Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 maggio 2009

UN COMMENTO A EDDYBURG

Pietro Pagliardini

Ecco un esempio di pratica pre-moderna dell'urbanistica moderna: nel sito Eddyburg, curato dal Prof. Edoardo Salzano, ho trovato questo articolo “Edificabilità. Il Consiglio di Stato ribadisce: il piano la dà, il piano puo’ toglierla” scritto dallo stesso Edoardo Salzano a commento di una sentenza del Consiglio di Stato che rigettava il ricorso contro una scelta del PRG di classificare come agricola un’area individuata nel precedente PRG come edificabile.

Per la precisa lettura dei fatti e della sentenza rimando all’articolo stesso che è completo di ogni informazione.
Perché mi occupo di una sentenza, dato che non sembra questo il luogo adatto? Me ne occupo perché mostra quali siano le preoccupazioni principali di una parte importante della cultura urbanistica italiana.


Ormai da molti decenni l’urbanistica è soffocata da leggi, procedure, interpretazioni giuridiche; su queste si fanno convegni, la legislazione urbanistica è cresciuta a dismisura tanto da far perdere quasi il rapporto con la realtà e i piani regolatori vengono costruiti sulle leggi regionali non solo per dare ai piani la loro necessaria legittimazione giuridica, che sarebbe la regola, ma in base ai dettati delle leggi stesse piuttosto che sui dati reali delle città e del territorio.
Il metodo ha preso quasi il totale sopravvento sul merito e questa sentenza, e ancor di più il tono di Salzano, lo fa capire bene.
Nutro il massimo rispetto per il prof.Edoardo Salzano, per la sua storia, per la sua infaticabile attività a favore di quella che lui ritiene essere, ed in parte lo è, la strada giusta per l’urbanistica, ma questo non mi impedisce di dissentire da lui.

Dunque, dice Salzano non nascondendo una grande soddisfazione alla conferma della sua concezione del rapporto stato-cittadino, il PRG non crea diritti edificatori e il diritto gli dà ragione. Su questo niente da obiettare. Ma il fatto che ad una sentenza del Consiglio di Stato, organo di rilievo Costituzionale, ci si debba piegare, non vuol dire perdere il diritto di criticarla e di pensare che non vi sia aderenza alla realtà. Ciò alla luce del diritto positivo, dato che questo è un diritto “in itinere”, cioè è soggetto ai cambiamenti che si manifestano nella società; questa fatto determina la possibilità che ciò che non è ammesso in un determinato momento storico possa diventarlo in un momento successivo, per un cambiamento del costume, dei rapporti economici, del comune sentire di una società.
Dunque, proprio in questa logica, guai a sedersi sulla conservazione dello status quo perché il diritto segue necessariamente l’evoluzione della società, con alcuni punti sacri e inviolabili che sono assolutamente non negoziabili.

Edoardo Salzano introduce l’articolo con la seguente battuta:
"Con buona pace di quanti cianciano di “diritti edificatori” attribuiti dai piani urbanistici e non revocabili senza pagare. Una nota, e il testo della sentenza 2418/2009".

La sentenza afferma dunque il principio che i piani urbanistici non attribuiscono diritti edificatori non revocabili e Salzano sembra attribuire alla legge un potere ed una forza definitiva e quasi di verità assoluta, quasi fosse la legge a determinare la realtà e non l’inverso. Io vorrei mostrare che vi sono in quella sentenza parti assolutamente logiche che derivano dalla funzione stessa del diritto e parti che non trovano fondamento nella realtà ma, al massimo, la trovano solo in quella specifica e particolare situazione e in base a concetti urbanistici assolutamente aleatori se non inesistenti nella sostanza. Non che la sentenza sia sbagliata, non lo penso proprio, ma quella sentenza si basa, come tutte le sentenze, su una "verità giuridica", che non è detto sia una "verità fattuale" e ciò che è sintomatico è proprio il fatto che un urbanista mostri tanta soddisfazione di fronte ad una sentenza che, per sua natura, potrebbe non corrispondere alla reale situazione urbanistica.

La motivazione al primo quesito afferma che “mentre la variante di PRG assume immediata efficacia, per contro non sussiste alcuna approvazione di atto giuridico che sia perciò assurto al rango di uno strumento urbanistico efficace (nella specie attuativo, ad iniziativa di parte privata, quale il piano di lottizzazione) e del quale debba in qualche modo tenersi conto”. Questa è assolutamente corretta perché è il diritto stesso che stabilisce quelle regole che servono a garantire i rapporti e le gerarchie tra i piani, le procedure di approvazione e quant’altro, in modo tale che vi sia certezza del diritto, e in questo caso l’adozione del PRG è intervenuta prima dell’approvazione del piano attuativo, dunque nulla da eccepire sulla prevalenza dello strumento generale sul piano attuativo.

Ma che dire della motivazione su cui si basa il diritto del pubblico di variare il regime delle aree?:
“…tale correlazione non può fondare alcun vizio di illegittimità, rappresentando il contenuto stesso del legittimo esercizio dello “jus variandi” in sede pianificatoria e comporta proprio il potere di mutare il regime giuridico-urbanistico dell’area, che vede quindi cambiare la sua “vocazione” in senso giuridico (nella specie da edificatoria ad agricola). Altra nozione è invece rappresentata dalla “vocazione” intesa come la situazione dell’area nelle caratteristiche geomorfologiche del contesto in cui essa si trova al momento dell’esercizio del potere pianificatorio e quindi indipendentemente dalla destinazione giuridica sino a quel momento impressa ma che può avere o meno avuto esplicazione mediante un effettiva trasformazione del territorio. Ed è tale situazione che viene in rilievo rispetto alla nuova destinazione giuridico-urbanistica che all’area si intende conferire e che, come correttamente confermato dal TAR, il Comune risulta aver nella specie preso in considerazione ove ha evidenziato (nello studio preliminare e carta d’uso del suolo) che l’area ha oggettivamente caratteristiche agricole essendo di natura “seminativo-irrigua”. Rispetto a tale valutazione tecnica, quindi, la scelta del nuovo PRG di imprimere destinazione agricola è del tutto coerente […]”.

Cosa significa questa motivazione? Significa che il Comune ha la potestà di variare il regime giuridico-urbanistico dell’area, e anche qui nulla da obiettare, ma questa variazione si basa su una diversa “vocazione” dell’area stessa, e qui c'è il punto debole. Si noti bene che nella sentenza si scrive, correttamente, “vocazione” giuridica.
Non voglio essere equivocato, non contesto la sentenza, contesto il fatto che Edoardo Salzano creda, o mostri di credere, che la sentenza affermi “una verità assoluta”, quando è palese che non è così. Se un’area aveva precedentemente una “vocazione” edificatoria come fa a cambiare tale “vocazione” in agricola? La vocazione dei terreni è evidentemente a geometria variabile e comunque è ben difficile che la trasformazione passi dall’edificabile all’agricolo, a meno che quella precedente destinazione non fosse frutto di qualche strano marchingegno per cui fosse stata resa edificabile una zona in mezzo alla campagna. Ma anche in questo caso si dimostra la assoluta mancanza di “verità” della sentenza, rispetto a quanto ne sa Salzano e anche noi, perché, come minimo, bisognerebbe conoscere le reali condizioni dei fatti e delle situazioni.

Invece Salzano prende per buono tutto perché la sentenza soddisfa un suo desiderio e una sua convinzione legittima ma su cui è facile constatare la assoluta mancanza di aderenza alla realtà. Inoltre la verifica della “vocazione” dal punto di vista geo-morfologico si basa sulla carta dell’uso del suolo in cui quell’area è indicata come “seminativo-irriguo”; ma è evidente che queste caratteristiche agricole le aveva certamente anche quando venne inserita nel precedente PRG come “edificatoria”!
Può essere questa, per un urbanista, una giustificazione soddisfacente? Per un giurista certamente sì, e io non contesto la sentenza, io contesto Salzano a cui interessa stabilire un principio di tipo ideologico e poco conta se quel principio passa con motivazioni che ad un urbanista dovrebbero apparire, come minimo, deboli, ma meglio sarebbe dire risibili. Se, ragionando per assurdo e per ipotesi, in quell'area fossero state presenti due case e in base a questo "fatto" il CdS ne avesse stabilito la "vocazione" edificatoria, Salzano avrebbe potuto giustamente contestarla perché due case in campagna non costituiscono un inizio di insediamento urbano: ugualmente, l'edificabilità di un'area deriva da ben più complessi rapporti territoriali che non l'essere classificata con la definizione catastale di "seminativo-irrigua".

La sentenza sembra essere, per Salzano, strumentale al fatto di confermare la prevalenza indiscutibile del pubblico sul privato, ma direi la sottomissione del privato al pubblico.
Questo tipo di urbanistica è proprio quella su cui da decenni si dibattono autorevoli esponenti del mondo della cultura; è una cultura urbanistica politicizzata, ideologizzata, che lotta sulle procedure che sono diventate fine invece che mezzo per raggiungere l’obiettivo di progettare un ambiente urbano migliore di quanto non sia stato fatto fino ad ora con tutte queste leggi e sentenze.

Molto bene, professor Salzano, c’è la sentenza giusta e non sarà realizzata quella lottizzazione, ma adesso cosa facciamo: aspettiamo un’altra sentenza, magari contraria, e così il processo può continuare all’infinito e dare voce ad altri autorevoli esponenti dell’urbanistica per condurre la loro guerra?
Nel frattempo la città va avanti e senza alcuna relazione tra quella sentenza e il fatto che vada avanti nel verso giusto, non fosse altro per il fatto che nulla si sa di quella situazione. Ma questo non è significativo perché quello che conta è il risultato politico.

