma di cono-gelato, ma un museo che è assolutamente identico ad una bagnarola, mi sembra il sintomo di una povertà culturale oltre ogni misura. Se poi l'autore non conoscesse una vasca da bagno e avesse pensato di inventare una nuova forma, al pari del Totò a colori che dopo ogni sua composizione si accorge ....che Verdi l'aveva già preceduto, cosa anche possibile visto il livello alquanto primitivo, resterebbe comunque un'assurdità senza limite.
E tuttavia confesso che mi incuriosisce molto conoscere un suo parere argomentato su questo progetto.
Se lo farà risponderò con educazione oppure, per educazione, tacerò.
Cordiali saluti
Pietro
Caro Pietro,
io credo che il problema di Lazier relativamente a questo post sia legato a questo mio passaggio:
"L’affannosa ricerca formale verso architetture aliene ”rappresentative dell’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia” è gravemente dannosa per quel patrimonio che dovremmo tutelare. Se progetti come quello di Benthem Crouwel dovessero iniziare a proliferare anche in Italia (se ce n’è uno perché non cento? O mille?) che cosa rimarrà nel nostro Paese ad attirare i turisti? E poi, indipendentemente dal turismo, perché gli architetti dovrebbero essere autorizzati a fare edifici autocelebrativi strafregandosene del concetto di bene e bello comune?? Ma soprattutto, se intimidiamo i nostri studenti e li convinciamo della necessità di non commettere “falsi storici”, se in nome di una impellenza di progettare solo architetture futuristiche, perché appartenenti al XXI secolo, non insegniamo più a disegnare e costruire anche in maniera filologica e rispettosa dell’architettura del nostro passato, anche più recente, chi mai più sarà in grado di mantenere in vita il nostro patrimonio?"
Mentre lui, nel suo blog, nel primo post del 2012 dedicato ad attaccare chi la pensi diversamente da lui (noi presunti “passatisti”) diceva:
"Tra due teorie contrapposte non miro alla loro sintesi. Difendo la mia con tutte le energie possibili, perché prevalga"
E poi:
"Difficile, quindi, per me continuare un confronto sull’architettura senza l’architettura (perché quella da voi proposta, tale non considero). La creatività è il mio paraocchi senza il quale non m’interessa vedere nulla, almeno su questo giornale".
Credo che in queste poche righe si capisca perché, chi non abbia voglia, o probabilmente non sia in grado di confrontarsi rispettosamente col contesto, perché gliene manca la capacità compositiva a causa dei “paraocchi della sua creatività”, tenderà sempre a criticare pesantemente, eventualmente anche facendo ricorso alla “macchina del fango” “perché la sua teoria prevalga”. Infatti, se mai prendesse piede la teoria contrapposta alla sua, e finalmente la gente comune avesse la possibilità di decidere in che tipo di architetture vivere - piuttosto che essere obbligata a vivere nelle architetture autoreferenziali degli architetti “con i paraocchi creativi” - per lui, e per tutti i colleghi a cui manchi la capacità di confrontarsi rispettosamente col contesto e con le volontà della gente, non ci sarebbe più spazio.
Per questo ribadisco a Lazier ciò che ebbi modo di dire nei miei commenti al suo post di gennaio: la sua posizione è perfettamente riassunta nell’aforisma di Viollet-Le-Duc: «amiamo vendicarci delle conoscenze che ci mancano con il disprezzo ... ma sdegnare non significa provare».
Però, Pietro, se non vuoi commenti che non ti garbano, fatti un sito personale (come ho fatto io) o se lo faccia Mazzola, ma se fai un blog devi accettare anche i commenti dissonanti di chi non è stato invitato (ci mancherebbe altro!) e non solo i minuetti fra pochi intimi, "grazie, prego, figurati, complimenti" .........
cara Vilma,
non si tratta di non volere commenti dissonanti, che semmai è il caso di qualcun'altro, semmai è la richiesta di argomentare in maniera sensata i propri commenti, cosa che ad alcune persone evidentemente viene difficile.
Qualsiasi dibattito ben argomentato, tra posizioni dissonanti, è sempre utile e benvenuto, perché le discussioni colte, civili e misurate aiutano ad andare avanti. Quando invece si scrivono tre righe offensive e prive di contenuto, se permetti, ci si comporta in maniera alquanto patetica, se non infantile, suscitando reazioni come quelle mie e di Pietro
Vilma, io non contesto mica il diritto di critica, anche feroce, ma "argomentata", soprattutto da Lazier che non è solito intervenire. Una volta che interviene lo fa nello stesso modo brusco che lui attribuisce all'autore dl post e a tutti i commentatori. Singolare direi.
Ma io non mi sono mica offeso, ho solo risposto cercando di tenere il punto di difensore d'ufficio del blog ma con un pizzico di ironia. E' una schermaglia dialettica, un atto dovuto, niente di più.
Tornando al post, il difetto che gli trovo è quello che rischia di dare dignità ad un progetto che non la merita.
Ciao
Pietro
Il post "rischia di dare dignità ad un progetto che non la merita."
