Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


18 giugno 2012

KOOLHAAS L'IMMOBILISTA

Le città cambiano ed è impossibile arrestare il processo in quanto la città è un organismo e come tale nel tempo, inevitabilmente, cambia”. Farei mia questa frase, la sposerei come si dice, se non fosse uscita dalla bocca e dalla mente di Rem Koolhaas , e allora è necessario ricorrere al pregiudizio in base al quale le parole non hanno sempre un significato oggettivo ma assumono significati diversi in base a chi le pronuncia. E’ un fenomeno abbastanza noto in politica che puntualmente si ripete.

Analizziamo la città-organismo, nella versione di Koolhaas. Questi si appella alla città come organismo per giustificare il suo progetto al Fondego dei Tedeschi a Venezia, accusando implicitamente gli oppositori di quel progetto di essere immobilisti e conservatori. Artificio retorico molto abile ed efficace perché utilizza un argomento proprio della tradizione per far passare l’idea di un progetto che invece la nega.
Mossa doppiamente abile, in quanto la sua metafora fa ricorso ad un attributo che effettivamente un organismo vivente possiede - e la città con i suoi edifici è un organismo vivente - vale a dire quello della “crescita”, facendo però ben attenzione a tacere l’altro fondamentale attributo, cioè quello del “modo” in cui ogni organismo cresce.

La natura ha previsto determinate regole per ogni specie, animale o vegetale, in base alle quali, ad esempio, un uomo nasce in un determinato modo e poi cresce formalmente uguale a se stesso ma con proporzioni e dettagli del tutto diversi. Poi ci sono specie che hanno un’altra storia, quali la metamorfosi, ma tutte hanno comunque un cambiamento prestabilito. Esistono poi variazioni e modificazioni significative così come esistono le malattie, anch’esse da considerare naturali ma tuttavia da debellare in quanto considerate “patologia” e non “fisiologia”.

Il progetto architettonico, e quindi il suo prodotto, l’edificio, appartiene in qualche misura alla natura in quanto opera dell’uomo, non come espressione di una legge, con tutte le sue eccezioni, non come prodotto di combinazioni genetiche in cui sta scritta, in buona misura, la storia futura di un organismo, bensì della sua volontà, del suo pensiero, dei suoi bisogni, della sua libertà di scelta come singolo individuo o come collettività. L’edificio quindi cresce, e deve crescere, anche nel senso di trasformarsi, al pari un organismo, per dare risposta a stimoli, necessità e scelte dell’uomo e della collettività.

Detto questo si potrebbe dunque dedurne che se la volontà dell’uomo, le condizioni esterne della società, la libertà di scelta, detto in una sola parola: la sua cultura è l’elemento caratterizzante la crescita di un edificio, è l’uomo stesso e non la natura direttamente a decidere, e questa scelta potrebbe essere dunque indifferentemente una crescita armonica e senza soluzione di continuità oppure una crescita dissonante e di rottura con ciò che esiste, questo in base a diverse scelte, culturali appunto, variabilida soggetto a soggetto. Ed effettivamente è così che avviene ed in maniera intensiva e diffusa da almeno un secolo, e Rem Koolhaas fa appello proprio a questo metodo di crescita dell’edificio di Venezia, che trova la sua ragion d’essere nella libera scelta del progettista, nella sua “sensibilità” e creatività, nel suo capriccio in fondo.

Prima della rottura del novecento non era questo il metodo di crescita degli edifici e della città. La città e gli edifici che la compongono crescevano con forme e metodi costruttivi determinati in massima parte dalla “coscienza spontanea”. Scrive Gianfranco Caniggia in Lettura dell’edilizia di base, Alinea Editrice:

Al confronto con altri comportamenti non antropici, nel campo della biologia o della struttura della materia, possono notarsi sorprendenti analogie. Riteniamo che ciò non debba stupire poiché l’uomo non è “altra cosa” dal mondo della natura, non ne sta al di fuori: il suo modo di organizzare l’ambiente è sostanzialmente fondato sui medesimi presupposti e sulle medesime leggi che governano i processi biologici unitamente ai processi di progressiva formazione e mutazione della materia. In sostanza , quando l’uomo agisce, si assume il carico di partecipare al sistema di globale del divenire di tutta la struttura del reale, quindi è intrinsecamente “naturale” anche quando attua le sue strutturazioni dotate di un alto grado di “artificialità”: lavora sulla materia che esiste, e non può che aderire, anche se non lo sa e non lo vuole, alle leggi formative della natura”.