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30 maggio 2009

LA PRESA IN OSTAGGIO, ESTETICA, DEL DOLORE

Pietro Pagliardini

Rudy Ricciotti è, per me, il prototipo dell’archistar, forse suo malgrado, non saprei dire. Però devo riconoscere che quanto da lui detto nel comunicato stampa rilasciato al Centro Studi CESAR, sul tema “Archistar a L’Aquila”, mi è sembrato ragionevole e, soprattutto, intellettualmente onesto.
In particolare questa frase mi ha colpito:
"È impensabile a mio avviso - ha osservato - che ci sia una presa in ostaggio, estetica, del dolore; questa è piuttosto una questione politica. Se veramente dovessero venire coinvolte delle archistar, queste dovrebbero confrontarsi con le più umili necessità, con i budget più modesti e con i programmi più urgenti, come la ricostruzione delle abitazioni per le famiglie. La bellezza è sempre utile ma la priorità va data all’efficacia sensata".


La chiarezza con cui ha inquadrato il “fenomeno archistar” nella sua essenza profonda e ineluttabile è formidabile. Quando Ricciotti parla del rischio di “una presa in ostaggio, estetica, del dolore” non credo voglia fare del facile moralismo, non vuole dire che qualunque archistar andrebbe volontariamente a fare la passerella tra i terremotati, in barba ai lutti subiti; non vuole attribuire a nessuno in particolare il cinico calcolo professionale di sfruttare il terremoto come una ghiotta possibilità di apparire a livello mediatico. A me sembra proprio che Ricciotti abbia capito la ineluttabile, intrinseca e tragica “condanna mediatica” di un’operazione del genere se affidata alla presenza delle archistar.

Qualunque progetto, anche non eseguito, ma direi qualunque dichiarazione fatta sul campo da una qualsiasi archistar avrebbe una risonanza spettacolare, capace di coprire la realtà della fatica della ricostruzione, anche contro la volontà dell’archistar stesso e di mettere in secondo piano i problemi e i drammi umani dei cittadini di L’Aquila.

Le archistar, per loro natura, devono apparire continuamente, devono essere al centro dell’attenzione di TV e giornali. Loro sono archistar proprio per questo, altrimenti sarebbero bravi e normali architetti. Non può esistere l’archistar che si mimetizza, che si mette in seconda linea, che “si confronta con le umili necessità” perché il suo progetto sarebbe in ogni modo sotto i riflettori e dovrebbe esprimere comunque “una tappa” del suo lavoro e non potrebbe permettersi il lusso, un vero lusso, di fare un’opera “normale”, modesta, umile, non riconoscibile. Se anche lo facesse verrebbe interpretata, suo malgrado, come un’opera che si è calata nella realtà ma che porta impresso il marchio dell’architetto. La macchina mediatica del successo svolgerebbe, per conto dell’archistar e indipendentemente dalla sua volontà, la “presa in ostaggio, estetica, del dolore”.

L’archistar, fino a che non decade, è condannato ad essere grande e famoso comunque e a coprire e sovrastare tutto ciò che gli è intorno. Non è certo una novità, questa, per il mondo dello spettacolo e ormai non lo è neanche più per il mondo dell’architettura.
Ricciotti mi sembra abbia avuto il merito di cogliere il fenomeno archistar in tutta la sua dimensione mediatica e perciò effimera e questo, a prescindere dal fatto se egli stia o meno all’interno del cerchio di quel fenomeno, non può non essergli riconosciuto come prova di grande intelligenza.

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23 maggio 2009

PRATICHE PRE-MODERNE DELL'URBANISTICA MODERNA

Pietro Pagliardini

Una serie di commenti piuttosto critici agli ultimi tre post hanno affrontato il rapporto tra l’urbanistica, ma direi meglio l’abitare, e la libertà. In realtà credo che questi commenti fossero lo strascico di un precedente post, quello dell'Arch. Pier Lodovico Rupi, nel quale si sosteneva, in maniera esplicita, che le principali scelte urbanistiche fatte dal dopoguerra ai giorni nostri sono state influenzate da precise e consapevoli scelte politiche e ideologiche. Premesso che io condivido i contenuti di quel post, altrimenti non lo avrei pubblicato o almeno l’avrei fatto prendendone le distanze, non intendo proseguire quel discorso che mi sembra svolto in maniera egregia, esauriente e documentata dall’autore, quanto di riaffermare, più in generale, che la visione politica di una società si ripercuote in maniera consistente e diretta nella visione della città e nel rapporto, infine, tra stato e cittadini.

Non che io pensi che questa sia una mia grande scoperta, anzi direi che a me sembra così ovvio e scontato da apparire perfino banale doverci ritornare, ma sembra invece che questo aspetto sia dimenticato o rimosso al punto che, quando se ne è parlato, sono stato sospettato di farlo strumentalmente, in funzione di subdoli fini elettorali.
Giova perciò ricordare, per l’ennesima volta, che politica deriva da polis, città, e dunque la politica altro non è che l’arte di amministrare la città e in quest’arte rientra, a pieno titolo, la modificazione fisica della città la quale ha, ovviamente, influenza diretta sulla vita dei cittadini; perciò l’urbanistica, almeno per certi aspetti, è il metro per misurare il rapporto che esiste tra stato e cittadini e, in ultima istanza, per giudicare il grado di libertà che una società esprime.

Francesco Finotto, nel suo bel libro “La città aperta”, saggi Marsilio, 2001, ha mirabilmente sintetizzato questo rapporto stato-cittadini con questa frase ad inzio libro:
In che cosa consiste l'urbanistica moderna? Nella possibilità di condurre una pratica premoderna in una società moderna. Di fare una politica premoderna in una società moderna”.
La pratica pre-moderna è certamente quella che costringe gli individui a sottostare a limitazioni e controlli della collettività nell’uso del bene privato, in una società fortemente individualistica.

L’urbanistica moderna è il risultato del conflitto continuo tra il diritto alla libertà dell’individuo, che è anche diritto di disporre della proprietà privata, e l’esigenza di imporre limitazioni a questo diritto. Questo limite è connaturato all’idea stessa di città, che è spazio collettivo in cui si devono armonizzare interessi diversi, per cui esiste una soglia oltre la quale il diritto dell’individuo collide con quello degli altri e, infine, con la collettività. L’esempio più semplice è, ovviamente, quella parte del Codice Civile che impone determinate regole tra i confinanti.

Continua il libro di F.Finotto:
Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di termini: prima era la libertà a doversi giustificare; la politica era di per sé legittima. Ora accade il contrario: è la libertà ad essere legittima; la politica, anche quella urbanistica, deve legittimarsi, fornire spiegazioni, darsi una teoria credibile, accettabile”.
Non si pensi, da queste poche righe, che il libro appartenga alla categoria dei libri militanti; è invece un serio esame storico delle varie teorie urbanistiche nate con la rivoluzione industriale e del conflitto tra la libertà dei cittadini e il disegno urbano.
Contrariamente ad altre realtà, quali ad esempio gli USA, dove esistono vaste aree il cui territorio non è sotto la giurisdizione di nessuna Contea o ente territoriale e in cui comunità di privati possono auto-organizzarsi (1), in Italia non esiste cmq di territorio che sia libero da tale giurisdizione e si può anche affermare che non è data città europea che possa ammettere una totale assenza di regole. Ciò che non è affatto naturale è il metodo con cui avviene questa limitazione.
Una breve citazione:
"La prima imposta (sulla casa), di questo genere fu il denaro del focolare, ossia un’imposta di due scellini per ciascun focolare. Per accertare quanti focolari vi fossero nella casa era necessario che l’esattore entrasse in ogni camera della casa. Questa odiosa visita rendeva odiosa l’imposta. Perciò, subito dopo la rivoluzione, essa fu abolita come segno di servitù". (Adam Smith- Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni).
L’odiosa visita è esattamente l’atteggiamento prevalente nel rapporto tra stato italiano e cittadino. Uno stato occhiuto e invadente è preoccupato di ogni intervento, anche minimo, che viene fatto entro le mura domestiche. In realtà lo stato, attraverso norme di questo tipo, esercita un controllo sociale capillare proprio nello spazio sacro ed inviolabile di ciascun individuo, la casa, che la stessa Costituzione Italiana tutela, dichiarandola appunto inviolabile (art. 14 - Il domicilio è inviolabile).
Paradossalmente, tanto è curioso lo Stato di quanto accade dentro casa quanto è indifferente a ciò che avviene fuori di essa. Sembra avere dimenticato che “l’opera esterna non appartiene al proprietario quanto alla città”, e così ha fatto norme che rendono superflua la Commissione Edilizia e ha inventato la DIA che non è soggetta a valutazione di merito. Le procedure burocratiche sono aumentate a dismisura ma l’unica che è stata tolta è proprio l’ultimo residuo di un passato capace di dare senso alla scelta di condivisione del progetto, da sempre, specie per le opere importanti, appannaggio della civitas.
Controllo sociale in casa, indifferenza al valore della qualità della città.

C’è, inoltre, l’esclusione dei cittadini dalle scelte importanti per la città.
Almeno dal 1200, le principali scelte per quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi” non sempre sono state imposte alla città, anzi spesso sono state rimesse nelle mani dei cittadini in varie forme, tra cui quella del concorso. Osservo dunque che nella società pre-moderna l’urbanistica presentava qualche segno di maggiore modernità che non in quella moderna.
Senza voler mitizzare il passato non si può cioè non constatare che la “forma” della città era decisa con metodi più democratici di quanto avvenga oggi.

Sul piano della libertà individuale, il fallimento dell’urbanistica moderna è dovuto anche all’imposizione dall’alto delle idee elaborate da architetti ed urbanisti che, dal Bauhaus in poi, passando per Le Corbusier, sono riusciti ad imporre l’idea di essere loro gli unici depositari della conoscenza e della verità. Questa cultura architettonica elitaria, che ben si sposa oggi con la globalizzazione economica e culturale, configura l’idea di un potere non democratico e rifiuta con disprezzo la possibilità che i cittadini abbiano qualsiasi capacità di decidere.
Scrive Le Corbusier in una lettera del 1946:
L’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna”.
Anche Platone nel Politico afferma:
Non crederemo certo che sia possibile che una moltitudine in una città possa acquisire questa scienza?..Una moltitudine di persone di qualunque genere non diverrà mai in grado di amministrare la città con intelligenza per avere acquisito tale scienza”.

