Prendo spunto da un commento di Giulio Paolo Calcaprina ad un post sul blog amate l'architettura in cui, molto opportunamente, afferma: “ … a lungo termine dovremmo rifondare anche il modo di pensare l’urbanistica trovando un criterio qualitativo alternativo agli standard urbanistici, che personalmente ritengo siano una delle maggiori cause della “disumanità” delle nostre periferie”. Tutto giusto, a parte quel “a lungo termine”. Io credo che sia necessario e possibile farlo “a breve termine” e cominciare subito.
Sul fatto che la cultura urbanistica basata sulla quantità abbia prodotto danni sono assolutamente d'accordo. Va detto, però, che stabilire minimi di verde, parcheggi, ecc. in un periodo di pieno boom economico ed edilizio e, in moltissimi casi, in assenza totale di piani, in specie al sud, visto storicamente è del tutto comprensibile. L'elemento dannoso non sta nell’avere imposto un minimo quantitativo per certe dotazioni ritenute indispensabili, dato che nel momento in cui l’urbanistica diventa disciplina è anche normale che abbia una sua “tecnica” e quindi un suo corpus di leggi con alcuni requisiti minimi omogenei.
Piuttosto il danno risiede nella logica puramente quantitativa assorbita dalla cultura urbanistica e dalla politica, che ha portato alla progettazione di quartieri dotati di ampi standard ma con pessime condizioni di vita e del tutto privi delle qualità urbane minime necessarie.
La lotta per il diritto alla casa degli anni ’70 è stata giocata infatti in chiave quantitativa e politica, come strumento per creare consenso presso certe fasce sociali, dandole in cambio case di qualità scadente in periferie di qualità ancora peggiore. Inutile ripetere il numero e il tipo di leggi prodotte in quella fase storico-politica. E’ stato allora che si è consolidato il blocco tra intellighenzia urbanistica e mondo accademico da una parte e politica dall’altro, intorno al sistema di pensiero del movimento moderno. Quell’idea e quel blocco sono stati vincenti e solo adesso, forse, si comincia a sfaldare a vantaggio, mi auguro, di una visione urbana più consapevole della storia e della grande tradizione urbana europea ed italiana.
Resta però l’onda lunga di quel periodo e lo si può verificare quotidianamente nei piani regolatori ancora basati sulla zonizzazione, sulla rigida distribuzione delle funzioni, sulla burocratizzazione selvaggia in quel voler decidere tutto per tutti, sulla mancanza di conoscenza di ogni corretta geometria urbana che sia capace di innescare il processo che rende vitale un insediamento umano, sulla assenza di un disegno urbano che non sia di pura geometria astratta, sulla prevalenza dell’urbanistica ad oggetti seminati senza relazione alcuna con lo spazio pubblico se non con strada per le auto, piuttosto che sulla continuità delle sequenze urbane e della forte relazione tra edifici e spazio urbano pubblico.
E' la logica che sta alla base della legge urbanistica 1150, e soprattutto dei successivi decreti con la divisione in zone omogenee, che deve essere eliminata, con il ritorno alla strada come elemento generatore della città, con la commistione delle funzioni, quindi con zone disomogenee, con la zonizzazione verticale, cioè attività al piano terra, e sopra residenze o uffici indistintamente. Insomma è il ritorno alla città tradizionale, l'unica in grado di garantire una vita urbana soddisfacente, l'integrazione sociale, la molteplicità, la prossimità, la permeabilità e l’accessibilità della città, la libera scelta del cittadino.
