Pietro Pagliardini
Questo post è di una noia mortale. E la noia sarebbe niente di fronte all’incredulità, ed anche ad una moderata dose di indignazione, per questa “breve” sintesi di Norme di attuazione di un Regolamento Urbanistico, cioè del più importante e decisivo atto di cui una comunità si dota per “disegnare” la propria città.
Ho detto breve perché l’articolato completo è di ben 201 articoli e non siamo a Roma o Milano o Torino ma in un comune toscano con una popolazione inferiore ai 10.000 abitanti.
Quello che mostro non è uno scoop, è solo un esempio tra i tanti, certo non dei migliori. E' tutto autentico e copiato dal sito del comune, ho solo estrapolato e messo insieme 9 articoli dei 201, cioè meno del 5% del totale, che descrivono, ma sarebbe più corretto dire “prescrivono”, tutte le “funzioni” e le destinazioni previste e normate con pignoleria e puntiglio, secondo la legge toscana, con l'aggiunta di un po' di compiacimento
Non è certo necessario leggerlo tutto, è sufficiente scorrerlo velocemente per rendersi conto di alcune cose:
1) Dietro questo testo si nasconde una mentalità pianificatoria che ovviamente nulla ha a che fare con una qualsivoglia forma di libertà dei cittadini ma è piuttosto degna di un fallimentare regime da piano quinquennale.
2) Nessun progetto credibile e plausibile può uscire, e infatti non esce, per la città. Il modello che ne risulta è un frutto maturo ed esasperato del movimento moderno e della divisione della città per funzioni e tale divisione si spinge fino ai minimi dettagli, fino al parcheggio coperto o scoperto, fino a dare la definizione, che è scontata, ad esempio del commercio all'ingrosso, non sapendo tuttavia che tale forma economica è desueta al punto che non viene più insegnata nemmeno negli istituti commerciali, se non nell'ambito della storia economica. Il tutto ovviamente senza un disegno che non sia un mosaico colorato di funzioni nobilitato dal nome altisonante di “progetto di suolo”.
3) Ne esce un tipo di società burocratizzata a livelli parossistici, uno stato occhiuto che vuole decidere su tutto e tutti, che parla una lingua incomprensibile, se non a pochi iniziati a quel culto, e che contrasta in maniera esagerata con quanto abbiamo visto, nella trasmissione Report, accadere nella pur precisa e metodica Germania.
Ecco il testo, che dice molto più di qualsiasi commento, avvertendo che questo è solo un assaggio, un trial, si dice oggi:
Residenziale
La destinazione d’uso residenziale R comprende:
- civile abitazione;
- collegi, convitti, studentati, pensionati;
- strutture ricettive extra-alberghiere con le caratteristiche della civile abitazione (affittacamere, case e appartamenti per vacanze, residenze d’epoca).
Attività industriali e artigianali
1. Sono attività dirette alla produzione e trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi.
2. La destinazione d’uso per attività industriali ed artigianali è articolata in:
- I: fabbriche, officine e autofficine (compresi laboratori di sperimentazione, uffici tecnici, amministrativi e centri di servizio spazi espositivi connessi); magazzini, depositi coperti e
scoperti anche in assenza di opere di trasformazione permanente del suolo; attività di supporto alle attività produttive.
- Ia: impianti produttivi al servizio dell’agricoltura e per la trasformazione dei prodotti agricoli, magazzini ed impianti per la zootecnia industrializzata;
- Ie: attività estrattive e di escavazione;
- Ir: impianti per autodemolizioni e recupero rifiuti
- If: impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili non destinati all’uso domestico e/o autoconsumo.
Attività commerciali
1. La destinazione d’uso per attività commerciali è articolata in:
- Tc1: esercizi di vicinato come definiti dalla legge, bar e ristoranti; sono considerate compatibili con la destinazione commerciale anche le seguenti attività: attività per la fornitura di servizi attinenti le telecomunicazioni e la telematica, l’informazione turistica, il multimediale; laboratori artistici e botteghe artigiane; artigianato di servizi personali e residenziali con superficie utile lorda non superiore a mq 250 e diverse da industrie insalubri di prima e seconda classe;
- Tc2: medie strutture di vendita come definite dalla legge;
- Tc3: grandi strutture di vendita come definite dalla legge di tipologia “C” e di tipologia “B”.
Attività commerciali all’ingrosso e depositi
1. Le attività commerciali all’ingrosso e depositi (Tc4) sono quelle dirette ad acquistare merci e rivenderle ad altri commercianti, ad utilizzatori professionali o ad altri utilizzatori in grande.
2. Sono considerate compatibili anche le attività di commercio al dettaglio non alimentari congiunte e coordinate all’attività di commercio all’ingrosso e le attività di commercio al dettaglio non alimentari che richiedono ampie superfici di vendita, almeno superiori a 500 mq., quali rivenditori di materiali edili, concessionari d’auto, vendita mobilia.
Attività turistico ricettive
1. La destinazione d’uso per attività turistico ricettive secondo quanto definito dalla L.R. n. 42 del 23/03/2000 è articolata in strutture ricettive gestite per la produzione e l’offerta al pubblico di servizi per l’ospitalità:
- Tr1: alberghi (inclusi motel e villaggi albergo) e residenze turistico alberghiere;
- Tr2: campeggi;
- Tr3: villaggi turistici, aree di sosta, parchi di vacanza; ed in altre strutture ricettive:
- Tr4: strutture ricettive extra-alberghiere per l’ospitalità collettiva (case per ferie, ostelli,
rifugi);
- Tr5: residence.
Attività direzionali
1. La destinazione d’uso direzionale è articolata in:
- Tu1: uffici privati, studi professionali; sedi di associazioni;
- Tu2: agenzie bancarie; banche; centri di ricerca; sportelli di assicurazione; agenzie immobiliari;
- Tu3: uffici amministrativi e tecnici delle attività produttive e/o commerciali.
Servizi e attrezzature di uso pubblico
1. La destinazione d’uso a servizi ed attrezzature di uso pubblico e di interesse generale disciplinata dal presente Regolamento è articolata in:
- Sa: servizi amministrativi riferiti ad esempi “Usi del suolo e modalità d’intervento ed attuazione”o a uffici amministrativi, protezione civile, tribunali, attrezzature della finanza, per la pubblica sicurezza e militari, archivi, servizi postelegrafonici e telefonici;
- Sb: servizi per l’istruzione di base riferiti ad asili, scuole per l’infanzia, scuole dell’obbligo;
- Sc: servizi cimiteriali e attività ad essi connessi;
- Sd: servizi culturali, sociali e ricreativi riferiti ad esempio a musei, teatri, auditori, cinema, sale di spettacolo, biblioteche, mostre ed esposizioni, centri sociali, culturali e ricreativi, ludoteche, centri polivalenti, mense;
- Sh: servizi per l’assistenza socio sanitaria riferiti ad esempio a centri di assistenza, case di riposo, residenze protette e pensionati (compresi servizi ambulatoriali e sociali connessi);
- So: servizi ospedalieri e case di cura;
- Si: servizi per l’istruzione superiore;
- Sr: servizi religiosi riferiti a chiese, seminari, conventi;
- Ss: servizi sportivi coperti riferiti a palestre, piscine, palazzi dello sport, campi coperti;
- St: servizi tecnici riferiti ad esempio a stazioni dei trasporti, impianti tecnici per la produzione e distribuzione di acqua, energia elettrica, gas, idrogeno, centrali termiche, stazioni telefoniche, impianti per il trattamento dei rifiuti, depuratori, canili, pensioni per cani e gatti, mattatoi, edifici annonari, stazioni di sperimentazione per la flora e per la fauna, servizi di soccorso pubblico, servizi tecnologici, servizi innovativi, poli tecnologici e digitali, depositerie giudiziarie.
- Su: università e servizi universitari; attrezzature didattiche e di ricerca (compresi servizi tecnici, amministrativi, sociali e culturali connessi), scuole speciali di livello universitario, residenze universitarie.