Ecco, il punto è questo: Koolhaas non aderisce “alle leggi formative della natura”. O meglio, vi aderisce (nessuno può sfuggire a questa regola, anche se lo volesse), ma alle leggi del genere “malattie” o “virus” come li chiama Nikos Salìngaros, di qualcosa di estraneo o anomalo alla legge della crescita di un organismo.
Lo spiega bene proprio Nikos Salìngaros in Anti architettura e Demolizione, LEF, 2008:

Gli scienziati non sono ancora giunti ad un accordo definitivo sulla reale essenza della vita, tuttavia vi è un crescente consenso sulla natura dei processi che ne costituiscono il fondamento. Alcune delle caratteristiche salienti sono:
1) La vita è imperniata su connessioni e trame.
2) La vita è una “complessità organizzata”, una potente miscela di regole e contingenza, ordine e spontaneità.
3) La vita non può essere definita mediante equazioni matematiche tradizionali ceh pretendono di dare “una risposta”; ma è qualcosa di più che una rivelazione, paragonabile all’azione espletata dal programma di un computer.
4) La vita è un algoritmo genetico che crea e sviluppa complessità organizzata durante l’apprendimento.
5) E la vita non è soltanto complessa, ma – in modo ancora più misterioso, forse – è ordinata, mostrando una gamma di simmetrie davvero ampie
”.

Oggi è l’architetto, cioè un solo soggetto, che decide come la città deve crescere, ma prima era la comunità, come somma di singoli individui, a decidere. A questo proposito riporto, proprio su Venezia, un passo dalla relazione al concorso “Ridisegnare Venezia”, di G. Caniggia, messo gentilmente a disposizione in rete da Giancarlo Galassi:

La chiave della vitale complessità, e della duttilità del costruito veneziano sta nel suo processo formativo: nell’edilizia autenticamente di base e non in quella progettata. Non è lecito confondere: il “progetto” che “dietro i palazzi”, e, aggiungiamo, prima dei palazzi ha conformato Venezia è un grande evento collettivo, una illimitata schiera di “vite edilizie” che nello spazio di più di un millennio si è esercitata nella costruzione della città: progetto che è lontano dal piccolo numero di unità unitariamente progettate, quanto il progetto che ha fatto Roma è lontano dall’Esquilino o dal Testaccio, che ne sono una mera proiezione inficiata da intenzionalità devianti.
Di qui il nostro modo di intendere il “progetto come processo”, che vogliamo esercitare rivolgendoci alla rilettura critica della processualità di formazione-mutazione del costruito veneziano. Accettando il paradosso evidente, consistente nell’interpretare l’atto simultaneo del “progetto” per la Giudecca come prodotto di una successione storica di un costruito mutante, servendosi della “simulazione del processo” sia nell’assetto del tessuto che nel progressivo raggiungimento del costruito. E’ ciò che intendiamo col motto “progetto come processo”: attraverso la simulazione del processo cerchiamo una garanzia di connessione con un tessuto urbano derivato da un lungo processo di mutazioni che (nella misura in cui saremo riusciti a capire criticamente la successione di fasi e i caratteri determinanti e quindi nei limiti delle nostre capacità di approfondimento della lettura di ciò che è realmente avvenuto) chiamiamo a guidare il nostro progetto
”.

Koolhaas potrà dunque progettare come vuole, potrà fare tutti i gesti che desidera, la sua libertà di scelta glielo permette, ma di certo non solo non stabilirà alcuna “connessione” con ciò che esiste (e questo non lo desidera nemmeno) ma avrà determinato una crescita anomala e malata dell’organismo originario, avrà cioè prodotto una patologia.

