Questo post, il cui titolo è una parafrasi di quello di un libro in voga nei primi anni '70, mi è stato inviato dall’amico Pier Lodovico Rupi, ingegnere e architetto con una importante storia professionale. E' un punto di vista dichiaratamente di parte e molto fazioso, libero e dissacratorio, un’interpretazione dell’urbanistica italiana dal dopoguerra tutta in chiave storico-politica ma con lo sguardo penetrante di un architetto e urbanista che è stato testimone diretto di una parte delle vicende che racconta.
Per qualcuno, ma non per me, può essere un pugno sullo stomaco che aiuta però a capire il recente passato e ci dice anche qualcosa per l’oggi.
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IDEE SULLA CITTA' COMUNISTA
di Pier Lodovico Rupi
Caro Pietro, ti mando una “marketta sul marxismo”, tema che qui dalle nostre parti, te lo assicuro, non rende proprio niente. Ma a me, cosa vuoi che importi.
Prendi lo Zen di Palermo, le Vele di Napoli, il Serpentone di Genova e via elencando e contestualizzali quanto vuoi, non sono incidenti. E allora, parliamone.
Un caro amico, democristiano non pentito come me, ma sbarcato in luoghi diversi, mi scrive che al sacco edil-urbanistico dell’Italia hanno partecipato “geometri democristiani, architetti socialisti e sindaci democristiani”. Aggiungerei altre categorie politiche, imprenditori e privati e intrallazzatori di ogni genere.
Ma perché lasciar fuori i professoroni dell’urbanistica, che hanno suonato il trombone sempre dalla stessa parte? E perché non andare a vedere laddove si distilla il pensiero, come nasce la cultura del “casermone”? Certo, la marketta che ti racconto qui di seguito è un approccio sommario, unilaterale, parziale e sicuramente anche di parte. Ma non è una analisi montata sul vuoto.
Nel primo dopoguerra, quando spirava forte il vento dell'ideologia marxista, la lobby politico-culturale degli urbanisti usciti dal fascismo si omologò rapidamente alla sinistra con il cui appoggio, e con l'insipienza dei cattolici, assunse rapidamente il potere nelle università, nelle istituzioni culturali, nell'editoria, nelle professioni, nei rapporti con lo Stato. Da allora, questa lobby ha dominato in modo totalizzante l'urbanistica nella teoria e ha avuto il monopolio nella prassi a tutti i livelli, nazionale, regionale e comunale.
Dal dopoguerra ad oggi, in poco più di cinquant'anni, le nostre città, che per formarsi avevano impiegato mille, duemila anni, hanno triplicato o quadruplicato la loro superficie, mentre i vani di abitazione sono passati da 35 milioni a 115 milioni. Ma dovunque, questa eccezionale espansione ha avuto risultati disastrosi : le nostre splendide città appaiono oggi avvolte da abnormi, informi, squallide periferie.
Prendiamo atto del fallimento dell'espansione delle città negli ultimi cinquanta anni e interroghiamoci sulle cause che l'hanno determinato.
Il fatto è che l'urbanistica dominante fu impregnata di una particolare idea di città che aveva i suoi riferimenti originari nell'Unione Sovietica e nell'ideologia collettivista. Quest'idea di città, rimbalzando dall'Unione Sovietica, variamente rimuginata da alcuni paesi europei, l'Inghilterra laburista, la Svezia socialista, i paesi dell'est, si impone anche in Italia, nel vuoto lasciato dalla caduta del fascismo.
Per chiarire meglio l'origine di questa idea di città che l'urbanistica dominante ha imposto in Italia, occorre rifarsi alla storia dell'Unione Sovietica.