La sintonia è perfetta e dunque di pre-moderno in campo urbanistico non c’è solo la limitazione dell’uso del bene privato ma c’è anche il patto tra sapere e potere, appannaggio degli esperti e della politica, e da cui il popolo è escluso in quanto ritenuto ignorante.

Di un’applicazione diretta e grossolana di questo pensiero ne è testimonianza l’uso invalso nella Russia di Stalin di costruire abitazioni con servizi collettivi e comunitari, al punto che i singoli alloggi erano progettati privi di cucina, allo scopo di fare forzosamente convivere insieme gli abitanti anche in uno dei momenti più intimi della famiglia, quello cioè dei pasti, annientando così la libertà individuale ma anche scardinando la famiglia stessa, annullata e assorbita nel bene supremo che è la collettività, cioè lo Stato. Un sistema che è stato veicolato dalla critica urbanistica occidentale al mondo come una forma superiore di vita collettiva, suffragando questa idea con il fatto che essa è nata proprio nell’occidente stesso, dove analoghi concetti furono poi applicati e magnificati nell’Unitè d’habitation di Le Corbusier.

Ecco dunque che si giustifica, all’uscita della proposta di legge del Piano Casa , la reazione immediata e viscerale di alcuni governatori, con il loro: “Noi non lo adotteremo”. Perché tanta reattività, poi in parte rientrata, pena la defenestrazione da parte della base? Perché il diritto automatico all’ampliamento del 20%, piccola cosa in verità, mette in discussione il potere di controllo della politica su milioni di proprietari di case. Il piccolo proprietario avrebbe ottenuto, probabilmente, lo stesso incremento nel corso del tempo, al piano regolatore successivo, ma passando, in questo caso, per tutta una serie di procedure in cui sarebbero stati i vari enti ad elargire, al termine di quell’estenuante rito collettivo che è la trattativa del piano, durante il quale il cittadino viene portato ad essere totalmente alla mercé della politica e della tecnica (in genere architetti e geometri).
In questo senso il Piano Casa ha destabilizzato uno schema politico consolidato, è stato cioè un gesto dal forte significato liberatorio.

Se dunque è inevitabile che l’urbanistica sia praticata attraverso strumenti pre-moderni è anche vero che si tratta di dosare tale strumenti in modo tale che si ribaltino i ruoli, e l’onere della prova, per poterli applicare, spetti allo Stato. Deve insomma avere fine l’atteggiamento punitivo che caratterizza il tono, lo spirito e la sostanza di molte leggi.
L’interesse pubblico esiste in campo urbanistico ma le limitazioni all’uso del bene, e dunque alla proprietà privata, per essere accettate devono essere fortemente motivate da un interesse pubblico e trovare contropartite in efficienza dell’amministrazione pubblica, in incentivi e in partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali della città.

Perciò la città deve essere chiamata a prendere le decisioni importanti, come è avvenuto, ad esempio, per la tramvia in Piazza Duomo, a Firenze. Possono essere trovati anche metodi più informali ma ciò che conta è che passi questo principio: la città appartiene a tutti i cittadini e non solo ai politici e tanto meno ai gruppi economici e agli architetti; nel caso di nuovi importanti insediamenti, di opere pubbliche, di progetti di concorso, si affianchi al giudizio degli esperti quello dei cittadini, senza bollare la democrazia come populismo dato che il suo contrario è proprio l’autoritarismo platonico.



Nota 1) vedi questo link all’Istituto Bruno Leoni sul caso Partigliano:

http://brunoleonimedia.servingfreedom.net/Focus/IBL_Focus_134_Boccalatte.pdf

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15 maggio 2009

UNA CLASSE DIRIGENTE SENZA MEMORIA

Pietro Pagliardini

Non so dire come possa essere accaduto, né quando, ma è un dato incontrovertibile che la grande maggioranza della nostra classe dirigente ha perduto la percezione del tempo, della storia e con essa la memoria. Per classe dirigente intendo i politici, gli amministratori, i sindaci, il mondo della cultura (almeno quella che più appare), il mondo accademico, i media, le professioni, perfino le Soprintendenze che per definizione dovrebbero essere deputate a tramandarla intatta a chi verrà dopo di noi.
Come decifrare diversamente quello che sta accadendo nelle nostre città, in quasi tutte le città, comprese le nostre grandi città d’arte, compreso il povero Abruzzo che, dopo i danni del terremoto, dovrà subire anche la devastazione degli architetti famosi (per una volta non li chiamerò archistar), degli uomini immagine e simbolo stesso della perdita della memoria?

Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, la caduta del muro di Berlino e la vittoria, senza guerra, dell’Occidente e dei suoi principi di libertà, Fukuyama parlò di fine della storia. Non ho letto i suoi scritti ma solo articoli di giornali e riviste e ricordo che il senso del suo pensiero consisteva nel fatto che la democrazia liberale sarebbe stato il punto di arrivo del lungo cammino umano dal quale non sarebbe stato possibile tornare indietro. Dunque l’obbiettivo, almeno sotto il profilo politico, era stato raggiunto e, in questo senso, la storia avrebbe potuto considerarsi chiusa. Da molto tempo non mi appassionano più le grandi visioni e previsioni sul futuro e anche allora non detti molta importanza a questa teoria. Credo di avere avuto una facile ragione (lo scetticismo, purtroppo, premia sempre).

Però, in fondo, anche Fukuyama un po’ di ragione deve averla avuta perché, se è vero che il cammino dell’uomo prosegue, e con esso la storia, secondo strade difficilmente prevedibili da chiunque, è altrettanto vero che tutto ciò che è accaduto prima di quella data sembra dimenticato, rimosso, cancellato, come accade ad uno sportivo che, dopo aver tagliato il traguardo per primo, si gode la sua vittoria senza pensare a come essa sia maturata.
Molti sono gli esempi in tal senso, e non solo nel campo della cultura, dell’architettura e dell’arte; solo per citarne alcuni e per capire quanto sembrino lontane certe prospettive, almeno per me che, pur avendo i miei bei anni, non sono ancora medicalmente considerato vecchio e nemmeno anziano: l’eugenetica, che io associo all’infame vicenda del nazismo e che invece oggi ritorna travestita da conquista umanitaria e libertaria; l’anti-semitismo, tanto deprecato a parole ed esorcizzato con le dilaganti gite scolastiche ai campi di sterminio, quanto presente in maniera strisciante nella società e macabramente conclamato in alcune situazioni; le guerre di religione, che sembravano appartenere a secoli bui e lontanissimi da noi e che invece sono drammaticamente presenti in ogni parte del mondo. E molte altre.
Non sono questi, segni evidenti di perdita reale e pericolosa di memoria?

Lo stesso fenomeno si presenta, in maniera drammatica, nelle nostre città, nella percezione che la classe dirigente, appunto, ha dell’immenso e incommensurabile patrimonio culturale e architettonico che ci è stato consegnato e che essa sta distruggendo in nome di una generica e indistinta modernità.

Accade che la mancanza di pensiero riesce a far convivere gli opposti senza alcun ritegno o rigore logico; si prenda la parola magica che ricorre ormai più frequentemente parlando di architettura e urbanistica: “sostenibilità”.

Io non ho capito veramente cosa intendano dire quando la citano (spesso dubito che lo sappiano anche coloro che ne abusano) perché ormai viene appiccicata dappertutto, anche per vendere un Hammer, ma suppongo che vogliano significare la convinzione della esauribilità delle risorse del pianeta e dunque della necessità di farne un uso accorto e parsimonioso. A prescindere dal fatto se sia ragionevole o meno immaginare la fine delle risorse del pianeta in tempi rapportabili alla vita umana e non piuttosto a quelli dell’universo o almeno del sistema solare, mi verrebbe da pensare che ad un tale atteggiamento, giusto o sbagliato che sia scientificamente, dovrebbe corrispondere, come logica conseguenza, un’idea di “conservazione”, di rispetto per l’ambiente nella sua interezza, comprendendo in essa sia la poca natura incontaminata e selvaggia rimasta che la molta natura antropizzata esistente.
Mi parrebbe un modo di pensare e di comportarsi coerente con il concetto stesso di sostenibilità e, poiché l’Italia è praticamente tutta antropizzata, vale a dire che non esiste quasi area del paese che non sia stata modificata e adattata dall’uomo alle proprie esigenze (economiche, estetiche, sociali, psicologiche ) e dato che, di questa opera dell’uomo, la città è la massima espressione, proprio per questo essa dovrebbe essere oggetto di grande attenzione e tutela, specialmente in quelle parti che sono riconosciute come le più belle, le più ammirate dal mondo intero, le più irriproducibili perché nate in periodi storici completamente diversi dal nostro e che perciò meritano rispetto più di ogni altra cosa, per essere tramandate alle generazioni future.

Non vorrei tirare in ballo l’entropia in maniera impropria e non strettamente scientifica ma se una città presenta una forma ordinata e armonica e ha una sua struttura urbana forte e leggibile e in essa si introducono elementi esterni diversi e incongrui che la rendono illeggibile e ne indeboliscono e diluiscono la struttura originaria, si passa da uno stato di ordine ad uno stato di disordine ed è un processo che, almeno letterariamente e intuitivamente, aumenta l’entropia perché si perde informazione e perché quel processo è irreversibile.