Quindi non c’è immobilismo nella tradizione e nel rispetto dei caratteri originari dell’edificio. Non so se il Fondego sia adatto ad una attività commerciale, ma suppongo di sì - e forse è anche utile un riuso prima che l’edificio decada per abbandono – perché, citando ancora Caniggia:

Occorre infatti ricordare sempre che l’edilizia può avere una durata indefinita, e la sua corrispondenza ad esigenze attuali non deve impedire il progressivo adattamento al mutare delle condizioni civili”.

Non sarà immobilista invece l'atteggiamento di Koolhaas e di tutti quelli come lui che hanno una sorta di coazione a ripetere gli stessi schemi, gli stessi atteggiamenti ovunque e comunque, senza un minimo di lettura ed interpretazione del corpo vivente in cui operano?

8 commenti:

enrico ha detto...

volendo estendere la metafora dell'organismo, si potrebbe far notare che il rinnovamento dei tessuti e delle cellule tende ad avvenire nella continuità. E quando il neo-tessuto è troppo differente dall'originale si parla di neo-plasia; che significa cancro.
In linea generale ci si aspetta che i tessuti neoformati vadano a sostituire quelli "dismessi"; Anche negli organismi come le lucertole, dove la ri-generazione è proverbiale, tutti ci aspettiamo che all'animale mutilato ricresca un arto, o la coda, propria della specie di partenza. sarebbe a dir poco bizzarro che ad una lucertola crescesse una neo-zampa di...giraffa !
Poi, ci sarebbe il problema delle protesi e dei trapianti.
Un cuore mal funzionante può, fino ad un certo punto, essere sostituito da una macchina cuore-polmone; o da un cuore artificiale, più o meno miniaturizzato, esterno o interno alla gabbia toracica. Soluzioni funzionali, per un breve periodo, utili a salvare unavita; ma non proponibili come "soluzione".
Poi c'è il trapianto, che può essere allogenico, cioè con organo di altra specie, o da uomo a uomo. Meno differenza c'è tra donatore e ricevente, meglio vanno le cose; meno è forte il rigetto; più ata la probabilità di una vita quasi normale.
Poi... ci sarebbe la prospettiva delle medicina ricostruttiva da cellule staminali. Da cellule primordiali "dello stesso paziente" si riesce, sotto opportuni stimoli, a far ri-nascere un tessuto identico a quello "vero". Avviene già con la pelle, con le vene, e non è molto lontano, a livello teorico, il momento in cui sarà possibile anche per strutture più complesse. Un cuore così costruito, sarà in pratica una copia conforme dell'originale.
Certo, se a uno piace un modello vetro/cemento/alluminio, ceh si veda bene che è una aggiunta o una riparazione, potrà restare attaccato al cuore artificiale...

Anonimo ha detto...

