Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


1 giugno 2011

GREGOTTI A MEZZO DEL GUADO

Dall’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, un breve brano tratto dal capitolo XII, Periferie. A seguire un commento.

La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale, connessa anche al tentativo di industrializzazione dell’edilizia come ripetizione estesa “product-oriented”. A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie, trasformazione che per attuarsi deve però passare attraverso un progetto complessivo della specifica parte urbana; cioè oltre che attraverso il completamento efficiente dei servizi e dei trasporti, con la presenza di attività diversificate e di funzioni rare che mettano in relazione obbligata la parte con il resto della città. Tutto questo con una modificazione morfologica che restituisca il senso del tessuto urbano e della prossimità fisica tra le parti (il caso del nuovo piano di Roma fondato sull’idea della costituzione delle 9 centralità nelle periferie ne è un esempio). E’ necessario predicare, diversamente dall’igienismo sociale della prima metà del XX secolo (sospinto anche dalle condizioni di abitabilità inaccettabili dei quartieri operai del XIX secolo e dalla connessione tropo diretta abitazione-lavoro), la mescolanza compatibile di funzioni, di strati sociali, di usi, di servizi collettivi di qualità, cioè dei materiali costitutivi della città storica estesi in modo nuovo alla periferia urbana.

Naturalmente contro tutto questo si costituiscono come difficoltà da un lato il neofunzionalismo immobiliare, che tende a selezionare la destinazione delle aree in funzione del reddito, dall’altro il desiderio di selezione sociale e di difesa dal diverso da parte degli architetti. Di qui l’interrogativo intorno a quali regole morfologiche l’organizzazione di tale periferia possa produrre, quali spazi tra le cose costruite, quali servizi e attività siano ad esse organiche, quali gerarchie, quali compatibilità con le nuove funzioni e relazioni; in che modo, e se, la relazione con la geografia e la storia emerga come identità non deduttiva ma riconoscibile dagli stessi cittadini oltre che dagli architetti. Una concezione quindi della periferia della grande città capace di utilizzare anche la propria posizione e la propria ricchezza di infrastrutturazione accumulata (un modo anche di estendere il principio della ricostruzione della città sulle proprie tracce) costruendo un insieme di centralità dotate di alta mescolanza sociale e funzionale per l’intera città e capaci di articolare e fornire di servizi le distese abitative che già si sono accumulate negli ultimi due secoli. Centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano, cioè di qualità degli spazi tra le cose oltre che nella qualità dialogante delle cose stesse costruite, e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le parti”.

Che dire? Bene, benissimo, in specie la prima parte. La seconda è più tortuosa, involuta e tipicamente gregottiana: problemi in campo non tutti chiaramente comprensibili, affermazioni che lasciano intendere anche altro possibile, propalazione di molti dubbi lasciando intravvedere risposte che lui saprebbe dare ma che non sembra voler dire. In particolare mi sembra incerto, fumoso e soprattutto datato l’interrogativo sullo spazio “tra le cose costruite” con “centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano……e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le sue parti”. Periodo faticoso da leggere tutto d’un fiato e molto acrobatico, tanto per non parlare della strada, che è il vero “spazio tra le cose costruite”, anzi è la strada che genera le cose costruite. Insomma mi sembra un modo per eludere la realtà dello spazio urbano.
Ma l’analisi delle periferie è giusta e il rimedio che viene proposto condivisibile e necessario.

Ciò che mi sembra a dir poco lunare è il fatto che “La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale”.

E’ lunare l’affermazione che sarebbero cinquant’anni che si è scoperto che la periferia è figlia della separazione, e però è dagli stessi cinquant’anni che si continua con la separazione. Perbacco, com’è andata? L’hanno forse scoperta nei laboratori di ricerca dell’università e non ce lo hanno detto? L’hanno tenuta così segreta questa scoperta che, per non farla trapelare, lo stesso Gregotti nei suoi piani, vedi il PRG di Arezzo del 1987, vigente fino a 10 giorni fa, ha continuato nella separatezza più assoluta, nella rigida zonizzazione, sia nelle carte di piano a retini con le zone omogenee, sia nella normativa, e pure nei Piani-Progetto, numerosi, allegati al piano e ampiamente documentati, in cui avrebbe potuto fornire esempio di trasgressione a questa rigida regola?

Tutto il libro, in verità, è sulla falsariga di questo brano: analisi in buona parte giuste, storia tirata un po’ per la giacchetta, nessuna autocritica (sempre confidiamo fiduciosi in quella sullo Zen), visione del mondo improntata ad un marxismo d’antan (ma questo è un punto di vista legittimo e rispettabile). Davvero difficile, almeno per me, tirarne una sintesi e dare un giudizio compiuto e obiettivo, tanti sono gli elementi contraddittori.