Bè, almeno un punto di incontro c'è, anche Lazier dice che il progetto, in quanto al centro del post, acquisisce immeritata considerazione da un dibattito a scopo puramente dialettico ("rischia d'esser riconsiderato, se non altro per puro diletto antiretorico")
Gli architetti che producono tali schifezze (è inutile girarci intorno) non hanno certo più dignità dei frequentatori del "bar dell'angolo" ... e poi le chiacchiere - del solito bar - producono meno danni di questi "intellettuali" sempre pronti ad inventare qualcosa di nuovo.
P.S. anche per me sembra un lavello da incasso
Approfitto per salutare Vilma che non sento da un po’ di tempo.
Vi confesso che non volevo intervenire. Ma visto l’articolo di Mazzola, privo d’una descrizione del progetto, senza una piantina, senza una sezione, come si fa a dare giudizi seri solo su una cartolina buona , appunto, solo per i turisti?
Pura vis polemica, la mia.
Perché proporre un progetto scadente e scrivere strombazzando “oh cielo, che brutto, che schifezza!!!” …mi sembra così banale e poco serio.
Se volete ci possiamo confrontare su qualcos’altro, che magari conosco meglio e che , secondo me, vale maggiore attenzione perché effettivamente nuovo. (Pensate che personalmente giudico il progetto proposto da Mazzola fondamentalmente “neoclassico”, altro che modernista!)
In Italia abbiamo tanta cultura (già fatta) ma ne facciamo molto poca (di nuova). Avere cultura ed esibirla non è farla. Riproporre in salsa nuova quella vecchia non è farla. Ma fare cultura implica percorrere strade nuove, sconosciute, a volte rischiose, a volte giuste e spesso sbagliate. Sbagliare è il prezzo che si deve pagare per il nostro rinnovamento culturale. Altrimenti saremo costretti ad importare anche quello. Fare cultura implica pertanto la novità, la sperimentazione. Mi sembra un concetto molto chiaro.
Ma come si può chiedere confronto critico su esempi puntuali a chi pregiudizialmente condanna qualsiasi novità linguistica?
Stasera non posso rispondere a Sandro Lazier per problemi di mancanza di connessione essendo fuori casa. Dal cell come adesso mi e' alquanto difficile. Comunque lo ringrazio del chiarimento. A domani
Pietro
il suo problema Lazier, è quello di accusare gli altri delle proprie colpe. La invito a rileggere le sue stesse parole che ho citato questa mattina per farsi un esame di coscienza.
Ora, poi ci viene a dire "Fare cultura implica pertanto la novità, la sperimentazione. Mi sembra un concetto molto chiaro".
L'unica cosa chiara è che lei non sappia nemmeno cosa sia il Neoclassicismo, visto che lo appioppa a vanvera. Quanto invece al suo modo di fare cultura tramite la sperimentazione, la invito a farsela a casa sua e con i soldi suoi, è troppo comodo poter dire, come fa lei: "fare cultura implica percorrere strade nuove, sconosciute, a volte rischiose, a volte giuste e spesso sbagliate. Sbagliare è il prezzo che si deve pagare per il nostro rinnovamento culturale". La storia degli sperimentatori urbanistico-architettonici è più che sufficiente per capire che la sperimentazione sulle cavie umane è una follia degna del nazismo. Quante vite sono state troncate o deviate dalla sperimentazione fallimentare degli architetti sperimentatori? Io mi vergognerei se sostenessi certe cose. Se mi chiedessi come faccia a fare certe accuse fasulle, la risposta la trovo nel suo metodo di dialogo (simile a quello della sperimentazione di cui sopra) che ha riportato nella frase già citata questa mattina: "Tra due teorie contrapposte non miro alla loro sintesi. Difendo la mia con tutte le energie possibili, perché prevalga" Un dittatore dunque, un dittatore che accusa gli altri di non saper dialogare!... Con quale coraggio, dunque si permette di dire a noi "Ma come si può chiedere confronto critico su esempi puntuali a chi pregiudizialmente condanna qualsiasi novità linguistica?" ... Purtroppo per lei, autoinvitatosi a questo banchetto, ha trovato solo un osso duro. Se vuole dialogare lo faccia rispettando le regole della comunicazione, se invece preferisce menare il can per l'aia, la faccia finita perchè non ho alcuna intenzione di lasciarle l'ultima parola, almeno finché non avrà dimostrato di aver imparato le regole dei dibattito colto e civile
E' vero, di problemi ne ho parecchi. Ma le giuro che lei, caro Ettore Maria, ne è sicuramente l'ultimo. Per cui si dia una calmata e accetti di buon grado l’irriverenza di chi non ossequia le sue colte e civili dissertazioni. Mi tolga però una curiosità, che, devo ammettere, mi ha colpito molto: da cosa deduce che “La storia degli sperimentatori urbanistico-architettonici è più che sufficiente per capire che la sperimentazione sulle cavie umane è una follia degna del nazismo.”? Forse dalle architetture neoclassiche di Albert Speer? Le garantisco che la cosa mi spiazza…
Caro Lazier,
se si togliesse quei paraocchi che si vanta di indossare per stimolare la sua creatività, e soprattutto se studiasse un po' di Sociologia, si accorgerebbe che tutta la produzione sperimentale che ha generato esempi come lo ZEN, il Corviale, ecc. ha causato quegli effetti collaterali che ho elencato.