Unica variante rispetto alla città tradizionale europea, su cui esistono punti di vista diversi e su cui vanno ricercate soluzioni che forse avrebbero potuto essere già state trovate e testate se non ci fosse stata la cesura dovuta alla caparbia tirannia culturale di 60 anni di movimento moderno, è quello della presenza dell’auto, che esiste, fa parte della nostra vita e non può essere rimossa confinandola ideologicamente in un ghetto, pena un nuovo, ulteriore fallimento. E credo non sia utile ventilare lo spettro della fine delle risorse energetiche naturali (ricordo il Club di Roma che decretò l’esaurimento del petrolio alla fine dello scorso millennio, e non pare che la profezia si sia avverata, dato che gli alti costi sono determinati da condizioni geopolitiche) quanto la necessità di ridurre fortemente i consumi per motivi di inquinamento, di alti costi dovuti all’espansione del mercato globale, di sostenibilità ambientale nel lungo periodo e non semplicisticamente a breve, piuttosto che alimentare toni apocalittici da day after.
Preferisco di gran lunga affidarmi al principio di precauzione che alle profezie di sventure prossime future, sempre regolarmente smentite e che alla fine del percorso, manifestano sempre l’imposizione forzosa di uno stile di vita e la nascita dell'“uomo nuovo”.
Io credo che la mobilità individuale, come la comunicazione individuale (internet, cellulari, ecc) sia una conquista di libertà cui nessuno è realmente disposto a rinunciare e che non può e non deve essere eliminata per decreto. Certo vanno trovate limitazioni, va incrementata ove possibile la mobilità pubblica o collettiva (e questo è possibile solo in città compatte, non in conurbazioni disperse), ma niente può sostituire "l’appeal" e la libertà di montare nel proprio mezzo e andare dove si vuole.
Quindi il disegno della città tradizionale dovrà tenere conto di questo fatto e non trascurarlo, perché se fosse anche possibile risolverlo nell'ambito di un singolo insediamento in qualsiasi modo, anche con il divieto assoluto, il problema si sposterebbe in ambito urbano, dato che la città è un organismo unitario le cui parti interagiscono tra loro, per cui quello che accade in una zona ha ripercussioni sull’altra. La città deve essere policentrica ma non potrà essere una semplice somma di villaggi perché avrà comunque una gerarchia di livello superiore, e una somma di quartieri senza traffico d'auto al proprio interno produce, sotto il profilo della mobilità, lo stesso effetto della zonizzazione, vale a dire la necessità di autostrade urbane che collegano i vari centri e su queste si concentrerà in maniera abnorme tutto il traffico della città, così che quello che è uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.
Le Corbusier ha impostato il suo ideale di città sull’auto, basandosi su una “profezia” e una scommessa. La profezia della meccanizzazione individuale si è avverata forse oltre ogni previsione, ma quel modello di città ha dichiarato fallimento perché ha distrutto la città senza risolvere i problemi della mobilità. Se LC ha la sua quota di responsabilità, il mondo della cultura urbanistica è doppiamente colpevole perché ha avuto tutti gli elementi per capire l’errore e cambiare, e non l’ha fatto.
Oggi è necessario non commettere specularmente lo stesso errore di LC, non essere cioè radicali nella negazione del mezzo auto. Oggi abbiamo il dovere di cercare soluzioni realistiche e non utopiche che mettano al primo posto la qualità della vita urbana, progetti che favoriscano, attraverso il disegno del sistema insediativo, la massima pedonalità possibile e disincentivino naturalmente l’uso dell’auto per ogni minima esigenza personale, familiare o lavorativa. La prima risposta sta nella città densa e compatta, con limiti definiti tra questa e la campagna, affinché gli spostamenti siano quanto più possibile contenuti in un’area circoscritta in cui sia possibile la scelta tra mezzi diversi.
La mia personale convinzione, che so essere contro corrente, è che si possa convivere con l’auto a condizione che la rete delle connessioni stradali sia ricca, continua, con pochi divieti, perché la circolazione delle auto è come quella dei fluidi: se si chiude un canale il liquido esonda da un’altra parte.
Dunque la sfida che si pone a tutti coloro che come me auspicano un ritorno alla città tradizionale, è proprio quella della soluzione della mobilità. Risolta questa in maniera realistica e condivisa, non ci potranno essere più scuse.