- Aree per la riduzione del rischio idraulico, a sua volta articolate in:
- Ce: casse di espansione
- In: invasi
- Cs: canali di salvaguardia
Spazi scoperti di uso pubblico
1. Gli spazi scoperti di uso pubblico e di interesse generale disciplinati dal presente Regolamento sono articolati in:
- Vg: giardini;
- Vp: parchi;
- Pp: parcheggi a raso;
- Ps: campi sportivi scoperti;
- Pz: piazze riferite a spazi pedonali o prevalentemente pedonali.
Spazi scoperti di uso privato
1. Gli spazi scoperti di uso privato disciplinati dal presente Regolamento sono articolati in:
- Vpr: verde privato
- Vo: orti urbani
- Vb: boschi
- Vvt: vigneti terrazzati
- Vot: oliveti terrazzati
Infrastrutture e attrezzature della mobilità
1. Le infrastrutture e attrezzature della mobilità disciplinate dal presente Regolamento sono articolate in:
- Mc: impianti di distribuzione carburanti;
- Mp: parcheggi coperti;
- Ms: parcheggi scoperti.
Attività agricole
1. Sono attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse.
2. Sono considerate attività connesse a quella agricola:
- le attività agrituristiche;
- le attività di promozione e servizio allo sviluppo dell'agricoltura, della zootecnia e della
forestazione;
- le attività faunistico-venatorie.
3. Sono comunque considerate attività agricole tutte quelle definite tali da disposizioni normative
comunitarie, nazionali e regionali.
17 ottobre 2009
UN FLASH DI URBANISTICA TOSCANA
13 ottobre 2009
LANGONE SU TERRAGNI E IL MERCATO IMMOBILIARE
Camillo Langone su Il Foglio è una riserva inesauribile di trovate e io lo linko, nonostante sia in forte concorrenza con il precedente link al servizio di Report cui, se fosse americano, spetterebbe di diritto il Premio Pulitzer.
12 ottobre 2009
REPORT: FOTOGRAFIA DELL'URBANISTICA ITALIANA
Su Report di domenica 11 il servizio La via del mattone mette in luce in maniera impietosa e assolutamente corrispondente al vero lo stato della nostra urbanistica e, direi, della nostra condizione di sudditi della burocrazia.
CONSIGLIO VIVAMENTE DI GUARDARLO A TUTTI MA DIREI CHE SAREBBE NECESSARIO COSTRINGERE A GUARDARLO TUTTI COLORO CHE REDIGONO PIANI, NORME DI ATTUAZIONE, REGOLAMENTI EDILIZI E I VARI FUNZIONARI REGIONALI ADDETTI ALLA SCRITTURA DELLE LEGGI.
Questo il link:
LA VIA DEL MATTONE
con l'avvertenza che l'inizio del servizio cui mi riferisco è circa al 10° minuto. Prima c'è un servizio sulla frana di Messina.
9 ottobre 2009
CAMBIAMENTO CLIMATICO?
Il titolo non tragga in inganno: non tratto di clima meteorologico né di riscaldamento globale o grandi glaciazioni ma di alcuni segni del cambiamento di clima intorno all’idea di città.
Uno di questi lo si trova su Italia Oggi del 7 ottobre con un articolo di Philip Wohl dal titolo : Nuove città con anima e sensualità. E’ un’intervista a Jacques Ferrier, architetto il cui nome mi è del tutto nuovo (ma, d’altronde, che importanza ha conoscere tutti gli attori del cinema, quando l’importante è il cinema?) che è presentato come progettista del salone francese all’Expo di Shangai: da quel poco che vedo in foto il padiglione è costituito da una griglia di non so quale materiale, innovativo naturalmente, dalla forma più o meno a parallelepipedo che contiene non so cosa (NB: la foto sotto non ha niente a che fare con Ferrier, ma è un progetto per una città cinese).
Vado a cercare il suo sito, lo trovo subito ma è così terribilmente cervellotico e non comunicativo, oltre che pesante da caricare, che ci capisco ben poco, se non che è da escludere trattarsi di architetto tradizionale o antichista. Ovvia scoperta, altrimenti non avrebbe progettato il padiglione per l’Expo.
Eppure molte delle cose che dice sulla città sono interessanti. Lui si riferisce alla situazione delle città cinesi e in particolare alla New Towns che là vanno per la maggiore:
“Le scelte di una città modernista non sono legate ad una questione di costi, sono ideologiche” e prosegue “produrre delle lunghe strade deserte a fianco degli uffici contenuti nelle torri, è estremamente costoso. Al contrario, prendere coscienza del contesto, il clima e ripudiare la specializzazione dei quartieri, non è certo più caro. Una città da 10 milioni di abitanti concepita come un dormitorio è a rischio esplosione sociale”.Questa affermazione, pur basandosi su esclusivi aspetti economici (ma il giornale che lo intervista è economico), è inequivocabile e netta e, ovviamente, non vale solo per la Cina.
Continua:
“Bisogna pensare alle atmosfere di una città prima di riorganizzarla, bisogna cercare i punti di interesse come un lungo fiume, un albero, un monumento. La città come la campagna deve essere sensibile ai materiali, agli odori, ai suoni ed ai paesaggi”.Questa frase si riferisce in gran parte ad una new town, ovviamente, dato che non è che un fiume in una città si possa inventare, però l’attenzione al sapore dei luoghi è condivisibile.
E prosegue:
“In tutto questo l’Europa può avere un ruolo centrale perché … nel vecchio continente non si parte mai dalla tabula rasa, qui c’è attenzione al contesto e alla storia”
Ottimo programma per il futuro, anche se fino ad oggi è stato esattamente il contrario e la “tabula rasa” l’ha fatta da padrona.
Quale la ricetta, chiede il giornalista?:
“…..ispirarsi alle città antiche di 500 mila abitanti per crearne di contemporanee da 5 milioni di abitanti: anche lì si richiederà molta innovazione”.Questa conclusione mi sembra più fumosa e comunque rimette le cose a posto nel suo richiamo ad una generica innovazione e non nutro dubbi che l’architettura che Ferrier propone sia molto simile, se non uguale, alla sua; ma, coinvolto dalle sue atmosfere di architetto ispirato da un soffio creativo, anch’io mi sbilancio e dico che sento aleggiare un profumo di novità.
Un architetto come Ferrier che nella sostanza rinnega, senza affermarlo direttamente, tutto quanto ad oggi fatto e teorizzato per la città contemporanea dimostra che alcune idee cominciano a farsi strada e a diventare patrimonio anche di architetti iper-modernisti (immagino che lui rifiuterebbe questa definizione, ma non ne saprei trovare altre).
Io non mi pongo il problema se esse siano sincere o se siano strumentali ad uno scopo o se non siano del tutto digerite: anche se così fosse, e non è scontato, a maggior ragione vorrebbe dire che quelle idee pagano e tornano utili e dunque il risultato sarebbe addirittura superiore al caso in cui ad averle dette fosse stato qualcuno che le sostiene coerentemente da sempre. Sarebbe la presa d'atto del fallimento di decenni di ideologica urbanistica modernista (non lo dico io, ma Ferrier) e del successo vero di un’idea di città vicina a quella della tradizione europea.
Dunque vengano pure tanti altri Ferrier e, soprattutto, che questa idea si consolidi, si allarghi e sia duratura.
N.B. La foto è tratta dal blog de La Stampa "Bodegons" ed è un progetto per il centro urbano di Huaxi, progetto di Mad
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7 ottobre 2009
INSULAE COME GRATTACIELI, TERTULLIANO COME LANGONE
Ho tratto il brano che segue dal classico “La vita quotidiana a Roma” di Jérome Carcopino, Edizioni Laterza, 2008 (ma la prima edizione in francese è del 1939):
Proprio al contrario della domus di Pompei, l’insula romana è cresciuta in altezza e ha finito per raggiungere sotto l’impero dimensioni vertiginose.