Il fatto che quella sperimentazione sia stata fatta in nome di una ideologia (che come tutte le ideologie presentava e presenta degli aspetti perversi) all'insaputa dei residenti, non la rende dissimile dalle "sperimentazioni" folli su cavie umane ad opera di Mengele, Goebbels e altri psicopatici del genere.
Ma è ovvio che, a chi non abbia un minimo di cultura per potersi confrontare rispettosamente con l'esistente e dover applicare delle regole, risulti molto più semplice mascherare la propria ignoranza dietro una presunta "teoria sperimentale" che non preveda regole: Qualsiasi illetterato, in assenza di regole, potrebbe pretendere di comporre un poema, e allora è meglio scegliere questa strada, e rivendicarla in nome di una visione distorta della "libertà" che consenta di esprimere se stessi danneggiando gli altri!
In tutto ciò non vedo cosa c'entri Speer che, oltre a non essere neoclassico e a non rientrare in questa categoria, non mi dice proprio nulla, né mi suscita alcuna emozione particolare, se non la tristezza.
Per inciso, nel mio post che lei critica senza spiegare quali siano i punti "miseri", se lo avesse letto attentamente, piuttosto che criticarlo a priori per ragioni che posso immaginare, avrebbe inteso che non si voleva fare un distinguo gratuito tra "bello" e "brutto", piuttosto si voleva far riflettere sui pericoli di un certo tipo di edilizia nei confronti del patrimonio storico architettonico, specie considerando la scelta di vita e la professione dell'autore del articolo da cui avevo tratto ispirazione.
Premesso che chiunque può lasciare commenti, anche se non invitato (come farei a invitare?), a condizione che non si rechino offese alle persone o che non si voglia sistematicamente importunare, anche coloro che sono in totale disaccordo con le opinioni di questo blog, perchè questa è la regola e la ricchezza dei blog, vorrei adesso replicare a Lazier e, se possibile, integrare le argomentazioni di Mazzola.
Io non comprendo, e lo dico con assoluto candore, questo desiderio, ma direi meglio, quest'ansia da sperimentazione che lei ha nei confronti dell'architettura. Il desiderio di conoscenza, di aprire nuovi orizzonti, di scoprire o inventare, a seconda dei punti di vista, ciò che ancora non c'è, appartiene al mondo della scienza (la ricerca appunto), della letteratura, dell'arte, ma l'architettura è altro da tutto questo.
Può comprendere tutto questo, in pochissimi e migliori casi, ma la conoscenza in architettura è sapere le regole del costruire e leggere ciò che c'è per adattarlo alle varie situazioni. In questo senso ogni architettura è intrinsecamente sempre nuova e diversa. Ogni edificio è un prototipo.
Sicuramente lei, Lazier, non avrà seguito lo scambio che abbiamo avuto su questo blog sul palazzo dei consoli a Gubbio, ma lì c'è la dimostrazione di quanto ho detto: un progetto assolutamente nuovo, perchè interpreta in maniera straordinaria la unicità di quel luogo, ma costruito con elementi rigorosamente tradizionali, eppure quel progetto rimane unico e diverso da tutti gli altri. Se questa è sperimentazione, ben venga. Ma a me pare che lei confonda sperimentare con risolvere problemi. L'architettura è "risoluzione di problemi" e per fare questo si adottano regole costanti e le si applicano alla mutevole realtà, a quella specifica realtà. Realtà è il luogo, ciò che esiste, il committente, l'uso cui è destinato, l'immagine che essa dovrà dare a tutti, in alcuni casi i simboli che si vogliono comunicare. La sua ansia zeviana di sperimentazione presuppone una grande considerazione di se stessi come artisti e inevitabilmente una scarsa considerazione del committente, ritenuto evidentemente una cavia. Credo che questo volesse dire Mazzola, e io sono d’accordo. Non voglio dire che lei sia un maleducato e un arrogante, dico che questa è la inevitabile conseguenza: l’architetto è il dominus, il resto è ancillare. Ma l’architettura è un processo di cui l’architetto è solo uno dei protagonisti.
continua......
.....
Lei leggerà in questa mia descrizione un atteggiamento di tipo etico, ed è vero. Ma tale etica è una forma di difesa divenuta necessaria una volta che è stata persa la coscienza spontanea in base alla quale l’architetto era naturalmente uno dei soggetti che lavorava con il mestiere e l’ingegno. Eppure, nonostante questo, quanto si è evoluta l’architettura dalle origini ad oggi! E’ un’etica difensiva, ancor più indispensabile in una società di massa, con la presenza di decine di migliaia di architetti, ognuno portatore di sperimentazioni, novità e presunto talento artistico. Nell’insieme una massa di pericolosi, presuntuosi e pure antipatici parolai. Non c'è niente di esaltante in questa miseria.