Azzardo però a dire che Gregotti possiede senza dubbio tutti gli strumenti per individuare i problemi, per incamminarsi verso la loro soluzione e per modificare radicalmente il suo pensiero sulla città, avvicinandosi fortemente ad una visione urbana vicina a quella della città storica, ma è riluttante, quasi fosse frenato dal timore di apparire troppo semplicistico, di tradire l’immagine tipica dell’intellettuale problematico e pensoso, quello che scopre sempre esserci ben altro e ben oltre, forse di non voler riconoscere gli errori.
Uno sforzo, suvvia, che non succede niente! Età ed autorevolezza sono sufficientementi importante da consentire tutte le trasgressioni, soprattutto se giuste, e ce n’è ancora abbastanza per lanciarsi in nuove avventure.


5 commenti:

ettore maria ha detto...

caro Pietro,
condivido i tuoi dubbi relativi al "predicare bene e razzolare male" di Gregotti, e aggiungo: Se egli afferma che "A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie", come mai al giornalista de "le Iene" che gli chiedeva "perché non ci va a vivere lei allo ZEN visto che lo ritiene perfetto e che non si possa far meglio" rispose "che c'entra io faccio l'architetto, mica faccio il proletario!" .. Alla faccia della mescolanza sociale!
Ciao
Ettore

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro Ettore,
è chiaro che è la prima cosa che mi è venuta in mente quando ho letto quella frase. E ti dirò che durante la lettura del libro mi è venuta in mente diverse volte.
Però lo abbiamo detto tante di quelle volte che mi sembrava superfluo ripeterlo. Certo sarebbe un bel gesto riconoscere l'errore ma il fatto è che è probabile che lui creda davvero che sia un buon progetto!
Questo è il problema, cioè che scrive cose giuste ed esattamente opposte a quel progetto Zen e sembra non rendersi conto della gigantesca contraddizione.
In fondo potrebbe dire, con un po' di ragione, che gli è stato commissionato un progetto dallo IACP, che fa case e non quartieri integrati, almeno al tempo!
Ciao
Pietro

stefanonikolaevic ha detto...

Non credo sia una mera questione di faccia di bronzo (anche se non lo escludo).

Mi pare invece un fenomeno diffuso. Abbiamo sentito Piano parlare come un angelo di architettura, politica, urbanistica... Portoghesi atteggiarsi a difensore di ecologia, figura, venustas... e mi limito a questi esempi. C'è - costante - una discrasia che non esito a definire schizofrenica fra teoria e pratica, nell'architettura moderna e contemporanea.

Pietro Pagliardini ha detto...

Per questo Koolhaas ha fatto l'elogio dell'architettura e della città classica!
Io non credo sia schizofrenia, anche se effettivamente la forma è schizofrenica. Credo, almeno da parte di alcuni, che sia un adeguarsi ai tempi che cambiano, dichiarare di condividere principi che vengono negati nei fatti. Questo lo considero un fatto positivo, non per loro, di cui ovviamente mi interessa meno di niente, ma perché significa che certe idee si stanno affermando e loro lo sanno o almeno lo percepiscono. Dopodiché è chiaro che non possono svoltare a 180°: sono diventati famosi in un certo mondo, hanno superato tutti i settanta anni, sarebbe anche disdicevole dire: abbiamo scherzato per oltre 40 anni, adesso facciamo sul serio. C'è da comprendere, onestamente. E allora si danno una rinfrescatina. Però è chiaro che ognuno di loro ha la sua storia e la loro è importante. Quando io scrivo per cogliere le loro contraddizioni non lo faccio (quasi) mai come fatto personale o moralistico, ma perché serve ad affermare, per contrasto l'idea che sostengo, insieme a tanti altri amici e sconosciuti. La forma polemica ha solo questo scopo.
Io temo più la concorrenza del filone verde-ecologista, tanto per fare un esempio famoso: Boeri, perché si inserisce in un clima alimentato da potenti lobbies del risparmio energetico, quelle che fanno legiferare, e che toccano tasti cui la gente è facilmente sensibile. Pensa al bosco verticale o al giardino botanico dell'EXPO2015. Una coloratina di verde indubbiamente è molto ruffiana. Vaglielo a far capire poi che per salvaguardare il territorio agricolo è necessario fare città dense, cioè riempire gli spazi vuoti con edifici!
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Trattasi della classica forma di riciclaggio, ultima alternativa rimasta alla classe dei vecchi modernisti redenti, ma se a tanti politici la cosa riesce molto bene, per un architetto la cosa risulta più difficile: " verba volant, Zen mane t" .
Il pretesto ecologico ha dato invece la possibilità anche a chi in vita non diventerà mai un " Gregotti" di poter assicurarsi un posticino nel nuovo "movimento" dei predicatori del nuovo modo di costruire, fatto di mattoni di terra essiccata al sole, di lana di pecora per coibentare l'involucro delle case, di pareti verticali verdi: sfido chiunque a realizzarne una più alta di un metro! L'unica parete verde ben riuscita e' quella formata da piante di capperi che periodicamente si forma spontaneamente su parte della parete esposta a sud del Castello di Carlo V a
Lecce!
L'unico vero modo di costruire ecologico e' quello di non costruire, come dice Piero, su aree nuove.

Saluti Francesco gazzabin

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