Alla fine della repubblica l'altezza media delle insulae indicata incidentalmente da questo episodio è superata. La Roma di Cicerone è come sospesa nell'aria per la sovrapposizione delle sue abitazioni: Romam cenaculis sublatam atque suspensam.
La Roma di Augusto si leva ancora più in alto. Allora, come scrive Vitruvio, «la maestà dell'Urbe, l'accrescimento considerevole della sua popolazione portarono di necessità un'estensione straordinaria delle sue abitazioni, e la situazione stessa spinse a cercare un rimedio nell'altezza degli edifici».
Rimedio d'altra parte così imprudente che l'imperatore, spaventato dai pericoli che minacciavano la sicurezza dei cittadini e dai crolli di cui tale sviluppo in altezza era responsabile, impose un regolamento che proibì ai privati di elevare le costruzioni oltre i 70 piedi (21 metri circa). Ma in seguito proprietari e imprenditori gareggiarono tanto in avarizia quanto in temerità nello sfruttare in qualunque modo i margini di tolleranza fissati dall'interdetto imperiale.
Per tutta la durata dell'Alto impero, troviamo abbondanti prove di questo sviluppo in altezza degli edifici, appena credibile per l'epoca; a Tiro,a principio dell'èra cristiana, le case di quel porto famoso dell'Oriente - osserva sorpreso Strabone - sono quasi più alte di quelle della Roma imperiale. Cento anni dopo, Giovenale deride questa Roma aerea, che poggia solo su travicelli sottili e lunghi come flauti. Aulo Genio cinquant'anni più tardi si lagna di queste case dai numerosi ed erti piani: multis arduisque tabulatis; e il retore Elio Aristide s'indugia a considerare gravemente che se le abitazioni dell'Urbs fossero d'un colpo portate tutte al livello dei loro pianterreni, si estenderebbero fino a Hadria sull'Adriatico Superiore. Invano Traiano aveva rinnovato le restrizioni di Augusto, aggravandole anzi col fissare a 60 piedi (18 metri) l'altezza degli edifici privati: la necessità fu più forte della legge; e nel IV secolo si mostrava ancora tra le curiosità dell'Urbe, a fianco del Pantheon e della Colonna Aurelia, una casa gigantesca le cui dimensioni prodigiose non mancavano mai di attirare l'attenzione del visitatore: l'insula Felicles. L'edificio di Felicula era stato fabbricato duecento anni prima, perché all'inizio del principato di Settimio Severo (193-211) la sua fama aveva già attraversato i mari; e quando Tertulliano cercava di convincere i suoi compatrioti africani dell'assurdità delle invenzioni con le quali i Valentiniani cercavano di colmare l'infinito che separa la creazione dal creatore, non trovò allora paragone più istruttivo: egli deride senza pietà questi eretici - impacciati da tutti gli intermediari e mediatori generati dal loro delirio - per avere «trasformato l'universo in una specie di immenso palazzo mobiliato», al sommo del quale pongono Dio, sotto i tetti - ad summas tegulas -, e che eleva «verso il cielo tanti piani quanti se ne vedono a Roma nell'edificio di Felicula».
Certamente, malgrado gli editti di Augusto e di Traiano, i costruttori avevano raddoppiato la loro audacia e l' insula Felicles si levò al di sopra della Roma degli Antonini come un grattacielo. Anche se questa è rimasta un'eccezione straordinaria, un caso-limite quasi mostruoso, è anche vero che gli edifici di cinque o sei piani non si contavano più attorno ad essa. In quello che abitò Marziale sul Quirinale, in via del Pero, il poeta doveva salire soltanto fino al terzo piano per tornare a casa, e non era certo l'inquilino peggio alloggiato. Tanto nella sua insula quanto nelle insulae vicine, c'erano inquilini molto meno favoriti perché erano appollaiati molto più in alto; e nel quadro crudele che egli ci ha lasciato, d'un incendio romano, Giovenale immagina di rivolgersi al disgraziato che abita, come il Dio dei Valentiniani, sotto i tetti: « Già - egli dice - il terzo piano brucia e tu non sai nulla. Dal pianterreno in su c'è lo scompiglio, ma chi arrostirà per ultimo è quel miserabile che è protetto dalla pioggia solo dalle tegole, dove le colombe in amore vengono a deporre le loro uova ».
Cosa voglio dimostrare con questo? Ben poco, dato che il testo parla da solo, però mi sembra
un utile invito alla lettura del libro per chi non lo conoscesse, mi fa osservare che la scellerata sfida in altezza non è esclusiva del nostro tempo (al pari di moltissimi altri temi e argomenti) e che la condanna che Tertulliano emette sulle insulae esageratamente alte è una secolare anticipazione di quella emessa da Camillo Langone nel noto articolo "L’anticristo abita al 53° piano" nei confronti dei grattacieli.
Il tempo non sembra portare saggezza.
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5 ottobre 2009
ELOGIO DELL'IMPERFEZIONE URBANA
Pietro Pagliardini
Uno scambio di commenti su Architettura Catania con un architetto con il quale sono in assoluto e insanabile disaccordo ma verso il quale nutro rispetto, mi ha fatto venire il dubbio che coloro i quali come me auspicano un ritorno alla città tradizionale possano dare l’impressione di aspirare ad una sorta di modello di città della perfezione dove tutto sia preordinato e concluso, una specie di città-spettacolo o città-parco più simile ad una Disneyland governata dall’alto che ad una città vera e viva, quotidianamente vissuta e trasformata dalle esigenze e dagli impulsi vitali della società in genere e dei suoi abitanti in particolare.
Per rappresentare in maniera paradigmatica le nostre reciproche differenze mi è stato opposto, dal mio interlocutore, il modello di San Gimignano, preso a simbolo della cristallizzazione di un’idea di città medioevale perfetta nella sua unità, una città-cartolina così come oggi la vediamo, attribuendolo alle mie aspirazioni, a quello di Dubai, simbolo antitetico della contemporaneità e della trasformazione continua, nel suo condensare da un giorno all’altro, almeno prima della crisi, tutto quanto viene sperimentato in campo architettonico, attribuendolo a sè.
Evidentemente il collega mi e ci considera antichisti nostalgici e romantici, innamorati di un’idea di città anacronistica, bella ma priva di vita, e soprattutto non modificabile e fissata una volta per tutte. Impossibile cercare di convincerlo del contrario ma spiegare alcune cose voglio tentare di farlo.
Dagli studi della scuola muratoriana, anche se decisamente faticosi e tanto ostici da sembrare quasi roba da iniziati (del libro di Caniggia e Maffei esiste anche una traduzione in inglese che non so che impatto possa avere sui lettori con quel vocabolario difficilmente traducibile), risulta con grande evidenza la permanenza di precise regole nella crescita delle nostre città storiche, certamente ricche di molte varianti, ma pur sempre riconoscibili da coloro che ne hanno appreso (“appreso”, altro termine iniziatico) le modalità di lettura. Regole analoghe sono state individuate da Nikos Salìngaros, facendo riferimento però a princìpi della matematica e della teoria delle reti.
Dovendole sintetizzare a pochi concetti essenziali direi che esse sono così riassumibili:
-Il processo di occupazione dell’ambiente antropico è caratterizzato da:
"un sistema di progressive modularità tra ciascuno dei termini scalari, dall’arredo al territorio: così che la partecipazione individuale dell’uomo al suo mondo strutturato è connessa alla molteplicità degli uomini e delle cose mediante una progressione di grandezze crescenti, ciascuna comprensiva e compresa dalle altre"
(Caniggia e Maffei, Lettura dell’edilizia di base, Marsilio 1979) e
“tutta l’architettura popolare ha proprietà frattali. Credo che il nostro cervello sia fatto per costruire le cose in un determinato modo, così, inevitabilmente, noi sviluppiamo delle strutture frattali. La maggior parte delle grandi creazioni dell’umanità oltrepassa la struttura rigorosamente necessaria; abbiamo il bisogno di generare determinati tipi di forme e di correlazioni geometriche ….Le città, almeno quelle più piacevoli, sono frattali. Tutto, dai percorsi delle vie alla figura delle facciate e alla disposizione degli alberi è frattale nelle grandi città come Parigi, Venezia e Londra. Questo è stato misurato matematicamente da ricercatori come Michael Batty e i suoi collaboratori (Batty e Longley, 1994) e Pierre Frankhauser (Frankhauser, 1994)”
(Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009).