Lei ricerca probabilmente la spazialità, concetto oltre modo vago se svincolato da chi in quello spazio dovrà vivere. Ma alla fine tutto si risolve o nella continuità di linee curve tipo MAXXI o in punte e puntazze tanto divulgate da Zevi nella sua riviste. Ma vuole mettere il senso dello spazio urbano del barocco, dove c’è una grande corrispondenza e sintonia tra la sinuosità delle facciate che dialoga con le piazze e le strade! Questo ha un significato e non le contorsioni grafiche di chi crea curve assurde, non abitabili, non fruibili e del tutto gratuite. La spazialità barocca è sì fantastica, fantasiosa e teatrale ma difficilmente gratuita. Quella è una ricerca, una novità ma sempre costruita con elementi architettonici attinti dalla tradizione, non partendo dallo zero zeviano che ormai, dopo avere fatto più danni degli alluvioni odierni, è vecchio, polveroso e tutto sommato modesto.
Saluti
Pietro
Pietro, adesso prendo il tuo ultimo intervento, lo stampo, lo incornicio e poi lo appendo in studio.
Abbracci
Angelo
Mi spiace dovervi probabilmente annoiare, ma ci terrei ad aggiornarvi sul concetto di contesto, termine che usate a volte come un comodo randello per demolire le architetture non tradizionali, altre volte per giustificare la vostra indubbia chiusura verso la libertà creativa.
Il testo (di psicologia, per la gioia di Mazzola) che vi propongo alla lettura, sostiene la tesi per cui il contesto non è qualcosa di dato a cui dobbiamo semplicemente adattarci, ma qualcosa che ci contiene e che evolve grazie alla nostra “cecità” rispetto proprio al suo disegno. Non solo siamo parte d’un mosaico che può conoscere solo le tessere che ci stanno intorno, per cui ci è preclusa la possibilità di conoscere il disegno che il mosaico riproduce, ma siamo noi stessi con la nostra indisciplinata creatività a generare e a far progredire tutta la figurazione. Proprio per una questione di contesto la ricerca è necessaria.
Tratto da “Complessità del concetto di contesto” di MARCO BIANCIARDI
Il “contesto” della logica classica.
Il termine “contesto”, nel suo uso più banale e scontato, indica “ciò che sta intorno”, e quindi l’ambiente, o la situazione, entro cui avviene, si genera, e può essere compreso, ciò su cui stiamo focalizzando la nostra attenzione.
[…]
È chiaro che tale accezione del concetto di contesto si mantiene con coerenza entro una logica classica, secondo cui l’identità è indipendente dalla relazione e precede la relazione - per quanta importanza possa essere attribuita a quest’ultima. Un contesto così inteso, infatti, viene innanzi tutto concepito come indipendente dagli elementi cui fa da contesto: esattamente come una cornice, la quale, per quanto possa essere significativa nel valorizzare il quadro, o possa comunque costituirne un commento, resta pur sempre un oggetto a se stante rispetto al quadro medesimo, e possa esserne separata senza che il quadro, e la cornice stessa, perdano il proprio valore ed il proprio autonomo significato, i quali precedono e sono indipendenti dal loro essere con-nessi o posti in relazione.
[…]
“contesto” starà ad indicare l’ambiente che circonda un organismo, il momento storico entro cui si genera un avvenimento, o la rete di relazioni significative per il soggetto: ove viene riconosciuta, e a volte amplificata, l’importanza del contesto nell’influenzare la condotta dell’organismo, o il prodursi dell’evento, o il formarsi della personalità del soggetto; ma ove, d’altra parte, individuo, evento ed organismo vengono pur sempre considerati e concepiti come potenzialmente separati dal proprio contesto, ovvero dotati di uno statuto ontologico autonomo e di una identità non correlata al contesto: portatori di una propria essenza indipendente da ciò che li circonda.
Ma tale modo di considerare le cose è precisamente ciò che, a mio parere, l’approccio sistemico ha proposto di superare, introducendo un’opzione epistemologica che la cibernetica di secondo ordine ci stimola a riscoprire ed a comprendere in modo più esplicito ed articolato.
[…]
Se manteniamo l’immagine del tessuto, cui il termine rimanda, potremmo dire che, secondo questa accezione, il contesto è il tessuto che avvolge un oggetto: come il panno pregiato su cui poniamo una pietra preziosa per meglio coglierne la lucentezza. Allo stesso modo, e fuor di metafora, “contesto” starà ad indicare l’ambiente che circonda un organismo, il momento storico entro cui si genera un avvenimento, o la rete di relazioni significative per il soggetto: ove viene riconosciuta, e a volte amplificata, l’importanza del contesto nell’influenzare la condotta dell’organismo, o il prodursi dell’evento, o il formarsi della personalità del soggetto; ma ove, d’altra parte, individuo, evento ed organismo vengono pur sempre considerati e concepiti come potenzialmente separati dal proprio contesto, ovvero dotati di uno statuto ontologico autonomo e di una identità non correlata al contesto: portatori di una propria essenza indipendente da ciò che li circonda.
(continua...)