Quando Stalin incaricò Andrei Alexandrovich Zhdanov di implementare in una visione alternativa globale la cultura del realismo socialista, fu posta all'indice l'impalcatura scientifica della civiltà "borghese", dalla psicanalisi alla meccanica quantistica e non si salvò nemmeno l'urbanistica. Gli architetti russi, guidati dal gruppo di Ernst May, teorizzarono la nuova città derivata dai principi del collettivismo: la città proletaria contrapposta a quella borghese. Una città composta da grossi contenitori dove assemblare, in spazi strettamente essenziali, la popolazione e dai "servizi sociali" nei quali si sarebbe dovuta svolgere tutta la vita collettiva, mentre alloggi senza identità avrebbero dovuto togliere alla casa tradizionale il ruolo di riferimento dell'individuo e della famiglia.
Nell'Unione Sovietica, questa città teorica si materializza in modelli concreti, come la città nuova di Magnitogorsk o quella di Elektrovoz, dove vengono eliminate dalle abitazioni perfino le cucine.
Contenitori a "stecche" ripetute, solo abitativi, perché il propagarsi dei negozi è considerato segno del decadentismo occidentale. Grossi interventi ossessivamente ripetitivi, senza una qualsiasi ricerca di qualità, le categorie estetiche essendo considerate pregiudizi borghesi, alloggi tutti uguali, secondo schemi modulari, con le forme irrigidite della prefabbricazione pesante, secondo il mito dell'economia di scala. La nostra cultura dominante ha potuto applicare compiutamente i principi degli architetti sovietici nei "quartieri popolari", dove ha avuto l'affidamento della gestione dell'intero processo urbanistico, fino alla realizzazione degli edifici. Cosicché nei "quartieri popolari" l'impronta collettivista emerge con assoluta chiarezza. Per richiamare un modello, lo ZEN di Palermo, esempio limite di aberrazione e degrado urbano, progettato da un campione di questa cultura, riassume tutti i principi dell'urbanistica collettivista. E per capire tale cultura, basta richiamare quell'architetto che, per promuovere la propria immagine professionale, progettò di trasformare il lingotto torinese in un enorme contenitore di alloggi.
Ma questi caratteri non sono presenti solo nei "quartieri popolari". Tipologie e forme urbane, piani urbanistici e norme di attuazione sono sempre di derivazione della stessa cultura dominante. Anche negli agglomerati di edilizia privata che negli ultimi cinquant'anni hanno avvolto le nostre città riemerge il principio urbanistico primario, la dottrina del collettivismo: grossi blocchi ad intasare ogni spazio, ripetitivi, tutti della stessa altezza, informi e senza qualità, solo abitativi.
Principi cui ha sicuramente fatto da sponda il funzionalismo del "Movimento moderno" nato nell'ambito della repubblica socialista di Weimar e anche l'immediato interesse di stuoli di costruttori improvvisati. Ma scava, scava, viene sempre alla luce quello che fu il mito originario, il programma di collettivizzazione della società.
Per perseguire queste teorie, la cultura dominante prende a modello le città dove impera l'ideologia comunista. Gli interventi edilizi dei paesi ex satelliti dell'Europa orientale vengono presi ad esempio e si intensificano le missioni di studio verso di essi.
Muovendo dai modelli di una società chiusa e ingessata, la cultura urbanistica dominante non riesce a comprendere quello che sta accadendo nelle città dell'occidente; e non riesce nemmeno a presagire, perché in contraddizione con i suoi preconcetti ideologici, le radicali trasformazioni economiche e l'evoluzione civile che avrebbero accompagnato questa grandiosa espansione urbana.
La cultura dominante, ancorata a questi riferimenti, si impantana in visioni pauperiste, in dottrine minimaliste, arriva a teorizzare lo "sviluppo zero". Mettendo su pezzi di città fatti di agglomerati di celle si immagina di costruire il nuovo modello di "città del popolo". Ma i "villaggi popolari" invece di rappresentare "la città del popolo" saranno il monumento al fallimento della cultura urbanistica dominante. E le nostre splendide città, fino ad allora coerenti ed organiche, vengono accerchiate da squallidi agglomerati, metafore rabberciate del principio collettivista.
