Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


3 gennaio 2010

JANE JACOBS

"Chi concepì nel modo più drammatico l’idea di realizzare nelle roccaforti stesse dell’iniquità metropolitana questa visone “antiurbana” dell’urbanistica (si riferisce alla città giardino) fu Le Corbusier, che negli anni ’20 escogitò una città ideale, da lui ribattezzata “Città Radiosa”, costituita essenzialmente, invece che dai bassi edifici cari ai decentratori, da grattacieli immersi in parco. (Omissis)
Anche Le Corbusier non si limitava a pianificare un ambiente fisico, ma perseguiva un’utopia sociale. (Omissis)
La Città Radiosa di Le Corbusier deve anche alla città-giardino la sua accettazione relativamente facile da parte del pubblico. Gli urbanisti della città-giardino e il loro sempre più folto seguito di riformatori dell’edilizia residenziale, di studenti e architetti avevano propagandato instancabilmente idee come il grande isolato, l’unità di vicinato, il piano non modificabile, e il verde, il verde, il verde.
 La concezione di Le Corbusier aveva quindi tutte le carte in regola, dal punto di vista umano come da quello della funzionalità urbana. Visto che il grande scopo dell’urbanistica era di permettere alla gente di andare saltellando per i prati come folletti, quale accusa poteva essere mossa a Le Corbusier? (Omissis)




Il sogno urbanistico di Le Corbusier ha avuto un enorme influsso sulla nostra città. (Omissis)
La sua città assomigliava ad un meraviglioso giocattolo meccanico e per di più era, come opera d’architetura, di una semplicità, un’armonia e una chiarezza abbaglianti. Era così ordinata, così evidente, così facile a capirsi: diceva tutto in un lampo, come un buon cartellone pubblicitario.
La visione di
Le Corbusier e il suo audace simbolismo hanno avuto un effetto irresistibile sugli urbanisti, sugli architetti e sui progettisti di edilizia residenziale, come pure sui lottizzatori, sui finanziatori e sugli amministratori comunali; quest’azione si è estesa anche agli esperti di zoning “progressisti”, che coi loro regolamenti cercano d’incoraggiare anche i liberi costruttori a conformarsi almeno in parte alla splendida visione.
Per quanto goffa e di maniera possa essere l’architettura, per quanto tetri e inutili gli spazi liberi, per quanto smorte le visuali da vicino, ogni imitazione di Le Corbusier si presenta come una vistosa realizzazione individuale in cui sembra che qualcuno esclami: “Guardate che cosa ho fatto”. Ma per quanto riguarda la funzionalità urbana, la città di
Le Corbusier, come la città-giardino, non è che una favola
".

Questo brano è tratto da Vita e morte delle grandi città, di Jane Jacobs, 1961. No, non è un errore, è proprio 1961, in Italia è uscito nel 1969 per Einaudi.
Jane Jacobs, giornalista e non architetto o urbanista e nemmeno sociologo, anche se il libro è un libro di sociologia urbana ricavato però dall’esperienza quotidiana nelle strade delle città d’America, già quasi 50 anni fa denunciava la trasformazione brutale della città, non solo, come si potrebbe credere da questo brano dell’introduzione, attaccando le fonti del male, ma analizzandone le cause con argomentazioni originalissime, sempre tratte dalla realtà, che oggi sono diventate patrimonio comune di tutti coloro che hanno a cuore la rinascita del disegno urbano delle città tradizionali, non in senso stilistico ma in quanto luoghi della socialità e della complessità delle relazioni tra i cittadini.

La strada e la commistione di tutte le funzioni sono al centro del pensiero di J.Jacobs, con anticipazioni del problema della sicurezza urbana e, ovviamente, trattandosi di USA, della integrazione razziale e di quella tra classi sociali diverse.

Concludo questo primo post su J.Jacobs con un brano della prefazione all'ultima edizione italiana scritta da Carlo Olmo:

"Contro i troppi programmi mancati, ma anche il primato di tecnici, architetti, urbanisti, ma poi nei suoi successivi testi economisti, psicologi e scienziati sociali) nella definizione dell’organizzazione spaziale e sociale, la radicalità di Jane Jacobs è stata letta nei modi più svariati: la famosa ballata di Hudson Street non è in realtà che un paradigma della riappropriazione dello spazio da parte di attori sociali senza nome, del primato delle regoli informali sugli apparati di norme e di tecniche che cercano di governare la strada, quasi di un’antropologia urbana sulla storia della città.