-Le parole chiave della città sono: strada, nodo, rete, permeabilità, gerarchia.
Tutto ciò è riscontrabile nella città europea storica ma non solo: gli stessi fenomeni si ritrovano in molte favelas brasiliane e indiane e nelle borgate abusive romane, cioè laddove il processo di crescita è totalmente spontaneo e in palese contrasto con la città ufficiale pianificata a cui sono affiancate e contrapposte.
La città che descriviamo non è affatto una città “progettata” una volta per tutte, una città immobile e statica, quella, ad esempio, rappresentata nella città ideale che fa da logo a questo blog: quella ne è solo la forma pittorica idealizzata che solo raramente ed in alcune parti di una città reale, quella monumentale e pubblica, può essere presa come esempio da coltivare. La città che descriviamo deve solo essere indirizzata verso regole di crescita analoghe a quelle della città storica, in modo tale da continuare a crescere secondo quei principi di progressive modularità che sembrano essere essenziali per il nostro cervello che necessita della continuità del passaggio da una scala inferiore a quella superiore, secondo una logica frattale che si ritrova nella natura stessa. La continuità spaziale, nel senso di permeabilità, e temporale, nel senso di possibilità di continua trasformazione, caratterizza questo tipo di città.
La città moderna e contemporanea presenta invece come caratteristica principale la discontinuità e la parcellizzazione. Tutto è separato e sincopato: le varie zone a funzione diversa, gli edifici staccati gli uni dagli altri, le strade più simili a nastri trasportatori che trasferiscono auto da un luogo all’altro così come nelle fabbriche movimentano, ad esempio, biscotti dal forno all’impacchettamento. Ma dentro alle auto ci sono persone e non merci e a nessuno, riflettendoci sopra, può far piacere essere trattato al pari di una merce qualsiasi che si sposta da una macchina all’altra per il trattamento dovuto.
Non si tratta perciò di indirizzare il progetto di città verso uno stile piuttosto che verso un altro, anche se è indubbio che l’edilizia tradizionale presenta una serie di caratteristiche tipologiche e morfologiche che sono più omogenee con il naturale processo di crescita urbano; si tratta di garantire al contempo il miglior funzionamento della città nel suo complesso e l’ambiente urbano più favorevole al benessere di chi vi abita.
La città non è dunque progettata una volta per tutte, non è una cartolina, ma deve garantire, come nella città storica e pure nelle favelas, una crescita e una trasformazione continua e naturale secondo le direttrici individuate in base alle caratteristiche geografiche e alle preesistenze. Questo tipo di città è l’esatto opposto di Disneyland, che in quanto città del divertimento e del business, è governata dall’alto e si modifica in base alle esigenze di mercato, mentre l’altra si sviluppa in base alle esigenze della società (tra cui rientra anche il mercato, ma non in maniera esclusiva) e dei suoi individui. E’, cioè, una città intrinsecamente democratica, a prescindere dalla forma politica nella quale si sviluppa.
Dubai, per restare all’esempio fatto, è invece l’esatto contrario; è una Disneyland non monotematica, che cresce in base alle esigenze di più forme di business anziché uno solo: il turismo, il commercio, il benessere, inteso come centro-benessere, il lusso, ecc. Dubai è la rappresentazione di uno status symbol che separa chi l’ha visitata dagli altri. Gli edifici devono essere perciò straordinari e inusitati nella loro fantasia per colpire l’immaginario collettivo, al pari di un manifesto pubblicitario, ma nulla conta la città in sé, perché non è vissuta da cittadini ma da clienti provenienti da ogni parte del mondo. Dubai è in fondo solo il più grande shopping center del mondo dove si vendono merci, servizi e sogni. L’architettura è in quel luogo solo comunicazione visiva e null’altro. E’, in fondo, come Las Vegas: come si potrebbe auspicare che l’architettura di Las Vegas divenisse l’esempio da esportare nel mondo? Niente di cui scandalizzarsi su Dubai ma prenderne ad esempio le sue follie architettoniche pensando che tutto il mondo sia Dubai, esaltarne come si fa nei media i suoi progetti come se avessero una valenza universale è né più né meno che un errore di comprensione.
La città che vogliamo è incompiuta, imperfetta, in continua trasformazione ed evoluzione ma basata esclusivamente sui bisogni, i desideri, i sogni dei suoi cittadini e degli uomini e delle donne che la vivono, non degli architetti. Da questa spinta ne deriverà la bellezza autentica, di cui gli architetti sono gli interpreti.
Dunque al collega dico che la vitalità sta, secondo me, in questo modello di città dietro cui c'è la società e non nella invenzione pubblicitaria in forma di architettura, dietro cui c'è solo il pur rispettabilissimo capitale, cioè una sola parte della società.
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27 settembre 2009
APPENDICE AL POST PRECEDENTE
Stamani compro il Giornale e trovo un’intervista a Frank Gehry che viene, come si usa dire, come il cacio sui maccheroni: nel precedente post osservavo la consuetudine di molti architetti di risolvere i problemi in base alla banale discriminante progetto-buono, progetto cattivo, cioè architetto-bravo, architetto-incapace, ed ecco cosa risponde Gehry a Luigi Mascheroni, autore dell’intervista:d
“Archistar! Chi cazzo l’ha inventata questa parola? Che cazzo vuol dire questa parola? L’avete inventata voi giornalisti e non significa nulla: io non sono un’archistar, sono un architetto e basta. Non esistono le archistar, esistono architetti che progettano e realizzano opere, a volte buone, altre meno buone, a volte funzionali, a volte catastrofiche dal punto di vista architettonico o da quello economico”. I suoi edifici (questo lo sintetizza il giornalista) sono tra quelli “buoni” (quindi lui è un bravo architetto).
Eccoci qua, dunque è il progetto che conta e perciò il progettista. Ogni progetto va bene purché sia un buon progetto. Continua, come dicevo, la fiera dell’ovvio, della tautologia, del non significante.
Però Gehry ha anche una sua filosofia e la spiega:
“La contaminazione è inevitabile e inarrestabile. La fusione tra culture è arrivata a un punto tale che è impossibile opporvisi, bisogna seguire il flusso e cogliere gli stimoli”.
Relativismo assoluto e assolutamente strumentale all’affermazione precedente: va bene tutto, tutto va così perché c’è il flusso da seguire e non potrebbe andare diversamente, quello che conta è la qualità del progetto e del progettista.
Non risponde alla domanda sulle accuse mossegli da John Silber nel suo libro Architetture dell’assurdo ma dice che “l’architetto deve fare i conti con i luoghi e i tempi in cui vive e lavora”.
Mah!
N.B. Non posso fare il link all'articolo in questione perhè ancora non l'ho trovato in rete
26 settembre 2009
OGGETTI ARCHITETTONICI
Pietro Pagliardini
In questi giorni è in corso nella mia città un dibattito giornalistico sulla costruzione ormai iniziata di un grattacielino di 30 metri circa, più correttamente definibile come edificio a torre. Non siamo affatto nel campo della scelta ideologica del “grattacielo simbolo di modernità”, nel senso che il progetto nasce dall’impossibilità, se non in altezza, di altro tipo di ampliamento dell’edificio, che ospita un albergo ormai da anni in attività.
Tuttavia l’impatto visivo ed emotivo in una città di circa 90.000 abitanti è forte e la sua altezza, unita alla forma, anch’essa obbligata dal lotto e da ragioni strutturali, riduce fortemente la veduta del centro storico da una delle direttrici stradali principali; e per fortuna che, per ora, resta ancora qualcosa della veduta di Arezzo alta così come rappresentata negli affreschi di Piero della Francesca.
