Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


9 dicembre 2012

MARIO FAZIO: PASSATO E FUTURO DELLE CITTA'

Il processo di trasformazione del Bel Paese è avvenuto e sta avvenendo in modo sostanzialmente autoritario. Architetti, ingegneri, geometri, progettano su ordinazione di amministratori pubblici e di privati proprietari di aree da sfruttare; i progetti vengono approvati in stanze più o meno segrete. Al cittadino, considerato un “utente” al quale non si devono troppe spiegazioni, non resta che brontolare. Ma la colpa è anche sua se accetta che le decisioni restino nelle mani di pochi.
Dal canto loro gli amministratori comunali non sembrano avvertire il dovere di illustrare piani e progetti in modo documentato e comprensibile, per stimolare la partecipazione democratica (sottolineo l’uso della parola, contro le tentazioni della deriva rinunciataria).

L’esposizione al pubblico di un piano regolatore è una presa in giro: tavole costellate di segni enigmatici, zone a colori diversi. Spesso l’interesse si riduce ad accertare se il proprio terreno sarà edificabile. Manca inoltre nella stragrande maggioranza dei cittadini la conoscenza della storia della città, indispensabile per valutare il rapporto delle nuove costruzioni con quelle del passato. Quanto alle architetture, alle scelte delle forme, il cittadino si sente disarmato e intimidito.


Eppure strutture e forme urbane sono gli stampi in cui si solidificano le vite degli uomini. La città brutta e disgregata è incubatrice di violenza, di conflitti, di sofferenze non valutabili soltanto dal traffico caotico e dagli inquinamenti. La collettività paga prezzi altissimi per il naufragio urbanistico.

Il circuito “autoreferenziale

Sull’architettura contemporanea si è diffusa un’opinione così negativa da provocare una  crescente rivalutazione del passato. Non perché il moderno sia considerato un disvalore in assoluto ma perché i valori della modernità restano soffocati quando gli edifici non riescono a comunicare, quando non rispondono alle esigenze umane.Però gli architetti e i critici di professione ne parlano quasi esclusivamente all’interno di un circuito chiuso. Quello delle riviste, delle mostre, delle Università, dei saggi che in certi casi sembrano “elucubrazioni di architettura verbale” come diceva Giancarlo De Carlo vent’anni fa denunciando il distacco dell’architettura dalla dimensione umana e affermando l’esigenza di “renderla comprensibile, utilizzabile da tutti per generare gioia e identità”.

Gli architetti di fama e quelli che inseguono la fama progettano pensando ai critici e i critici scrivono per gli architetti, usando il linguaggio della critica artistica, come se il progetto di un nuovo quartiere fosse una composizione astratta da appendere a una parete oppure il tema di un gioco intellettualistico. Ma nell’architettura destinata a durare generazioni, condizionando la vita di milioni di esseri umani, l’autore non può appagarsi di concetti e di poetiche personali, imponendo agli “utenti” senza voce stilemi canonizzati con la benedizione di critici e cattedratici. Tangentopoli e l’abusivismo non sono al’origine di ogni male urbano: pesano anche le responsabilità di chi progettava e di chi insegnava a progettare. Soltanto il 4% del costruito porterebbe la firma di un architetto. Il 96% sarebbe dovuto ad altri, prevalentemente geometri. Ma le grandi opere, i quartieri mostruosi, furono progettati da architetti. E per disegnare villette e palazzine i geometri hanno avuto maestri gli architetti, nelle scuole come nella professione.


Questo brano è tratta da Mario Fazio, Passato e futuro della città, Einaudi.
Un libro del 2000 di Fazio, giornalista de La Stampa, scomparso nel 2004. Un libro acquistato ieri al prezzo di L.24.000. Si, ancora c'è stampato il vecchio conio, segno che non vi sono state ristampe dall'introduzione dell'euro. Non ne conosco le ragioni, ma potrei immaginare che l'essere stato Fazio Presidente di Italia Nostra abbia costituito un freno all'acquisto da parte di coloro che vedono questa associazione come un elemento di conservazione. Il libro è invece di qualità, scritto da un giornalista molto documentato che certamente risente, in positivo, della sua esperienza in Italia Nostra e che si pone rispetto al problema città con un atteggiamento molto più avanzato e con maggiore sensibilità di quanto non sappiano fare molti urbanisti e architetti. Si pone il problema del livello decisionale dei cittadini sulle scelte urbane e denuncia l'autoreferenzialità della cultura urbanistica e della casta accademica. Lui stesso fa un richiamo al Tom Wolfe di Maledetti Architetti, ma riferendosi più alla città che all'architettura.
Denuncia il circuito vizioso architetti-critica-Università, anche se a distanza di 12 anni questo si è spostato dal mondo delle riviste, ormai marginali, alla rete, in nulla però cambiando il metodo, semmai essendo peggiorato.
C'è una parte, che ancora non ho letto, espressamente dedicata alle stelle dell'architettura e al fenomeno, ormai sgonfiato, del così detto "effetto Bilbao".