Forse gli aspetti ancor oggi più interessanti di The Death ad Life e del lavoro di Jane Jacobs sono proprio nella riaffermazione della possibile autonomia dello spazio da un tempo (e da una storia) che sono diventate previsioni e prescrizioni, improbabili mappe mentali, non solo cartacee o computerizzate: luoghi di un’organizzazione condivisa, ma non tradotta in norme, che appare in grado di contrastare chi crede di rendere lo spazio urbano trasparente, nel XVIII secolo si sarebbe detto parlante, e omologo. Più che le contingenti e strumentali polemiche con utopisti e pianificatori urbani, con burocrati pubblici e gli ingegneri delle infrastrutture, soprattutto quelle culture professionali europee che hanno guardato al libro della Jacobs con sufficienza, quando non con disagio o derisione, dovrebbero oggi saper riflettere sugli anonimi inquilini di Rivington Street
".

Tutto vero, ma le polemiche con utopisti e pianificatori, colonna sonora del libro, sono sì strumentali, ma all’affermazione di un’idea forte di città che c’è dietro il pensiero di J. Jacobs, completamente diversa e opposta a quella corrente al tempo e in voga tutt’ora, tant’è che questo libro ha costituito la base di partenza del New Urbanism negli USA, come riconosce anche lo stesso Carlo Olmo.

16 commenti:

spot on architecture ha detto...

Mi hai invogliato finalmente a leggere il libro di Jacobs, che era da un pò di tempo nella top ten delle prossime letture... Bella recensione!

ettore maria ha detto...

Caro Pietro,

questo post è un ulteriore ottimo spunto per far riflettere tutti noi architetti su ciò che che i "non architetti" pensano della nostra professione, nonché della loro "libertà di espressione" che gli viene dal non aver subito "lobotomizzazioni" che ne hanno offuscato la possibilità di esprimersi liberamente sui "mostri sacri" di questa professione. Nel mio vecchio post avevo evideziato la responsabilità diretta e indiretta di LC nello scempio delle nostre città. Leggendo in questo post le parole di Jacobs e Olmo non posso che rallegrarmi, pur immaginando che qualche tuo lettore si irriterà come all'epoca del mio post.

Pietro Pagliardini ha detto...

Ti ringrazio, anche se chiamarla recensione è un troppo. Molti altri contenuti ci sono nel libro, che anch'io mi sono ridotto a leggere solo ora. Qualche passo è un po troppo lungo, un saggio sulla città scritto in forma di racconto, ma, anche se riferito a città americane degli anni '50, le idee e le riflessioni sono notevoli.
Vedo che hai un blog animato da uno spirito non troppo diverso da questo: benissimo, più siamo e più possiamo essere ascoltati.
Ti faccio subito il link.
Saluti
Pietro

spot on architecture ha detto...

Grazie Pietro per avermi inserito nei link del tuo blog, troppo fiducia!
Saluti

Pietro Pagliardini ha detto...

Anche se la fiducia fosse mal riposta, e non mi sembra che lo sia, cosa vuoi che cambi un link in più o in meno! Prendiamoci sul serio, ma senza esagerare.
Ciao
Pietro

LineadiSociologia ha detto...

1 "La vita in collettività favorisce la produzione industriale e intellettuale. L'intelligenza non si sviluppa che nei raggruppamenti umani: è il frutto della concentrazione"

ma anche:

2 "Anche le piccole città sono troppo grandi e verranno assorbite nella generale evoluzione antiurbana. Il ruralismo, in contrapposto all'urbanesimo"

diversi punti di vista del secolo scorso.

robert

PS: se è stato tradotto e pubblicato appena 8 anni dopo la sua prima stesura, forse la cultura italiana non era poi così filo-corbuseriana.

Pietro Pagliardini ha detto...

robert, in effetti è una stranezza la rapida traduzione. Certo che non è che sia proprio famosissima e propagandata. Azzardo un'ipotesi, frutto solo di mie elucubrazioni: Jane Jacobs era contraria alla guerra in Vietnam e, per protesta, si trasferì definitivamente in Canada nel 1969. Ora, ed è qui l'azzardo, la cultura di sinistra italiana arruola sempre nelle sue fila gli intellettuali che ritiene funzionali all'idea. La Jacobs era molto famosa negli USA e questo può avere indotto a tradurre il libro proprio alla casa editrice Einaudi.
Ipotesi azzardata ma non troppo e comunque del tutto plausibile.
Quanto al fatto della cultura non filo-corbuseriana a mio avviso non significa proprio niente perchè nel caso di Le Corbusier valo lo stesso principio che vale per il comunismo: c'è un solo modo di non essere comunisti ed è: essere anti-comunisti.
Non basta cioè non essere appassionati di Le Corbusier, bisogna capirne i principi che lo guidano per contestarli e rinnegarli. I suoi principi sono, consapevolmente o meno, tuttora vigenti e utilizzati quotidianamente nei piani e nei progetti. I suoi principi sono nei geni della cultura architettonica e urbanistica, basta pensare alla deviazione delle "destinazioni" di cui sono stracolme le leggi e i piani. Hai presente il quotidiano cambio di destinazione? A quale cultura appartiene? O alle case senza tetto. Mi fermo qui.
Ciao
Pietro

LineadiSenso ha detto...