la metafora antropomorfa, suscitata probabilmente dall'articolo di Tagliaventi del post precedente, per quanto congrua ed affascinante, mi sembra venga strumentalizzata ad interpretazioni non del tutto corrette.
La metafora dell'organismo vivente ripresa da Enrico origina dall'ideologia rinascimentale (non a caso gli antichi trattati associano agli edifici l'iconografia del corpo umano), secondo la quale ogni realtà viene parametrata alla struttura del corpo, poiché l'organismo architettonico si pone in diretto rapporto proporzionale con la fisicità dell'uomo che lo deve abitare. L'edificio è concepito a misura d'uomo, dall'uomo per l'uomo, sulle reali misure dei suoi arti, del suo passo, del tatto, della vista …. su quello che Pietro chiama fisiologia, nè potrebbe essere altrimenti.
Ma il progetto architettonico, come scrive Pietro, è anche figlio della cultura umana, quindi, se vogliamo continuare con il paragone antropomorfo, come l'uomo è figlio di una evoluzione non solo biologica, ma anche ed appunto culturale, imputabile alla copiatura di un DNA che si potrebbe definire comportamentale: questo tipo di evoluzione privilegia, come quella biologica, l'individuo più adatto all'ambiente, portatore di idee in grado di ottimizzare le possibilità di sopravvivenza della generazione che le ha ricevute e che a sua volta potrà trasmetterle (teoria del meme di Richard Dawkins).
E' l''evoluzione culturale che in architettura interviene nelle scelte di carattere 'non fisiologico' (soluzioni planimetriche o architettoniche o urbanistiche o stilistiche o simboliche o decorative), essa, come quella biologica, opera per salti (natura facit saltus!), non è finalistica, facilita o elimina i cambiamenti, genetici o culturali, spontaneamente generati dal caso, è opportunistica e garantisce la sopravvivenza solo agli individui più adatti.
Insomma, il processo selettivo che modifica il mondo nel tempo è molto più vario, imprevedibile, divertente, affascinante di come viene proposto nello schema prestabilito tracciato da Pietro, i cambiamenti, fisiologici e culturali, sono una sfida che il genoma lancia all'ambiente, fisiologico e culturale, perché vinca non il migliore, ma il più idoneo al momento.
Questo dovrebbe farci vivere la vita e la storia con curiosità, forse con un pò di timore, con incertezze, dubbi, aspettative, senza dar per scontato che tutto debba procedere entro binari già tracciati e come prevedibile continuazione del già accaduto.

Forse la 'rottura del novecento' è stato un 'saltus' della continuità e della 'connessione', come probabilmente ne sono già avvenuti molti in passato anche se noi non ne abbiamo conoscenza e memoria, forse potervi assistere è un privilegio insperato del quale dovremmo rallegrarci se, come afferma Luigi Luca Cavalli Sforza, “mentre le novità genetiche, cioè le mutazioni sono casuali, quelle culturali sono dirette a scopi precisi, di solito benefici……..".

Con ciò, non voglio dire che Koolhaas sia una benedizione, ho volutamente affrontato solo la questione di principio, come in genere mi piace fare, cercando di inquadrando il fenomeno architettonico entro uno schema più ampio che parta dall'uomo non in quanto artefice-utente dell'architettura, ma in quanto uomo.

Saluti
Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Difficile per me risponderti Vilma. Le tue provocazioni intellettuali sono stimolanti ma difficili. Mi hai fatto pensare, per analogia con quello che hai scritto, a Bruno Zevi e alla sua fantasiosa teoria di tipo psicanalitico sulla simmetria e sulla asimmetria: sembrava vera per quanto aveva una sua logica interna. Detta oggi, dopo quel bagno di psicologia d'accatto che ci ha pervaso attraverso i media, credo che non avrebbe avuto molto credito.
E naturalmente non tutto ciò che è logico è necessariamente vero, però ha fascino, ed è difficile da smontare dovendo dimostrare ciò che è indimostrabile. Ovviamente è anche indimostrabile il suo opposto, cioè l'assunto iniziale, basato su un'affermazione di tipo quasi mistico che, per definizione, è esperienza non trasmissibile e appartiene al mondo esclusivo di colui che prova quella esperienza. Finisce che si trovano ad opporsi due posizioni, anzi due prese di posizione, contrarie ma preconcette.
Forse lo è anche la mia, che non è proprio mia ma appartiene a figure di ben più alto spessore, però un fondamento sul reale c'è e gli studi di Caniggia sulla crescita e l'evoluzione della città lo mostrano abbastanza chiaramente.
Se è vero, in linea di principio, che non tutto ciò che è avvenuto sia necessariamente giusto e quindi non vi è nessun obbligo di continuare sulla stessa strada, non c'è dubbio, tuttavia, che è altamente probabile (che significa quasi certo) vi siano motivazioni profonde a fondamento di quei comportamenti. Mi sembra una strada certamente più rassicurante, ma anche l'esperienza del suo opposto, cioè dell'ultimo secolo, dovrebbe aver convinto dei pessimi risultati conseguiti e quindi a cambiare metodo. E non è che gli ultimi anni siano migliori del recente passato, dato che quanto a stranezze non ci siamo fatti mancare niente.
Ciao
Piero

enrico ha detto...