Eppure processi di questo genere sono generalizzati tra amministratori e sindaci, i mandanti, con il silenzio colpevole delle Soprintendenze e con gli architetti come esecutori materiali. Gli esempi sono numerosi e noti.
L’Ara Pacis su cui a me sembra persino paradossale dover discutere: un progetto modesto in sé del quale Camillo Langone si domandava, appropriatamente, perché aver chiamato un americano famoso per ottenere un progetto che avrebbe potuto fare un geometra qualsiasi.

La pensilina di Isozaki, la seggiola come la chiama qualcuno, il gazebo come lo chiamo io: roba da bocciare a Composizione 1.

I parcheggi a ridosso della Fortezza da Basso, come dicevo nel post precedente, non opera di archistar, ma gravissima per il fatto stesso che una simile offesa alla città abbia potuto ottenere tutte le autorizzazioni del caso, compresa la Soprintendenza, senza che nessuno si accorgesse di quello che sarebbe accaduto (ma ci dobbiamo proprio credere a questa disattenzione?). Un caso emblematico di mancanza di classe dirigente nel suo complesso. Se son si fosse mobilitata l’opinione pubblica, che ha bloccato in corso d’opera la costruzione dell’ultimo piano, adesso saremmo addirittura al ridicolo internazionale!

La tramvia, sempre a Firenze, che chiude completamente la vista dell’ingresso e del viale del Parco delle Cascine!

E’ questa la sostenibilità, è questa la modernità sostenibile?

E non c’è differenza politica che tenga, in questo campo: Milano, Torino, Roma, Firenze, tutte rigorosamente schierate in quest’ottica modernista di ricerca dell’effetto spettacolare.
Ma se la memoria l’ha perduta il sindaco de L’Aquila allora vuol dire che la malattia è all’ultimo stadio.

Come è potuto accadere tutto questo?
La domanda non me la pongo per gli architetti, che sono stati i mandanti culturali della tabula-rasa, e che ritengo, nella grande maggioranza, ormai persi ad ogni ragionamento serio sulla città ma direi, semplicemente, a volere e sapere prestare attenzione alle caratteristiche e al sapore di un luogo rispetto ad un altro. Non me la pongo perché è una battaglia persa ma so anche che, se cambiasse la committenza pubblica ed istituzionale, se almeno questa avesse conservato una percezione minima del carattere della propria città e ne chiedesse con autorevolezza il suo fermo rispetto, gli architetti si adatterebbero, eccome, e rientrerebbero nei ranghi velocemente, anche se con difficoltà per la mancanza di attitudine mentale ad una interpretazione del progetto che non sia puramente “creativa”, cioè infischiandosene del contesto e del luogo e pensando all’architettura come se fosse design.

Mi pongo la domanda per le Soprintendenze, in cui enorme è il divario tra il trattamento che riservano al cittadino che vuole rifare il tetto rispetto all’Amministrazione che vuole “riqualificare” una piazza e a cui tutto viene consentito; e più contemporaneo è il progetto più esse si sentono interpreti del tempo e in linea con la modernità perché non sia mai che possano essere tacciate dell’accusa di essere “conservatori”.

Mi pongo la domanda per la classe politica che, cadute le ideologie del ‘900, sembra ritrovarsi smarrita e senza valori di riferimento, senza saper discernere ciò che è effimero da ciò che è permanente e si comporta come il nativo americano davanti a Cristoforo Colombo, scambiando inutili oggetti luccicanti con l’oro.
La vera tabula-rasa è nella testa di molti sindaci che aspirano al grattacielo, al grande nome, a lasciare un segno forte che li porti all’attenzione delle cronache come innovatori, invece che dedicarsi ad interventi di manutenzione e restauro piuttosto che squalificante “riqualificazione”; invece che acquistare gadgets costosissimi dissolvendo un patrimonio culturale non riproducibile e fare operazioni altamente “insostenibili”.


P.S. Leggo ora sul Corriere della Sera dello strano caso di un uomo che ha perso completamente la memoria ma cita a raffica particolari minimi e dettagliatissimi di tutta la sua vita che però sono frutto della sua fantasia. I medici hanno dato un nome a questa forma di amnesia: "iperamnesia confabulatoria".
Mi sembra un termine che ben si adatta al sindaco di L'Aquila che dice di ricordare benissimo, e di rimpiangere anche, il suo centro storico distrutto e poi dichiara di voler chiamare le Archistar per ricostruirla!

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14 maggio 2009

SGARBI: SINDACO NON CONSEGNI L'AQUILA ALLE ARCHISTAR

LINK A IL GIORNALE:

VITTORIO SGARBI: Sindaco, non consegni l'Aquila nelle mani di archistar come Fuksas

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13 maggio 2009

ARCHISTAR PER RICOSTRUIRE IL CENTRO STORICO

Pietro Pagliardini

Via Fortebraccio, via Bone Novelle, via San Martino, via Garibaldi, il Corso, i vicoletti di zona Pretatti e Ortolani dove nelle domeniche d’estate al tramonto andavo a passeggiare con mia moglie. Ecco, tutto questo vorrei farlo tornare com’era prima”.

E’ il sindaco di L’Aquila, Massimo Cialente, che, sul Corriere della Sera parla e ricorda con affetto e rimpianto sincero luoghi cari a lui e sua moglie. E par di vederla questa coppia felice aggirarsi a braccetto tra strade dai nomi noti e vicoletti con squarci di cielo tinti di rosso. Se non ci fosse il titolo dell’articolo ad averci avvisato del contenuto dell’intervista, verrebbe da pensare che il sindaco abbia in mente una ricostruzione “dov’era e com’era”. Verrebbe da pensare che il sindaco di L’Aquila abbia presente il sindaco di Gemona in Friuli. Verrebbe da pensare che, insieme alle case degli aquilani, egli sia fermamente intenzionato a ricostruire la loro memoria, a conservare la loro identità, a riaffermare la resistenza dell’uomo alle forze della natura.

Invece c’è quel titolo che fa comprendere tutto. Tutto fuorché le parole del sindaco, in patente contrasto con la sua intenzione di chiamare le “grandi star dell’architettura” per ricostruire la sua città.

Risulta difficile persino fare ironia. Se, anche per assurdo e contro le mie abitudini, tentassi di mettermi nei panni altrui e mi sforzassi di penetrare nella sua mente per indagare sulle ragioni di una tale scelta, ipotizzando che egli abbia voluto fare una provocazione, oppure che voglia tenere alta l’attenzione del paese sui problemi dell’Abruzzo, oppure che sia un convinto assertore dei progetti spettacolari e modaioli delle Archistar e che sia un seguace di quel filone di sindaci che, in mancanza di idee per la propria città, utilizza la scorciatoia del grande nome per mettersi al riparo da critiche e per gettare fumo negli occhi ai suoi concittadini; se anche ci provassi non potrei riuscirci perché non c’è un minimo di razionalità e logica tra i dati e la soluzione del problema: far tornare come prima quell’ambiente e quell’atmosfera che dice di rimpiangere con i progetti delle archistar!
E’ concettualmente sbagliato che qualsiasi membro appartenente alla categoria “archistar”, a prescindere da giudizi di merito, possa e voglia cimentarsi nel “dov’era e com’era”, in base alle dichiarate aspettative del sindaco, altrimenti non farebbe parte di quella categoria ma di un’altra.
Ma il sindaco non lo sa, evidentemente, e forse pensa, in buona fede, che sia conciliabile una città “dagli scorci inimitabili: archi, portici, cortili, davanzali” con opere in acciaio, vetro, grigliati, c.a., ecc.

D’altronde ci vuole comprensione perché non è solo, come già detto: a Firenze, che per fortuna non ha avuto terremoti, ma ha avuto un sindaco del 6° grado Richter, si ritrovano con una Fortezza da Basso coperta da una lato da un parcheggio semi-interrato cui è stato anche eliminato un piano in corso d'opera, e dall’altro da una lunga reception in acciaio e vetro, dove lo sforzo e la capacità del progettista non possono essere sufficienti ad impedire l'inevitabile ingombro visivo delle mura; si ritrovano anche una Piazza Santa Maria Novella “riqualificata” con sedute a parallelelipedo in acciaio corten e anche in vetro e acciaio uso teca per orefici e una pavimentazione, di quello che è divenuta uno slargo indistinto, in pietra ma con rigatura trendy, uso show-room. Forse queste opere, dei cui autori non so il nome, non sono archistar in senso stretto ma fanno parte della stessa logica perché sono liberi, creativi, artisti insomma. D’altronde si sono cimentati nel superbo tentativo di competere e confrontarsi con il Sangallo e Leon battisti Alberti e chi se non un artista può competere con questi nomi.
Il sindaco Cialente è “sub commissario per la ricostruzione del Centro Storico”, e lui chiama le archistar! Ma oltre il sub commissario, io dico, ci sarà un supercommissario che stia sopra il sub e che lo richiami alla realtà? Se non ci fosse .... non ci resta che sperare in Bruno Vespa.


L'immagine aerea è tratta da Microsoft VirtualEarth

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5 maggio 2009

OGNI SANA RIVOLUZIONE URBANISTICA DEV’ESSERE ORIZZONTALE

Questo articolo, scritto da Paolo Masciocchi, da Pietro Pagliardini e da Nikos Salìngaros, è stato pubblicato da Il Foglio il 30 aprile 2009.
Il Vice Direttore Esecutivo de Il Foglio, Daniele Bellasio, ci ha autorizzato a postarlo.


LA NUOVA CITTÀ PER ESSERE DAVVERO MODERNA DEVE RIDIVENTARE MEDIEVALE


Il dibattito di questa stagione politica, teso tra città da ricostruire e incentivi a rideterminare periferie e aree urbane sterili, mostra che l’Italia si sta preparando ad un’importante revisione del pensiero urbanistico delle città. Per meglio contribuire a questo cambiamento radicale, desideriamo esporre la nostra proposta.