"Azzardo un'ipotesi, frutto solo di mie elucubrazioni"

penso proprio sia frutto delle tue elucubrazioni in quanto la critica al modernismo era già iniziata negli anni '50. probabile che qualcuno più avveduto di altri abbia capito l'importanza del testo della jacobs. tanto per fare un esempio: "l'architettura della città" di aldo rossi è del '65.


"Non basta cioè non essere appassionati di Le Corbusier, bisogna capirne i principi che lo guidano per contestarli e rinnegarli."

sei perfettamente inserito nella tradizione tutta italiana che, prima di fare qualcosa, va a sviscerare tutto e il suo contrario cadendo nel solito rischio di produrre teoria e solo teoria. ovviamente io sto ancora aspettando l'origine dello sprawl funzionalista americano contro cui cerca di combattere il new urbanism e, non sto qui a dimostrarlo, ma ha fatto assai più danni dei quartierioni di matrice funzionalista in quanto questi ultimi son tuttora pianificabili, la parcellizzazione territoriale dello sprawl e della città diffusa sembrerebbe attualmente irreversibile. tanto per fare un esempio: il governo francese vuol risolvere le banlieu ricorrendo anche alla demolizione (se non ricordo male hai fatto un post in cui si parlava di un caso concreto di demolizione di quartieri funzionalisti). per il momento invece mi pare che l'infinito sprawl delle coste occidentali americani abbiano trovato solo il kit previsto da galina :-) mentre il NU prevede città di nuova fondazione ma non sa da dove inizare per risolvere "l'incubo dorato" e, sbirciando in qualche forum, ho letto pure che nemmeno le città del NU funzionano molto bene in quanto chi vi abita prende l'auto e va a far acquisti al più vicino centro commerciale e il figlio lo scarrozza col suv per portarlo alla scuola "in" che sta a qualche km di distanza...


"case senza tetto"

ti rimando a quel post, mi pare scritto da rupi, in cui tra i commenti (mi pare fosse vilma) si spiegava che i tetti piani li ha inventati la tradizione mediterranea (e, ci aggiungo io, l'amore per le forme pure, bianche e minimaliste).

robert

PS: la frase 1 riportata nel mio precedente commento è di le corbusier, la 2 è di wright.

Pietro Pagliardini ha detto...

robert, parto dalla fine che mi risulta più facile. Che le case mediterranee siano senza tetto non ci voleva il mio collego Rupi per svelarlo e non l'ha certo scritto per giustificare le case senza tetto.
Che le case nordiche, o anche ai nostri climi, non debbano avere il tetto ci voleva che qualcuno lo inventasse.
Lo sprawl. Non lo so da dove trae origine, ma la tesi della Jacobs è questa: negli USA ha spopolato la citta-giardino, produttrice di sprawl; la Città Radiosa è una città giardino in verticale. Il concetto è infatti lo stesso, cambia solo la tipologia edilizia.
Cosa c'entri la tradizione tutta italiana nell'individuare una causa e quindi trovare la soluzione al problema non saprei. Se è così mi sembra una tradizione da conservare perché a me sembra piuttosto intelligente come metodo.
Io ti confermo, ancora una volta, che i nostri architetti hanno l'impronta genetica dell'insegnamento di LC. Finché non la perderanno non c'è alcuna soluzione al problema. Detesto la psicanalisi ma in questo caso se non uccidi il padre non risolvi.
Sempre che tu voglia risolvere; se vuoi invece discutere per discutere, questa sì tradizione italiana, allora va benissimo Aldo Rossi e quant'altri.
Ciao
Pietro

Linea dis-Urbanizzante ha detto...

mi son spiegato male: rupi imputava l'invenzione dei tetti piani a LC, vilma lo ha corretto ricordandone l'origine mediterranea.

lo sprawl è americano, trae origine da molti fattori (come sempre) ma in particolar modo dalla triplice rooswelt, henry ford e f.l. wriht... praticamente la triade più disurbanista di tutta la storia dell'urbanistica.

robert

ettore maria ha detto...

lo sprawl americano va ricercato SOLO ED ESCLUSIVAMENTE nell'opera metodica della GM, sin dagli anni '40 dello scorso secolo, di acquistare e smantellare le ferrovie e i sistemi di trasporto urbano per obbligare gli americani all'uso dell'automobile secondo il principio della "Ville Radieuse" di LC ... In un territorio in cui si ama tanto l'individualismo e la privacy come quello americano non è stato difficile far presa. Per quanto concerne i tetti piani e la loro appropriatezza o meno, rimando al grande Tom Wolfe e al suo magistrale libretto che in Italia venne intitolato "Maledetti Architetti" ... magari avrà avuto le sue buone ragioni? Io ne sono convinto

Ettore

Pietro Pagliardini ha detto...