18 commenti:
COMMENTO PARTE 1
Caro Pietro, ho avuto piacere che il mio commento sia stato la causa scatenante di questo tuo lungo e articolato post.
Tocchi molti argomenti, forse un po' disordinatamente (ma non è una critica, io sono a favore del caos speculativo) e perciò non so se riuscirò a commentarli sistematicamente.
Comincio con una nota personale: ho scritto a lungo termine perché credo che ci voglia un cambiamento culturale, che notoriamente non avviene in tempi brevi. Per il resto io auspico tempi brevi, altrimenti non andrei a parlare di nuova urbanistica e architettura nelle scuole con i miei colleghi di Amate l'Architettura.
Entrando nel merito del tuo post sono d'accordo con buona parte della disamina che fai e forse potrei arrivare a dire che le megastrutture come Corviale e Tor Bella Monaca erano la risposta giusta alle esigenze del momento.
In realtà non sono affatto convinto di questa affermazione. Interventi precedenti a Roma (il Tiburtino di Ridolfi e Quaroni o l'unità orizzontale al Tuscolano di Libera) dell'INA CASA dimostrano che si può dare una risposta efficace all'emergenza abitativa coniugando modernità e tradizione.
Sono parzialmente d'accordo nell'attribuire allo zoning tutti i mali della nostra urbanistica. In un PRG deve essere dato un indirizzo generale ma non si può trattare ogni zona con un criterio indifferente. Mi spiego meglio con un esempio: si può pensare una migliore densità in una zona e minore in un altra a seconda del tipo di servizi che già esistono o si prevedono (trasporti soprattutto).
D'altro canto tentativi come quello del nuovo PRG di Roma, che ha fotografato e normato il patrimonio edilizio esistente con una puntualità ossessiva (prova a lavorarci e poi vedrai!), portano a una ipertrofia normativa che ha come conseguenza l'abusivismo liberatorio. Senza contare che i grandi quartieri degli ultimi anni sono stati realizzati in deroga al PRG con accordi di programma, cioè abusivismo e speculazione legalizzata.
Quale è la soluzione allora?
Ricordo che anni fa incontrai un collega che stava lavorando ad un progetto di piano autoregolatore, nel quale potevi essere libero di edificare e modificare nei limiti dei diritti dei tuoi confinanti ed in senso più esteso della comunità.
COMMENTO PARTE 2
La proposta che tu fai (tornare alla città compatta) è la via maestra. Ritengo tuttavia che ora non sia praticabile per i seguenti motivi:
1) la proprietà dei suoli è privata e non pubblica (a differenza di altri paesi);
2) la politica è troppo debole rispetto alle lobby dei costruttori;
3) i comuni fanno cassa con le concessioni edilizie;
3) in Italia, non essendoci delle buone leggi a tutela degli investimenti in borsa, l'investimento più sicuro è considerato il mattone. Considerazione alimentata dal fatto che il nostro territorio è assai limitato e ne è rimasto poco (e perciò acquista valore);
4) nel cuore di ogni italiano c'è un potenziale costruttore.
Fino a che non ci sarà un mutamento culturale generale non sarà possibile frenare questa tendenza.
In ultimo vorrei contestare la tua affermazione della città come organismo unitario. Forse potrà essere vero per le piccole città (ma non lo è più e te lo dimostro) ma non per le grandi.
Sbagli innanzi tutto a parlare in termini di città. Ora si deve parlare in termini di territorio, di megalopoli di macroaree. I piccoli comuni gravitano attorno ai grandi o interagiscono tra essi. Nel caso di Roma, che io conosco meglio, la cintura delle città satelliti schiaccia la capitale con il peso del proprio traffico (e dei costi di gestione e manutenzione che esso comporta) e contemporaneamente si arricchisce delle nuove concessioni edilizie destinate ai pendolari. Gli insediamenti industriali non possono essere costruiti nel tessuto urbano (come una volta) e abbisognano di infrastrutture per il trasporto poco compatibili con le residenze.