Chiacchierando con alcuni colleghi sull’argomento, ho constatato che c’è la tendenza a liquidare il problema spostando il tema sulla “qualità del progetto”, quindi sulla qualità dell’architetto.
Schematizzo il ragionamento in questi termini: “Il problema non è l’altezza ma la qualità del progetto”.
Non che questo tipo di ragionamento mi sia nuovo, che anzi è un ritornello sentito infinite volte, ma sono sinceramente stupito quando viene fatto non da fanatici entusiasti della modernità (almeno a parole) o della ovvia ed ineffabile “cultura del progetto” (un progettista quale cultura deve avere se non quella del progetto?), ma da colleghi attenti che, parallelamente alla loro professione, coltivano e mantengono interesse e attenzione per gli aspetti più generali legati all’architettura.
Cosa sottintende l’affermazione: “Dipende dalla qualità del progetto (cioè del progettista)”?
Intanto sottintende una serie di ovvietà:
- se il progettista è una capra è altamente probabile che qualunque progetto risulterà simile all’autore;
- un progetto ben fatto è meglio di un progetto malfatto, oppure, dovendo scegliere tra due progetti è meglio scegliere quello migliore.
L’ironia è facile ma non gratuita perché è insita proprio in quel tipo di ragionamento che è assolutamente tautologico, privo di informazione e ha, al massimo, valore solo in negativo. E non è neanche facile replicare a discorsi del genere che infatti tendono a esaurire il dialogo, restando aperto quello, scarsamente avvincente, di chi potrebbe essere l’architetto giusto per fare un progetto migliore di……. uno peggiore oppure quello del tipo “io l’avrei fatto…”.
Sforzandomi di approfondire di più, e con l’avvertenza che si tratta di una mia interpretazione, quasi di tipo psicologico, direi che un ragionamento di questo tipo rivela la difficoltà di isolare, restando al tema grattacielo, la categoria generale, cioè il tipo-grattacielo, dal caso particolare, cioè il progetto-grattacielo, che invece è un problema del secondo ordine. Una cosa è discutere della qualità del progetto specifico di un determinato grattacielo, altro è astrarre la tipologia del grattacielo e valutarla in base a considerazioni generali e comuni a tutti gli edifici di quel tipo, relative alla possibilità o meno di integrarla nella città e nel territorio, stimarne i pregi e i difetti sia su coloro che vi risiedono che sui cittadini che lo subiscono, valutare gli effetti climatici indotti (è noto che questi edifici alterano e di molto le condizioni del vento al proprio intorno), le conseguenze urbanistiche sul traffico e sulle infrastrutture in genere, l’inserimento nel contesto da vari punti di vista, tra cui quello dell’ombra prodotta intorno, il loro (pessimo) bilancio energetico, il significato simbolico, le conseguenze sui rapporti sociali e umani all’interno di quell’ambiente separato e autonomo da tutto il resto e al proprio interno tra i vari livelli, ecc.
Probabilmente il punto nodale per cui vi è questa difficoltà di cogliere gli aspetti generali (il tipo) rispetto a quelli particolari (il progetto) dipende non tanto dalle qualità dei singoli, quanto da un atteggiamento culturale che tende, ormai da decenni, a considerare l’architettura come l’arte di progettare e produrre “oggetti” architettonici in cui il contesto non esiste o peggio esiste solo in funzione e spesso in opposizione all’oggetto stesso.
Così scrive Sergio Los in Regionalismo dell’architettura, Franco Muzzio, 1990:
“…..Ma quando emerse quella polarità? Penso che essa risalga al momento in cui l'architettura assunse, per la prima volta all'inizio del Rinascimento, una determinata organizzazione teorica che istituiva l'oggetto edilizio come delimitazione spaziale del suo ambito disciplinare specifico.
Da quel momento l'edificio parve estratto dal suo contesto e il livello tipologico (che esso rappresentava) cessò di essere uno dei tanti ma assunse un ruolo dominante, diventando talvolta addirittura l'unico pertinente all'ambito teorico della composizione architettonica. Questa operazione costitutiva faceva scomparire il carattere multi¬scala dell'architettura (il suo essere intreccio di tipi a vari livelli tipologici, dalla stanza al sistema insediativo), essa finì per rendere naturale l'esistenza dell'oggetto edilizio come oggetto privilegiato del lavoro progettuale. Ci furono in seguito discussioni accanite sulle differenti modalità di costruzione del progetto e sulle mutevoli caratteristiche dell'oggetto edilizio, senza riconoscere come tutte condividessero e confermassero quella iniziale operazione costitutiva che estraeva l'edificio dal suo contesto urbano (e rurale) per separarlo da esso, contrapponendone la logica evolutiva.
L'edificio dunque è diventato un oggetto formalmente chiuso e monolitico; la stessa città quando è divenuta tema di progettazione ha assunto lo statuto di grande oggetto formalmente chiuso e monolitico, di megastruttura. Basta pensare ai disegni delle città ideali, che accompagnano lo sviluppo dell'architettura teoretica".
Pur ritenendo io che istituire questo legame così diretto tra Rinascimento e nascita dell’oggetto edilizio possa portare a risultati fuorvianti, ma riconoscendo che nella nascita della figura dell’architetto come figura autonoma e specialistica c’è il germe di quanto accaduto in seguito fino ai nostri giorni, non c’è dubbio che Los riassuma bene la condizione di differenza e opposizione tra oggetto edilizio e contesto urbano così come oggi si è ormai configurato e quindi la difficoltà culturale a staccarsi da un modo di valutare la realtà per parti separate. Questo metodo è indotto, oltre che dalle scuole di architettura, da tutta la pubblicistica, specializzata e non, che tende ad esaltare il genio architettonico e la “ricerca” sull’oggetto, trascurando del tutto ciò che sta intorno. Troppo complicato, troppe variabili in gioco che costringerebbero ad una maggiore prudenza, che è ovviamente nemica del “gesto”.
Il gesto, lo schizzo, l’intuizione, l’attimo è appunto la cifra caratterizzante del discorso architettonico contemporaneo, almeno nella sua diffusione mediatica. La figura demiurgica dell’archistar ne è il simbolo eclatante e vistoso.
Ma non solo: l’urbanistica della città per parti separate funzionalmente e geograficamente è l’altra faccia della medaglia della progettazione di oggetti architettonici. Ogni parte deve essere vista chiusa in sé, a prescindere: il centro storico è da salvaguardare come testimonianza storica, le zone residenziali devono essere studiate in base al verde, ai parcheggi e alla distribuzione dei servizi, le aree commerciali in base al bacino di utenza, le zone produttive in base alla accessibilità dalle viabilità principali e alla vicinanza alle infrastrutture. Se anche ogni parte fosse perfettamente ordinata (e non accade mai) e se ogni progetto fosse “di qualità” (idem c.s.), la città che ne risulterebbe sarebbe disgregata e dissonante, fatta di parti diverse non comunicanti, come un’orchestra composta da ottimi musicisti, ognuno dei quali suonasse un pezzo diverso e senza la guida del direttore.
Mettere in crisi questo pensiero schematico e parcellare è il primo passo per ripensare la città nella sua unità.
20 settembre 2009
RITORNO ALLA CITTA':PARTE 2°
Concludo la sintesi del convegno "RITORNO ALLA CITTA'", iniziata nel post precedente, con l’ultima relazione, quella di Sergio Los. Chiarisco che su questa sarò molto più lacunoso in quanto mi sono distratto nel tentativo, mal riuscito, di fotografare con il cellulare le slides che ha mostrato. Per cui potrò riportare sommariamente solo i contenuti principali. Me ne scuso con lui.
SERGIO LOS
Sergio Los, di cui ho apprezzato i contenuti ma anche il suo senso dell’ironia e la serenità con cui esprime il suo pensiero spesso controcorrente, ha iniziato la sua relazione più o meno con queste parole:
“Noi non siamo una generazione capace di costruire città. Siamo capaci ad andare sulla Luna, sappiamo fare ottime automobili ma le città non le sappiamo proprio fare. Lo sviluppo dell’impiantistica, che è diventata sempre più invasiva negli edifici, ci ha fatto perdere la conoscenza della bioclimatica. Le città del passato restano molto migliori delle nostre”.