Ettore, robert non crede a me, e passi, non crede alla Jacobs, che lo dice espressamente, speriamo che creda a te.
Quanto a Wright ho l'impressione che sia più la conseguenza del modello americano che non la causa. Se ben ricordo anche in questo caso Tom Wolfe parla dei difficilissimi rapporti tra Wright e LC (o forse Gropius, ma che differenza fa)perché quella che lui chiama giustamente la religione del Principe Bianco (Gropius) è assolutamente vincente e Wright si sente messo da parte. Wright è un grande architetto, ma la sua influenza sotto il profilo teorico è infinitamente inferiore a quella degli europei.
saluti
Pietro

Linea del Folletto wrightian-corbuseriano-perennemente-motorizzato. ha detto...

"non crede alla jacobs"
pietro, non mettermi in bocca cose che non ho detto. la jacobs la conosco prima che la citassi tu e ne riconosco i meriti.

ettore, una sola idea, perentoria e sottolineata dal MAIUSCOLO. non ti smentisci :-)

signori, sapete cosa differenzia le mie idee dalle vostre? io a scrivere che LC era un pessimo urbanista ce la faccio. voi, a criticare uno che vi piace (sai com'è, il wright, li faceva come dio-comanda i tetti) vi tremano i polpastrelli solo a pensarlo. e si che non è poi così difficile notare che la città utopica del wright è zonizzata, totalmente disurbanizzata e affidata completamente alle auto. bah... vabbè.

buonanotte dalla brodaglia-city padano-veneta.
opss!!! 'spetta! dal radiosissimo veneto!
che ci vuoi fare... sto invecchiando... certe volte dimentico che vivo in un grattacielo al 100° piano e vado a lavorare saltellando come un folletto per chilometri e chilometri nell'immensa pianura padana senza mai incontrare uno straccio di sana recinzione a difesa di una orgogliosissima casetta unifamiliare ad un piano :-)))

robert

ettore maria ha detto...

Robert,

credo di non aver mai espresso un parere a favore di Wright (che tranne per alcune opere iniziali non mi ha mai detto nulla), quindi non so come puoi asserire quello che dici.
Per quanto riguarda LC credo di aver espresso a chiare lettere ciò che penso del suo operato a 360°.
Credo quindi che il problema sia tutto tuo, poiché sia io che Pietro abbiamo sviluppato quella capacità critica che tu non ci riconosci e attribuisci evidentemente solo a te ... e non basta limitarsi a riconoscere l'incapacità urbanistica di LC per potersi autoproclamare liberi da pregiudizi, poiché sarebbe facile come sparare sulla Croce Rossa. Spesso i tuoi interventi sono carichi di acrimonia, ma il dialogo deve partire dal rispetto

Pietro Pagliardini ha detto...

robert, non so se Wright piaccia a Ettore, io parlavo per me e comunque il riconoscere che Wright fosse un bravo architetto non mi sembra richieda uno sforzo eccezionale. Comunque faceva "anche" i tetti, non solo i tetti (vedi la casa sulle cascate).
Riconoscere che l'architettura di Wright sia inserita a pieno titolo nel "sogno americano" non mi sembra nemeno la scoperta dell'America.
Il resto sono tue illazioni.
Ti allego un link al sito di Vilma Torselli su Wright:
http://www.artonweb.it/architettura/articolo34.html

Un fatto che mi tocca ripetere è che io non faccio critica architettonica, quindi non entro nel merito se LC sia architetto migliore o peggiore di Wright, non faccio classifiche, non analizzo quel progetto o quell'altro, non giudico i singoli progettisti o progetti in quanto tali, ci sono migliaia di persone che lo sanno fare meglio di me e a me non interessa; io mi interesso delle idee che stanno dietro all'architettura e all'urbanistica, e dei risultati che i prodotti di quelle idee lasciano o hanno lasciato sulla città e sul territorio.
Dunque, robert ossessionato dal Veneto, dire che LC fa una città-giardino in verticale, come dice la Jacobs (ma sinceramente c'ero arrivato da me senza leggerla, anche se fa piacere trovare conferme e dispiacere scoprire che è stato detto da qualcuno già 50 anni fa ed è come se nessuno lo avesse detto) è un'opinione fortemente suffragata da fatti e non una difesa, che non mi interessa, di Wright.
saluti
Pietro

Linea del FATTI PIU' IN LA' del secolo breve ha detto...