Eppure, negli anni appena precedenti, si erano realizzati modelli urbani di ben diversa qualità. Basta richiamare città come Latina o la Montecatini degli anni 20-30, quartieri come 1"'EUR", parti di città come il centro di Bergamo, o vaste sistemazioni come quella del viale lungo¬mare della Versilia.
Per mascherare risultati così disastrosi, la cultura urbanistica dominante affiancata dalla vulgata della sinistra cerca un capro espiatorio e lo trova nella "speculazione edilizia", accusata come "la madre di tutti mali" della crescita sfigurata della città. Pur con tutte le collusioni e corruzioni e con tutti gli intrecci che hanno cadenzato l'espansione della città, non si capisce come chi guadagnava nella compravendita dei terreni, prevedendo quello che gli urbanisti non sapevano prevedere, o chi guadagnava costruendovi sopra, vincolato ai limiti dei Piani Regolatori e delle relative norme di attuazione, avrebbero potuto decidere la forma urbana, la larghezza delle strade, l'altezza degli edifici, le tipologie edilizie e ogni altra sistemazione urbanistica. Modellare e regolamentare la crescita urbana spettava agli amministratori comunali che ne avevano il potere e il dovere e alla cultura urbanistica che fu investita, in assoluta esclusiva, del compito di produrre modelli e regole, Piani Regolatori e norme attuative. Non si comprende quindi come sia possibile salvare dalla responsabilità dello sfascio del territorio italiano gli amministratori comunali (democristiani, socialisti o comunisti) e con essi la cultura urbanistica dominante, questa solamente comunista.
Politica e cultura, invece di dare risposte adeguate, si trastullavano in vaniloqui ancora una volta di matrice ideologica, sull' "esproprio generalizzato" e sulla "proprietà pubblica dei suoli".
Per decenni si è fatto credere che tutti i problemi dell'urbanistica si sarebbero brillantemente risolti e le città si sarebbero sviluppate belle e amene se solo si fosse applicato l'esproprio generalizzato.
A parte i risultati disastrosi nei paesi dell'est europeo, negli ultimi cinquant'anni, in Italia gli interventi più invasivi si sono avuti soprattutto nelle aree di proprietà pubblica. Spesso preziosi piccoli paesi appaiono sfigurati da "case popolari", o anche altri edifici pubblici che impattano volgarmente lo sky-line urbano. Per non dire dei quartieri di edilizia pubblica delle grandi città.
Per riportare un caso emblematico visto da tutti, basta richiamare l'immagine di Orte dall'Autostrada del Sole, con il profilo dell'acquedotto romano e, in oscena sovrapposizione, un grosso volume di edilizia residenziale pubblica. (1)
Come succede nella psicologia individuale, frustrata da questi insuccessi l'urbanistica dominante ha riversato sui cittadini un atteggiamento punitivo. Sono stati importati in Italia e sponsorizzati fino a farli divenire leggi, modelli normativi ispirati a principi di collettivizzazione, come il "diritto di superficie" e la "proprietà indivisa".
Visto l'insuccesso anche di questi dispositivi, che, oggi, quasi tutti sono d'accordo essere da buttare a mare, l'urbanistica dominante si è successivamente indirizzata verso una vecchia idea dell'ideologia collettivista, l'idea che con le norme si possa sistemizzare e dirigere tutto. Ed ha promosso e proliferato ai livelli regionale e comunale un immane apparato di leggi, regolamenti, direttive, procedure, in un inestricabile viluppo di commi, contro-commi, richiami eccetera, del quale possono spesso ricavarsi le più contraddittorie interpretazioni.
L'appropriazione burocratica dell'urbanistica è così divenuta la nuova frontiera dell'ideologia.
La foto del Manifesto che illustra i "vantaggi" della città-giardino sovietica è stata tratta dal blog The Measures Taken.