Ha quindi parlato della sua idea di base che parte dal principio dell’inevitabile esaurimento del petrolio e quindi dalla necessità di risparmiare energia. E poiché dai dati risulta che il settore che maggiormente consuma energia (non solo come consumi per la gestione ma anche per la produzione) è quello dell’architettura, è necessario progettare come gli antichi, sapendo sfruttare al meglio il ciclo solare, non tanto nella produzione di energie alternative quanto nell’esposizione e nel saper prevedere il giusto rapporto di insolazione.
Ma ecco la novità, almeno per me: Los non si riferisce mai ai singoli oggetti edilizi, alle singole abitazioni svincolate dal contesto perché sa che la città è un valore, non ha un approccio specialistico e monoculare al problema; lui e il suo gruppo hanno studiato i tessuti urbani da questo punto di vita e dal confronto hanno trovato che il tipo più efficiente energeticamente è l’isolato urbano orientato in direzione nord-sud ed est-ovest, come le città romane con il cardo e il decumano orientati approssimativamente in quelle direzioni. A supporto di questa affermazione porta una serie di grafici e tabelle.
La città più efficiente dal punto di vista energetico è dunque una città di isolati correttamente orientati, densa, fatta di strade diversificate tra quelle pedonali e quelle per le auto. Di questa città (che a parte la distinzione dei percorsi corrisponde in tutto alle nostre città storiche [questa è una mia osservazione]) Los apprezza anche la possibilità dello scambio sociale tra le persone, che lui esemplifica con una vignetta: la città verticale è come un lungo tavolo da pranzo in cui i commensali però si danno le spalle mentre la città orizzontale è come un tavolo in cui le persone siedono l’una di fronte all’altra, cioè la città orizzontale è “conviviale”.
Le città devono essere solari ma anche sociali. La bioclimatica deve andare d’accordo con l’effetto città e produrre in ambito urbano un clima “conviviale”.
E’ necessario un forte ridimensionamento della climatizzazione artificiale a vantaggio appunto dello studio della corretta insolazione, senza per questo continuare a polverizzare la città, anzi valorizzandola. Porta l’esempio del centro storico di Firenze che, prima dell’intasamento completo degli isolati, era dal punto di vista bioclimatico del tutto corretta. Non per questo Los si azzarderebbe mai a ipotizzare la demolizione delle costruzioni che nel corso dei secoli hanno intasato i lotti.
Los presenta poi un suo studio per un tessuto urbano fatto di isolati ma con due griglie di percorsi, quella pedonale e quella carrabile, che sono sfalsate tra loro.
Sulle energie alternative e sulla moda attuale di mettere pannelli fotovoltaici e pale eoliche ovunque è apparso se non scettico certamente disincantato. Ha infatti smitizzato, ironizzandoci sopra, l’energia fotovoltaica con una vignetta in cui le celle alimentano una…sedia elettrica, commentata con queste parole: “il fotovoltaico non è né buono né cattivo in sè, dato che con esso si può, appunto, alimentare anche una sedia elettrica”. L’intenzione dissacratoria di colpire l’idolatria del fotovoltaico è abbastanza evidente.
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Al termine di questa sintesi qualche mia impressione.
La più importante: è stata rappresentata da tutti una città con proprietà e caratteristiche comuni che rimandano alla città storica europea. Ognuno dei relatori parte da angolazioni diverse e affronta il tema in base alle proprie sensibilità ma il punto di arrivo delle analisi di ognuno è abbastanza simile quando non lo stesso. Nessuno, salvo Tagliaventi, ha parlato di architettura (ma anche lui è stato sfumato su questo), quanto di disegno urbano, di urbanistica, consapevoli del fatto che questo è il nodo di fondo da sciogliere della città moderna e contemporanea.
Certamente che le relazioni sono state influenzate dal tema del convegno, il ritorno alla città, ma in altri tempi, non lontani, le proposte sarebbero state ben diverse!
Certamente che i relatori saranno stati scelti conoscendone la loro idea di città ma questo nulla toglie al fatto che ognuno ha portato argomenti di grande razionalità a giustificazione della proprie convinzioni.
Solo Purini è stato più sfumato, più in imbarazzo nello scegliere nettamente una direzione di marcia; come spiegare diversamente il fatto di voler tenere insieme due opposti quali il Palazzo di Giustizia di Leonardo Ricci e il piano di Lèon Krier? La parola può molto ma non tutto e, comunque la si pensi, le due concezioni sono nettamente antitetiche e inconciliabili, due modelli agli antipodi che l’espediente letterario del contrasto collina-pianura, pur elegante e immaginifico, non può riuscire a far stare insieme, nemmeno come dialettica tra gli opposti.
E’ vero però che l’enunciazione delle sue parole chiave per il ritorno alla città sono coerenti con una visione di una città.
Marco Romano e Gabriele Tagliaventi sono stati per me una conferma, Sergio Los una rivelazione; le sue analisi sono originali e anticonformiste.
Qualche perplessità mi è rimasta sui risultati progettuali che ho visto ma avrei certamente bisogno di conoscerli meglio.
N.B. Mi scuso per la pessima qualità delle foto della relazione di Sergio Los.
19 settembre 2009
RITORNO ALLA CITTA': SINTESI DI UN CONVEGNO
A Firenze il 16 settembre sé tenuto un bel convegno dal titolo “RITORNO ALLA CITTA'”, organizzato da un gruppo di giovani e attivissimi architetti che si raccolgono in una associazione chiamata STUDIUMCITY e patrocinato dall’Ordine di Firenze.
La mattina hanno parlato Marco Romano, Franco Purini, Gabriele Tagliaventi e Sergio Los.
Proverò a riassumere a memoria e con i pochi appunti presi, cercando più possibile di attenermi ai contenuti da loro espressi:
MARCO ROMANO
Marco Romano, profondo conoscitore delle città di ogni continente, dopo aver esaltato la ricchezza della città europea che ha “inventato” la piazza, ha ribadito quanto scritto nel suo ultimo libro, cioè che la città è un’opera d’arte perché gli edifici, sia quelli pubblici o rappresentativi (i temi collettivi), sia quelli privati sono stati realizzati, a partire dal 1200, con intenzione estetica.
La città tuttavia crea disparità nei cittadini, in base all’appartenenza a classi o per censo; infatti nobili e benestanti abitano nel centro vicini alle piazze e ai temi collettivi e i meno abbienti abitano in prossimità delle porte, cioè in periferia. La periferia esisteva già 1000 anni fa e ciò che caratterizzava la periferia era non solo la distanza dal centro ma soprattutto la mancanza in essa di temi collettivi (i temi collettivi sono perciò una ricchezza).
Come fare a riequilibrare questo diverso uso della città per attenuare le differenze? Qui Romano ha portato diversi esempi di città che hanno affrontato e risolto questo argomento, tra cui San Giovanni Valdarno, città di fondazione, in provincia di Arezzo, su progetto di Arnolfo di Cambio: tutte le strade convergono nella piazza centrale e questo è un modo intenzionale, secondo Romano, per far percepire agli abitanti delle strade meno importanti e più periferiche che anch’essi fanno parte a pieno titolo della città e per farli sentire meno lontani dal centro rendendolo visibile dalla strada.
Anche a Milano e a Parigi, come a Barcellona e a Madrid ci sono viali che partono dal centro e si spingono fino in periferia. Ha poi portato ad esempio un suo piano per una parte periferica di Modena intorno alla stazione dell’Alta Velocità, risolta non imitando il centro storico ma integrandola al centro mediante una rete di strade e viali tematizzati.