La ragione per la quale si realizza una città è la costruzione e la crescita della comunità dei cittadini che la abitano. E la comunità urbana non riesce a svilupparsi al di fuori di proprietà geometriche molto precise dell’abitato.
“Città” significa una rete di spazi pubblici definiti dal tessuto edilizio urbano, da realizzare con dimensioni in scala umana, secondo proporzioni e rapporti matematici che possono risultare facilmente sensibili all’intervento umano. Su questa struttura geometrica, che richiede l’attività degli esperti e non può essere demandata alla politica, va a sovrapporsi lo sviluppo di una maglia connettiva che permette l’interazione di singole reti molto diverse tra loro, come quella pedonale, del trasporto pubblico, la rete automobilistica e la rete industriale degli autotrasporti e delle ferrovie. In forza di questa visione, è possibile creare una città compatta nella dimensione orizzontale, che costituisce il punto di partenza per uno sviluppo corretto dello spazio civico. È uno sbaglio credere di ottenere la densità giusta attraverso una crescita verticale della città, perché tale dimensione alimenta un processo di scollegamento tra gli elementi urbani e tra le persone. La nostra soluzione vuole spazzare via la debolezza delle posizioni circolanti con alcune indicazioni precise.

Riteniamo occorra una progettazione delle piazze pubbliche in situ, senza preconfezionate geometrie standard (tipiche quelle a semicerchio), perché ogni luogo genera la propria geometria urbana come conseguenza naturale dell’applicazione di codici generativi.

La nuova città va concepita come una rete di connessioni a cui case ed edifici si devono adattare. [Il tessuto urbano vive di questa simbiosi, e i manufatti architettonici devono trovare collocazione nella sfera della geometria connettiva degli spazi della città. E ancora, desideriamo allontanarci dai prodotti abitativi mirati e dedicati ad una specifica funzione: i quartieri solo residenziali, le aree solo commerciali, o industriali, o di servizi, nonché le soluzioni urbanistiche rivolte ad un target determinato]. La nuova città costruita secondo il nostro modello assomiglia più al tessuto urbano medioevale che a quello tipico della pianificazione di stampo moderno.

La natura è inclusa in modo intimo, su piccola scala, e strettamente collegata alle strutture artificiali, con la stessa logica dei frattali. Se dunque la matrice centrale è l’individuo, tutto ciò che straborda dalle dimensioni umane è da eliminare alla radice.

Lo studio della biofilia urbanistica ha dimostrato che l’uomo ha bisogno d’uno stretto contatto con la natura, cioè la città umana deve mescolarsi con piante e verde alla scala più intima dell’ambito cittadino, quella del diretto contatto. Tuttavia non basta unire edifici e verde senza criterio, specie se la natura diviene un elemento addolcente e giustificativo di orrori architettonici.

Operare secondo il gusto compositivo individuale dell’urbanista, può condurre facilmente a far smarrire alla natura la sua stessa funzione integrante l’abitato, come è accaduto nelle città intrise del modernismo di Le Corbusier, dei palazzi fluttuanti tra prati sterili e non vissuti.
Gli esempi migliori di aggregazione di edificato e natura sono da ricercare in ciò che rimane dei piccoli giardini della città tradizionale ottocentesca, e ancora nei centri storici delle città europee che sono gli unici a favorire lo scambio sociale. È invece fuori da ogni logica scientifica di vivibilità il miscuglio delle tipologie urbane verticaliste con il verde a corollario, anche inserito a dosi massicce. Tutte le soluzioni così prospettate sono dei non-luoghi utopici, validi solo a suscitare le attenzioni del marketing e un fracasso sensoriale. Infatti, queste tipologie artificiali di abitato non definiscono comunità di esseri umani a causa della loro geometria, che risulta ostativa per sua natura a tale sviluppo.

Dunque, occorre capire cosa si nasconda dietro l’espressione “città-giardino”, perché il nome in sé esercita fascino su molti, inducendo una visione semplice e immediata fatta di un sentimento di ritorno alla natura e di una reazione al caos e al disordine della città contemporanea. Il movimento d’opinione e l’eco mediatico indirizzato a proporre nuovi orizzonti di urbanità ci spinge a consigliare ai politici di non seguire modelli già risultati fallimentari. Tra gli slogan della sinistra pseudo-ambientalista e la visione decisionista della destra, che nelle amministrazioni locali fanno il gioco delle archistar e degli immobiliaristi, occorre che si faccia largo un’opzione innovativa e culturalmente valida, da cui chi governa può attingere senza pregiudizi.

L’urbanistica è una scienza giovane, che risulta essere ancora incompleta, perché dominata da uno spirito fondato su dogmi autoreferenziali. È tempo che la politica e i cittadini se ne accorgano, e contribuiscano a favorire una visione più corretta del rapporto tra il costruire e il vivere bene.

Paolo Masciocchi
Pietro Pagliardini
Nikos Salìngaros


La foto aerea di Arezzo è tratta da Virtual Earth

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1 maggio 2009

TUTTI A PARIGI, FINCHE' SIAMO IN TEMPO!

Pietro Pagliardini

Instant-post questo e con ancor meno pretese del solito. Solo un consiglio: chi già è stato a Parigi, ci torni prima possibile e se la goda. Chi non c'è stato ancora, fugga a vederla perchè, se va avanti così, la Parigi che vedranno sarà un'altra cosa.

I 10 progetti per la Parigi del XXI secolo sono arrivati al loro iter finale.

Si dirà: ma Parigi è sempre cambiata, anche in maniera drammatica. Sono state abbattute chiese e monumenti. Sono stati tracciati viali riconfigurando gli isolati in modo drastico. La modernità high-tech è entrata nel cuore della città (e ora si parla di smontarla e rimontarla altrove), i parchi stessi sono qualcosa d'altro che altrove. Ma proprio ieri leggevo che la cosa considerata più brutta dai parigini è il grattacielo Montparnasse (segue l'Opera Bastille), e oggi vedo una selva di guglie alla Gaudì spuntare lungo la Senna!!!
Andiamo a Parigi, finché non sarà come Dubai!

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26 aprile 2009

COMMENTO DI VILMA TORSELLI SULLA CHIESA DI FOLIGNO

Ho ricevuto questo commento di Vilma Torselli sul progetto della Chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Come faccio spesso quando ho fretta l'ho dapprima pubblicato nello spazio dei commenti, riservandomi di leggerlo con calma. Dopo averlo fatto, pur nella diversità di opinioni, mi sono reso conto che quel luogo era troppo stretto. 

*****
di Vilma Torselli

Ogni attività creativa dell'uomo produce immancabilmente simboli: unendo significati lontani e sintonizzandoli su un significato comune, l’opera costituisce il medium per svelare intrinseci valori simbolici ed un segno o una forma possono far riferimento ad una realtà non raccontata, ma resa comprensibile alla nostra capacità percettiva al di fuori dei normali processi razionali.


Come afferma Freud, il simbolo è un'eredità filogenetica grazie alla quale l'uomo ha una disposizione mentale che lo mette in grado di relazionare le pulsioni e le emozioni psichiche con gli oggetti, il campo della rappresentazione visiva è quello nel quale queste capacità relazionali vengono utilizzate costantemente e al meglio.

Si dice che "ogni figura racconta una storia", e questa asserzione generale vale per gran parte dell’arte, se si eccettua la ’mera’ decorazione geometrica.", così scrive Gregory Bateson ( "Verso un’ecologia della mente", 1997), e vale, aggiungerei, per l’architettura, che come l’arte è chiamata a istituire un criterio formale che convogli il linguaggio verbale verso la codifica iconica dell’immagine.

Tutte le attività umane, l’arte, l’architettura, che si esprimono attraverso segni acquistano un valore simbolico al di là della rappresentazione pura e semplice, per addivenire attraverso il simbolo alla rappresentazione visibile dell’invisibile.

Se accettiamo l’idea che l’architettura debba immancabilmente organizzare lo spazio secondo una funzione e al tempo stesso rappresentare i modi e il senso nei quali la funzione viene espletata, in relazione al contesto culturale in cui si colloca e che in essa si riconosce (da cui il valore simbolico dell’architettura), si comprende come tutto possa essere simbolo, che lo diventi o meno dipende dal significato che l’uomo gli attribuisce, in determinate circostante, in determinati contesti, nell’ambito di una realtà culturale precisa.

La religione ha sviluppato una vera e propria teologia simbolica, incorporando il concetto che il simbolo è mezzo per denunciare ed al tempo stesso surrogare l’inadeguatezza della parola o dell’immagine ad esprimere il sacro, cosicché l’architettura religiosa è per eccellenza quella che più si esprime attraverso una grande ricchezza di contenuti simbolici.

Tuttavia l’esecutore dell’opera, l’architetto che progetta un luogo sacro, esprime, sì, nella forma architettonica precisi contenuti liturgici e dogmatici codificati dalla tradizione religiosa, ma anche il senso che in quel momento storico e in quel contesto sociale viene annesso a quel tipo di edificio, filtrandolo, e questo è un passaggio chiave, attraverso il suo vissuto umano e culturale conscio o inconscio.
Solo grazie a questo passaggio un’architettura ‘simbolica’ diventa ‘simbolo’ (vedi la La Chapelle Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp).

Detta in parole povere, nella chiesa di Foligno Fuksas ci ha ‘messo del suo’, egli stesso spiega il significato della modesta elevazione del terreno, del taglio trasparente alla base, “la sospensione di un volume all’interno di un altro”, ecc.

Questi sono innegabilmente contenuti ‘simbolici’ che si sovrappongono a quelli dogmatici con il rischio reale di prevaricarli (rischio peraltro di tutta l’architettura moderna) e con la possibilità di una reificazione dell’architettura in oggetto architettonico. Ma questo rischio c'è sempre stato e sempre ci sarà, finchè, per fare una chiesa, non decideremo di mettere tutti i dati (dogmatici e liturgici) in un computer che, dopo una bella ‘shakerata’, sfornerà la chiesa perfetta!