Nota (1) - Su Orte è rimasta famosa la denuncia di Pier Paolo Pasolini il cui video è visionabile su YouTube
12 commenti:
Vado giù duro, Pietro, spero che Rupi non si offenda.
Francamente, trovo questa interpretazione delle trasformazioni territoriali del secolo scorso assolutamente insufficiente, monodimensionale, nel complesso irrazionale.
Non che alcune cose che dice non siano vere. Ma è l'ipotesi complessiva che non regge affatto!
E lo sa benissimo, infatti ha scritto "approccio sommario, unilaterale, parziale "
Forse, se l'autore cominciasse a pensare che capitalismo e comunismo sono solo due diverse modalità di una stessa cosa (la seconda ha perso), cioè, di un materialismo che riduce ogni cosa ad economia e merce, potrebbe fare alcune ipotesi un po' più interessanti e meno degne di un servizio del TG4.
Di cui non si sente affatto il bisogno.
Nota: mi pare che non fu Gregotti, ma Gae Aulenti a proporre la trasformazione del Lingotto in sole residenze. Consulente urbanistico, Luigi Mazza (lo ebbi come professore, molto bravo, lo giudico uno dei migliori 5-6 che ebbi).
La Gae Aulenti era amica personale degli Agnelli, di cui arredò case, ecc.
Agnelli, notoriamente, era un comunista ...
L'unico non comunista è il salvatore della patria (questo titolo, gli basterà, o vorrà un giorno essere "il salvatore" in genere), Silvio.
Persino Ligresti, mi sa è un po' comunista, no? Infatti, si trova ad es. oggi a realizzare nell'area ex fiera con "comunisti" quali Libeskind (che pure è ebreo), Isozaki, Zazzà.
Accidenti, quanti comunisti, e non lo sapevamo ... Grazie Rupi ...
biz, una cosa è certa: Pier Lodovico Rupi (da non confondere con Giulio Rupi che ogni tanto scrive sul blog) non si offende perché credo sia pronto a commenti ben più duri del tuo.
Immagino possa perfino gradire che si consideri il suo articolo degno del TG4; però attenzione: il link che ho messo sul suo nome non porta a TG4 o al Secolo o al Giornale ma ad IBL, cioè Istituto Bruno Leoni, che è un think-tank iperliberista, niente affatto nazional-popolare nè tanto meno incolto, superficiale o appiattito politicamente.
L'analisi di PL Rupi mette insieme molti elementi di verità non facilmente contestabili, ne trae la conclusione che l'apparato burocratico-normativo è il sostituto dell'ideologia defunta o forse mascherata, anzi è la nuova ideologia (e io condivido questa conclusione), manca forse di un'analisi più specificamente disciplinare, non considera i cambiamenti intervenuti nella società in un secolo di storia ma la sua riduzione all'essenziale è una chiave di lettura coerente, soprattutto se riferita all'Italia della prima repubblica, con ampi strascichi anche nella seconda.
Ciao
Piero
biz, scusa, ma mi era sfuggito il tuo 2° commento.
Definire Ligresti e Agnelli "comunisti" in senso stretto non è esattamente corretto, ma dire che entrambe hanno beneficiato di favori dalla sinistra corrisponde al vero.
Tornando al tuo primo commento mi hai fatto venire un dubbio: tu dici che comunismo e capitalismo sono due forme della stessa cosa. Ora mi sono reso conto che senza più comunismo, definire il regime economico attuale come "capitalista", attribuendogli la stessa valenza di prima mi sembra anacronistico perché non vedo quali altre forme alternative potrebbero esserci. Mi pare cioè che "capitalismo" conservi ormai solo un valore di classificazione scientifica senza più attribuzioni di valore politico, nè positivo nè negativo, potendosi attribuire tale valore solo in presenza di un'alternativa che, allo stato non vedo, nè nel presente nè nel passato.
