Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


1 aprile 2010

SULL'EDILIZIA POPOLARE

Ettore Maria Mazzola

Il recente post di Pietro Pagliardini sul questo blog, stimola diversi spunti di riflessione.
In base alla cultura prodotta nell’arco degli ultimi anni, specie in base a come ci sono state raccontate le cose, siamo portati a credere che sia vero che l’unico modo di produrre edilizia popolare sia quello promosso a partire dalla Legge 167.
Durante la presentazione del mio libro ad Arezzo, come ricordava Pietro Pagliardini, è nato un interessante dibattito con l’ex direttore dell’IACP locale. Quest’ultimo sosteneva che gli unici successi in termini di edilizia popolare del XX secolo si devono ai piani INA Casa e GESCAL.
In realtà il tecnico probabilmente ignorava – forse per l’insegnamento ricevuto e il luogo in cui ha esercitato – assolutamente in buona fede, quanto di meglio fosse stato prodotto, in materia di edilizia popolare, precedente a quegli esempi.


L’Italia, partita parecchio in ritardo rispetto ad altre nazioni che avevano affrontato i problemi dell’industrializzazione prima di lei, in breve riuscì a mettersi al passo, e forse addirittura a superare molti di quei Paesi.
Se analizzassimo la storia degli albori dell’edilizia popolare in Italia, all’indomani della legge Luzzatti che istituì nel 1903 l’Istituto per le Case Popolari, ci accorgeremmo che in breve tempo, grazie anche alle capacità critiche degli studiosi locali (architetti/ingegneri, sociologi, economisti, specialisti di etiologia, ecc,) si seppero riconoscere, e prevenire, i limiti delle “Città Giardino”, generando un sistema di Città Giardino all’italiana, molto più valido dei monotoni modelli anglosassoni che in quel periodo venivano presi ad esempio ovunque.

Gustavo Giovannoni, e il suo gruppo di colleghi dell’Associazione Artistica Cultori di Architettura, viaggiarono al fine di studiare, liberi da pregiudizi, gli aspetti positivi e quelli negativi del nuovo modello di città teorizzato e messo in pratica da personaggi come Owen e Unwin, e vi riconobbero gli aspetti da prendere in considerazione, come quelli da evitare. La conoscenza di alcuni articoli contenuti nel Codice Urbanistico dell’Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, ci fa scoprire cose molto interessanti, per esempio il fatto che fosse noto, già da quell’epoca, che gli utenti di una città non sono tutti uguali tra loro: vi sono persone che non possono curare un giardino, altre che, anche potendolo fare, non lo farebbero mai, poi ci sono gli anziani che non possono fare gli stessi spostamenti delle persone giovani (peraltro destinate anch’esse ad invecchiare), le famiglie numerose e quelle no, gli individui singoli che vivono da soli, quelli che possono permettersi un mezzo di trasporto e quelli sprovvisti, ecc. Insomma una vera e propria città, fatta di individui singoli, ognuno con le proprie esigenze, non un contesto urbano concepito come un sistema omogeneo, ed elaborato a tavolino per un utente identico. Giusto per non dilungarmi, mi fa piacere ricordare alcuni tra i punti interessanti:
• sulla necessità di variare i profili stradali: «[…] Il difetto capitale di alcuni sobborghi giardino di Londra […] sta nell’aspetto monotono che presentano le file interminabili di centinaia di casette tutte dello stesso tipo che sembrano uscite da uno stampo. Costruzioni di identico numero di ambienti possono avere un aspetto esterno ben diverso» (1) ;
• sulla necessità di evitare i cloni e di riferirsi, sempre, ai luoghi in cui si interviene «[…] Perché l’insieme della città-giardino riesca realmente estetico occorre che le costruzioni siano dello stile adatto al paese. Nessun peggiore risultato di quando lo spirito di imitazione porta a costruire tipi esotici nati per rispondere ad esigenze ben diverse da quelle locali. Ogni regione ha il suo tipo di costruzione […]» (2);
• sul ruolo sociale dell’Urbanistica: «[…] se può facilitare la fusione tra le classi, la società le sarà debitrice della risoluzione di un compito importante»(3).

Quest’ultimo punto, in particolare, risulta meritorio di essere sottolineato: dopo la disastrosa esperienza dei primi edifici costruiti a Roma per la classe operaia da parte di speculatori (banchieri, nobili e membri del clero) disinteressati alle condizioni di vita degli abitanti – esperienza che portò a dei fenomeni di violenza simili a quelli vissuti nelle banlieues francesi nel 2006 – si svilupparono una serie di studi mirati a comprendere le ragioni di tanto malcontento, studi necessari a concepire un nuovo modo di progettare la città.
Grazie allo studio proto-sociologico condotto da Domenico Orano nel quartiere Testaccio (1905-10), ed alla conseguente creazione del Comitato per il Miglioramento Economico e Morale di Testaccio – comitato che, oltre al sociologo ed agli artigiani esperti di costruzioni, raggruppava persone di qualsiasi estrazione culturale e sociale, di qualsiasi credo religioso, ecc. – si ottenne, con i due nuclei progettati da Giulio Magni e Quadrio Pirani (traducendo in architettura i suggerimenti del Comitato), un drastico miglioramento delle condizioni di vita dei residenti che, per la prima volta, vennero a riconoscersi come “appartenenti” a quel luogo. La memoria di questo cambiamento è storicamente impressa nella parole lasciateci dal Presidente dell’Istituto Romano Case Popolari, Malgadi che, nel suo testo del 1918 intitolato “il nuovo gruppo di case al Testaccio” affermava: "Parlare di arte in tema di case popolari può sembrare per lo meno esagerato; ma non si può certo negare l’utilità di cercare nella decorazione della casa popolare, sia pure con la semplicità imposta dalla ragione economica, il raggiungimento di un qualche effetto che la faccia apparire, anche agli occhi del modesto operaio, qualche cosa di diverso dalla vecchia ed opprimente casa che egli abitava […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita".

Nasceva così lo slogan dell’Istituto per le Case Popolari: LA CASA SANA ED EDUCATRICE.
L’istituto, finché gli venne consentito di svilupparsi, (con una mano al portafogli e l’altra agli studi filantropici), produsse gli ultimi esempi di città vivibile, una serie di luoghi dove la gente è tutt’oggi orgogliosa di vivere, quartieri e case dove, quando i reco con i miei studenti per far lezione, c’è sempre qualcuno che viene mostrarsi orgogliosamente, oppure ad offrirci qualcosa, o ad invitarci addirittura ad entrare per vedere quanto dignitosa sia la sua casa o il suo giardino. Purtroppo, le leggi fasciste a partire dall’istituzione dei Governatorati, che tolsero qualsiasi autonomia e possibilità di ricerca all’Istituto, posero la pietra tombale su una delle migliori istituzioni che, affiancata dalla Unione Edilizia Nazionale, aveva generato l’ultima architettura degna di essere menzionata nella storia del Novecento.
Non si tratta solo di dover riconoscere il ruolo estetico di quell’architettura, ma anche quello economico atto a ridurre la disoccupazione e sviluppare l’economia locale. Non posso dilungarmi in questa sede, né intendo ripetere quanto ho avuto modo di raccontare nel mio ultimo libro “La Città Sostenibile è Possibile”, (Gangemi Editore 2010), ma le norme per la collettività, prodotte prima delle leggi per gli interessi personali emanate in periodo fascista per favorire l’imprenditoria privata e smantellare il cooperativismo messo su in Italia da Montemartini, Colajanni ed altri, sono lì ad aspettare di essere riscoperte. Quelle norme, e quelle istituzioni, non necessitano di essere reinventate per migliorare la città di domani, vanno semmai rispolverate e messe al fianco dei moderni sistemi quali il Project Financing, i Contratti di Quartiere, i Patti Territoriali, ecc.

Non ci vuole molto ad accorgersi che, l’illuminata norma che vietava zone esclusivamente destinate alla classe operaia, in nome dell’integrazione sociale, sia cosa buona e giusta, se a questo aspetto filantropico - pedagogico affianchiamo la strategia costruttiva dell’ICP, che arrivò ad operare come un’azienda che costruiva per conto terzi alloggi destinati alla vendita o all’affitto per i dipendenti del pubblico impiego, allora ci accorgeremmo che sarebbe possibile ridurre, se non addirittura eliminare, i costi per la realizzazione degli alloggi popolari, che potrebbero essere appartamenti sparsi qua e là e che, grazie al senso di appartenenza ed all’istinto imitativo dell’essere umano, farebbero sentire più nobili gli affittuari meno fortunati, migliorandone l’integrazione sociale e il comportamento … […] Una casa popolare che, insieme ad una buona distribuzione degli appartamenti unisca un bello aspetto esteriore, è preferita ad un’altra […] e dove questo vi è si nota una maggior cura da parte degli inquilini nella buona tenuta del loro alloggio e in tutto ciò che è comune con gli alloggi del medesimo quartiere […] Una casa che piace si tiene con maggiore riguardo, ciò vuol dire che esercita anche una funzione educativa in chi la abita.