Ma tale modo di considerare le cose è precisamente ciò che, a mio parere, l’approccio sistemico ha proposto di superare, introducendo un’opzione epistemologica che la cibernetica di secondo ordine ci stimola a riscoprire ed a comprendere in modo più esplicito ed articolato.
Il “con-textus” cibernetico.
Questo modo di intendere il significato di “contesto” propone un concetto radicalmente differente da quello che abbiamo esaminato nel paragrafo precedente. Secondo questa accezione, infatti, “contesto” non indica, nè potrebbe indicare, ciò che sta intorno a qualcos’altro, o lo incornicia: esattamente come il tessuto non incornicia i fili che lo compongono.
All’interno di una logica cibernetica, quindi, il termine “contesto” introduce il concetto di relazione complessa ed articolata tra un tutto e i suoi componenti: non quindi la relazione tra un quadro e la sua cornice, bensì, piuttosto, tra un mosaico e le tessere che lo compongono. Da una parte, non vi è tessuto senza fili, nè vi è mosaico senza tessere; d’altra parte, il tessuto ed il mosaico sono altro e più che la semplice somma dei fili e delle tessere da cui sono formati.
Con-testo non è altro che questa relazione com-plessa.
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La cecità soggettiva come strutturale al “con-textus”.
Questa modalità di intendere il concetto di “contesto” - una modalità complessa, la quale articola ed intreccia unitarietà del tutto ed autonomia dei componenti - è una modalità che ci sfugge sempre. E che resta per noi, appunto, un mistero. Essa è, potremmo dire, impossibile per il soggetto: il quale - lungi dal poter com-prendere dall’esterno i contesti cui partecipa - vive e sperimenta il proprio punto di vista come necessariamente al centro dei propri contesti relazionali ed esistenziali. E ciò in quanto soggetto, e quindi per un motivo di struttura, in modo costitutivo e logicamente non eludibile.
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Ciò che intendo sottolineare ora è che questa cecità logica del punto di vista soggettivo, questa impossibilità per il soggetto a “sapere” e comprendere il contesto, deve essere riconosciuta come caratteristica non eliminabile del con-textus medesimo - di un concetto di contesto, cioè, inteso con coerenza secondo una logica cibernetica.
La cecità del soggetto si pone, potremmo dire, come aspetto strutturale e strutturante di una accezione cibernetica di “contesto”.
È infatti proprio la asimmetria irriducibile del punto di vista del soggetto rispetto al punto di vista delle relazioni cui partecipa e dei sistemi di appartenenza, ciò che caratterizza il concetto cibernetico di con-textus come vivo da una parte, e come complesso dall’altra, e lo differenzia quindi radicalmente da un concetto di contesto che sia interno ad una logica classica. Solo una asimmetria radicale ed una incolmabile disomogeneità tra punto di vista soggettivo, nella propria autonomia esperienziale, e punto di vista contestuale, nelle sue proprietà emergenti, articolano e mantengono la complessità e l’intreccio di un contesto vivo che evolva nel tempo in modo non prevedibile.
[…]
È in questo senso che un con-textus si caratterizza come com-plexus.
Se il filo sapesse ciò che fa, se potesse “vedere al di là del proprio naso”, tesserebbe un tessuto senza vita, ovvero saputo, prevedibile, banale, scontato e senza storia. Allo stesso modo, se il soggetto potesse conoscere le conseguenze che il suo fare comporta all’interno delle relazioni ed entro i sistemi di appartenenza, la ‘storia’ sarebbe senza storia, in quanto la vita si caratterizzerebbe come lo svolgimento di una trama già scritta.
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(c0ntinua...)
[…]
Il con-textus, infatti, è com-plexus.
Esso si genera, precisamente, nell’intreccio, vincolato ma imprevedibile, di punti di vista autonomi, i quali obbediscono innanzi tutto alle proprie esigenze di congruenza e coerenza interna, al proprio angolo di visuale riduttivo e parziale, alle proprie premesse e ai propri pregiudizi, ai propri fini immediati, o ai propri disegni proiettati nel futuro.
Il con-textus è quindi generato dall’intreccio e dalla storia delle relazioni tra organismi biologici caratterizzati da una propria chiusura cognitiva ed operazionale - la quale implica, sia da un punto di vista logico che da un punto di vista ontogenetico, l’assoggettare la comprensione dei contesti di appartenenza ad una lettura parziale, riduttiva, prospettica, vincolata, locale.
la prima cosa che mi è venuta in mente leggendo Sandro è la meccanica quantistica, secondo la quale, detto in soldoni, misurare significa sempre perturbare il sistema misurato e quindi anche le grandezze che lo caratterizzano, alterando il sistema stesso. Per esempio, per misurare un elettrone, dobbiamo fare qualcosa, ad esempio illuminarlo, cioè colpirlo con dei fotoni che, con il loro impatto, alterano il suo moto successivo, rendendolo altro dalla sua 'realtà' iniziale. Se il sistema è il contesto, intervenire, seppure in modo supposto omogeneo e coerente, dentro di esso vuol dire alterarlo, il che, come per l'elettrone, mette in crisi il concetto di partenza. Se vogliamo possiamo anche tirare in ballo Heisenberg e il principio di indeterminazione, ma la discussione si allargherebbe un pò troppo, anche se sarebbe bello, utile e doveroso, quando si parla di fisica, o di architettura o di qualunque altra umana disciplina, tenere presente che l'uomo è una 'esseità' complessa, variegata e unica dalla quale partono tutti i saperi.