Non credo si possa trarre niente del passato, prossimo o remoto, per cui al massimo si può discutere, come si sta facendo adesso, di una maggiore o minore presenza dello stato nell'economia, ma sempre nel quadro dello stesso sistema economico.
Insomma, affermare oggi "io sono anti-capitalista" è un po' come dire "io sono contro il giorno e la notte": libero di dirlo ma che cambia?
Di forme politiche diverse ce ne sono eccome ma di sistemi economici potenzialmente alternativi, francamente non ne vedo all'orizzonte e non sono solo io a dirlo.
Accidenti, lo sapevo che il post di PL Rupi mi avrebbe portato a discutere di argomenti che non appartengono direttamente a questo blog, anche se rientrano nella sfera dei miei interessi.
Ciao
Piero
Una curiosità: da ieri che c'è questo post mi appaiono nel blog due banner con la stessa pubblicità, cioè viaggi in Russia. Prima neanche a parlarne.
Potenza del capitalismo che sfrutta la fine del comunismo o Grande Fratello o casualità?
Ciao
Piero
i banner si agganciano automaticamente al testo pubblicato e sfruttano l'argomento. Quando facevo la guida di arte moderna per supereva, con lo stesso sistema compariva la pubblicità collegata alla parola bellezza, che nei miei testi ovviamente ricorreva spesso, ti puoi immaginare con che varietà di versioni, dallo studio di ortodonzia che prometteva la 'bellezza' dei denti alla chirurgia plastica capace di miracoli di 'bellezza', a molto di peggio. E' uno dei motivi per cui ho smesso.
ciao
Vilma
son d'accordo con wilma: discutere dei banner è tremendamente più interessante che ragionare sul contenuto del banner di rupi... ops... post, intendevo scrivere post
(e ci aggiungo pure gli altri due che stan sotto).
robert
Pietro, a me non interessava criticare questo scritto sul piano politico.
Semplicemente, sostengo che non vale assolutamente nulla sul piano storico-scientifico, anche perchè falsato da intenti politici ... come dire "dare la tutta la colpa" ai cattivi (che tanto, non ci sono più), per scagionare qualcun altro.
L'articolo non spiega tante cose; non spiega nulla; non spiega come mai ruvidi imprenditori, attenti solo al denaro, abbiano così lietamente sposato teorie urbanistiche nate al Bauhaus, o propagandate nei CIAM (non certo una branca della Terza internazionale, peraltro).
E' questo che mi fa ribellare.
Il discorso sul "capitalismo", non c'entra. Uso questo termine in senso tecnico; come lo userebbe Braudel (che pure, lo distingueva dal "libero mercato"), non come lo si usava nelle assemblee degli studenti dal '68 in poi, presumo.
Ciao!
Linea di Senso, oltre ai gustosi titoli che adoperi, che apprezzo, ho anche capito che non sei d'accordo.
Non è richiesto esserlo, in effetti.
ciao
Piero
biz, chiarito l'equivoco capitalismo, convengo, e te l'ho già risposto in un commento, che PL Rupi è interessato molto all'aspetto politico e molto poco a quello storico-scientifico. Non a caso chiama il post una marketta. Io credo di sapere anche perché glissa su quel piano: perché sarebbe costretto a sconfessare o almeno a ripensare non solo e non tanto LC company quanto Bruno Zevi (che non ha ovviamente colpa alcuna sull'Unione Sovietica), che invece apprezza, e tutto un mondo a cui è legato, ad esempio G.K.Koenig.
Io questo la sapevo da prima e non gli ho nemmeno chiesto di farlo perché a me la sua analisi non sembra affatto superficiale come tu dici, è solo di parte, parziale (nel senso che non comprende tutto) ma contiene molte verità che io condivido e che ho spesso scritto, ad esempio sulla corresponsabilità "politica" degli architetti, a cui non ho però appiccicato etichette di partito, per non spostare il discorso su un piano diverso. Rupi ha fatto invece solo questo.