Ma questo non significherebbe migliorare solo le condizioni di vita delle classi disagiate – e questo era stato studiato attentamente – questo infatti aiuterebbe anche a svolgere un ruolo di calmiere sul prezzo delle costruzioni e dei terreni: gli alloggi costruiti dall’ente statale potrebbero essere messi sul mercato al pari delle frumentationes dell’antica Roma!
Inoltre, l’Architettura di cui parlo, e che ho ampiamente documentato nel mio ultimo libro, è costruita con materiali durevoli, e infatti, a cento anni di distanza dalla costruzione, non è mai stata oggetto di restauri, ed oggi viene venduta come edilizia di lusso. Tutto ciò non è stato accidentale. Pirani infatti, nella relazione che accompagnava i progetti per Testaccio, scrisse: «l’esperimento fatto in Roma nella costruzione di casette isolate, è più che sufficiente a stabilire che quelle non riescono a buon mercato e non possono quindi considerarsi come vere case popolari. Riteniamo peraltro che, ammesso il principio di fabbricare case a più piani, non si debba necessariamente far delle caserme o degli alveari, ma si possa invece, alternando i diversi corpi di fabbrica in diverse altezze, adottando avancorpi e rientranze, ottenere oltre che un movimento di linee che giova all’estetica, anche un gioco d’aria e di luce sulle aree interne destinate a cortili, sufficiente a diminuire se non ad eliminare, l’impressione della caserma o dell’alveare umano ... i nostri cortili non sono aree chiuse tra i corpi di fabbrica su cui prospettano i soli locali di servizio, ma sono come una continuazione delle pubbliche strade: danno accesso a tutte le scale che disimpegnano i diversi appartamenti e contengono piccoli edifici speciali adibiti ai servizi comuni (asilo, bagni, ecc.)», e poi aggiunse, «non solo la casa ”bella all’esterno e pulita all’interno” contribuisce all’elevazione delle classi che la abitano, ma che un giusto impiego di materiali durevoli, quali i laterizi e le maioliche, porta ad una diminuzione nel tempo delle spese di manutenzione degli edifici, soprattutto quando si tratti di edifici a più piani riuniti in un isolato o in un quartiere urbano».


Ebbene, considerato che l’edilizia popolare si costruisce con le tasse di tutti noi, imparare da questi esempi, che il tempo ha ampiamente testato e dimostrato validi, significherebbe ridurre le tasse di tutti i cittadini.
Alla luce di tutto ciò, risulta davvero triste pensare che ancora oggi, nonostante il disastroso insuccesso dei quartieri Corviale di Roma, Zen di Palermo, Vele di Napoli, Gallaratese di Milano, ecc., gli architetti (la gente comune la pensa molto diversamente) continuino a sostenere che quelle mostruosità non siano da condannare … gli architetti sostengono che, se quegli interventi non hanno funzionato è solo colpa degli italiani … ignorando che anche l’Unitè d’habitation di Le Corbusier a Marsiglia è stata un fallimento dove per anni la gente si è rifiutata di vivere.
Quello che poi si ignora del tutto sono i costi di costruzione ed i tempi di realizzazione dell’edilizia popolare pre e post bellica, cosa che ho ampiamente documentato nel libro. Quello che non è noto, o che si finge di non sapere, è l’intenzionalità di fare esperimenti su delle cavie umane adottata da alcuni architetti come Mario Fiorentino, l’autore di Corviale. Egli, con grande orgoglio auto-celebrativo, disse del mostro che aveva concepito e realizzato: «ci sono due modi di fare Architettura ... o forse ce n’è solo uno ... c’è quello semplice e pacato dell’utilizzazione degli schemi super testati che l’edilizia pubblica in Italia – e non considero solo quella romana – ha più o meno accettato. E poi c’è quello sperimentale, che è il metodo a cui l’esperienza di Corviale appartiene. Io ricorderò sempre come Ridolfi, che è stato il mio vero maestro, sempre mi diceva: “quando progetti per un cliente (e l’edilizia pubblica è un cliente come un qualsiasi altro privato), senza rivelarglielo tu devi sempre sperimentare” perché, in effetti, queste sono esattamente le opportunità nelle quali gli esperimenti possono essere fatti!»

I danni sociali di Corviale fanno sì che queste frasi non meritino commenti!

Note:
1) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, il problema Edilizio, Ed. Centenari, Roma 1920
2) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.
3) Ufficio Municipale del Lavoro di Roma, op. cit.

Il progetto della foto in testa è di Quadrio Pirani per il quartiere San Saba, 1924

La foto del quartiere Gallaretese è tratta da Google Earth

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28 marzo 2010

INGEGNERIA SOCIALE

Pietro Pagliardini

Un riferimento al Corviale fatto da E.M. Mazzola in un commento al precedente post, mi fornisce l’occasione per raccontare l'intervento di un collega alla presentazione del libro dello stesso Mazzola ad Arezzo, presso l'Ordine, La città sostenibile è possibile, Gangemi. Il collega, architetto Franco Lani, che è un amico, un ragazzo più vicino ai 70 che ai 60 anni che ha fermato l’orologio del tempo alle sue idee giovanili, e quasi una istituzione tra gli architetti aretini, ex direttore tecnico dell'Istituto Autonomo Case Popolari (o come diavolo si chiama oggi), giustificava ideologicamente quel transatlantico che, proprio come una nave, relega gli esseri umani in una dimensione diversa da quella terrestre, quale esempio di ingegneria sociale. C'è senza dubbio una forma di utopismo tragico, come in tutte le utopie sociali, in quel progetto, espresso nel bisogno o nella volontà di creare un mondo nuovo e, naturalmente, migliore.


Poi Lani, che è persona intelligente, riconosceva che qualcosa non ha funzionato a dovere e affermava che succede spesso nel passaggio dall'idea alla sua concreta applicazione che si commettano errori. Siamo però al vecchio discorso dei compagni che sbagliano: si condannano i singoli errori per tentare di salvare l’idea.
In verità non è l'applicazione del metodo ad essere sbagliata ma il metodo stesso, è il principio di ingegneria sociale applicato all'architettura e all'urbanistica ad essere profondamente anti-umano, e giustificarne il fallimento come un semplice incidente di percorso vuol dire nascondere la testa sotto la sabbia, non voler vedere l’errore che sta alla base, non fare i conti con la storia e con la realtà, non voler capire che l’uomo non può essere preso a semplice cavia di laboratorio avendo deciso, già da prima, che se l’esperimento fallisce la colpa non è della finalità dell’esperimento ma della mancanza di qualche ingrediente e quindi predisporsi l’alibi per procedere con un altro tentativo e altre cavie.
Avviene sempre così: lo Zen sarebbe un progetto corretto e Gregotti caparbiamente afferma ancora oggi che lo rifarebbe uguale perché la responsabilità è di altri (Comune, IACP, ecc) che non hanno completato il tutto con i necessari servizi.

Continua l’illusione e si perpetua nel tempo con nuove giustificazioni: tutto fuorché ammettere lo sbaglio madornale che sta alla base del problema, e cioè l’adesione incondizionata ad un progetto utopico e scellerato di trasformazione della società contro l’uomo, partorito nel cervello di pochi e di cui ancor’oggi le nostre città, e soprattutto i loro abitanti, pagano le conseguenze. E il metodo continua a riprodursi tranquillamente anche se si ammanta di forme architettoniche diverse, non immediatamente riconoscibili e assimilibili direttamente a quelle tipiche dell'origine e che fa dire a molti che c'è una grande differenza tra le avanguardie del novecento e quanto accade ai nostri tempi.

Continua nella dimenticanza della storia della città, nel considerare gli uomini un accessorio dell’architetto, quasi fossero le figurine che affollano maquette e rendering, nei quali quelle assumono lo stesso ruolo della mongolfiera o dell’aereoplanino che vola gioioso in cielo, parodia della vita vera.

Continua nella produzione di oggetti unici e singolari privi di contesto, in realtà tutti identici a se stessi nella loro banalità, monotonia e mancanza di ogni significato.

Continua nella presunzione di poter trascurare gli elementi reali di una città quali la geografia, le preesistenze naturali o artificiali, le stratificazioni che si sono succedute nei secoli che la rendono così ricca di significati, l’esistenza di una comunità di persone che sono considerate come semplici utenti e non come un corpo sociale che ha memoria, sentimenti, sensibilità.


Sovrapporre a quelle stratificazioni delle astronavi, piccole o grandi, prive di attinenza alcuna con ciò che esiste per materiali, tipi, senza relazioni tra le parti, vuol dire considerare la città da un punto di vista puramente astratto, al pari di una tela pittorica da riempire, trascurandone del tutto la complessità che costituisce la condizione stessa per la vita dell’organismo urbano. Una tela per quadri, per quanto sia arduo l'accingersi a riempirla di forme e contenuti che abbiano la capacità di assurgere all'arte, è pur sempre il frutto della mente del solo suo autore e non incide mai sulle vite altrui né sulla ricchezza dei rapporti sociali tra le persone.
La povertà anti-urbana, ma direi la miseria, di operazioni come il Corviale, figlio dell’Unitè d’habitation e dei vari falansteri del secolo ad essa precedente, rispetto alla ricchezza della città di cui abbiamo esempi e tracce sotto gli occhi, basta volerli vedere, giustificherebbe da sola il desiderio ricorrente di vederlo cadere sotto i colpi del martello demolitore o dell’esplosivo, non diversamente da quanto accadde per Punta Perotti.

Peccato che quel lavacro purificatorio collettivo in diretta web abbia assunto solo una valenza legata al ripristino della legalità, cosa peraltro non del tutto esatta perché una concessione edilizia era pure stata rilasciata, invece che come simbolo di un genere di architettura, di un'idea stessa nata contro l’uomo, la geografia, l’ambiente, la storia dei luoghi.



P.S. Ho pensato dopo averlo pubblicato che il sottotitolo di questo post avrebbe potuto essere: Antiarchitettura e demolizione, cioè il titolo del primo libro pubblicato in italiano da Nikos Salìngaros, editrice LEF.

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25 marzo 2010

IMITAZIONE

1.Gli uomini anticamente nascevano come le fiere nelle selve e nelle caverne e nei boschi e nutrendosi di cibo agreste trascorrevan la vita. Intanto in qualche luogo dove gli alberi erano più densi, sotto l’azione delle tempeste e dei venti, dallo sfregamento dei rami coi rami nacque il fuoco; e gli uomini che si trovavan vicini, spaventati, fuggirono. Riaccostatisi poi a cose calme, constatando qual grande comodità per il corpo fosse stare al calore del fuoco, gettando su nuove legna e così alimentando e conservando quella cosa, condussero altri uomini e mostravan coi cenni l’utilità che dal fuoco poteva trarsi. Intanto in quelle riunioni si emettevano vari suoni dalla bocca; e così, giorno per giorno ripetendoli secondo il bisogno, giunsero a costituire i vocaboli; in un secondo tempo poi, significando più spesso le varie cose via via che si verificavano, cominciaron per avventura a parlare e intrecciaron discorsi tra loro.


2. La scoperta del fuoco è stata quindi la causa onde nacque la convivenza umana; e così si radurono più uomini in un sol luogo, avendo la natura come privilegio sugli altri animali di camminar eretti e non a testa in giù, di contemplare la magnificenza del mondo e del cielo, di maneggiare facilmente ogni oggetto che volessero colle articolazioni delle mani. Così in quella società gli uni cominciarono a fare il tetto di frondi, altri a scavar caverne sotto i monti, altri, imitando la costruzione dei nidi di rondini, a costruir con fango e stecchi ripari per rifugiarsi. Osservando poi le capanne altrui e utilizzandone i perfezionamenti o creandone col proprio spirito inventivo, fabbricavano abitazioni via via migliori.

3. Ed essendo gli uomini atti per natura ad imitare e imparare, gloriandosi ogni dì delle proprie invenzioni, mostravan l’uno all’altro le loro costruzioni, e così, esercitando l’intelligenza dell’emulazione, di giorno in giorno miglioravano nei loro criteri. E per prima cosa, alzate le forche e interposti dei rami, fabbricaron le pareti col fango. Altri, facendo seccare l’argilla, costruivano muri che legavano con legname e ricoprivano con canne e frondi contro le piogge e i calori. Avendo poi constatato che nelle tempeste invernali i tetti non potevano reggere alla pioggia, costruiti dei tetti a punta, spalmati di fango, coll’inclinazione del tetto determinarono lo scolo delle acque.

4. Che queste cose si siano svolte così all’origine, possiamo dedurlo dal fatto che tutt’oggi i barbari costruiscono le loro abitazioni con questi sitemi, come in Gallia, Spagna, Lusitania, Aquitania, con assicelle di rovere e con paglia. (Omissis)

Vitruvio Pollione, De Architectuar, Libro Secondo.

Si osserverà che il Vitruvio antropologo è ricco di fantasia e poco scientifico. E’ possibile che sia vero. Mi domando però quanto sia importante la veridicità del suo racconto rispetto alle “ipotesi” altrettanto fantasiose che vengono fatte anche ai nostri tempi dagli archeologi su mille argomenti: le Piramidi, la loro costruzione, Troia, Omero, Stonehage, ecc. La differenza sta nel fatto che Vitruvio le dà per buone mentre oggi si ha la consapevolezza del fatto che si tratta di ipotesi ma, una volta confrontate le più attendibili, si arriva infine alla tesi più accreditata. Che ovviamente non vuol dire essere quella vera. E’ un metodo, non un riscontro di fatti; è importante, dunque, non per i risultati ottenuti, che non hanno possibilità di verifica, se non indiretta, ma per rappresentare il modo di pensare di una società in una determinata epoca.
Anche il racconto di Vitruvio è importante per questo, perché ci racconta come una società rappresenta se stessa e le sue origini. In parte suffragate dall'osservazione di certi metodi costruttivi utilizzati da altri popoli coevi.
In più ci dice alcune cose importanti: l’imitazione come metodo di conoscenza e della sua diffusione: 1) imitazione della natura e imitazione delle altrui osservazioni e scoperte. 2)applicazione dell’ingegno per migliorare ciò che altri hanno scoperto.


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19 marzo 2010

MA SOLO L'ANTICO E' FALSO?

Pietro Pagliardini

Quell’edificio crollato non deve essere ricostruito com’era perché sarebbe un FALSO!
Quel progetto in campagna non deve imitare una casa colonica perché sarebbe un FALSO!
Quell’edificio è adatto a Disneyland perché è una copia quasi identica ad una villa palladiana, ed è un FALSO!
Tre situazioni diverse che raccolgono la riprovazione della “cultura” architettonica imperante verso il “falso” e la mimesi.
Per il momento non vorrei confutarla ma vorrei portare casi diversi:
Quel progetto è fantastico! Si vede che è un allievo di Ghery.
Quel progetto ha il dinamismo e il senso dello spazio di Zaha Hadid!
Quel progettista fa uso di tecnologia con sensibilità e grazia. Mi ricorda Renzo Piano.
Niente paura, nessuna sparata contro le archistar; i loro nomi servono solo per l’esempio.

Ogni architetto, in specie nella fase giovanile, fa riferimento ad una figura di riferimento. In genere, con il tempo, acquisita sicurezza nei propri mezzi e maturata la capacità di dominare il progetto, tende a distaccarsene, fino all’abbandono, e ad elaborare un linguaggio personale. Voglio immaginare che il nostro architetto riesca a raggiungere un livello professionale alto, tanto che molti riconoscono l’autore negli edifici da lui costruiti.

Ma siamo assolutamente certi che questo bravo architetto non debba niente a qualcuno in particolare o a ciò che osserva viaggiando o alle riviste e ai libri che legge o a tutto quanto ha studiato all’università e, ancor prima, ai suoi stessi ricordi giovanili? Siamo sicuri che esista veramente qualcuno, in qualsiasi campo, che non debba la propria conoscenza e competenza ad altri?

L’apprendimento inizia con l’imitazione. Successivamente non si chiama più imitazione, ma studio, osservazione, esperienza ed elaborazione di informazioni.
Qualsiasi disciplina, intellettuale o manuale, è un accumulo di conoscenza ed esperienza sedimentata nel tempo in opere o libri o trasmissione verbale. Oggi anche in forme più tecnologiche e nuove: immagini, video, audio. Cambia e si evolve il mezzo, ma il contenuto è lo stesso: conoscenza di alcuni, fissata perché possa essere trasmessa ad altri.

Ogni disciplina, intellettuale o manuale, è imitazione, mimesi; quello che si osserva viene elaborato e riproposto in forme e modi diversi e in base alla propria inclinazione.
Ma ecco che interviene la variabile “ricerca”. C’è sempre stata, naturalmente. Chissà se l’anonimo inventore della ruota riconoscerebbe il suo prodotto guardando un gran premio di formula 1 nel momento in cui i meccanici ne cambiano 4 in 4 secondi! Alta tecnologia e specializzazione, ma il principio della ruota è sempre lo stesso: un cerchio rigido che gira intorno al suo centro. Ma la ruota non si è materializzata nella mente del suo inventore da una tabula rasa, anche se la rivoluzione è stata grande. Vai a capire i millenni che ci sono voluti per fare meno fatica a trasportare roba! Certo, il passaggio intermedio di una ruota quadrata non credo ci sia stato, ma molte slitte su rulli sì. Il principio era già a portata di mano, bastava vincolare il rullo. Alla fine è arrivata l’ideuzza giusta. Da quel momento l’evoluzione del mezzo: di materiali, di tecnica per diminuire l’attrito, nel centro e nella circonferenza, e resistere all’usura. Ma il principio è sempre lo stesso: copiare le idee altrui, quelle che si ritengono buone, per andare avanti, aggiungendoci del proprio. Gli scambi di opinione, ad esempio, servono a questo e sono anche un modo per trovare nuovi stimoli.

Torniamo alle esclamazioni iniziali.
I tre campioni di “falso” sono riferiti a tipi architettonici antichi o semplicemente vecchi. Qual è il limite superato il quale non si parla più di “falso” ma, al massimo, di progetto “datato? Difficile stabilirlo. Approssimando un po’ potremmo dire che il limite è l’introduzione di tecnologie nuove, quale il c.a., naturalmente nella fase di una certa diffusione. Ecco, un progetto anni ’60 di edilizia corrente, con mensole in c.a. a vista e marcapiani in c.a. riproposto oggi, magari con un minimo di “ironia”, verrebbe considerato “datato”, ma “falso” certamente no. Un progetto alla Rietveld, per alcuni datatissimo, per altri potrebbe essere l’inizio di un nuovo neo-ismo.
Fissando una data, credo si possa affermare sia considerato “falso” tutto ciò che non corrisponde ai canoni e alle forme di prima degli anni ’20 del secolo scorso.
C’è una logica. Apparente.

I nostri tre architetti che vengono confrontati con Ghery, Hadid o Piano, hanno, anche inconsapevolmente, “attinto” a quelle fonti; hanno fatto un’operazione mimetica. Hanno copiato, bene, da coloro che più apprezzano. Così come il nostro giovane architetto, venuto su bene, in autonomia e in libertà da banali copie del maestro di riferimento, non si è inventato tutto, né del progetto né, a maggior ragione, delle tecniche costruttive.
Diciamo che, al pari della ruota, hanno sviluppato e interpretato qualcosa che già esiste, aggiungendoci quel tanto di “gesto” individuale che lo rende riconoscibile e di successo.
Queste sono situazioni ideali! Ma se sfogliamo le solite riviste, cartacee oppure on line, si vedono centinaia di autentici “falsi” contemporanei. Hanno plagiato forse? Certamente no, hanno solo sviluppato ciò che ritenevano valido dell’opera altrui. E’ come con la musica: Ennio Moricone dice che il plagio musicale è ormai quasi inevitabile perché le combinazioni sono praticamente esaurite e quando una musica è nell’aria è facilissimo riproporla in buona fede come propria.
E’ normale, è logico persino, perché nessuno può pretendere, anche se vuole, di inventare ogni volta qualcosa di “nuovo”.

Ma i tre esempi iniziali invece vengono condannati senza appello come “falsi”. Solo loro tre, poverini, vengono additati al pubblico ludibrio. Perché?
Ma è chiaro, perché sono “modelli” ante anni ’20 del secolo scorso!

Il concetto di falso, così come viene utilizzato dalla kultura arckitettonica ha esclusivamente una connotazione temporale: è falso tutto ciò che non è moderno o contemporaneo!

Il concetto di moderno o contemporaneo, invece che servire da semplice “datazione” di prima approssimazione, assurge al rango di valore fine a se stesso. E’ una condizione del tutto priva di senso
.
Io copio (come tutti, sia chiaro) un progetto che ho visto in internet e sono magari bravo; io copio un tipo di casa colonica della bonifica lorenese, perché devo fare un progetto in campagna, e sono un imbroglione!
Io devo ricostruire una casa nel centro storico e, se la faccio di vetro, copiando da un repertorio infinito di nefandezze attuali, va bene, ma se la rifaccio com’era, o come si può ricavare che fosse, vengo classificato antichista e nostalgico!
Bossi, Bossi! Qui ci vorrebbe la tua lapidaria frase in milanese per chiudere il discorso!


Credits: Le foto sono tratte da Dezeen.
L'idea del post mi è venuta grazie al dibattito seguìto alla conferenza di Ettore Maria Mazzola ieri 18 marzo ad Arezzo. Praticamente ho fatto un "falso".

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15 marzo 2010

ECCE BOMBO

Trovo questo lungo articolo su www.archinfo.it, firmato da Maria Argenti e Maura Percoco
Innovazione e tecnica nel progetto della residenza

di cui riporto la prima parte che sono certo raccoglierà i consensi di molti. Ma lo faccio non per accondiscendere ai gusti altrui ma perché a me ricorda i dialoghi di un film datatissimo e ormai inguardabile nella sua interezza (con battute però diventate giustamente un cult) ma che al tempo mise a nudo i vizi di un’epoca, di una generazione, di un linguaggio, e cioè Ecce Bombo di Nanni Moretti. Con una grande differenza però: qui l’ironia è totalmente assente.
Tuttavia, sarà la cultura dell’ossimoro, sarà la coincidenza degli opposti di cui si parla all’inizio, vi trovo qualche conferma a mie convinzioni ripetutamente scritte in questo blog:

In un'epoca che coltiva la cultura dell'ossimoro, della contraddizione che si fa sistema, della convivenza degli opposti che non necessariamente si sciolgono in una sintesi, ma piuttosto si perpetuano, è interessante notare come anche l'architettura sia costretta dai tempi e dalla tecnica a misurarsi con uno spazio che non è più statico, ma dinamico, scorrevole, discontinuo. La stabilità diventa instabile; la temporaneità durevole. La contemporaneità diviene il valore di riferimento. Vivere l'attimo, catturare l'istante, trasformarsi continuamente per non rimanere indietro sono gli obiettivi condivisi. A questo processo non resta estranea nemmeno l'idea della casa. Anch'essa cambia, sta cambiando, per rimanere aderente allo spirito del tempo. Ora che la tecnologia le permette relatività un tempo impossibili con soluzioni semplici e innovative; ora che lo spazio virtuale ha acquistato la stessa corporea dimensione di quello reale; ora che i "non luoghi" hanno la stessa forza dei luoghi, e la rete conta più delle radici; l'abitazione collettiva conosce cambiamenti, che sono un insieme di tecniche e di valori. È il concetto stesso di intimità domestica che si sta trasformando. Per rispondere alle esigenze della contemporaneità, l'architettura chiede ad una tecnologia sempre più potente risposte sempre più nuove e flessibili. Risposte che fanno della casa stessa un meccanismo variabile e individuano anzi, proprio nel meccanismo, nella sua capacità di adattarsi alle più diverse esigenze individuali o collettive, il centro del sistema, lasciando in secondo piano la forma (mutevole), i modelli tipologico formali (sorpassati), gli schemi (troppo statici). Persino le regole strutturali classiche sono messe in discussione da una tecnologia che, se lo ritiene utile, può contraddirle. La stessa standardizzazione cambia codici e livello. Non comporta necessariamente una omologazione estetica e tipologica. Appare al contrario la leva con cui poter mettere in discussione il sistema del pensiero unico alimentato dal marketing pubblicitario. Scende ai componenti primari. Permette, teoricamente, infinite possibilità combinatorie all'interno del medesimo standard. Realizza e proietta verso un futuro ancora più innovativo la profezia corbuseriana della casa come machine à habiter senza metterne in discussione la domesticità. Permette ad ognuno di ritagliarsi il proprio habitat domestico su misura, di superare il concetto di spazio architettonico come qualcosa di fisso, immutabile, congelato per sempre. E di costruire spazi che cambiano con noi, che si adattano alle nostre sempre nuove esigenze. Spazi unici. Personalizzati dai singoli abitanti chiamati a completare in un processo senza fine, un work in progress, il lavoro del progettista”.

Un tono di grande sicurezza data da molte certezze caratterizza questo inno all’incertezza. La certezza delle incertezze, la instabile stabilità, il relativismo assoluto.
Vi trovo la conferma della contemporaneità come valore di riferimento autoreferenziale, cioè una semplice condizione temporale che diventa autonomo fondamento culturale; l’illusione di sfuggire alle stesse regole strutturali, quasi a vincere la forza di gravità; la conferma della totale continuità dell’oggi con la “profezia corbuseriana”, termine del tutto appropriato all’aspetto religioso e di culto della sua teoria.

Vi trovo anche qualche ingenuità, quale l’illusione che la standardizzazione, o comunque il processo edilizio come lo intendono le autrici, possa mettere in discussione il pensiero unico del marketing pubblicitario, quasi invece non ne fosse il prodotto. Oppure la mitizzazione degli abitanti tutti protesi in un work in progress a completare il lavoro del progettista.
E mi immagino questi poveri residenti che ogni volta che tornano a casa dovrebbero arrovellarsi il cervello nel trasformare, modificare, stravolgere, adattare la propria abitazione con un occhio all'orologio, dato che il valore fondante è l’attimo, come se non fosse già abbastanza pressante la scadenza del mutuo e della rata del credito al consumo per i mobili!

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13 marzo 2010

TRASFORMARE LE PERIFERIE

Un link ad un sito legato al New Urbanism che mostra, con l'utilizzo di Photoshop, come sia possibile trasformare un suburbio in città.


Non è poi così difficile, anche se non risolutivo. Quante periferie di città italiane ne avrebbero bisogno!
Perché da noi non si fa? C'è qualcuno che lo impedisce?
Si fa abuso dell'espressione "consumo di suolo", ma vi è maggior consumo prima o dopo la cura?

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11 marzo 2010

MEMORIA

Jacques Delors, uno dei padri fondatori dell'Europa, in una intervista a Repubblica dichiara, in relazione alle modeste prospettive politiche a lungo termine per L'Europa:

"Abbiamo perso la memoria di dove veniamo, come possiamo avere un'idea di dove andare?".

Vale per la politica, ma vale per ogni azione umana e vale per l'architettura.
A questo proposito mi viene in mente la "tabula rasa" di Bruno Zevi.

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6 marzo 2010

OMAGGIO AD AREZZO TRA "VERO" E "FALSO"

Un omaggio fotografico ad Arezzo antica, o finto-antica,  tra ciò che da taluni è considerato vero e da tal'atri falso. Per certo, tutto quanto mostrato esiste.
Le foto sono di Massimo Guadagni che ringrazio.















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5 marzo 2010

MODERNISTI E TRADIZIONALISTI

Questo post è la riproposizione di un commento al post precedente, che tratta del falso storico.
Ma a me sembra che viva di vita propria e lo ripropongo.
memmo54 mi ha autorizzato e lo ringrazio.
Mi scuso per l'ovvietà del titolo, ma non volevo rischiare di dare interpretazioni sbagliate.

MODERNISTI E TRADIZIONALISTI
di memmo54

Gli architetti proprio come gli uomini (….incredibile a dirsi!…) nascono modernisti o tradizionalisti.
Gli ultimi sentono che tipi, ordini e generi sono realtà; i primi semplici generalizzazioni. Per questi il linguaggio è un approssimativo ma intrigante gioco di simboli, per quelli la mappa dell’universo.

I tradizionalisti sanno che l’universo costruito è, in qualche modo, un cosmo, un ordine necessario; tale ordine per il modernista può essere un errore o un inganno della conoscenza parziale.

Gli uni credono che l’architettura sia un prodotto dell’individuo, del singolo che “inventa” grazie alla propria formazione culturale, al proprio gusto ed alla propria visione della realtà: un fatto mentale, esclusivamente del soggetto che coinvolge o meno il contesto. In quest’ambito può assumere valore ciò che esiste ed è attribuibile ad un altro “io”: un altro “universo”, parallelo forse, ma non il proprio. Il fatto esiste, infine, soprattutto“dentro” di sé.
Gli altri privilegiano quello che s’è storicamente determinato; frutto di una lunga, paziente, oscura quasi sempre, evoluzione di modi ed espressioni anche lontanissimi nel tempo, ma mai così distanti da essere incomprensibili ed inattuali. Ammettono il contributo del singolo ma solo in un quadro più generale. E potrebbero anche immaginare la storia dell’architettura senza un Michelangelo (…non tutti i paesi hanno visto nascere ed operare personaggi siffatti… ) ma non senza l’ambiente minuto che l’ha generato e che reputano altrettanto, se non più, importante.

Per gli uni l’artefice è unico ed irripetibile e solo a lui è ascrivibile l’oggetto; per gli altri è molteplice perché tutti gli uomini sono, in fine, “un uomo” solo.
Nessuno veda nelle righe che precedono spregio o censura. Uno scrupolo etico, non un’incapacità speculativa, impedisce al modernista di operare con astrazioni.
Da questa irriducibile separazione, a mio avviso, originano le concezioni antitetiche di vero e di falso .

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19 febbraio 2010

LO STRANO CASO DEL PORTICATO DELLO SPEDALE DI SANTA MARIA NUOVA A FIRENZE

Con straordinario tempismo, Angelo Gueli mi ha inviato questo testo, su un "falso". Lo ringrazio.
Il testo è già stato pubblicato sul numero 24 del Giugno 2009 - anno VII di "OPERE rivista toscana di architettura".


LO STRANO CASO DEL PORTICATO DELLO SPEDALE DI SANTA MARIA NUOVA A FIRENZE
Ovvero come costruire tanto e bene anche da morti e sepolti
di Angelo Gueli

Accade di tanto in tanto che gli architetti continuino ad essere prolifici anche dall’aldilà: quello qui raccontato sembra proprio essere uno di questi casi. La faccenda sta messa così: Bernardo Buontalenti, dopo aver esercitato tanto e bene la sua professione a Firenze e dintorni, nel giugno del 1608 passa a miglior vita e fin qui niente di strano; ad eccezione di qualche presidente del consiglio destinato a vita eterna, prima o poi a tutti toccherà varcare quella soglia. Ma sta di fatto che nel febbraio del 1612, ben quattro anni dopo la sua morte, fu iniziata la costruzione del porticato “buontalentiano” dello Spedale di Santa Maria Nuova a Firenze, della cui vista tutti possiamo godere ancora oggi. L’affare però si fa più intricato per l’attribuzione, tutta da verificare, del progetto. Non uno straccio d’indizio d’incarico, non un disegno, non un cenno sui documenti d’archivio fino ad oggi è mai stato ritrovato. Ma tant’è, a dire di coloro che approfonditamente se ne sono occupati, l’attribuzione è certa, ed il disegno originario è di Bernardo Buontalenti(1).


Ecco quindi che nel 1612 Bernardo, da morto e sepolto, inizia una fabbrica che porterà a termine ben trecentocinquanta anni dopo.
Andiamo per gradi: a quell’epoca lo Spedale non era dotato di una facciata, così, seguendo l’idea buontalentiana, Giulio Parigi il Vecchio, amico e discepolo di Bernardo, si occupò di seguire i lavori di costruzione dei primi sei archi della porzione centrale del loggiato.
A cinquanta anni di distanza, nel 1661, si ricominciò a costruire realizzando altri sei moduli, completando così la facciata centrale. A quel punto anche il povero Giulio, al quale probabilmente dovrebbero essere riconosciuti molti più meriti in relazione alla realizzazione di quest’opera, aveva già da tempo abbandonato questa terra. Ancora quaranta anni appresso, tra il 1707 e il 1710, fu costruito il braccio destro del porticato. Infine, dopo un “fermo cantiere” lungo più di due secoli, fra il 1959 e il 1960 Nello Bemporad per la parte architettonica e Enzo Vannucci per la parte strutturale si occuparono della realizzazione dell’ultima porzione del porticato.

Di questa fabbrica e della storia fin qui raccontata, due mi sembrano i punti più interessanti da mettere a fuoco: da una parte il rapporto mediato dell’edificio con il suo progettista e, di conseguenza, l’inevitabile accusa di “falso antico” che l’ultima porzione di costruzione si porta appresso e dall’altro il ruolo di “restauratore” di Nello Bemporad.

Le riflessioni che possono essere fatte su questi temi sono molteplici e nessuna è indolore, in special modo quando, come in questo caso, i termini del problema finiscono inevitabilmente per dover affrontare il rapporto tra il vero e il falso, e in architettura questo territorio è molto più paludato che nelle altre arti.

Tempo addietro, durante l’ultima giornata del convegno “L’identità dell’architettura italiana”, Roberto Maestro intervenendo invitava Guido Ceronetti a fare una riflessione su vero e falso.
Con una risposta tanto fulminante quanto piena di risvolti, Ceronetti argomentava che: “…forse sarebbe meglio interrogarsi sulle categorie del bello e del brutto…”(2).
Un’affermazione di questo genere è tanto più pregnante quanto più nell’ultimo secolo è stato sentito come centrale il tema dell’autenticità in architettura. In chiara contrapposizione con il pensiero dominante, Cerronetti nella sua risposta non sembra dare alcun peso alla questione stilistica quanto invece sembra dare importanza al lato umano dell’architettura.

Con queste parole che mi frullavano per la testa e la macchina fotografica al collo sono andato in piazza di Santa Maria Nuova per fare le foto del porticato che accompagnano questo articolo. Per sfizio ho cominciato a chiedere in giro cosa sapessero del loggiato quelli che in zona ci vivono. Un paio di anziani ricordavano, qualcuno aveva sentito dire, la maggior parte nemmeno sospettava che si trattasse di un edificio completato così recentemente. Nessuno però ha mostrato segni di fastidio nei confronti della facciata Bemporadiana, cosa che, mi vergogno un po’ a dirlo, non è successa per il prospetto Michelucciano visibile attraverso le due arcate. Mi guardo bene dal ripetere i commenti fatti dai passanti che, tutti indistintamente, erano ignari del carico e della pregnanza culturale ed estetica che ci hanno insegnato ad attribuire alle opere del maestro; ma questa è un'altra storia.(3)

Pur sapendo che nessuno dei quattro lotti temporali nei quali fu realizzato il portico vide il Buontalenti come protagonista, a pochi verrebbe in testa di dire che il portico è tutto un falso. Sarà forse per il primato che noi progettisti diamo al progetto, che esso sia realmente del Buontalenti o di qualcun altro poco importa (alla base c’è un progetto e bello per giunta), sarà forse perché il portico è ormai plurisecolare, l’edificio nella sua interezza è comunque percepito come “autentico”.
Pur non volendo inoltrarmi troppo nello spinoso campo dell’autenticità, che in architettura è eccezionalmente più complesso di quanto non lo sia per le altre arti, penso che, visto l’argomento, sia importante descrivere quale sia in generale il sentire comune rispetto a questi temi. Per fare un esempio, a nessuno verrebbe in mente di dire che i dipinti di Annigoni sono dei falsi perchè il loro tratto è leonardesco, e pertanto la distanza temporale tra Annigoni e Leonardo da Vinci non è percepita in pittura come incolmabile e la vicinanza stilistica tra i due artisti è comunque ritenuta lecita, però allo stesso tempo una copia identica di un’opera pittorica che non dichiari esplicitamente di essere copia viene giustamente identificata come un falso. In architettura ciò che è valido per le altre arti visive viene ribaltato. È opinione comune che se un edificio viene replicato (San Pietro in mezzo al deserto africano, la Sfinge a Las Vegas) è irrimediabilmente kitsch e non semplicemente una copia come per le altre arti, se viene realizzato con uno stile non più alla moda allora è clamorosamente falso, per questo caso non è più valido l’assunto testé riportato per la pittura e questa volta la distanza fra lo stile in voga e il precedente è ritenuta incolmabile.(4)
Ma se, come nel caso del porticato buontalentiano o del ponte di Santa Trinita o della torre dei Georgofili, si copia alla lettera l’originale, allora la qualifica di falso più che valida per le altre arti assume dei contorni più sfumati, ovvero la copia pedissequa del dove era e come era o del dove doveva essere e come avrebbe dovuto essere non costituisce reato di falso, come nelle altre arti visive, o plagio, come in musica e scrittura, ma si trasforma cedendo il posto ad una sorta di legittimità a scartamento ridotto.

Sorvolando il valore simbolico delle ricostruzioni, che ha inevitabilmente durata generazionale (le giuste reazioni ai bombardamenti mafiosi e nazisti nei casi ricordati), resta la costruzione di edifici che dopo essere stati ri-costruiti partecipano al disegno corale delle nostre città e Firenze è un caso come un altro, anche se particolarmente bello.

Il completamento del loggiato di Santa Maria Nuova dovrebbe far riflettere sulla validità di interventi che, all’interno di contesti storicizzati, tengano conto anche di linguaggi architettonici non più di moda, che in qualche modo consentano alle città storiche di mantenere la loro coralità e identità, cosa che attraverso la maggior parte dell’architettura contemporanea obiettivamente non accade. Con ciò non intendo dire che all’interno di tessuti storici si debba intervenire esclusivamente utilizzando linguaggi architettonici del passato, ma che questi dovrebbero essere legittimamente presi in considerazione al pari dei linguaggi più comunemente sentiti come contemporanei. La lezione che viene dal completamento del loggiato di Santa Maria Nuova, al di là delle intenzioni più propriamente restauratici del suo autore, sta nel provare, senza ombra di dubbio, la legittimità di progettazioni che usino linguaggi architettonici con matrici temporali e riferimenti progettuali non recenti.

In un suo articolo del 1961(5), Bemporad, parlando del loggiato appena completato, sostenne: “Lo scopo è quello di realizzare un’unità urbanistica che l’artista concepì completa e che solo gli eventi non consentirono di realizzare tale fino ad allora”.
Ed ancora “…accettai volentieri l’incarico di completare il porticato… anche se ho sempre negata la validità dei restauri di integrazione in senso generale; nel caso particolare ritenevo invece (…) che è un dovere preciso di dare completezza ad un organismo impostato su ferree leggi di simmetria…”.

Le immagini di progetto qui proposte sono quelle che lo studio Bemporad presentò all’amministrazione pubblica alla fine degli anni 50 dello scorso secolo, al fine di ottenere le necessarie autorizzazioni. Anche attraverso queste belle rappresentazioni grafiche, Bemporad espresse una logica di restauro ampliato al reintegro, riuscendo in questo modo a rendere compiuta un’opera che meritava di essere ultimata.(6)
A soli cinquanta anni dalla realizzazione dell’ultima porzione del loggiato, un’operazione “restauratrice” come quella illustrata, a causa dei lacci burocratici e del falso moralismo imperversante che non riconosce parità di dignità a disegni in stile, oggi sarebbe difficilmente realizzabile e, visto il ruolo di questo edificio nel ridisegno della piazza, personalmente vedo in queste posizioni un’enorme limitazione a quell’ininterrotto flusso di perfezionamento che è fisiologico nelle nostre città storiche.

Nota al termine: vagando nel ciberspazio, su Wikipedia, alla voce Ospedale di Santa Maria Nuova campeggia, unica, una fotografia del porticato, ma solo della porzione realizzata da Nello Bemporad. Che questo sia un lapsus volontario o meno, la sostanza non cambia: il portico è autentico perché viene percepito come tale.


Note
1)A questo proposito si veda Lo spedale di S. Maria Nuova e la costruzione del loggiato di Bernardo Buontalenti ora completata dalla Cassa di Risparmio di Firenze a cura di Guido Pampaloni Cassa di Risparmio – FIRENZE – 1961che approfonditamente disquisisce sul motivo della certa attribuzione al Buontalenti, mentre per una più completa visione del contesto operativo del Buontalenti si veda Amelio Fara, Bernardo Buontalenti Electa 1995 , Milano.
2)Terza giornata del convegno “Identità dell’architettura Italiana”, Firenze 13-14-15 Novembre 2008.
3) Lungi da me voler dare valenza statistica a queste quattro chiacchiere fatte nel mezzo di strada, esse possono essere solo spunto di riflessione.
4)Nei paesi anglosassoni, dove è ancora radicata l’abitudine di costruire in stile, ben distinte sono le fazioni pro e contro l’architettura classicista e tradizionalista, pro e contro l’architettura di derivazione modernista. E nessuno ha paura degli “ismi” poiché lo stile, con il classico pragmatismo anglosassone, è comunque considerato come una caratteristica intrinseca della pratica architettonica. Pur nello scontro di pensiero, nel continuo e ininterrotto reciproco dileggio che contraddistingue la critica di entrambe le parti esiste di fatto un mutuo riconoscimento di legittimità culturale.
5)In Architetti d’Oggi anno 1961 n.1 Nello Bemporad “Piazza Santa Maria Nuova completamento del Porticato”
6)Gli originali sono conservati presso l’archivio comunale di Firenze.

Didascalie Immagini
1 Il braccio del porticato realizzato nel 1959 da Nello Bemporad.
2 Il braccio del porticato realizzato nel 1710.
3 Nello Bemporad Vs Giulio Parigi.
4 Scorcio della piazza oggi.
5 L’edificio demolito per far posto al nuovo braccio del porticato (prospetto sulla piazza).
6 L’edificio demolito per far posto al nuovo braccio del porticato (prospetto su via Bufalini).
7/8/9/10 Elaborati progettuali per la realizzazione dl nuovo braccio (Arch. Nello Bemporad, depositati presso gli archivi comunali).
11 Vista settecentesca della piazza di S. Maria Nuova.


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17 febbraio 2010

AUGE' E IL FASCINO DELLA STORIA

L’articolo di Marc Augè su Modena scritto per il Corriere della Sera è un piccolo capolavoro.
E’ un testo esemplare per la passione umana e la poesia con cui è scritto; si presenta, a tratti, con il tono letterario degli appunti di viaggio dell’ottocento scritti durante il Gran Tour.
E’ un testo che trasuda “sensazioni”, tanto per citare lo stesso Augè, suscitate dal fascino irresistibile dei luoghi quotidianamente vissuti ma carichi di storia:
Gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della loro storia, in quello spazio si muovono e si ritrovano con una disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati, di modo che si può parlare al riguardo di un insieme di “luoghi”. Un luogo è un luogo nel senso pieno del termine se vi si può reperire un legame visibile con il passato e se tale legame è manifestamente presente alla coscienza di chi lo abita o lo frequenta. E’ così per un certo numero di città medie in Italia (per non parlare delle più grandi) e questo spiega il fascino durevole che esse esercitano sulla straniero di passaggio, che lo sente immediatamente, anche se non sempre ne percepisce tutte le ragioni”.


E ancora
A Modena, oltre quindi agli amici, ritrovo anche luoghi familiari e ricordi, un presente piacevole e un passato sempre più lontano. La bellezza della Piazza Grande e del Duomo mi restituisce quindi, al tempo stesso, la sensazione di una certa forma di permanenza – le cose sono sempre al loro posto, fedeli – e quella del tempo che fugge”.

Avendo la possibilità di un rapporto diretto con la città e i suoi abitanti, ci si sente vicini alla gente e alle cose…….E’ pienamente città, polis, realtà geografica, storica e architettonica, ma anche e soprattutto, realtà sociale”.

Augè affronta tutti i temi che costituiscono l’essenza della città, luogo artificiale costruito per permettere e favorire la naturale socialità degli uomini. Ed è significativo il fatto che egli riconosca che “gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della storia, i quello spazio si muovono e si ritrovano con disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati”, quasi che l'abitare nelle nostre città storiche facesse parte del nostro patrimonio genetico.
In nome di cosa rinunciarvi, in nome di quale falsa sfida di una presunta modernità rinunciare a tutto questo? ammesso che sia possibile farlo, ammesso che sia possibile perdere del tutto la memoria, nonostante gli allucinogeni che ci vengono propinati da 60, 80 anni a questa parte da parte di spacciatori di idee assurde che hanno ridotto le nostre città ad informi aggregati di edifici che non hanno alcun altro senso che quello di renderci soli ed estranei gli uni agli altri, di farci perdere la “familiarità” con i luoghi e con la realtà sociale.



Nella foto: Progetto di Pier Carlo Bontempi con Léon Krier per Piazza Matteotti a Modena

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16 febbraio 2010

IL NUOVO LIBRO DI ETTORE MARIA MAZZOLA

Il Club di Architettura della Residenza Universitaria Segesta di Palermo organizza l'incontro con due brillanti professori di Architettura.

Il prof. Ettore Maria Mazzola, University of Notre Dame School
of Architecture Rome Studies,
e il prof. Ettore Sessa, della Facoltà di Architettura di Palermo
,

presentano il libro:

Ettore Maria Mazzola, "La città sostenibile è possibile - Una strategia
possibile per il rilancio della qualità urbana e delle economie locali",
Gangemi Editore, Roma 2010.


Data: sabato 27 febbraio 2010
Ora: 10.00 - 12.00
Luogo: Residenza Universitaria Segesta, via Gaetano Daita 11, 90139 Palermo

Ecco l'indice del volume:
1. prefazione (Paolo Marconi)
2. premessa
3. La tesi e le sue ragioni
4. Che cosa possiamo imparare dalla storia di Roma Capitale?
5. Costi (denaro e tempi di realizzazione)
6.Costi energetici
7. L’operazione urbanistica di ricompattamento
8. Un esempio pratico: Ricompattamento parziale del quartiere Barra di Napoli elaborato dagli studenti della University of Notre Dame School of Architecture Rome Studies

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7 febbraio 2010

TAVOLA ROTONDA IMMAGINARIA :LA TETTOIA DI ISOZAKI

Ecco una virtuale tavola rotonda resa possibile dalla grande memoria di Internet sulla tettoia di Isozaki a Firenze, suggeritami da Archiwtach e da Nikos Salìngaros. E’ naturalmente un divertimento fatto con assemblaggio e piccoli riattamenti testuali (qualche testo è riportato in prima persona) che può anche essere definito strumentale e partigiano, ma certamente autentico perché basato su fonti.
Forse qualcuno penserà che sia una cosa superflua, un rimestare nel passato, ma i ritorni di fiamma sono sempre in agguato, visto che il sindaco di Firenze Renzi, che è un tipetto decisionista che per ora si è comportato con una certa avvedutezza, ha recentemente provato a riproporne la fattibilità.
Quando si parla di architettura-spettacolo bisogna stare sempre all’erta perché i Sindaci sono pronti a buttarcisi con grande trasporto!




TAVOLA ROTONDA IMMAGINARIA: LA TETTOIA DI ISOZAKI

Arata Isozaki: L’intenzione fondamentale del progetto per la “Nuova uscita per il Museo degli Uffizi” è creare una struttura che permetta al museo di interagire con la città; che non solo aggiunga nuovi servizi al Museo, ma sia anche l’occasione per un’operazione di rinnovamento urbano. La nuova uscita deve non solo dare luogo a una soluzione pratica ed elegante, ma anche offrire l’opportunità di trasformare le semplici funzioni previste in spazio e architettura. Abbiamo trovato il modo in cui realizzare la nostra idea di progetto tramite la relazione con l’importante precedente dell’architettura di Vasari: la nuova uscita non può essere semplicemente inserita all’interno dell’edificio esistente senza tenere conto di ciò di cui entra a far parte, né senza dare un nuovo volto all’antico edificio rinascimentale. Il progetto si colloca nel cuore di una delle più importanti città d’arte italiane: è necessario che tenga nella massima considerazione e assuma come propria l’architettura esistente, come pure è indispensabile che si ponga in relazione con la tradizione storica toscanae fiorentina, sia in termini di forma che di materiali. Per il progetto è stato assunto come modello la Loggia dei Lanzi. (1)

Vittorio Sgarbi: Non hai alcuna consapevolezza della civiltà architettonica fiorentina e questo ti ha indotto a questo atto di superbia, che io ho cercato di contenere venendoti a trovare a Tokyo. Cercai di convincerti a dare delle misure proporzionate agli spazi, di abbassare la pensilina, di metterla sotto la finestra della Biblioteca Magliabechiana, ma tu mi guardavi e sorridevi, senza che tra di noi si stabilisse alcuna forma di collaborazione». Tu sei un'archistar e io ho osteggiato subito il tuo progetto per ragioni interne all’armonia di Isozaki. Il tuo progetto può essere approvato da un politico, ma una persona avveduta è difficile che possa dire che va bene; quindi lo scambio tra il politico e il tecnico in questo caso ha determinato un’approvazione del ministero di questo telaio per materassi. Tuttavia posso comunicare che l’attuale ministro per la cultura, Sandro Bondi, è contrarissimo al progetto di Isozaki, con la sua posizione che è più radicale della mia. Possiamo stare tranquilli perché finché c’è Bondi, Isozaki sta a casa sua, in un paese dove non ti fanno operare in prossimità di un tempio buddista ma nella periferia di Tokyo. (2)

Alberto Asor Rosa: La realizzazione dell'uscita del museo, oltre a segnare un passo decisivo per la riqualificazione dell'area, è diventata ormai un banco di prova per l'affidabilità del nostro Paese. Arata Isozaki è infatti risultato vincitore di un concorso internazionale ed ha firmato un contratto con il suo ministero per portare avanti la progettazione. L'eventualità di un ripensamento non compromette soltanto il decoro di uno dei musei piu famosi del mondo ma mette a rischio l'affidabilità del nostro Paese nei confronti dei progettisti e della comunità internazionale. Confidiamo quindi che si possa procedere alla sua realizzazione in tempi brevi. (3)

Pietro Pagliardini: Ma davvero dobbiamo credere alle motivazioni della “credibilità internazionale dell’Italia”? E l’intervento contro cui lei si è mobilitato a Monticchiello non era forse una lottizzazione convenzionata, e quindi legittima, e il mettersi di traverso a quella lottizzazione non era forse uno screditare le istituzioni? Forse che Firenze vale meno di Monticchiello? (4)

Antonio Paolucci: La pensilina di Arata Isozaki per l' uscita degli Uffizi si deve fare per tre ragioni. Permettetemi di elencarle, una dopo l' altra. Prima ragione. Isozaki è vincitore di un regolare concorso, è titolare di un regolare contratto, firmato non senza qualche solennità nel febbraio del 2001. Io, membro della Commissione, preferivo il progetto di Gregotti, non perché non apprezzi Isozaki ma perché conosco i fiorentini e immaginavo che quel segno architettonico di grande modernità raffinata e radicale avrebbe suscitato non pochi mugugni. Ma questo non significa nulla. La Commissione ha deciso a maggioranza per Isozaki. Quindi il suo progetto dovrà essere realizzato, sia pure con i limitati aggiustamenti con le ragionevoli rettifiche che Giuliano Urbani ha saggiamente raccomandato. «Pacta sunt servanda» dicevano i latini. In tutti i codici del mondo vale il principio che le obbligazioni legittimamente e liberamente assunte si onorano. Punto e basta. Seconda ragione, molto pratica e quasi brutale. Il concorso è costato dei soldi, molti di più ne costerà quando (nell' ipotesi che l' Amministrazione decidesse di rigettare il suo progetto) Arata Isozaki andrà in causa e chiederà i danni. Vincendo, naturalmente. A quel punto interverrà la Corte dei conti la quale non potrà far altro che imputare il risarcimento «in solido» a chi ha impedito la realizzazione di un regolare contratto. Terza ragione, infine, questa volta d' ordine «etico». I luoghi comuni sono quasi sempre veri. Grazie alle «querelle» sull' uscita degli Uffizi, l' antico luogo comune che vuole gli italiani inaffidabili sta avendo una smagliante, internazionale conferma. Quando si lavora in Italia non basta vincere un concorso: non basta perché gli italiani cambiano idea, non è colpa loro. Sono fatti così, gli italiani. Si sono «sempre» comportati così. La vicenda Isozaki sembra fatta apposta per confermare, posto che ce ne sia bisogno, l' opinione consolidata e condivisa che all' estero hanno di noi. (5)

Pietro Pagliardini: Dott. Paolucci, anche lei con la credibilità internazionale dell’Italia? E’ vero che non godiamo di buona fama, e con qualche ragione, ma lei non dovrebbe preoccuparsi piuttosto d’altro, cioè della qualità degli interventi in luoghi come Firenze cui lei è chiamato a sovrintendere? A me sembra che perderemmo credibilità se facessimo fare la tettoia! E anche lei, in fondo, una gran bella figura non ce la farebbe.

Sindaco di Firenze Renzi: Per quello che mi riguarda, “per i prossimi 6 mesi, fino a quando non faremo il bilancio, ci sarà un grande dibattito. Dal gennaio 2010 entriamo nella fase due, finalizzata all’anno Vespucciano, l’anno in cui vogliamo chiudere la questione Grandi Uffizi, pezzi rilevanti di tramvia, la pensilina di Isozaki. Se si parte, ci vuole un amen a farla”.(6)

Nikos Salìngaros: L’introduzione di un’estetica industriale della macchina in un luogo storico delicato come questo genera conflitti geometrici e, conseguentemente, psicologici. La microstruttura dei materiali industriali non riesce a dialogare in alcun modo con i materiali tradizionali delle strutture circostanti. Le colonne quadrate presentano un’impiallacciatura superficiale di pietra indifferenziata, mentre lo stesso telaio metallico incombe con una scala troppo grande e fuori contesto per riuscire a diventare intimamente parte dello spazio urbano che andrà ad occupare. Privo di una gamma equilibrata di simmetrie e sottostrutture, il telaio non mostra delicatezza né dettagli. Prestate la massima attenzione a come gli utenti percepiranno le dimensioni dei pilastri quadrati: mentre il telaio appare delicato nelle rappresentazioni grafiche, a causa degli esagerati rapporti di scala, l’attuale larghezza della colonna è massiccia e indifferenziata nella gamma di scala umana. Il buon funzionamento dello spazio urbano dipende dai dettagli del disegno che promuovono un senso di benessere psicologico e fisiologico, reso effettivo attraverso una gerarchia di scale e una gamma di sottostrutture. Tutto ciò è assente in questo disegno, che è pensato per lavorare alla sola scala monumentale. Né questa struttura genererebbe uno spazio urbano “protetto” che inviti all’esplorazione. È l’esperienza diretta dell’utente a rendere un luogo utilizzato, amato, vivo e che può invitare la gente ad andarvi e tornarvi più volte. (7)

Arata Isozaki: “Studierò la possibilità di nuove soluzioni. E …. quando tornerò a Firenze, sarò in grado di proporre la revisione del progetto. Su una cosa, comunque, insisto: lo spirito della mia operazione. Che non voleva e non vuole essere solo la soluzione funzionale di un problema pratico (costruire le nuove uscite dei Grandi Uffizi), ma si propone la creazione di uno spazio urbano, nuovo ma in qualche modo memore di ciò che lo circonda. Da qui deriva la scelta della pietra serena per rivestire i quattro grandi pilastri, le sedici longarine della pensilina e la facciata su cui si aprono le quattro uscite, in continuità con quanto fatto da Vasari nel loggiato degli Uffizi. Poi la mia idea era di riprendere la loggia, tipica della cultura architettonica di Firenze. La cosiddetta pensilina, infatti, non dev'essere semplicemente una protezione dalla pioggia: deve offrire uno spazio vivibile, un luogo di incontro come, appunto, lo era la Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria. Per questo ho pensato di porre quattro piedistalli su cui collocare statue, che ricordino la collezione di statue che si affacciano sulla piazza del palazzo comunale. (8)

Pietro Pagliardini: Facciamo il punto dei pro e dei contro attingendo dalla stampa: “Contro la Loggia si sono espressi per il momento solo lei, Sgarbi, il regista Franco Zeffirelli, l'ex sovrintendente Domenico Valentino e la giornalista Oriana Fallaci”. Oggi anche Salìngaros si è espresso contro. “A favore, raccogliendo l'appello di un gruppo di intellettuali, architetti ed artisti, si sono dichiarati, tra gli altri, il maestro Zubin Mehta, gli architetti Paolo Portoghesi, Richard Rogers, Adolfo Natalini, Gianni Pettena, Ettore Sotsass, Massiliano Fuksas, Gae Aulenti, Peter Eisenman, Jean Nouvel. E poi ancora Alberto Asor Rosa, Enzo Siciliano, Sergio Risaliti, Giorgio Van Straten, Sergio Staino, il critico d´arte Germano Celant, Roberto Vecchioni e Paolo Hendel”. Sgarbi, come la mettiamo? (9)

Vittorio Sgarbi: La pensilina è un orrore! (10)