FRANCO PURINI
Purini ha fatto un omaggio alla fiorentinità con un richiamo letterario a Palazzeschi che contrappone la varietà delle colline dall’anonimato della pianura leggendo questo brani da Le Sorelle Materassi:
"Dirò altresì, non per migliore chiarezza ma per scolpire meglio con un’immagine la positura, che in questa terra la collina tiene il posto della signora, e quasi sempre signora vera, principessa, la pianura vi tiene quello della serva, cameriera o ancella;…
Riporterò alcuni nomi di queste colline riuscendo essi, meglio dele parole, a dimostrarsi tale evidenza: Bellosguardo, e notate che molte ve ne sono dove lo sguardo è ancora più bello, Il Gelsomino, Giramonte, Il Poggio Imperiale, Torre del Gallo, San Gersolé, Settignano, Fiesole, Vincigliata e Castel di Poggio, Montebeni, Il Poggio delle Tortore, Montiloro, L’Apparita e L’Incontro, Monte Asinario, Il Giogo, Monte Morello… Sentite invece i nomi della pianura: Rifredi, Le Caldine, Le Panche, Peretola, Legnaia, Soffiano, Petriòlo, Brozzi, Campi, Quarto, Quinto, Sesto… anche la fantasia pedestre si spegne, sembrano gli evirati dell’immaginazione".
Naturalmente questa bella citazione non è stata fatta a caso ma per dire che la pianura è in qualche modo il luogo della sperimentazione e della ricerca per apportare a quel territorio naturalmente piatto e monotono quella fantasia e varietà che la collina invece possiede per dono naturale. Per questo, prosegue Purini, il Palazzo di Giustizia a Novoli di Leonardo Ricci, se pur non del tutto coerente nella sua esecuzione all’idea originaria dell’autore, deve essere valutato in questo contesto, come se fosse una collina in mezzo alla pianura. Poi prosegue dicendo che è certamente apprezzabile anche il vicino Piano di Novoli di Lèon Krier che arricchisce la pianura con le sue strade tortuose e articolate. Su questo argomento aggiungerò un mio commento nel prossimo post.
Passa poi ad indicare alcune parole chiave per il ritorno alla città:
-Densificazione
-Equivalenza teorica e pratica tra nuovo e vecchio (recupero sì ma è inevitabile costruire anche il nuovo)
-Semplificazione normativa
-Scala media: gli interventi edilizi non devono essere di dimensioni spropositate.
GABRIELE TAGLIAVENTI
Ha svolto una spumeggiante relazione che è arduo e riduttivo da raccontare con le sole parole perché faceva tutt’uno con una ricca quantità di immagini che illustravano i concetti espressi e arricchita da una notevole quantità di dati statistici significativi di cui ho potuto tenere traccia solo dei più significativi.
Prima ha decretato la morte dei grattacieli e dell’insana rincorsa verso l’alto, e questo grazie alla crisi.
Poi ha affrontato il tema della densità urbana, dichiarando che una città per essere efficiente deve essere densa e compatta e a questo proposito ha riportato i seguenti dati:
Bologna, la sua città, a fronte di un decremento notevole di popolazione è cresciuta in termini di superficie a dismisura raggiungendo attualmente i 9.000 ettari. Questo vasto territorio è cresciuto come un’ameba, completamente priva di una forma riconoscibile tanto da rendere difficilissimo un sistema di trasporti pubblici efficienti e addirittura impossibile una metropolitana che dovrebbe raggiungere quartieri sparsi ovunque e senza un disegno compatto. Il tutto a fronte di una popolazione attuale di circa 360.000 abitanti.
Nella stessa superficie territoriale di Bologna, 9.000 ettari, è invece compreso tutto il centro di Parigi che conta però circa 2.200.000 abitanti. E Parigi, dice Tagliaventi, è una città bellissima grazie a molte cose, tra cui il piano del barone Hausmann ma anche grazie alla sua densità che la rende viva ed efficiente con un piano terra occupato da negozi e botteghe, cosa ormai impossibile a Bologna perché è dispersa, non c’è la strada e soprattutto c’è una grande quantità di mall e ipermercati.
Questi, nati negli USA, sono però ormai da tempo in assoluta decadenza in quel paese, tanto che nel 2008 non ne è stato costruito nemmeno uno e quest’anno anzi ne sono stati demoliti 45 (se ho capito bene) per fare posto a cittadine vere e proprie con strade, negozi, drogherie al piano terra e abitazioni e uffici ai piani superiori.
Lo stesso fenomeno sta avvenendo in Francia dove si stanno demolendo centinaia di condomini nelle banlieue per sostituirli con piccole cittadine, sempre con le stesse caratteristiche di mescolanza di funzioni e con architettura regionale.
Porta l’esempio, tra gli altri, di Plessis Robinson (foto sopra e sotto) un comune della cintura parigina, dove sono stati distrutti i soliti fabbricati alti e anonimi per essere sostituiti con un vero centro urbano ben visibile nelle foto aeree. In effetti sembra un centro storico ma è invece quanto costruito al posto dei casermoni che ancora si vedono intorno.
Poiché il post rischia di diventare troppo lungo rimando ad un post successivo sia alcune mie considerazioni sia il resoconto dell’intervento di Sergio Los che, per me che non lo conoscevo se non di nome, è stata una vera e piacevolissima scoperta. Spero di poter mostrare alcune foto delle sue divertentissime e incisive diapositive, che però immagino saranno di pessima qualità perché scattate con il cellulare.
N.B. L'immagine di San Giovanni Valdarno è tratta dal sito Le belle città, di Marco Romano
Le immagini di Plessis Robinson sono tratte da Google earth e da Virtual Earth.
13 settembre 2009
ANTICHISTI E MODERNISTI
Pietro Pagliardini
Il vivace scambio di commenti che c’è stato nel precedente post mi ha suggerito una riflessione non tanto sul progetto al centro del post quanto sul rapporto che corre tra due mondi e due modi diversi, e spesso opposti, di intendere l’architettura e l’urbanistica, che con una grande semplificazione per capirci chiamerò "antichista" e "modernista".
Vorrei però spersonalizzare e, a parte l'esempio di Fantozzi che riprendo, in quello che ho scritto non c'è niente che faccia riferimento diretto agli autori dei commenti stessi.
Antichista è, appunto, una grande semplificazione, al limite dell’errore, che non dice il vero perché chi auspica un ritorno alla tradizione non è un nostalgico e non pensa affatto di fermare il tempo, ma è convinto, come ne sono convito io, che nella tradizione, cioè nel patrimonio di conoscenze acquisite dall’uomo nel corso di secoli di civiltà urbana, c’è una grandissima quantità di elementi che sempre più appaiono utili e necessari alla modernità. Non è un caso che uno degli slogan di Lèon Krier sia: un’altra modernità è possibile.
Quindi gli “antichisti” si sentono a pieno titolo estremamente moderni, nel senso appunto che auspicano un miglioramento della vita urbana, e perciò della vita dei cittadini, mediante il recupero di tecniche costruttive, tipologie edilizie, tessuti edilizi già adottati con grande successo in passato, almeno fino alla rottura delle regole voluta e attuata dal movimento moderno.
Ma non è di questo che vorrei parlare, quanto della convivenza con pari dignità culturale di entrambe queste due visioni urbane e ambientali e, direi, del fatto se sia veramente possibile e a quali condizioni questa convivenza.
Per farlo è forse più facile capire quali siano i punti di conflitto insanabili, quelli cioè su cui è quasi inutile sperare in una serena discussione e quelli invece in cui è possibile e necessario, da parte di entrambe le posizioni, trovare dei punti di dialogo, tenendo però sempre presente la spaventosa asimmetria informativa che caratterizza le due visioni che rende gli antichisti necessariamente più sospettosi per la paura di essere assorbiti in discussioni fuorvianti.
Intanto l’antichista non è uno sprovveduto che vive fuori dal mondo e che non comprende la società; è un uomo del suo tempo e sa benissimo quanto questa sia frammentata, ne conosce le spinte centrifughe, sa che un mondo costituito da individui non è una società organica in cui pochi possono decidere tranquillamente per tutti. Sa anche che non esiste una concezione unitaria del mondo, solo che non si rassegna supinamente a questo fatto e, prescindendo dalle visioni politiche o religiose di ognuno, ritiene che la città sia comunque un bene collettivo da salvaguardare e, se deve scegliere tra un disegno frammentario e un disegno unitario propende per quest’ultimo, dato che non esiste motivo di assecondare, per una non giustificata coerenza intellettuale, un disegno che incrementa il caos.