Il che non vuol dire che per progettare una casa bisogna prima prendersi una laurea in fisica dei quanti (magari Eisenman lo ha fatto), ma vuol dire aprire la mente a tutti i tipi di conoscenza, anche quando ci sembra che esulino dal campo specifico della nostra azione, seguendo le briciole spesso si arriva alla meta.
Più che annoiarci, magari ci può far sorridere, del suo interesse per la “de-contestualizzazione” è voluto uscire fuori tema! Sarebbe meglio parlare con le proprie parole piuttosto che far ricorso a lunghi e contorti discorsi che servono solo all’autocompiacimento di chi voglia far sentire la massa ignorante, e se stesso come il custode del verbo … sebbene descritto da qualcun altro.
Le viene chiesto di spiegare le ragioni del perché l’articolo risulterebbe “misero”, ma lei risponde, con parole altrui, ciò che le fa comodo dire … nulla di nuovo sotto il sole!
E allora, prendendo come spunto le uniche parole farina del suo sacco, cerchiamo di capirne di più.
Lei dice: “[...] ci terrei ad aggiornarvi sul concetto di contesto, termine che usate a volte come un comodo randello per demolire le architetture non tradizionali, altre volte per giustificare la vostra indubbia chiusura verso la libertà creativa. [...] il contesto non è qualcosa di dato a cui dobbiamo semplicemente adattarci, ma qualcosa che ci contiene e che evolve grazie alla nostra “cecità” rispetto proprio al suo disegno. Non solo siamo parte d’un mosaico che può conoscere solo le tessere che ci stanno intorno, per cui ci è preclusa la possibilità di conoscere il disegno che il mosaico riproduce, ma siamo noi stessi con la nostra indisciplinata creatività a generare e a far progredire tutta la figurazione. Proprio per una questione di contesto la ricerca è necessaria”.
Se si attenesse alla disciplina iniziale del discorso – architettura e urbanistica – piuttosto che far ricorso alla psicologia si renderebbe conto che le cose che va sostenendo non hanno alcun senso, né valore.
Dalla notte dei tempi, fino all’avvento della cialtroneria modernista (si badi, non della modernità che è altra cosa!), il bene e il bello comune, il buon senso, il genius loci, il senso di appartenenza, il rispetto del carattere e dei materiali del luogo, il “decorum”, perfino il “campanilismo”, hanno implicitamente sovrinteso allo sviluppo delle città, nonostante l’evolversi del gusto e delle esigenze.
Diversamente invece, il parassitismo professionale di chi non abbia più voluto confrontarsi con determinate regole (anche se non scritte), in nome di una presunta modernità che consentirebbe agli individui, presi singolarmente, di poter esprimere la propria “libertà” in barba a quella degli altri, ha creato il caos attuale … e non credo che questa possa esser stata una conquista della nostra disciplina; diversamente non si comprenderebbe il perché ci sia tanto disamore e diffidenza verso la nostra professione, né il perché si sia dovuti arrivare a parlare di “architettura e urbanistica sostenibile” … sarebbe stato necessario applicare un po’ di “buon senso” prima di teorizzare la necessità di una presunta sperimentazione sulle cavie umane.
Quanto alla metafora del mosaico, provi a guardarla da un’altra direzione. Se lei avesse in casa un mosaico, o un tappeto che, per ragioni diverse, possa esser stato danneggiato, cosa farebbe? Lo farebbe restaurare esattamente com’era? O ci appiccicherebbe una orrenda toppa neutra che miri solo a chiudere il buco? Oppure, in nome della sperimentazione, preferirebbe introdurvi una placca del materiale per l’industria aerospaziale usato per il Museo di Amsterdam?
Esistono luoghi della realtà, che a lei sfuggono, nei quali le regole del buon senso rivestono un ruolo decisamente superiore rispetto a quello dell’egoismo e dell’ideologia.
(continua)
2^ parte
Quanto alla sua accusa nei nostri confronti, che ci vedrebbe usare “a sproposito” l’argomento del contesto come “comodo randello per demolire le architetture non tradizionali”, se fosse più onesto con se stesso, documentandosi sulle varie “battaglie” che ci hanno visti, me in primis, rivendicare l’importanza del contesto, si renderebbe conto di aver usato, “come comodo randello”, l’argomento della “nostra miopia tradizionale” per raggiungere lo squallido obiettivo che si era prefissato.
Quando si è trattato di difendere contesti razionalisti, noi lo abbiamo fatto. Perfino quando si è trattato di sostenere la causa per l’arco di Libera all’EUR, sebbene non possa essere il mio modello preferito, io stesso l’ho sostenuta, con articoli nella rete e sulla stampa nazionale.