il mio discorso, un po' paradossale, era solo per andare dietro alla metafora, proposta da R.K.
Personalmente non mi trova d'accordo, se non in un senso molto vasto; che è forse quello di Vilma.
Per fare un esempio, non vi è dubbio che, se negli edifici storici" dei nostri centri urbani, il piano "nobile" era di norma il primo, dopo l'introduzione dell'ascensore di sicurezza, è stato giusto e ragionevole, dare maggior pregio ai piani alti e agli attici.

Anonimo ha detto...

L'osservazione di Enrico mi pare pertinente ed intuitiva, la tecnologia è un potente motore propulsore dell'evoluzione culturale della specie, non in sé stessa quanto nella sua veste di mezzo attraverso il quale mettere in atto il cambiamento.
Non è necessario giudicare se ciò che la tecnologia rende possibile è bene o male in assoluto, certo è ciò che serve in quel momento per mettere in atto quello che la specie ritiene utile per una persistenza ottimale nell'ambiente: secondo Pietro questo si otterrebbe con la continuità con quanto già sperimentato, secondo altri con una frattura da esperienze obsolete che devono e possono essere abbandonate, ed è quello che fa il '900.

Banalmente, se Elisha Graves Otis non avesse inventato l'ascensore per uso non industriale rendendo possibile un'architettura abitativa multipiano, non ci sarebbe stata una radicale rivoluzione delle tipologie distributive, degli schemi gerarchici della progettazione, del mercato immobiliare, e forse non esisterebbero né Manhattan né la tipologia 'condominiale' che ha accompagnato il fenomeno dell'inurbazione dell'ultimo secolo.

Risparmio a Pietro la disamina dei risvolti psicologici di ciò che rappresenta la conquista dei piani alti, ma non resisto alla tentazione di una piccola autocitazione:
http://www.artonweb.it/pillole/articolo18.htm

Saluti
Vilma

Qfwfq ha detto...

riassumerei il commento di Vilma:
"Caro Pietro, tutto può essere, dipende dalla metafora che decidi di applicare".
L'importante è non commettere l'errore di pensare le metafore guidino tutto, cioè a non scambiare la metafatora (e la sugestione che in genere si porta dietro) con la verità.
La metafora non è che una semplificazione per spiegare solo una parte (infinitesima e incompleta) di quel tutto che è la realtà; tendiamo retoricamente a voler spiegare la città ricorrendo ad espedienti e similitudini che ci semplichino il discorso ma alle volte ci lasciamo (tutti quanti) prendere un po' la mano.
Non dovremmo fare confusione, la metafora deve servire ad illustrare e rappresentare un pensiero o una verità che in qualche modo ci siamo curati di dimostrare prima; se facciamo il contrario, cioè se utiliziamo la metafora come elemento fondante della nostra dimostrazione, se mettiamo quella sugestione arbitraria che è l'immagine metaforica, come un postulato a sostegno di tutta la nostra tesi, rischiamo di cadere nella mistificazione.
Inseguendo questa mistificazione si finisce in discussioni senza soluzione buone solo se l'interlocutore è un mass media, notoriamente disattento alle sfumature.
Un esempio di questa illusione mistificatoria è dato dalla linea di pensiero che associa l'architettura al linguaggio: il che può essere accettabile entro determiniati confini interpretativi ma non lo è nel momento in cui si ricerca di ampliare il perimetro interpretativo.
L'architettura infatti si può interpretare come un linguaggio ma non è un linguaggio; allo stesso modo la città si può interpretare come un organismo vivente ma non è un organismo vivente.
Vi è inoltre un altro errore di fondo che tende a conferire a determinati meccanismi interpretativi una validità immanente ed indipendente dalle mutazioni epigenetiche che subisce una società nel corso degli anni. Si tratta dell'errore che porta a sostenere che una interpretazione considerata valida o sufficientemente approssimata alla realtà da interpretare, si debba e si possa considerare valida permanentemente e quindi applicabile sempre in tutte le epoche; un po' come se (e qui casca la metafora) avendo utilizzato con successo un vocabolario di latino per interpretare Cicerone ci volessimo incaponire a utilizzare lo stesso vocabolario per leggere Dante o Steve Jobs.
In tutto questo sbaglia Rem Koolhaas a sostenere che la città sia un organismo soggetto a cambiamento per giustificare il proprio intervento; se non altro perchè questo dovrebbe come minimo significare che lui stesso è la città, o che la città si identifica in lui; il che sarebbe una grande boiata.
Quello che in realtà è soggetto al cambiamento non è la città ma la società stessa che la abita e che la usa; e poichè la società cambia ed è tuttora soggetta ad un cambiamento epocale (secondo dinamiche tuttora non chiaramente intellegibili) la città appare malata e soggetta a fenomeni patologici.
Ma la storia e l'evoluzione sociale ci ha insegnato che quello che un tempo ci è sembrato estraneo e patologico, oggi appare naturale e scontato; per cui forse queste patologie cognitive, questi corpi estranei del pensiero culturale, altro non sono che innesti necessari per garantire il funzionamento e la vitalità della città stessa (o meglio della società che in essa abita); forse ancora ci manca il giusto codice interpretativo, perchè non siamo ancora stati in grado di scoprirlo, ci mancha quella chiave di lettura che ci permetta di leggere e interpretare come un unicum organico quelle architettura che oggi ci sembrano semplici innesti o contaminazioni estranee all'organismo urbano.