Pietro Pagliardini: E’ solo visitando il posto che ci si rende conto che l’unico progetto possibile è la ricostruzione, se interpretata o mimetica si può discutere, di ciò che c’era e, chiaramente manca. Il resto è veramente fuffa, perdita di tempo, fiato sprecato. Basta andare sul posto, vedere che c’è già un vuoto di un loggiato davanti e quello degli Uffizi deve essere riempito. A prescindere dalla pochezza di quella pensilina. Che l’autore ha scritto riprendere le proporzioni della Loggia dei Lanzi. Roba da matti! Però una commissione ha giudicato, ha assegnato un premio, ha rischiato di farla costruire quella roba, ha fatto perdere anni di tempo. Non sarà certo Isozaki il responsabile di questo danno! (11)

Giancarlo De Carlo: Le teorie Sgarbiane della difesa perché queste sono delle unità intoccabili, l’architetto contemporaneo che ci mette le mani rovina tutto: non si possono giudicare così. Può darsi che rovinino tutto. In molti casi anche tra quelli che Sgarbi ha citato rovinavano tutto ma per un altro motivo: perché non avevano qualità per stare in un ambiente qualificato. La tettoia di Isozaki degli Uffizi è una tettoia sbagliata che non ha senso ma non perché è moderna ma è una tettoia sbagliata perché disegnata sbagliata perchè Isozaki, che è un buon architetto, non ha fatto lo sforzo di capire dove stava progettando e di mettersi dentro questa coerenza, questo sistema di coerenza che era rappresentato dal Palazzo degli Uffizi e dal contesto fiorentino che aveva intorno. Ma è così che bisogna giudicare, non secondo un pregiudizio dato una volta per tutte perché un pregiudizio dato una volta per tutte non può dare altro che risultati sbagliati. Ho detto le teorie di Sgarbi, ma non è questa la cosa più pericolosa, perché la cosa piùpericolosa sono gli infiniti giudici che sono rintanati nelle soprintendenze e nei ministeri che sono molto più silenziosi e si comportano esattamente come Sgarbi. (12)

Antonio Paolucci: La pensilina degli Uffizi è un reperto archeologico, un relitto del ‘900. (13)

Pietro Pagliardini: Meglio tardi che mai!


Fonti:
1) Lotus Internationa n° 121 – progetto/contesto
2) Il Giornale della Toscana, 20 settembre 2008
3) Repubblica, 3 ottobre 2004 – Appello di alcuni intellettuali a favore della pensilina
4) De-architectura
5) Antonio Paolucci, Soprintendente Generale ai Beni Artistici e Storici della Toscana all’epoca – Corriere della Sera del 14 luglio 2002
6) Corriere della Sera, edizione di Firenze, 3 agosto 2009
7) Artonweb: Recensione del progetto per la copertura dello spazio antistante la Galleria degli Uffizi
8) Sgarbi-Isozaki: Nuove soluzioni per l’uscita dagli uffizi - Corriere della Sera 29 settembre 2001
9) Diario quotidiano di architettura- Ordine Architetti Roma
10) Exibart
11) Archiwatch
12) Giancarlo De Carlo su YouTube
13) Exibart


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4 febbraio 2010

ETEROGENESI DEI FINI

Su Avvenire del 3 febbraio è comparso un ironico editoriale di Leonardo Servadio, sempre attento al mondo del’architettura.
Servadio parte dalla notizia che a Victoria Beckham, l’ex cantante e adesso moglie del famoso calciatore, è stato chiesto (sottolineo “chiesto”) di firmare un progetto di un hotel di lusso in una delle famose isole artificiali di Dubai. La richiesta è stata incoraggiata, naturalmente, da un’offerta economica non proprio da minimi tariffari: 50 milioni di dollari!
Ma Victoria Beckham non è architetto (forse è per questo che non hanno rispettato i minimi) e allora è stata affiancata anche da un vero architetto, cioè Karl Lagerfeld, che in verità io conosco di nome come stilista di moda.


Servadio fa a questo punto una serie di considerazioni sulla crisi economica che ha colpito in maniera profonda gli architetti e sulla situazione italiana in cui c’è un architetto ogni 428 abitanti. Se poi si calcolano anche gli ingegneri edili si arriva a un progettista ogni 187 abitanti, cioè uno per ogni grosso condominio.
Conclude con la considerazione che questa situazione è figlia della spettacolarizzazione dell’architettura e che, tutto sommato, è anche possibile che il progetto della ex Spice Girl potrebbe non essere peggiore di quello di un architetto “vero”.

E così avremo un progetto firmato da una cantante e da uno stilista di moda. Finirà in tutte le riviste di moda, costume, arredamento, femminili, sui magazine, su quotidiani, settimanali, trasmissioni TV di tendenza: è l’effetto appunto della spettacolarizzazione dell’architettura; è l’effetto archistar senza archi ma con la star.
Pensavamo che il fenomeno archistar fosse il frutto maturo dell’architettura-oggetto iniziato nei primi decenni del secolo scorso, ma la fantasia del mondo della comunicazione è davvero senza limiti e oggi ci propone l’architettura-oggetto senza architetto. Geniale, c’è poco da dire.
Le archistar in fondo sono noiose. E poi sono sempre gli stessi personaggi, una quindicina, a occhio e croce. Tutti vestiti di nero, facce sofferenti o sguardi esaltati. Non sono adatti a periodi di crisi come questo. Tutto si consuma. Resta però il prodotto, purtroppo, ma questo interessa a pochi.
E allora si allarga il campo: se star devono essere, che lo siano per davvero! Non conosco la Beckham e quindi non riesco ad immaginare che taglio darà al progetto. Immagino che se chiamassero Angelina Jolie farebbe un progetto in stile umanitario. Però sarebbe corretto chiamare anche Brad Pitt che potrebbe impostare un progetto ecologicamente compatibile. George Clooney lo potrebbe fare bello e flemmatico quasi quanto se stesso. Lady Gaga sarebbe certamente più cool e trasgressiva.

Nutro, in verità, qualche speranza che questa nuova tendenza farà capire a molti quanto e perché sia giusto e doveroso, oltre che naturale e saggio, combattere il fenomeno archistar. Il libro di Nikos SalìngarosNo alle archistar”,LEF, 2009, dovrebbe essere reso obbligatorio nelle facoltà di architettura e al coraggioso editore Giannozzo Pucci dovrebbe essere assegnato un premio.

Non esiste alcuna differenza tra l’archistar e la star che firma un’architettura. Nessuna. E non lo dico per scelta ideologica o faziosa, ma proprio in base ad una legge interna all’architettura che è, prima di tutto, conoscenza tecnica dell’arte di costruire un edificio. Ora, così come la Victoria Beckham non potrà essere un architetto, nei fatti e non nel titolo, perché non può sapere niente di una costruzione e si limiterà a fare la stilista, a dare il tocco, lo stesso processo avviene con l’archistar.

Chi progetta l’edificio, chi rende possibile la realizzazione di strutture assurde e prive di senso, create solo per stupire? Le società di ingegneria, ovviamente. Niente di male, anzi, in un edificio complesso ciò è assolutamente necessario con la quantità di problematiche, reali o inventate dalla leggi, di tipo strutturale o impiantistico. Ma il fatto è che quando un’unica persona riesce a progettare contemporaneamente una serie numerosa di edifici importanti in ogni parte del mondo e nello stesso tempo a prendere parte a concorsi internazionali, è chiaro che il suo apporto al progetto è pari a quello che potrà offrire Victoria Beckham, cioè al tocco e, diciamolo, forse neanche a quello, che può essere demandato a fidati collaboratori.

L’archistar è un’azienda, né più né meno, e come tale deve comportarsi se vuole rimanere sul mercato. Benissimo! Ma l’architettura cosa c’entra e, soprattutto, come possono diventare esempio da seguire e da insegnare nelle università?

Eterogenesi dei fini: penso a critici, presunti critici, falsi critici, giornalisti, sindaci, professori. Adesso come faranno ad insegnare o osannare o desiderare i progetti di Victoria Beckham? Davvero non vorrei essere nei loro panni! E non parliamo poi di quegli architetti che li osannano e, osanna, osanna, adesso arrivano anche le star dello spettacolo, quello vero, a rubar loro il lavoro.
Quante persone mette in ridicolo questa situazione! C’è di che essere riconoscenti a Victoria Beckham.


Credits: La foto di Victoria Beckham è tratta da Wikipedia

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3 febbraio 2010

GRATTACIELI

Ho ricevuto questo disegno di Lèon Krier. I disegni di Krier sono parte integrante, e talvolta esaustiva, del suo pensiero. Questo fa parte della lotta che lui conduce al grattacielo come arrogante espressione del rifiuto della natura della città.
E’ un disegno provocatorio e anche urticante, che rievoca un fatto che ha segnato e segnerà ancora per molto tempo la storia di questo inizio del secolo, ma è chiaramente la metafora della fragilità intrinseca di questa tipo edilizio portato oggi alle estreme conseguenze. Ci sono aerei che attaccano, ma potrebbe esserci un incendio, un terremoto, un black-out; situazioni estreme, ma niente affatto improbabili, che in un grattacielo si trasformano in tragedia.



Links:

Sul concetto di Insurance Liability vedi il post Qualche numero interessante sui grattacieli.

Il futuro delle città: l'assurdità del Modernismo - Nikos Salìngaros intervista Léon Krier

Nikos Salìngaros: Grattacieli, un'epidemia mondiale

Ettore Maria Mazzola: Attualità di Giovannoni sui grattacieli

Lucien Steil: La ricostruzione di Manhattan senza grattacieli!

Camillo Langone: L'ANTICRISTO ABITA AL 53° PIANO

De Architectura: Grattacieli sostenibili e sostenuti

De Architectura: Il grattacielo famelico

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