Tanto per intenderci meglio, le riporto le parole di Roberto Papini a proposito di un edificio realizzato a Roma da Carlo Broggi nel 1926: «Quel vasto edificio è parso subito, anche al pubblico grosso, perfettamente ambientato: il che costituisce un pregio reale e difficilmente discutibile. [...] Nella risoluzione di tali problemi, nell’alternanza di piani lisci e scabri dell’intonaco, nel movimento delle masse e nella curvatura delle linee, Carlo Broggi ha segnato un sensibile progresso rispetto alle precedenti opere d’architettura [...]. Ed è particolarmente interessante vedere un architetto milanese il quale, venendo a Roma, ha sentito il bisogno d’accordarsi con l’ambiente, di mantenersi nella sobrietà dell’ornamentazione che è caratteristica del buon barocco romano, non mai dimentico, della classica semplicità».
Questa si chiama capacità di essere obiettivi, e onestà professionale che mette l’interesse comune al di sopra di quello individuale, diversamente la posizione di chi, nel campo della nostra professione, veda la necessità di “sperimentare per crescere”, strafregandosene della volontà comune, oltre ad essere una manifestazione egoistica ed arrogante, si configura come un tentativo disperato di trovare una teoria credibile che consenta all’ultimo degli ignoranti di poter fare a meno delle regole condivise.
Caro Lazier, non sarò breve e, fatti i conti, dovrò dividere questo commento in 3 parti.
Prima di tutto contesto di essere io, come sono certo gli altri, a negare la “libertà creativa”, almeno detta sic et simpliciter, cioè come principio generale, senza nulla aggiungere per chiarire e inquadrare il suo giudizio. Mi sembra che questo lei voglia dire.
La libertà creativa, come ogni libertà, trova un limite nel non procurare danni ad altri. E poiché la città è un insieme di spazio pubblico e spazio privato, dove per pubblico si intende tutto ciò che affaccia sullo spazio pubblico o è visibile a tutti, la legge prevede, per tradizione basata proprio su questo principio, il così detto decoro urbano. Vi sono cioè architetture, forme, facciate, edifici, quello che vuole, che come minimo è opportuno non offendano la sensibilità altrui.
Se questo principio lei rifiuta, io lo considero legittimo ma questo non l’autorizza a considerarmi un censore della libertà creativa. Lei può fare tutto quello che vuole, dentro casa sua, dei suoi amici, dei suoi clienti, e rimane sempre un rapporto privato uno a uno, ma anche in questo caso non può pretendere di fare una scultura e metterla dentro casa di un suo amico se a lui non piace. Ecco, con una casa in città è la medesima situazione amplificata n volte. Poiché non è ragionevole ogni volta che uno costruisce casa fare una assemblea popolare per chiedere se va bene o va male, sono intervenuti altri tipi di filtro: prima le commissioni d’ornato, poi le commissioni edilizie, poi le regole scritte, ahimè, e infine, praticamente niente in moltissimi casi. Mi lasci almeno il diritto di esprimere la mia opinione senza appiccicarmi l’etichetta di bieco oscurantista e illiberale.
Vengo ora tentare di rispondere a quel testo che ha citato. Lo faccio con difficoltà e a malincuore, forzando il mio istinto, che lei so deprecare, non in quanto mio ma in quanto istinto. Questo mi suggeriva fortemente di non arrivare in fondo e nemmeno a metà, ma ho voluto cercare di dominarlo, e l’ho letto. Pensando tuttavia, lo ammetto, che chi scrive in quel modo mi fa nascere il sospetto di non avere avere le idee molto chiare. Né giova pensare che le cose complicate devono essere espresse necessariamente in forma complicata, perché se è vero che Kant aveva un “linguaggio piuttosto arduo”, è altrettanto vero che è da considerarsi un divulgatore rispetto all’autore di quel testo, ed era Kant.
Poi credo di aver capito qualcosa, nonostante tutto, leggendo chi fosse Bianciardi, di cui ignoravo beatamente l’esistenza: un terapeuta. Allora mi è apparso tutto un po’ più chiaro e mi sono anche ricreduto perché si tratta di un linguaggio specialistico, di una specializzazione dai confini e dall’oggettività alquanto incerti, dove spesso le parole non sono solo il mezzo ma la cura stessa. Posso affermare che lei, dando per scontato che io sapessi chi fosse Bianciardi, e non credo proprio che fossi tenuto a saperlo, ha peccato di presunzione non provando nemmeno a…inserirsi nel contesto o almeno a spiegare di cosa si parlasse. Fortuna che c’è internet che aiuta.
In sostanza, mi pare, che contesto, evento, individuo ruotino intorno all’individuo, che è il soggetto agente (inter-relazionato con gli altri, lo so). Come è ovvio se si parla di aspetti legati ai comportamenti personali. E da quel poco che io possa capire, mi sembra, intuitivamente, molto chiaro l’esempio del mosaico e della tela. Ma il mosaico è più pregnante.
Continua.......
Parte 2
Ciascuna tessera, in sostanza, si relaziona direttamente con quelle accanto ma non vede, diciamo così, tutte le altre e non vede soprattutto il mosaico nel suo complesso. E infatti, come dice giustamente Bianciardi, il tutto è altro e di più della somma delle singole parti, delle singole tessere. Perfetto, esattamente come, ad esempio, nei nostri centri storici. Ma lo sa che sembra, dico sembra, che parli proprio di quelli? Se ci avesse pensato, Bianciardi avrebbe potuto anche usare proprio la metafora dei centri storici invece che quella delle tessere. Anche se riconosco che il mosaico è più comprensibile e immediatamente afferrabile.
Proseguiamo e veniamo alla conclusione del brano riportato. Direi che il cuore dell’analisi e la “conclusione”, sia questa: “Se il filo (tessera) sapesse ciò che fa, se potesse “vedere al di là del proprio naso”, tesserebbe (formerebbe) un tessuto (mosaico) senza vita, ovvero saputo, prevedibile, banale, scontato e senza storia. Allo stesso modo, se il soggetto potesse conoscere le conseguenze che il suo fare comporta all’interno delle relazioni ed entro i sistemi di appartenenza, la ‘storia’ sarebbe senza storia, in quanto la vita si caratterizzerebbe come lo svolgimento di una trama già scritta”.
Bene, io non so dirle se questa conseguenza che trae Bianciardi sia vera, anche se gli riconosco un certo fascino, ma so che non c’entra niente con il nostro caso per il semplice motivo che non è il nostro caso, parla d’altro, in sostanza. Direi che questa citazione è fuori contesto, fuori tema. Perché?
Perché qui ci si riferisce ad un soggetto, un individuo che opera in relazione con altri individui simili, così come ogni tessera del mosaico, pur diversa da ogni altra, ha la stessa essenza di tutte le altre.
Siamo cioè nel campo delle relazioni interpersonali o al massimo in quelle tra un individuo e il suo ambiente, dove però ciò che interessa sono gli effetti che gli altri individui o l’ambiente hanno sul nostro individuo in analisi (letteralmente). Nel nostro caso, l’architetto è inevitabilmente fuori dal contesto, lo vede, lo percepisce, lo coglie tutto insieme, lo osserva da fuori, non può fare finta di non vedere. O meglio, può, e lo fa infatti, ma solo per scelta volontaria. Ma comunque, anche se lo facesse, non sarebbe giudicabile in base a questo testo, perché appunto si parla di altro tipo di relazioni di genere diverso. Al massimo, ma proprio ad esagerare, per puro spirito salottiero e discorsivo, ciò potrebbe valere per l’artista il quale opera in un contesto individuabile anche con una clima culturale, un gruppo di persone del ramo (artisti, critici, galleristi, clienti) e allora potrebbe subire l’influenza proprio da quel contesto e innescare, ma lo dico tanto per dire, il processo creativo.
Continua.....
Parte 3°
L’architetto no, non è lui il centro dell’interesse, lui è il soggetto che esamina il luogo, che lo inquadra nei confini ad egli assegnati, lo inserisce in tutto ciò che gli sta intorno e sa che dovrà produrre un oggetto, altro e diverso da lui. L’architetto non è posto in relazione ad altri architetti suoi simili, ma entra in relazione con altro da sé, con un insieme variegato e multiforme di entità di essenza diversa (case, strade, persone, attività, tracce di storia, ecc) che possono essere analizzate e giudicate, entro certi limiti, in maniera oggettiva, molto più oggettiva rispetto a quanto avviene tra l’individuo tessera che è invece parte essenziale del mosaico insieme alle altre tessere. L’architetto deve risolvere un problema che non lo riguarda in quanto individuo (a meno che non progetti la sua casa), ma che lo riguarda in quanto specialista di quel determinato settore. Insomma, detta A la nostra tessera, le altre tessere saranno A1, A2, A3…..An; invece, detto A il nostro architetto, gli altri elementi in gioco saranno B1, B2…..C, D1, D2, A1, A2, …….E….
Si parla quindi:
- di un individuo che agisce entro un insieme omogeneo con eventi orizzontali tra gli individui ;
e
- di un individuo che agisce in insieme disomogeneo, con un evento (quello principale, il progettare) esterno all’insieme, diciamo verticale.
Per continuare nella metafora, l’architetto è colui che sceglie la tessera giusta da mettere nel punto giusto, e deve quindi non sbagliare, pur avendo la facoltà di modificare le tessere. Ma le tessere non modificano l’architetto.
Confesso che mi ha fatto molto faticare caro Lazier e io credo che, se anche non avessi colto tutti gli aspetti di quel testo, ed è sicuro che non li abbia colti ed anzi, le dirò (ma non parlo di architettura perché non c’entra), che se da un lato sono suggestivi quegli aspetti, dall’altro non mi convincono (ma forse anch’io li sto usando in maniera impropria) perché sono convinto che nel giudicare la realtà (politica, sociale, economica, ecc) è meglio starne fuori piuttosto che dentro – il distacco è spesso decisivo per capire meglio – se anche, dicevo, non li avessi colti tutti, spero che lei apprezzi lo sforzo che ho voluto fare per cercare di rispondere in maniera adeguata alla sfida che mi/ci ha lanciato con questa lunga citazione.
Cordiali saluti
Pietro
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