Pietro Pagliardini ha detto...

Qfwfq, sono purtroppo troppo stanco per rispondere sullo stesso tuo registro. Soffro di pressione bassa (meglio bassa che alta, tuttavia) e l'estate, anche se mi piace molto, non mi è di aiuto.
Risponderò non con una metafora ma con....una parabola, che è in verità un esempio banale che tuttavia credo sia molto pertinente. Un nostro collega, Danilo Grifoni, sostiene che l'architettura e la città sono la somma di tante piccole scelte. Una di queste è l'altezza del piano terra degli edifici.
Dalle nostre parti, ma credo anche altrove, e credo grazie o per colpa, secondo i punti di vista, alla Legge 457/78, i piani terra, se non destinati a residenza, hanno, devono avere, un'altezza non superiore a m 2,40. Questo perchè, essendo destinati a garage, non devono essere "abitabili".
Questa scelta, prima imposta, poi divenuta costume, e quindi accettato acriticamente, oltre che una manifestazione di sfiducia nel cittadino, nel senso che si dà per scontato che egli potrebbe usarlo domani per altri scopi (residenza, laboratorio, residenza addirittura), è anche una stupidaggine e un errore perchè condanna quell'edificio ad essere immutabile, inutilizzabile nella realtà (non per legge), dato che l'altezza di 2,40 è realmente molto bassa. Un piano terra alto almeno 3 metri, se non di più, permette invece all'edificio, e quindi alla strada, alla città, di modificarsi nel tempo, perchè le funzioni cambiano, ma l'edificio resta.
Una parabola, dicevo, la parabola del piano terra, ma direi meglio la parabola della trasformazione e del cambiamento in base al quale un edificio ben progettato non necessita di grandi modificazioni per adattarsi alla realtà che cambia. Invece Koolhaas pensa il contrario: cambiare l'edificio per adattarlo alle sue esigenze e a quelle del committente. Che facesse uno sforzo e vedrà che quel palazzo sarà capace di accogliere un bel negozio e se anche ci vuole mettere dell'altro, tanto per marketing, non dubiti, accoglierà anche quello.
Per l'appunto mi sto cimentando proprio in questi giorni in un tema analogo, su un edificio vincolato da trasformare in parte a commerciale. Non sono solo e abbiamo diversi pareri. Mi rendo conto delle difficoltà, niente è semplice. Ma se prima non si prova nemmeno a leggere ciò che c'è, diventa impossibile interpretarlo e il progetto si sovrappone e giustappone all'edificio e tutto si riduce ad una bella pensata, ad una auto-rappresentazione di se stessi.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Non è un caso che molti architetti contemporanei trovino la base teorica del loro pensiero nel concetto di architettura come linguaggio, lo fa il decostruttivismo, che si appropria di una procedura che Derrida applica al linguaggio in quanto struttura repressiva di una libertà accessibile solo attraverso la sistematica demolizione del logocentrismo. Dietro questo alibi, il decostruttivismo smantella le relazioni gerarchiche fra le varie parti architettoniche, prigioniere di una precostituita armonia che le organizza con stabilità, continuità e coerenza, instaurando un azzardato ed improbabile paragone con un modello filosofico-letterario impropriamente derivato da una teoria sulla decostruzione del testo: lo stesso Derrida è piuttosto tiepido su questa operazione dalla quale prende cautamente le distanze.