Son stato volutamente provocatorio. Non amo solito pigliarmela coi morti, nemmeno con Wright, ma da questa diatriba emerge una visione ideologica: criticare un esponente del sogno americano è ben difficile per uno che si reputa fieramente anticomunista. Tra Broadacre City e Ville Radieuse c’è solo una sostanziale differenza: la prima è composta da case unifamiliari, la seconda è fatta da grattacieli, per il resto sono simili: zonizzate, gli edifici trattati come oggetti-con-l’aria-attorno, irrigidite in una geometria ripetitiva, prevedono automobili che scorazzano i propri cittadini e se ne infischiano della storia. Sono, col senno di poi, due emerite idiozie urbanistiche. Il vantaggio della visione di Wright è avere più rispetto per la privacy, per la visione corbuseriana è il poter essere reversibile: le demolizioni delle banlieu parigine dimostrano che il “funzionalismo di stato” francese è ancora pianificabile, mente per lo sprawl americano (e la campagna urbanizzata padana) ci rimane solamente la possibilità di attaccare qualche pensilina e qualche corpicino come prevede Galina, mi pare un po’ poco come possibilità. Altra differenza tra le due è che la prima si inserisce nella cultura tipicamente rurale dell’America, la seconda nella cultura dell’urbs europea. Tutte le visioni della prima metà del ‘900 spaziano tra questi due opposti. Eur, città fasciste di nuova fondazione, città giardino tradizional-naziste oppure “musei delle cere” come il Weissenhof sono accomunate da un oggettivo allontanamento degli edifici e dalla “rottura” del fronte-strada. Persino la Garbatella risente di questa logica e così anche il “modernismo morbido” delle siedlung tedesche degli anni 20-30 ipotesi che, pur nella loro diversità di linguaggi e impostazioni planimetriche, perseguono una via mediana tra i due estremi. Cinquant’anni fa la Jacobs ha visto in profondità (e non era da sola) ma non così tanto da capire che il disastro dello sprawl l’avrebbe provocato, più che la visione europea, la stessa cultura disurbanista americana che, strano a dirsi, era assai simile alla cultura disurbanista sovietica degli anni ’30. Che strane queste coincidenze, la cultura anticomunista e comunista accomunate da utopie anti-città. Dovrebbe bastare questo per far capire la complessità della realtà. In mezzo c’erano altre visioni che tentarono di evitare la rottura della strada ma erano in netta minoranza (Berlage e Plecnick per dire un paio di nomi, e l’eredità del primo nei Paesi Bassi esiste ed è tuttora feconda).
Questa io non la chiamo critica, la chiamo semplicemente lettura della realtà assai diversa dalla tua (e non capisco perché se io do dell’idiota a Wright è critica, se tu tiri cacca a Corbu è verità assoluta). Auguriamo agli storici di insegnare la complessità e le parentele dove di primo acchito sembrerebbero non esserci oppure pretendiamo da loro che insegnino verità basate su famiglie del Bene e famiglie del Male? Non ti pare che l’unico modo di evitare posizioni ideologiche sia quello di notare le similitudini invece di avventurarsi in improbabili guerre di civiltà architettoniche? Come la mettiamo col masterplan che ha pensato la Hadid per Instanbul? Isolati alla maniera ottocentesca “stirati” per dare un maggiore importanza alla connessione tra porto e nuovo centro città mentre gli edifici avvicinandosi al nuovo centro si innalzano a mo’ di centro storico medievale? Dove le mettiamo? Tra i cattivi? La chiamiamo modernista-un po’-retrò, neo-modern-ecclettica o anglo-islam-in-salsa-turca? Bah… magari lo chiediamo a chi possiede la sicumera sicurezza di chi sa cos’è modernista e cosa no.

Infine, ognuno di noi ha le ossessioni che si merita, io preferisco esser ossessionato da un luogo reale, sbagliato e costruito negli ultimi 20 anni piuttosto che da fantasmi futuristi e funzionalisti appartenuti al “secolo breve”. Sicuramente la mia ossessione è assai più difficile da sostenere in quanto i colpevoli sono moltissimi e tuttora viventi, la tua è più semplice, i colpevoli sono pochi e tutti sottoterra.

Robert

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