Ciao
Vilma

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25 aprile 2009

ANCORA LANGONE SULLA CHIESA DI FOLIGNO

Un'altra PREGHIERA del 3 giugno 2008 di Camillo Langone sul Cubo di Foligno ripescata grazie alla segnalazione di un amico.

Due link per vedere la chiesa:
1)
www.archiportale.com
2)
www.archiportale.com

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23 aprile 2009

E SE FOSSE LA VOLTA BUONA?

Questo post è opera di Andrea Pacciani, architetto, che vive e lavora a Parma. Andrea si occupa da oltre 15 anni di progetti architettonici per nuove costruzioni di natura tradizionale, di interventi di restauro e di ristrutturazione. Si occupa di lavori teorici, studi di fattibilità, pianificazione urbana, oltre che di interni e di design.
A fine post c'è un suo profilo più completo.


*****

E SE FOSSE LA VOLTA BUONA?
di Andrea Pacciani

Finalmente una buona notizia!
Direi che questa sollevata d'armi dell'intellighentia da parte dell'architettura modernista è una vittoria senza precedenti per il Principe di Galles e per le idee che porta avanti con indefessa convinzione da oltre vent'anni.
La notizia non sta nel contenuto della dialettica o dall'esito del dibattito inglese su quell'intervento edilizio, quanto nel cambio di scala di uno dei partecipanti. Che la sua opinione abbia convinto la famiglia reale del Qatar a cambiare i progetti architettonici passa in secondo piano di fronte alla portata culturale della reazione scomposta del sistema consolidato delle archistar; queste infatti hanno sentito la necessità di schierarsi compatte contro un vero nemico della loro credibilità disciplinare, conclamata a livello planetario.

Fin adesso scarsamente considerato, se non addirittura denigrato o trattato con sufficienza dalla critica architettonica internazionale, con questo evento di cronaca il Principe Carlo viene assunto ad interlocutore “reale” nel dibattito; è evidentemente chiaro che l'eco delle sue teorie cominciano a diffondersi e a dare fastidio e a farsi sentire troppo anche tra i piani alti delle società immobiliari più importanti.

Fintanto che i suoi interventi erano a livello quasi filantropico in difesa di singoli interventi edilizi di modeste dimensioni, anche se di alto valore culturale o testimoniale, gli si lasciava volentieri un osso da mordere. Questa volta invece, per aver toccato interessi economici di scala importante, è arrivata la levata di scudi delle prime donne dell'architettura mondiale abituate a sfidarsi nelle più svariate parti del mondo a colpi di scenografici interventi autocelebrativi

In un periodo di implosione autoreferenziale della cultura architettonica dominante, le lobby immobiliariste globali si sentono evidentemente minacciate dalle pressioni di un personaggio che oltre Poundbury e una manciata di volenterosi seguaci alla ricerca di far vivere bene le persone in luoghi decorosi, non ha costruito niente in confronto a loro e non ha possibilità di ingerenza nella cultura architettonica istituzionale ed accademica (gli hanno anche chiuso tempo fa un'università in cui voleva si insegnasse architettura tradizionale).

Sicuramente solo la forte pressione dello statement immobiliare internazionale, che in questo momento di crisi mondiale ha subìto l'annullamento di commesse importanti un po' in tutto il mondo, ha compattato le vedette internazionali dell'architettura a schierarsi compatte a rivendicare la propria autorità disciplinare.

Da sempre snobbate, per il lignaggio del personaggio, considerato per questo poco credibile da un punto di vista scientifico, le sue tesi oggi possono essere considerate all'avanguardia, intesa come opinione controcorrente allo stato di predominanza culturale, ovvero quella modernista.

Per modernisti intendo semplicemente gli architetti che dal primo movimento moderno fino agli ultimi eclettismi storicistico-moderni (quelli che fanno architettura moderna un secolo dopo, alla ricerca delle radici pure della modernità senza rendersi conto che è cambiato il contesto storico-sociale ), o agli ultimi sperimentalismi (quelli che basta dimenticare gli assi cartesiani e tutto assume un aspetto più innovativo), credono ancora nel potere salvifico del nuovo rispetto al modo di gestire l'antropizzazione del territorio che si è perpetuato per secoli nella storia.

Sicuramente i temi dell'eco-sostenibilità, dello spreco delle risorse territoriali e delle energie non rinnovabili, in questo periodo sulla bocca di tutti, aiutano l'affrancamento delle opinioni del Principe Carlo dalle critiche stilistiche stupidamente prese a pretesto per contestare un modo di fare architettura che invece è integrato ad un sistema di valori di vita che vedono al suo centro il cittadino consapevole della qualità delle proprie scelte e l'identità dei luoghi in cui vive.

Chimera della modernità, la consapevolezza condivisa e partecipata dei cittadini ai temi dell'architettura oggi si manifesta attraverso invece nuovi progetti ed edifici tradizionali che in silenzio stanno conquistando piccolissimi segmenti del mercato immobiliare. Credo sia anche un fatto di comunicazione che si può leggere tra le righe anche in questa vicenda.

Il declino dell'architettura internazionale dello star-system è annunciato dal crescere dell'interesse dei temi dell'eco-sostenibilità ambientale: a questa svolta epocale di ricerca al rimedio del danno procurato dagli eco-mostri, i grattacieli e quant'altro costruito selvaggiamente in termini di risorse ambientali, non è stato ancora corrisposto un forte cambio di linguaggio architettonico di riferimento e ha indebolito le posizioni culturali dell'autorevolezza dell'architettura modernista contemporanea sbilanciata più verso l'impersonificazione del caos, dell'effimero, dell'architettura fine a se stessa.

E' forse il momento di una accelerazione nella comunicazione dell'architettura tradizionale come miglior applicazione dei concetti di costruzione ecosostenibile. Si tratta infatti di un approccio alla progettazione che si integra non solo tecnicamente meglio ad altre concezioni avveniristiche, ma soprattutto con la consapevolezza, per gli utenti, che quegli edifici sono costruiti sui loro bisogni reali e personali e non dei capricci dei progettisti o delle imprese, evidenziando il ruolo centrale della qualità della vita dell'individuo che lì deve abitare.

E' sicuramente il momento per il Principe Carlo di rimboccarsi le maniche e di raccogliere il guanto della sfida: chi meglio di lui può farlo? E' un'opportunità per i sostenitori di una nuova stagione classica per l'architettura, come altre ce ne sono state nella storia, che è al giusto grado di maturazione culturale per arrivare al sua conclamazione più ampia.

A vent'anni dalla pubblicazione del libro del principe A Vision of Britain: A Personal View of Architecture, oggi il Principe Carlo comincia a fare paura a qualcuno: che le lobby immobiliariste delle archistar comincino a pensare di scaricare qualcuno? è troppo presto per crederci, ma se son rose....


Profilo di Andrea Pacciani:

Andrea Pacciani, vive e lavora a Parma: da oltre 15 anni si occupa di progetti architettonici per nuove costruzioni di natura tradizionale, di interventi di restauro e di ristrutturazione. Si occupa di lavori teorici, studi di fattibilità, pianificazione urbana, oltre che di interni e di design.
Il curriculum più completo continua alla fine del post.

Contrariamente al modo corrente di fare la professione oggi in Italia, ha fatto la scelta di progettare e far costruire con i criteri compositivi e tecnologici tramandati dalla cultura costruttiva della tradizione; sulla semplice riflessione che si vive meglio nelle case di una volta che in quelle moderne, ha scelto di riprendere a costruire le prime con i comfort delle seconde.

Nato nel 1965 a Venezia, si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano e ha svolto attività didattica in
collaborazione con l'Università di Parma. Ha ricevuto il secondo premio al concorso internazionale “Marsham
Street” Urban Design Competition, Londra (1996); ha organizzato “Le forme della tradizione”, Parma (2004),
convegno con atti pubblicati da Franco Angeli; ha esposto alla Biennale di Venezia (2006) 10° Mostra Internazionale di Architettura nella Mostra Città di Pietra con unprogetto su Punta Perotti a Bari.

Nel 2008 ha vinto il Palladio Award a Boston, premio internazionale per l'architettura classica e tradizionale.

Il suo lavoro è stato pubblicato su varie riviste di settore nazionali ed internazionali, e sul web; tra i suoi
scritti spicca, oltre a quelli dedicati all'Architettura Tradizionale, “L'Arte del Prosciutto”, un libro edito da
Mattioli 1885 che sconfina nella storia dell'arte e della gastronomia.

Parafrasando una frase di S.Agostino, il suo sito www.andreapacciani.com, nel quale viene descritta la sua
attività professionale, si apre con il motto IN INTERIORE HOMINE HABITAT TRADITIO



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21 aprile 2009

FORZA, CARLO!!

Pietro Pagliardini

La notizia è ormai nota: un nutrito quanto inedito gruppo di famosi architetti ha scritto una lettera al Sunday Times per diffidare il Principe Carlo d’Inghilterra dal mettere bocca su un progetto londinese di uno dei firmatari.
La notizia è nota e la do per scontata ma la novità è grande e merita tutta l’attenzione dovuta per i personaggi che coinvolge.
Intanto va decifrato che cosa rappresenta questo gruppo di architetti famosi, possiamo anche dire di archistar, se a qualcuno non dispiace:

- non è un SAR., che non vorrebbe dire Sua Altezza Reale ma Sindacato ARchistar perché, formalmente, non fa rivendicazioni economiche o di tutela del posto di lavoro;
- non è un gruppo di intellettuali che fanno appelli alla libertà, perché protestano contro una presunta, indebita ingerenza di un personaggio pubblico nel normale svolgimento del processo di formazione e approvazione di un progetto edilizio;
- potrebbe sembrare la preparazione di una class-action, cioè quelle cause collettive fatte a tutela di un gruppo di persone, in genere consumatori, contro un soggetto specifico per chiedere un risarcimento dei danni; potrebbe sembrare ma non lo è, perché qui il danneggiato potrebbe essere uno solo, cioè il progettista incaricato, e gli altri non hanno interessi specifici da tutelare.