Quanti progetti di grande scala urbana vengono realizzati! Quante EXPO, fiere internazionali, olimpiadi, eventi mediatici comportano la costruzione di parti di città importanti che lasciano un forte segno! E allora perché perpetrare la stessa astratta geometria che non permette alcuna vita sociale? Perché non applicare a questi grandi eventi le regole che ci hanno dato le nostre città storiche? E quando si fa un piano regolatore perché continuare con lo stesso non-disegno fallimentare che ha prodotto le periferie e i suburbi che nessuno può ragionevolmente difendere?
Esiste poi un altro aspetto che rende l’antichista particolarmente sensibile e lo fa apparire quasi ridicolo agli occhi di molti ed è legato al suo stare fuori dal pensiero collettivo. Se mi è consentito un paragone politico l’antichista oggi è considerato come lo era l’uomo di destra ai tempi della prima repubblica: un paria, un impresentabile, un intoccabile, un escluso. Questo fatto indiscutibile è legato al fatto che dice “verità” diverse, il suo non è un pensiero omologato, può essere sbagliato, ma certamente non si adegua al pensiero dominante. Progettare una casa con il tetto e la gronda, per esempio, si può fare e viene fatto quotidianamente (quasi) senza problemi, ma non si può neanche lontanamente sperare o immaginare che possa assurgere al grado di canone culturale, di regola da insegnare agli studenti. Chi lo dicesse sarebbe poco meno, o poco più, che un mentecatto, un ignorante, un incolto e certamente non degno di poter rappresentare in alcun modo qualcosa che abbia a che vedere con la cultura.
D’altronde che notizia può rappresentare per le patinate riviste di moda il progetto di un architetto che faccia le case con il tetto? Ecco, direi che l’architetto antichista non vuole stupire nessuno, non cerca la sorpresa in architettura.
Ecco perché, in questa situazione, portare ad esempio Fantozzi non significa una necessaria adesione culturale a quel modello, almeno per me, ma, inquadrato nel suo contesto storico, il dire che la Corazzata Potiomkin è una “boiata pazzesca” è un gesto oggettivamente liberatorio e dissacratorio in un periodo in cui uscivamo da una fase di conformismo da cineforum con film brasiliani, ungheresi e, naturalmente, sovietici e polacchi di una noia mortale cui era difficile opporsi. Insomma l'antichista dice cose scomode e, in opposizione ad un ambiente culturale bacchettone e conformista, le dice spesso con un linguaggio "popolare", alla Fantozzi appunto, per accentuare anche formalmente la sua diversità.
Altro elemento di differenza, questo davvero profondo, sta nell’atteggiamento rispetto all’utenza in genere, che io individuo nei cittadini, intesi come i detentori del diritto di decidere le sorti della città. Da una parte si ritiene che debbano essere gli architetti, in quanto avrebbero la conoscenza, a dover decidere, dall’altra l’architetto è solo uno strumento che aiuta, con le sue conoscenze, a prendere decisioni. Da una parte si ritiene che la gente debba essere guidata, dall’altra si crede che la gente sia capace di scegliere e decidere. Da una parte l’architettura è molto autoreferenziale, dall’altra c’è talora la pretesa di sapere quali sono i bisogni della gente. Ora si da il caso che nemmeno il medico, che pure applica una metodologia e una tecnica scientifica largamente superiore, standardizzata e condivisa che non quella degli architetti, possa imporre la sua visione al paziente, figuriamoci l’architetto.
Passiamo adesso agli elementi di contatto. Oggettivamente stento a trovarne di precisi, tanto sono distanti i due mondi, ma uno sarebbe necessario vi fosse sempre da entrambe le parti: la curiosità.
Per quanto ciascuna parte sia convinta della propria verità non è possibile che non vi sia nell’altra qualcosa da cui attingere e apprendere. Per questo, pur rimanendo il livello di scontro alto, e io non ci vedo niente di male perché è il conflitto che fa emerge chiare le posizioni e le idee, credo che sia sbagliato chiudersi del tutto, quasi sperando nella vittoria definitiva di una parte sull’altra. Poiché questo non è né possibile né auspicabile, è bene cercare di capire cosa c’è di buono nell’altro e cosa di sbagliato eventualmente c’è nel nostro, dato che lo scopo del conflitto è quello di produrre i migliori risultati possibili per la città.
10 settembre 2009
LA CRISI FA BENE ALL’ARCHITETTURA
Leggo sul New York Times un articolo del suo famoso critico d’architettura Nicolai Ourossof, ipermodernista impenitente ma intelligente, sul nuovo progetto dello studio Herzog & de Meuron per il Parrish Art Museum a Southampton, NY.
Il titolo spiega molto: Quando la creatività diminuisce insieme ai contanti.
La storia è semplice: il progetto, partito con un budget di 80 milioni di dollari, è stato ridotto di due terzi, cioè circa 27 milioni causa crisi (purtroppo non posso pubblicare le foto perché protette da copyright ma queste sono consultabili sia nell’articolo linkato che qui.
Dalle poche immagini renderizzate disponibili del progetto si avverte il cambiamento: una di esse mostra un campo di grano con sullo sfondo un fienile o una stalla, né più né meno. Dalle altre immagini si comprende che l’edificio è composto da una serie di altri padiglioni stretti tra loro come un villaggio e gli interni sono caratterizzati da un tetto a capanna con travi di legno, il tutto rigorosamente a colori puri e privi di decorazioni: che diamine, non esageriamo.
Tuttavia il linguaggio è diverso dal solito, c’è uno sforzo di dialogo tra la campagna e l’edificio, non c’è accondiscendenza al gusto di apparire per forza creativi e di stupire. I materiali non si leggono ma nell’articolo c’è scritto che il tetto è di lamiera ondulata. In fondo per una stalla o un fienile è accettabile.
Ourossuf è combattuto tra due sentimenti: poiché non è sciocco rileva gli aspetti positivi di questo cambiamento ma teme che si vada verso un periodo di scarsa creatività, esattamente ciò che invece io auspico.
Scrive Ourossof:
"Eppure, il progetto è anche un importante passo indietro nell’ambizione architettonica. E suggerisce la possibilità di un nuovo sviluppo preoccupante nel nostro tempo di insicurezza finanziaria. Si tratta di un conservatorismo strisciante - e di avversione al rischio - che lascia poco spazio per l'invenzione creativa”.
Se per rischio intende quello degli investitori posso capire, se invece intende quello di sbagliare il progetto e quindi di ripiegare verso soluzioni più contestualizzate, evviva la paura del rischio, perché viceversa c'è certezza, non rischio, di sbagliare.
Certamente in lui prevale il rimpianto per i ricchi e grassi progetti dei tempi d’oro:
“Ciò che è spaventoso è ciò che propone il progetto per il futuro. È questo tipo di riduzione di scala l'inizio di una tendenza? Herzog & de Meuron non è l'unico studio di architettura che è stato sottoposto a questo processo. Pochi giorni dopo aver visto il nuovo progetto Parrish, Rem Koolhaas mi ha detto che si trovava in una situazione simile per un condominio e per il design di una sala di proiezione a Manhattan”.
Bene, molto bene, chissà che anche da Koolhaas non si ricavi qualcosa di meglio del solito.
In fondo l’architettura si è sempre trovata a combattere con problemi economici e la penuria di denaro, se non è endemica, non può che acuire la sensibilità e costringere a pensare a ciò che è essenziale in un progetto. Herzog & de Meuron l’hanno fatto e sembra anche piuttosto bene.
31 agosto 2009
ELOGIO DELLA NORMALITA'
Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.
Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.
E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:
Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:
Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).
Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:
Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.
Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:
Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!
E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
“Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».
Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto: