Cette-ci s’agit d’un pipe
Il Padiglione Italiano alla Biennale di Architettura 2012 – Common Ground
di
Ettore Maria Mazzola
Chi, stanco dell’architettura e dell’urbanistica degli ultimi decenni, abbia avuto modo di leggere l’articolo di Marco Vallora “Architettura: non è più tempo di "farla strana" – Venezia, la Biennale che si apre mercoledì alla ricerca di un «terreno comune» dopo gli eccessi delle archistar(1)” pubblicato su “La Stampa” del 27 agosto u.s., avrà gridato “ERA ORA!!”.
Tuttavia, non è tutto oro quello che luccica e, come si suol dire, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare … o forse la laguna!”
Nella sua Trahison des Images, René Magritte volle sottolineare la differenza tra un oggetto reale e la sua rappresentazione. Il suo obiettivo era quello di mettere in discussione la convenzione che lega ad ogni oggetto un nome(1).
Vi chiederete: ma tutto ciò che c’entra con la Biennale 2012? C’entra eccome … basta porsi un obiettivo opposto rispetto a Magritte, vediamo come.
Il curatore dell’ultima Biennale, David Chipperfield, nella presentazione del suo programma, disponibile on-line sul sito della Biennale, ha spiegato le ragioni, del suo slogan Common Ground (il sottolineato è mio):
«Common Ground, il terreno comune, ci incita ad ammettere quelle ispirazioni e influenze che dovrebbero, a mio avviso, caratterizzare la nostra professione. Questa locuzione serve inoltre a educare l’attenzione rivolta alla città, nostra area di competenza e attività, ma anche realtà creata in collaborazione con ogni cittadino e con i molti partecipanti al processo di costruzione. La disciplina dell’architettura implica problematiche diverse, spesso contraddittorie, ma sono convinto che abbiamo idee e visioni comuni confermabili per mezzo dell’architettura stessa. Common Ground ci invita a scoprire queste idee condivise partendo dalle nostre singole posizioni di differenza».
Questa Biennale, che ha luogo in un momento di grande preoccupazione economica a livello globale, ci dà la possibilità di riconsiderare da un diverso punto di vista i singoli, innegabili, conseguimenti architettonici che hanno contrassegnato l’identità degli anni recenti e di stimolare una più intensa valutazione dei nostri obiettivi e attese comuni.
Il tema della Biennale era una provocazione rivolta ai miei colleghi affinché dimostrassero il loro impegno in questi valori comuni e condivisi; li incitava ad abbandonare la presentazione monografica della loro opera per mirare invece a un ritratto delle collaborazioni e affinità presenti dietro al proprio lavoro. La grande energia e impegno con cui essi hanno aderito a questa iniziativa sono una testimonianza del loro proposito e una conferma di ciò che sappiamo ma non esprimiamo con sufficiente evidenza, ossia che nonostante la diversità dei nostri interessi, storie e idee, condividiamo di fatto un “terreno comune”. E ciò costituisce la base di quella che potremmo definire una “cultura architettonica”. Inoltre, è una piattaforma di partenza per il dialogo, il dibattito, l’opinione».
Nelle intenzioni, dunque, c’era finalmente l’idea di riportare l’architettura ad un livello umano, ad un livello di “valori comuni condivisi” … ottimo direi!
Tuttavia, nonostante le speranze di Chipperfield, a scuola ci hanno insegnato che, cambiando l’ordine dei fattori, il risultato non cambia.
Il limite di Chipperfield è infatti stato quello di invitare alla sua Biennale i soliti nomi, e le solite “scuole”, nell’ipotesi – vana – che una politica trasformista, di rattazziana memoria, applicata agli architetti ed alle scuole autoreferenziali, fosse sufficiente a cambiare il futuro dell’architettura d’autore(2).
In realtà, se si va a controllare i nominativi dei partecipanti, risulta subito evidente l’esclusione delle università “controcorrente” rispetto al sistema che Chipperfield vorrebbe combattere, così come risultano esclusi tutti quei progettisti che pongono al centro della progettazione il rispetto per gli altri piuttosto che l’ideologia personale …
Come mai, questa contraddizione? Probabilmente perché quei nomi e quelle scuole vengono ritenuti sconosciuti? Verosimilmente perché essendo sconosciuti (in quanto ignorati dalle riviste patinate sponsorizzate dall’industria edilizia) non avrebbero garantito il successo commerciale della Biennale?
… O magari perché il confronto sarebbe risultato devastante per la solita cricca?
Del resto, la Biennale di Architettura, da molti anni, dimostra essere nulla più che una insignificante vetrina dove esporre le merci prodotte dall’ideologia egemone a servizio della “cultura dell’usa e getta” … altro che la sbandierata piattaforma di partenza per il dialogo, il dibattito, l’opinione.
La notizia che a questa Biennale “non ci sarebbe stato spazio per gli architetti ma solo per le architetture” ha fatto scatenare la pletora di “parolai” in giro per l’Italia: “come si permette un architetto di organizzare una mostra di architettura … prerogativa riservata ai soli critici?”
Ma anche un certo tipo di architetti autoreferenziali ha tuonato: “Come si permette questo signore di mettere in discussione il ruolo dell’architetto?”
Tra le varie invettive contro questa Biennale ce n’è però una che merita d’esser presa in considerazione, ovvero il terzo punto debole della manifestazione evidenziato nella critica di Luigi Prestinenza Puglisi, punto che non solo risulterebbe condivisibile, ma addirittura degno di cornice:
«In un periodo in cui si fa fatica a distinguere il lavoro di un architetto da quello di un altro, una buona biennale avrebbe dovuto mostrare più le differenze che i punti di contatto. Oppure sarebbe stata ugualmente interessante se tali punti di contatto li avesse fatti emergere criticamente, mostrando per esempio come oramai la produzione delle archistar si sia omogeneizzata per il fatto che a produrre i progetti sono giovani che girano da uno studio all’altro e si sono formati in tre o quattro università di eccellenza (Architectural Association, Berlage, Columbia, Sciarch …) anch’esse frequentate dagli stessi professori. Dubitiamo però che ciò avvenga: è molto improbabile che un architetto appartenente al circo mediatico sia disposto ad attaccarlo frontalmente».
Peccato però che Prestinenza Puglisi non faccia capire più esplicitamente cosa intenda con quel “mostrare le differenze”, lasciandoci nel dubbio – legittimo – che quelle differenze reclamino il “famolo strano”.
Sebbene infatti risulti utilissimo mettere a confronto tutte le correnti esistenti in questo momento, è altrettanto vero che occorrerebbe fare maggiore chiarezza da parte di chi, nel suo ruolo di critico, abbia costantemente mostrato una posizione apertamente avversa nei confronti di chi proponga architettura e urbanistica tradizionale contemporanea … e non solo nei riguardi dei contemporanei. Alcuni anni fa, infatti, Prestinenza Puglisi pubblicò un articolo su exibart.it nel quale proponeva l’abbattimento del Museo di Arte Moderna di Cesare Bazzani al fine di “preservare l’Ala Cosenza”. La mancanza di obiettività di chi metta l’ideologia davanti alla realtà svilisce il valore delle parole che si dicono, facendo sì che si divenga sospettosi su ciò che si sostiene.
Ma veniamo all’oggetto di questo articolo: il Padiglione Italiano curato da Luca Zevi … un nome, un programma!
Nel suo progetto, Zevi ha sciorinato tutta la demagogia possibile affinché risultasse vincente. Lui, che nelle sue realizzazioni e progetti ha proposto opere mostruose, lontane anni luce da quel “common ground”, opere figlie dell’ideologia modernista e del consumismo applicato all’architettura, ha voluto far credere di essere indignato dall’attuale sistema sballato, (quello di cui lui è un degno rappresentante), ed è perfino andato a tirar fuori il “pensiero di Adriano Olivetti, col suo modo di fare impresa e di coniugare la cultura con il business” per rivendicare la “necessità che nel futuro dovrà essere il lavoro, e non la finanza, ad avere un ruolo centrale nello sviluppo della nostra civiltà e dell’architettura”
… In quale modo questo discorso si coniughi con l’edilizia industriale dell’esposizione è tutto da capire!
In pratica – nel puro stile che governa l’architettura ormai da decenni, o la politica più in generale – non occorre che tra le promesse e la realtà ci siano delle discrepanze macroscopiche, l’essenziale è parlare e far parlare di sé. Si deve parlare fino ad ubriacare di parole la “massa ignorante”. Per essere certi del successo è necessario crearsi una apparenza di impegno socio-ambientale, sbandierandolo ai quattro venti, possibilmente con parole arcane atte a creare un senso di inferiorità culturale nella massa ignorante in materia, sì da poterle ricordare il fatto che l’unica a poter parlare sia l’auto proclamata élite colta che, semmai, può abbassarsi ad istruire quella massa sul significato (inesistente) nascosto dell’architettura contemporanea.
In questo lavoro di apparenza, ovviamente non può mancare l’argomento “sostenibilità”, abusato a dovere anche nel caso del Padiglione di Zevi alla Biennale. Come di consueto, non occorre dimostrare fino in fondo se la proclamata sostenibilità risulti realmente tale, anche davanti all’evidenza del fatto che si tratti dell’ennesima presa per i fondelli nei confronti della gente comune obbligata a subire le scelte dell’élite colta degli architetti.
Nelle parole di Zevi si legge:
«E credo che nel messaggio di Adriano Olivetti vi sia un seme che dice che si può essere imprenditori producendo beni eccellenti, realizzando servizi qualificati e, al tempo stesso, facendosi carico dello sviluppo urbanistico. L'esperienza di Adriano Olivetti è diventata un modello di sviluppo in cui politica industriale, politiche sociali e promozione culturale si integrano nella proposta di una strada innovativa nella progettazione delle trasformazioni del territorio. Nella mia proposta non c'è nulla di nostalgico (NON SIA MAI IDDIO!!! n.d.r): per me Olivetti era un moderno per la sua capacità di progettare in funzione delle esigenze dell'uomo».
Se volessimo comprendere le ragioni – o perlomeno quelle che ci sono state raccontate – per cui sia stato scelto il progetto di Zevi rispetto agli altri, possiamo far riferimento al citato testo di Vallora pubblicato su “La Stampa”:
«Il segretario generale del Mibac, Antonia Pasqua Recchia, ha spiegato che il progetto di Zevi, tra le undici proposte che erano arrivate al dicastero, “Mette in relazione l'architettura con l'economia, la cultura con le imprese e abbiamo pensato che in un momento così delicato per il paese si dovesse fare qualcosa di più di una semplice esposizione. Il Made in Italy del Padiglione Italia - ha osservato Recchia - tornerà quindi alle sue radici, agli anni del boom economico, di un momento storico particolarmente positivo per l'Italia” ».
Quanta retorica c’è dietro queste parole? E dove sarebbe il Made in Italy in una mostra che espone il piattume universale del fare architettura, specie in Italia?
E poi, in un momento in cui l’industria italiana (incentivata dallo Stato) va a produrre all’estero, dimenticando per strada i nostri operai perché troppo costosi, non si dovrebbe puntare sul recupero dell’artigianato locale?
Inoltre, in un momento in cui i problemi ambientali sono quello che sono, non si dovrebbe puntare su un’architettura a chilometri zero, prodotta con materiali locali realmente rispettosi dell’ambiente?
C’è quindi da restare sconcertati davanti all’assenza programmata di quegli architetti e quelle università che avrebbero potuto realmente mostrare un’altra via, più sostenibile, per produrre un’architettura che non solo possa raccontare il Made in Italy, ma anche il Made in Lazio, Made in Veneto o Made in Sicily.
Il pezzo pubblicato su “La Stampa” – indipendentemente dal fatto che all’autore sfugga la menzogna nascosta dietro i proclami della Biennale 2012 – merita comunque di esser letto, specie per la naturalezza in cui si prende gioco del fare architettura odierno, arrivando a citare un «no xè ghe ne podeva pì» (non se ne poteva più) di goldoniana memoria.
Purtroppo, le buone intenzioni sono disattese e, a meno che non si voglia ribaltare il programma di Magritte, affermando che un oggetto qualsiasi possa essere una pipa … PERCHÉ LO DICE L’ÉLITE COLTA! … dobbiamo ancora una volta registrare la pochezza della Biennale di Architettura di Venezia che, arroccata sempre sulle stesse posizioni e gli stessi personaggi, non riesce a dirci nulla di nuovo, se non che l’élite colta è dura a morire. Finché nomi e scuole di pensiero resteranno sempre gli stessi, finché l’ideologia verrà considerata una spanna sopra quegli sbandierati valori comuni e condivisi, finché si dovrà – come Zevi – sottolineare di non essere nostalgici, perdendo l’occasione per imparare dai successi e dagli errori del passato, non ci sarà alcun futuro.
Note:
1) «Chiunque di noi alla domanda "Che cos'è?" risponderebbe "È una pipa". In realtà non lo è, ma è la rappresentazione di una pipa. L'equivoco è dovuto alla convenzione che lega a ogni oggetto un nome. Per evidenziare la rottura delle convenzioni egli scrive "Questo non è una pipa". Ovvero: tutto il quadro, immagine e didascalia, non sono nell'ordine delle cose bensì della rappresentazione. Linguaggio denotativo ("questa è una pipa" sul cartiglio che di solito la rappresenta per esempio a scuola per i bambini che imparano a leggere e scrivere) e metalinguaggio (i cartelli che indicano le cose non sono, in effetti, quelle cose: questo, ceci in francese e non "cette-ci" come sarebbe corretto) convergono e si appiattiscono nel quadro, costituendo un paradosso comunicativo che rientra tra quelli considerati dalla teoria del "doppio vincolo", elaborata per comprendere le cause delle patologie comunicative. Esempio antico di tali paradossi, ma solo verbali: "vietato vietare", oppure "io mento sempre" (paradosso del "mentitore cretese"). Il messaggio che il dipinto ci trasmette è di tipo filosofico e invita alla riflessione sulla complessità della comunicazione umana e dei suoi codici, verbali e non verbali» (cfr. http://it.wikipedia.org/wiki/La_Trahison_des_images).
2) I partecipanti sono quelli riportati in questo link: http://www.labiennale.org/it/architettura/mostra/partecipanti/
1 commento:
caro Pietro,
grazie per la tua consueta ospitalità e prontezza!
Ciao
Ettore
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