Ma allora che cos’è?

E’ un errore. E’ la rappresentazione scritta e firmata di una debolezza, da una parte, e di una forza, dall’altra. Non mi riferisco ai soggetti interessati quanto alle idee che essi rappresentano.

Da una parte i più famosi architetti del mondo; ne manca qualcuno, certo; forse coloro che non hanno accettato di certificare per scritto la debolezza di un’idea.
Le riviste straripano dei loro progetti. Alcuni di loro sembrano produrre un progetto importante a settimana. La loro fama non è limitata al mondo degli addetti ai lavori ma ormai sono conosciuti praticamente a tutti, come le rock star, gli attori, le top model.

E’ un fenomeno abbastanza recente e mai conosciuto prima.
E’ un effetto collaterale dell’economia globale.

Non ha affatto aiutato l’architettura a migliorare. Ha assimilato l’architettura ad un bene di consumo come la lavatrice, l'auto, la TV.
Ma l’architettura non è una TV. Se non vuoi la TV non lo compri; sei un originale ma puoi non comprarla. Conosco diverse persone, non molte, che vivono benissimo senza TV.

L’architettura non la puoi rifiutare, quando c’è.
E’ lì, davanti a te. Vai in piazza e te la trovi davanti. Ci lavori dentro l’architettura. Non puoi cambiare città se non ti piace. Vai in un’altra città e trovi altre architetture simili. Ovunque nel mondo trovi architetture così
. Nei paesi ricchi ed anche in quelli poveri. Come la TV o la Coca Cola.

Dall’altra parte c’è un Principe. E’ una persona importante. E’ ricco. E’ un difensore dell’ambiente. E’ anche un pittore. E’ un appassionato amante dell’architettura tradizionale. Non so se abbia la TV in casa ma è certamente un originale.
E’ un personaggio controverso che non gode di buona stampa, anche se le sue azioni sono in salita. Potrebbe stare in pace a dipingere e ad andare a cavallo. Invece si occupa di architettura e urbanistica. Ha una fondazione molto attiva e grazie a lui è nato in Europa il primo esperimento di New Urbanism. Che ha un notevole successo di pubblico e di mercato. Per la critica basta aspettare. Ma già si vedono segnali favorevoli.

La sua colpa sarebbe quella di essersi interessato di un progetto presso la proprietà per cambiarne l’architettura, passando dal solito acciaio e vetro ad una più tradizionale. Posso immaginare che sia andato per un tè dal suo amico-proprietario e gli abbia detto, tra un pasticcino e l'altro: "Sarebbe bello che tu costruissi un progetto un pò più inglese, visto che siamo a Londra". E il suo amico avrà pensato: "Quasi quasi..! Faccio contento Carlo e magari lo vendo anche meglio... in questi temi di crisi.... che si guarda più alla sostanza".

Ma questa non è una colpa, è un merito. E allora perché si sono arrabbiati i famosi architetti?
Io penso che non si siano arrabbiati con il Principe.

Io penso che si siano arrabbiati con l’idea di architettura del Principe che sembra finalmente scesa dalle montagne e cominci ad affermarsi nell’opinione pubblica.
L’opinione pubblica non è la gente, perché quella non credo abbia mai cambiato idea, semmai hanno abboccato all'idea di casa come una TV, ma i mezzi d’informazione che cominciano a fiutare l’aria e, cominciando a dare credito a quell’idea, ne amplificano gli effetti.

E allora hanno commesso l’errore. Hanno certificato la debolezza dell’idea di cui sono portatori.
Sarà la crisi? Sarà la moda? Sarà una vera presa di coscienza?
Sarà quel che sarà. L’importante è che sia.


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19 aprile 2009

ARCHITETTURA DEL CONSENSO

Pietro Pagliardini

Questo post è un commento all’articolo di Vilma Torselli, Architettura e consenso, su Artonweb.
Inutile leggere il post se prima non si è letto l’articolo.

*****

L’interpretazione che Boncinelli fornisce della creatività in relazione al consenso sociale si presta, come accade spesso in questo campo, alla doppia, possibile interpretazione.
Al soldato che doveva partire per la guerra e domandava trepidante se sarebbe tornato vivo, la Sibilla rispondeva “Ibis, redibis non morieris in bello” lasciando a lui l’interpretazione nel mettere la sospensione prima o dopo la negazione, con ciò assicurandosi un sicuro successo.
Il doppio senso di Boncinelli mi sembra stia nel la frase “Il successo creativo richiede qualità sociali tali da permettere l’affermazione propria e dei propri prodotti, e tali capacità sociali possono facilitare un giudizio positivo sull’insieme delle caratteristiche possedute dal soggetto creativo”.

Ora mi sembra che Boncinelli, diversamente dalla Sibilla, non dia due risposte opposte ma due risposte di valore diverso, una basata sull’oggettività del prodotto creativo, l’altra, quella della frase riportata sopra, sulla soggettività , rispetto al pubblico, delle qualità sociali del soggetto creativo. Insomma, sulla capacità del creativo di sapersi vendere bene, di saper sedurre, di apparire convincente, con ciò lasciando al lettore la scelta se attribuire maggiore importanza all’una o l’altra delle risposte.

Non attribuisco un giudizio negativo a questa dote di fascinazione, tanto più in un architetto che non può in alcun modo essere simile ad un poeta maledetto, dato che questi può continuare a scrivere quanto vuole anche senza avere uno straccio di lettore ma l’architetto non può costruire neanche una capanna se non trova un minimo di consenso sociale, almeno in un cliente disposto a dargli credito. E i progetti da soli difficilmente fanno un architetto: mi piacerebbe aver potuto vedere Sant’Elia all’opera!

Non gli attribuisco un giudizio negativo ma aiuta a spiegare il perché, come dice Vilma Torselli, le archistar hanno tanto, innegabile consenso.
Il caso Gehry è emblematico e ormai è diventato un classico: il successo del suo museo a Bilbao è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Grazie alla sua creatività, sulla quale non si possono avere incertezze (che invece ve ne sono sul fatto se sia creatività da architetto o da scultore) ma grazie anche alla potenza dei media che, probabilmente in virtù del nome e della tradizione che porta il museo, l’hanno “pompato” oltre misura, e masse di turisti sono andate in una città ai più ignota, salvo che per il calcio. Grande è pure la creatività di Ghery nel sapersi fare propaganda, nel saper sfruttare con grande capacità la sua bella faccia rugosa e allegra da vecchio saggio e scapigliato allo stesso tempo, nel farsi fare il suo bel film da un grande regista, nel lanciare ai giovani insegnamenti tanto creativi quanti inutili, tipo quello arcinoto del foglio di carta accartocciato entro cui guardare con una telecamera per esplorare spazialità “nuove”.

Se Ghery è grande in questo, per esserne stato anche il capostipite del genere, altrettanto lo è Zaha Hadid la cui condizione di donna, in un universo di architetti uomini, e di irachena, in un ventennio in cui questo paese è stato al centro dell’attenzione mondiale, ha costituito un ottimo viatico, sicuramente casuale, nel conferirle un’aura di novità, mistero, esotismo, curiosità, eccezionalità, unito ovviamente alla sua creatività che consiste nel disegnare forme dinamiche nello spazio mettendo a frutto le innovative tecniche del software, che però nel passaggio dalle patinate copie a sublimazione alla dura materia edilizia, stentano a conservare la loro capacità attrattiva. Non risultano infatti per lei pellegrinaggi come a Bilbao.

Ma è giusto citare anche il nostro Renzo Piano il quale tra tutti è, in questo senso, il più intrigante e il più sapiente, con un approccio mediatico molto “contestualizzato”, che io definirei “genovese”, perché è “oculato” nel proporsi e, quando lo fa, riesce a mantenere un garbo ed un aplomb molto understatement, in cui bisogna essere veramente del mestiere per capire se ti sta prendendo in giro oppure se fa sul serio, e comunque ti lascia davvero sempre il dubbio; cosa invece che negli altri è più semplice discernere, se tanto tanto uno non è avvezzo ad abboccare a tutta la pubblicità che gli viene propinata.
Anche umanamente Renzo Piano è una miscela di romanticismo(il suo amore per il mare) e di concretezza (il suo battere sul mestiere e sulla ricerca) ed è perciò italianissimo in questo, perché è “ruffiano” come la sua architettura: non ti lascia senza fiato né ti indigna ma sei costretto ad accettarla anche contro voglia non riuscendo a capire cosa ci sia di giusto o di sbagliato. Al che, viene da pensare, ma non ho fatto alcuna indagine in materia, che il Beaubourg sia più opera di Rogers che sua, tanto è esuberante e eccessivo (per questo dubbio vedi anche www.prestinenza.it).

Mi piacerebbe anche parlare di Libeskind ma ho divagato troppo e sono anche andato fuori tema rispetto alle riflessioni finali di Vilma Torselli che condivido. Non c’è dubbio infatti che i media, nella loro fame mai appagabile di notizie sensazionali ad ogni costo, per valorizzare il loro spazio pubblicitario, lasciano poco o punto tempo e spazio alla riflessione meditata, a tutto vantaggio dell’immagine flash, della spettacolarizzazione, della “invenzione” straordinaria.
Anche la critica specializzata, sempre attraverso i media ma anche in gran parte attraverso l’università, ed è quella che lascia il segno più profondo, svolge un decisivo ruolo di mediazione tra il soggetto creativo e il pubblico.

E’davvero possibile bypassare questo sistema? Io credo proprio di no, si può solo sperare che cambi il prodotto ma il metodo resta lo stesso. Questo vale però per le punte dell’iceberg, per l’occhio dei media, per la notizia globalizzata. Esiste invece un grande bacino di consenso o dissenso che non sta sotto gli occhi del mondo ed è quello della provincia dove io credo sia possibile oltre che necessario, mettere in rapporto diretto soggetto creatore e pubblico, opere e città.