C'è poi la previsione di una città trasformata dal mondo digitale e da Internet, con alcune previsioni azzeccate ed altre meno, in cui si intravvedono i primi germi della smart city, il nuovo fenomeno che si annuncia come una nuova illusione di risoluzione dei problemi urbani.

Propongo alcuni brani di questa "profezia", tenendo conto conto che 12 anni in questo campo sono un secolo e che facebook, ad esempio, è nato nel 2004:

Se la città del “Capitalism rampant” è preoccupante, quello della “città dei bit” non è oggetto di pura curiosità. La rivoluzione elettronica porterà cambiamenti epocali nel modo di lavorare, di comunicare, di abitare, come nei comportamenti sociali. I seguaci della nuova fede, fondata sull’avvento di un mondo dominato dalla telematica, profetizzano ambienti digitali, città virtuali, rapporti umani in cui il software prevale sulla fisicità e il dialogo interpersonale avviene via cavo o via satellite. La “bitsfera” e il “cyberspazio” si sovrappongono alla biosfera e ai paesaggi naturali. L’area informatica cambierà la geografia; sarà sempre meno importante trovarsi in un dato luogo alla data ora. Sarà possibile persino la trasmissione dello spazio steso, secondo i profeti dell’era elettronica.
Non ci saranno più le code per raggiungere il posto di lavoro, essi dicono, perché si lavorerà a casa di fronte a un computer. I siti Internet sostituiranno le piazze, i caffè, i punti di ritrovo. Non si andrà più a scuola, a teatro, in chiesa, in banca, al mercato: tutto a casa con rappresentazioni virtuali non affidate alle sole immagini sullo schermo ma anche a sensazioni trasmesse al cervello da impulsi comandati da un tasto……
Le case dovranno essere ristrutturate, per dotare ogni abitante di una piccola nicchia elettronica da cui fare la spesa, seguire le lezioni, lavorare nell’ufficio virtuale, farsi curare con la telemedicina, nuotare nel mare scelto premendo un tasto. E si potrebbe continuare.

Gli stessi profeti ella nuova era si domandano quali siano i fini della rivoluzione annunciata, quali i pericoli per la società civile e l’umanità intera, chi potrebbe e chi dovrebbe controllare il tutto. Quel che sta avvenendo con la diffusione di Internet preoccupa non soltanto i pantofolai e e i moralisti d’occasione. La perdita di funzioni della città, sostituiti da luoghi virtuali, è una minaccia gravissima per le civiltà maturate nei secoli all’interno degli organismi urbani. Non meno grave del pericolo di un “ordine mondiale” a carattere tecnologico. Il presidente della Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi, Paul Virilio, intravvede questo ordine mondiale nelle forme di un “nuovo fascismo tecnico e futurista che alla democrazia reale, fondata sull’incontro di individui nell’agorà (piazza, teatro, stadio ecc) sostituisce la democrazia virtuale staccata dalla presenza umana. La democrazia automatica, fatta di tecnica e di pura immagine, con sbocco totalitario”. Come negli incubi di Orwell….
Ancora Paul Virilio, intelligentemente, invita a organizzare la resistenza non perché contrario alle nuove tecnologie ma perché contrario alla virtualizzazione totale che renderebbe irreali le persone, le città, l’eredità storica, con la conseguente morte della cultura e della società. Un mondo privo di specificità locali dove tutto diventa noto in forma virtuale, ridurrebbe l’esistente a oggetto di contemplazione sullo schermo; il patrimonio culturale verrebbe condensato in un catalogo elettronico e omogeneizzato come i cibi della catena MacDonalds.

2 commenti:

qfwfq ha detto...

pietro
credo di avere acquistato questo libro in lire
di averlo letto e anche apprezzato
Fazio appartiene ad una categoria di giornalisti/saggisti tra i quali inserirei Cederna, Emiliani e Insolera
molto interessante mi ricordo che fu l'approccio ai singoli scenari urbani che facevano risaltare le singole città come entità economiche autonome
devo provare a recuperare il testo

Quello che però mi sento di contestare nel brano che citi è il riflesso automatico di rifiuto che traspare nella descrizione degli scenari di una futuribile civiltà digitale.

Fazio confonde infatti lo strumento con l'uso che di questo strumento si può fare; peggio, filtra gli scenari che gli si presentano selezionando solo quelli che forniscono una visione negativa non comprendendo fino in fondo la reciprocità che la rivoluzione digitale sta portando nei confronti del potere mainstream. Rifiutando inconsapevolmente di approfondire le potenzialità positive.
L'errore è considerare la rete come un luogo alternativo al territorio, un qualcosa che se presente escluderebbe la possibilità di sperimentare altre forme di esperienza (sensoriale e cognitiva).

Invece la caratteristica della cultura digitale è proprio la trans-medialità, ovvero il suo essere integrata e integrabile attraverso diverse esperienze culturali.
La città non cesserà di essere l'oggetto centrale della vita del cittadino (che anzi tramite la rete ha la possibilità, se vuole, di essere più informato e più consapevole di quanto vi accade); la città modificherà sicuramente la sua rappresentazione, che verrà integrata e "aumentata" dalla disponibilità di informazioni in tempo reale.
Non necessariamente questo è un fattore negativo.
La rete ha già compiuto un processo di democratizzazione, ampliando a dismisura la capacità dei cittadini di essere informati sui fatti che riguardano la loro città.
Mai come ora il singolo cittadino ha in mano la possibilità di decidere autonomamente se e su cosa essere informato; questo non vuole dire che i cittadini diventeranno automaticamente migliori; semplicemente saranno più responsabili delle loro conoscenze.
Il potere istituzionale (quando avrà capito le dinamiche dei new media) continuerà a pilotare in qualche modo l’informazione. Con la differenza di una maggiore possibilità di critica.
Con lo stesso criterio i singoli cittadini hanno oggi molta più possibilità di incidere sui meccanismi di governo del territorio di quanta non ne abbiano mai avuta fin'ora.
Fazio era un sapiente del ‘900 e gli si può perdonare un certo timore (e rifiuto) rispetto a meccanismi che non era geneticamente in grado di governare.
Noi invece in questi meccanismi ci siamo immersi ed è difficile non accorgersi di quanto stiano permeando ogni aspetto del vivere pubblico e sociale.
Ora di fronte a questo ci sono due possibili atteggiamenti:
- Riconoscere che siamo di fronte ad un processo inarrestabile e cercare di esplorarne criticamente gli aspetti positivi (cercando di mettere in luce quelli negativi)
- Ritenere che invece sia possibile contenere il processo (almeno in alcuni ambiti isolati) e lavorare per costruire barriere idonee a sostenerne l’impatto
In entrambi i casi occorre conoscere il processo, mentre la "resistenza culturale" che traspare nelle parole di Fazio ed è molto radicata nel retro cranio di molto estabilishment italiano, rischia di farci perdere qualsiasi possibilità di gestione del processo.

Pietro Pagliardini ha detto...

Sono d'accordo con te, però nel caso di Fazio bisogna contestualizzare a 12 anni fa, quando ancora tutte le potenzialità della rete non erano note nè prevedibili. E forse non lo sono nemmeno oggi. Forse tu sei più giovane, ma io ricordo benissimo quanti ragionavano e sragionavano sul telelavoro, sulla diffusione nel territorio dei lavoratori tele-lavoranti, su nuovi sistemi insediativi e su nuove tipologie edilizie e sulla fine della città, sostanzialmente. Ancora, ti posso assicurare, c'è chi azzarda ipotesi di questo genere. Sulla città diffusa ha scritto, ricordo bene, anche Andrea Branzi. Erano discorsi di tendenza in cui molti credevano in buona fede e molti li cavalcavano. Oggi si è capito che è come dici te, allora il rischio di errore di previsione e "predizione" era altissimo. Pensa a quel borgo cablato con progetto di De Carlo: sembrava il futuro, era solo un cablaggio che oggi fa ridere da un punto di vista tecnologico.
E il rischio è rimasto altissimo oggi con le smart city, cui si attribuiscono poteri salvifici, quando pochi sanno cosa sia veramente e quanto poco abbia a che vedere con la città.
Ai media, agli opinion leader o presunti tali piacciono molto questi scenari futuribili, ma quasi mai ci indovinano, ovviamente.
Una cosa però la dice giusta Fazio: il controllo della rete, o meglio dei singoli utenti, problema assolutamente attuale che sottovalutiamo tutti.
Ciao
Pietro

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