Ciò vuol dire che l'architettura non si può interpretare con le regole del linguaggio del testo 'letterario', ma non che non sia organizzata secondo un linguaggio proprio: essendo, come l'arte, una forma di comunicazione, se non si avvalesse di un linguaggio, di un codice, il suo significato non sarebbe, appunto, decodificabile
La metafora, transfert che sposta un significato in un altro, è espediente sempre più presente nell'architettura moderna, Antonino Saggio parla di progressiva "tendenza alla metaforizzazione ", ed è vero che, almeno in alcuni casi, la metafora diventa da mezzo il tema stesso dell'opera: Gehry evoca la metafora del pesce per esprimere la sua idea di struttura guizzante e sgusciante, o del cavallo in corsa sulle colline di Elciego (le strutture rotolanti del Marques de Riscal) o della testa equina che custodisce in un simbolico capo la sala riunioni della Dz Bank di Berlino, ma la sua architettura prescinde da questi significati perché il potere iconico della metafora prevale su tutto. La metafora si basa sull'immagine generata dal potere immaginifico del pensiero, ci sono teorie bio-genetiche che sostengono sia stata proprio la capacità di metaforizzazione, prettamente umana, ad aver dato l’avvio all’evoluzione del cervello e dell’intelligenza della nostra specie (Richard Dawkins, Unweaving the Raibow, 1998). Nella sua 'arbitrarietà', la metafora può divenire essa stessa significato da significante, grazie ad un potere persuasivo occulto che ce la fa percepire in modo acritico, automatico, inconsapevole e subliminale, percorrendo circuiti cerebrali percettivi ed emozionali che non coinvolgono le regioni deputate al controllo cosciente e alla interpretazione razionale.
La metafora è, oggi, per restare nella 'metafora' del linguaggio, la 'scrittura' dell'architettura in un mondo che procede per proiezioni, simulazioni, interconnessioni, virtualizzazioni, il nostro computer ci parla attraverso metafore (scrivania, cestino, cartelle ecc.), l'arte, la pubblicità, le occasioni di metaforizzazione pervadono la nostra vita, supportate dalla nostra capacità di produrre immagini mentali assai più facilmente dei processi logici.
Se ieri l'architettura aveva come riferimento la macchina e la tecnica e metteva al centro del suo essere architettura il corretto funzionamento, oggi, che lo si dà per scontato, non basta più un'architettura corretta e funzionale, pretendiamo che sia anche in grado di fornire informazioni, che sia "forma che informa", che comunichi, rappresenti, coinvolga, che abbia una forte carica simbolica, che sia retorica. Con l'arrivo della "terza ondata" l'architettura si fa metafora per dirci altro, perché oggi, dice Jean Nouvel, "l'architettura deve significare, comunicare, raccontare; deve rivolgersi più all'anima che alla vista ".
Non è mistificazione né semplificazione, è una nuova chiave interpretativa dell'essere al mondo.
Forse l'affermazione di Koolhaas è stata un pò brutalmente estrapolata (e strumentalizzata), forse è utile rileggersi il suo 'Junkspace'
Vilma

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