Lo si può fare, basta che lo si voglia fare ed è una forma di rapporto così profondamente coerente con la nostra società che si dice essere democratica che quasi stupisce non sia presa in alcuna considerazione. E’ il metodo del voto popolare, ma non quello fatto attraverso la TV digitale, che è manipolabile perchè influenzato da fattori incontrollabili, ma quello fatto proprio con una scheda o una firma, che richiede un interesse reale che smuova il cittadino ad andare in un luogo, a guardare cosa si sta pensando di fare della propria strada, del proprio quartiere, della propria città e decidere che cosa sia più giusto o, semplicemente, cosa gli piaccia di più.

Nel mezzo possono esserci manipolazioni politiche; è possibile, anzi sicuro, ma politica significa arte di governare la città, quella però fatta al cospetto di persone fisiche, di cittadini-elettori in carne ed ossa non passivi spettatori o lettori o nickname della rete. Quindi non ha senso parlare di manipolazione quanto di normale dinamica della politica, cioè di scelte per la città.
Un concorso per un nuovo edificio pubblico, una piazza, la sistemazione di una strada, un edificio privato di grande impatto, tanti sono i campi in cui è doveroso che vi sia il parere “scritto” dei cittadini.

In realtà la decisione su quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi della città”, fatta in base ad una intenzione estetica è caratteristica comune e peculiare della città europea almeno fin dagli inizi del medioevo.

Ma l’intenzione estetica collettiva, cioè la volontà di determinare ciò che è bello e ciò che è brutto per la propria città, pur appartenendo ad una società chiusa di tipo organico, perciò disposta a muoversi entro un universo di canoni condivisi, contrariamente alla nostra società aperta in cui la scelta individuale e le spinte centrifughe sono nettamente prevalenti sull'unità, ha determinato tuttavia la formazione di un diritto architettonico secondo il quale la città appartiene a tutti. Il fatto che vi sia una separazione dei compiti tra coloro che sono deputati alla redazione del progetto e coloro che di tale progetto dovranno essere i fruitori non esclude l’esistenza della figura del committente, di colui cioè che paga per l’esecuzione dell’opera.

Nel caso delle opere pubbliche non c’è alcun dubbio che tale committente sia la città.

Si tratta di decidere, perciò, se lasciare tale decisione al livello della democrazia rappresentativa, come avviene "teoricamente" oggi, cioè ai Consigli Comunali e Provinciali, oppure se rimetterla ad una forma più diretta, cioè direttamente dei cittadini.

Allo stato attuale la decisione è sempre e comunque frutto di una mediazione di interessi diversi e contrastanti tra una pluralità di soggetti:
- l’ente preposto che, consapevole della propria debolezza e incapacità di assumersi responsabilità che potrebbero influire sul meccanismo del consenso, si affida agli “esperti”;
- gli “esperti”, nominati anch’essi con assurdi metodi di garanzia che, per dover essere impersonali, finiscono per diventare o casuali o frutto di scelte opache;
- gli architetti che rivendicano il loro diritto alla libertà di espressione e alla creatività che è culturalmente l’opposto del rispetto dei luoghi e degli uomini;
- i cittadini direttamente interessati all’opera che vengono formalmente fatti sfogare nelle varie forme in cui si esercita la così detta partecipazione e trasparenza ma cui alla fine non resta che la formazione di comitati di protesta e del no; questa procedura, che in termine tecnico si chiama “presa in giro”, allunga a dismisura i tempi, inquina il clima, sotto ogni profilo, fa guadagnare qualche posticino in municipalizzate a qualche presidente di comitato e dà sempre, alla fine pessimi risultati.
Risulta perciò chiaro che la soluzione corretta è affidare la scelta dell’opera direttamente alla città.
Dunque, in campo urbanistico, come in quello artistico, è necessario trovare strade capaci di stabilire una relazione diretta tra autore e pubblico e direi meglio tra prodotto e pubblico, dato che l’autore interessa solo agli architetti e ai media. Ma qui c’è da superare un doppio ostacolo: quello degli architetti, cui torna comodo il filtro dell’establishment culturale e politico, più manipolabile che non il giudizio di massa e torna comodo anche ad una politica che, incapace da tempo di assumersi la responsabilità di scelte autonome, preferisce coprirsi le spalle con parodie di scelte democratiche.

Una prova di tutto questo lo avremo proprio con la ricostruzione in Abruzzo: voglio proprio vedere se quella gente così colpita nei propri affetti, nella perdita della propria casa e dei propri ricordi più intimi permetterà di essere espropriata della decisione sul che fare delle loro città. Voglio proprio vedere se il dibattito rimarrà a livello politico e di esperti urbanisti e architetti o sarà costretto a confrontarsi con i veri protagonisti della ricostruzione.

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14 aprile 2009

IL PARADOSSO DEL MODERNISTA

Pietro Pagliardini

Un brano di Karl Popper:

"In conseguenza della perdita del proprio carattere di organicità una società aperta può diventare gradualmente quella che amo definire una “società astratta”. Essa può perdere, in considerevole misura, il carattere di gruppo concreto o reale di uomini o di sistema di gruppi reali siffatti. Questo punto, che è stato raramente compreso, può essere spiegato per mezzo di un’esagerazione.
Noi possiamo concepire una società nella quale praticamente gli uomini non si incontrano mai faccia a faccia –nella quale tutte le attività sono svolte da individui completamente isolati che comunicano tra loro per mezzo di lettere dattiloscritte o di telegrammi e che vanno in giro in automobili chiuse. (La fecondazione artificiale consentirebbe anche la riproduzione senza la componente personale). Siffatta società fittizia potrebbe essere chiamata una “società completamente astratta o depersonalizzata”. Ora, il punto interessante è che la nostra società moderna assomiglia in molti dei suoi aspetti a siffatta società completamente astratta. Benché noi non sempre viaggiamo da soli in automobili chiuse (ma incontriamo faccia a faccia migliaia di uomini che ci camminano accanto nella strada), il risultato è quasi o stesso che se viaggiassimo a quel modo: noi cioè, di norma, non stabiliamo alcuna relazione personale con pedoni nostri simili.[…..]



Ci sono molte persone che, vivendo in una società moderna, non hanno alcun contatto personale intimo o ne hanno pochissimi, vivono nell’anonimità e nell’isolamento e, di conseguenza, nell’infelicità. Infatti, benché la società sia diventata astratta, la struttura biologica dell’uomo non è cambiata molto, e gli uomini hanno bisogni sociali che non possono soddisfare in una società astratta.

Naturalmente, il nostro quadro, anche in questa forma, è oltremodo esagerato. Non ci sarà mai o non ci può essere mai una società completamente astratta o anche una società prevalentemente astratta. Gli uomini continuano a creare gruppi reali e ad allacciare reali contatti sociali di ogni genere e cercano di soddisfare nella massima misura possibile i loro bisogni sociali emozionali.
[….]

Alla luce di quanto si è detto, risulterà chiaro che il passaggio dalla società chiusa alla società aperta può essere considerato come una delle più profonde rivoluzioni attraverso le quali è passato il genere umano. In conseguenza di quello che abbiamo definito il carattere biologico della società chiusa , questo passaggio deve avere su coloro che lo vivono un’incidenza profondissima. Perciò, quando diciamo che la nostra civiltà occidentale deriva dai greci, dobbiamo renderci conto di che cosa ciò significa. Significa che i greci cominciarono per noi quella grande rivoluzione che, a quanto pare, è ancora ai suoi inizi: il passaggio dalla società chiusa alla società aperta."

Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario. Roma 1973.

Questo brano di Karl Popper, pubblicato in Italia nel 1973 ma concepito in gran parte circa 70 anni fa, non si occupa direttamente di urbanistica, tanto meno di architettura ma suggerisce alcune cose sul rapporto tra l’individuo, la società e la città: chi ritiene (in realtà auspica) che la città, nel suo adattarsi alla “società aperta”, debba assecondare quell’isolamento sociale di cui parla Popper, non tiene conto di quanto Popper stesso dice e che è abbastanza evidente anche senza scomodare Popper, cioè che la struttura biologica dell’uomo, nel passaggio durante questi secoli da un tipo di società all’altra, non è cambiata molto e ha ben poco di astratto.

Quindi l’uomo, la cui condizione ancora fortemente legata alla sua biologia alcuni giudicano evidentemente come primitiva, ha bisogno di città che permettano lo scambio sociale e che lo facciano sentire meno isolato, di case capaci di garantire loro intimità e riparo. Nonostante sia passato e passi sempre più di frequente nei media il messaggio di una società astratta in atto e si confondano alcuni episodi marginali, ma di grande impatto pubblicitario, legati al mondo dell’immagine, il grosso della società mantiene tutta la sua concretezza e la sua naturalità.

Questa società ha bisogno di città tradizionali e a chi pensa che ciò non sia vero io suggerisco di individuare, in ogni occasione possibile di nuovi progetti importanti, la strada giusta per fare una verifica: si rendano i cittadini responsabili delle scelte importanti per la città, sottoponendo loro una variegata gamma di progetti diversi e opposti come impostazione (non uno stesso genere, cioè) al voto popolare. Ciò che verrà scelto sarà la scelta giusta.

Chi sostiene una scelta tradizionale in urbanistica e architettura non teme il giudizio popolare. Chi lo teme si rifugia sempre dietro l’idea che queste scelte spettano agli esperti perché la gente non capisce, non possiede gli strumenti per giudicare.

Tale ragionamento ha in sé questo paradosso: i sostenitori di un tipo città che loro reputano adatta ad una “società aperta”, usano esattamente gli strumenti di potere e la forma mentis propri della “società chiusa”, della società organica e platonica.

In altre parole i modernisti sono "antichisti" oppure i progressisti sono i veri conservatori.

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