Non credere però sia così facile tenere separate le cose, perché i rapporti tra architettura e politica sono SEMPRE stati stretti, reciproci e spesso incestuosi. Tu stesso su Fulmini, parlando del piano casa, non hai potuto fare a meno di domandarti chi sia il consigliere di Franceschini per la casa. A me non ha meravigliato che te lo sia chiesto perché la domanda è legittima dato che si suppone che Franceschini, al pari di ogni altro politico, non possa sapere tutto e a qualcuno si deve pur rivolgere. Ecco dunque che il consigliere (architetto) ha influenzato la politica, ha fissato una "linea": sì a quello, no a quell'altro. Viceversa l'appello dei tre sul piano casa mi sembra l'esatto contrario: sono i tre ad essere influenzati dalla politica perché quell'appello altro non è che una scelta di campo, un accreditarsi con una parte.
E, in fondo, anche da questo mio commento non è che non si capisce quale sia la mia opinione. Ma la politica legata all'attualità divide irrimediabilmente; invece le scelte urbanistiche e architettoniche sono più trasversali, basti pensare che tutti i muratoriani più sfegatati che io conosco sono di sinistra e io mi ci trovo benissimo, ricambiato.
O basta pensare a PL Cervellati che io apprezzo moltissimo.
Ciao
Piero
Posso sbagliare, ma credo proprio che l'attuale Preside (immagino bravissima persona) della facoltà di Architettura di Firenze sia anche lui un ex Potere Operaio. Dico "anche" perché dovrebbe essere il quarto preside ex PotOp. L'inno di PotOp, scritto forse da Oreste Scalzone, recitava "il comunismo è il nostro programma, la dittatura operaia verrà". Nessuno dei "forse ex" dell'ambiente ha mai chiarito, perlomeno in forma rintracciabile, scritta, se e quali idee abbia cambiato negli ultimi 30/40 anni.
Non c'è ragione dunque di pensare che la mentalità comunista, la visione del mondo descritta nell'articolo sia ancora viva, maggioritaria e luttuosamente operante, nessuno può smontarla se si fa finta che non esista.
Non credo che a Venezia o a Roma la situazione sia diversa.
C'è un grosso problema.
E che c'entra la politica?
Stefano Borselli
Stefano, il vero problema non è in effetti che i Presidi di architettura provengano da PotOp o similari ma, appunto, quello che tu segnali, cioè la mancanza dei conti con la storia, di quella individuale e di quella collettiva. E' possibile in questo paese passare attraverso istituzioni importanti quali l'Università, e ai massimi livelli, non dico senza "rinnegare" ma senza sentire il dovere di un minimo di revisione critica di ciò che è stato condannato dalla storia senza appello, con ciò dando per scontato che al massimo di incidente di percorso si trattava.
E così quelle storie entrano direttamente nel mondo accademico trascinandosi dietro le proprie idee, ovviamente con altri nomi e sigle, incarognite perché sconfitte globalmente ma vive sotto traccia a livello individuale e di casta.
E dove riaffiorano quelle idee?
Nella fulminante e lapidaria frase finale di PL Rupi, che è il vero motivo che mi ha fatto scegliere questo scritto tra due ricevuti:
"L'appropriazione burocratica dell'urbanistica è così divenuta la nuova frontiera dell'ideologia".
Ciao
Piero
Stefano, a me pare che quel che tu dici sia anche giusto, ma in senso sottile. Cioè, è giusto sospettare che esista una "ideologia seconda", in un certo senso nascosta e quasi "esoterica", che presieda ad ideologie apparenti, apparentemente opposte ma in realtà aventi la medesima radice.
Ed è infatti per questo che avrei desiderato, in uno scritto come questo, un maggior approfondimento delle ambiguità - anche politiche - di alcune ideologie dell'abitare, che ovunque si sono diffuse.
L'approccio usato invece, mi pare strumentale ad una fazione politica, pertanto inefficace a rivelare queste "ideologie seconde".
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