Concludo il mio commento assai prolisso (perdonami) affermando che è giusta la strada della densificazione, dello stop alla crescita delle città, della revisione degli standard urbanistici; ma sul ritorno alla città tradizionale credo che da essa dovremmo cogliere la scala umana e la possibilità delle relazioni sociali, cercando un modello che però non sia una mera ripetizione di vecchi schemi.
Perdona ancora la lunghezza, i temi erano tanti.
Un saluto.
Giulio Paolo Calcaprina
Caro Giulio Paolo, se il mio post è caotico vuol dire che è scritto male. A me il caos non piace, tanto meno nella scrittura.
Comunque i contenuti essenziali li devo aver trasmessi in qualche modo, almeno a giudicare dal tuo commento.
I tempi: lo so che deve cambiare il clima culturale, ma questo cambia nel momento in cui si diffonde un'idea e vedo che un po' per volta l'idea giusta comincia a camminare. I tempi per la realizzazione dell'idea sono lunghissimi, però deve pur cominciare da un piccolo intervento, poi da un altro e un altro ancora. Se non comincia non può accadere niente.
Non mi parlare di PRG fatti casa per casa, perchè li conosco, dato che ne hanno approvato uno così proprio ad Arezzo 10 giorni fa: un disastro totale.
I problemi che tu individui nell'applicazione della densificazione sono reali, meno che quello dei comuni che devono fare cassa: densificare vuol dire aumentare i volumi e quindi il comune incassa ugualmente. Certo, è più facile prendere un'area grande, fare un grande intervento e incassare gli oneri. Ma è più facile solo teoricamente, ormai, dato che il mercato è cambiato e le grosse speculazioni non tirano più. La gente è più selettiva nelle scelte, è più prudente e cerca maggior qualità piuttosto che quantità.
Il fatto, giustissimo, che nel cuore di ogni italiano c'è un costruttore, non può che aiutare, dato che nel cuore di ogni italiano c'è anche l'attaccamento alla propria casa e quindi la possibilità di ampliare, di costruirne magari un'altra in prossimità di quella originaria, con la speranza non tanto segreta di tenere vicini i figli, combacia esattamente con l'aumento della densità.
Ma comunque quello che conta è incamminarsi nella strada giusta, sapendo che le soluzioni sono a lungo periodo. Ho l'impressione, ma è quasi una certezza, che tu, come molti, come Gregotti su cui ho scritto l'ultimo post, sia bloccato nei confronti della città tradizionale per motivi "stilistici". Ma ti sbagli, perchè una vera città non significa una città stilisticamente uguale in ogni sua parte; significa prima di tutto che urbanisticamente deve poter funzionare e poi che devono essere rispettate certe regole tipologiche e morfologiche. Nell'ambito di queste il progetto "contemporaneo" ha pieno diritto di esistenza, non il progetto strampalato e fantastico. Gli edifici hanno un fronte e un retro, un minimo di ordine nelle partizione delle aperture, altezze dei piani gerarchizzate, materiali il più possibile tradizionali (è anche una necessità di risparmio energetico), poche o punte terrazze a sbalzo, prevalenza del pieno sul vuoto. Queste e poche altre le regole da rispettare. Perché sul fatto che ci debbano essere regole da rispettare non c'è dubbio: è condizione intrinseca alla città e quindi alla disciplina che la produce, cioè l'urbanistica.
E' uno spazio "comune", quindi occorrono regole condivise. Altrimenti tutto può restare esattamente come adesso, cioè il caos.
Grazie per la lunga risposta.
Ciao
Pietro
Giulio Paolo
con estrema nonsintesi ha espresso il nodo che ci divide
ebbene si!
alla fine tutto si riduce ad un fatto stilistico
aggiungerei alla parte più effimera della progettazione,
quella portatrice sana di carica simbolica
che fa si che anche quando siano condivise delle regole comuni da rispettare
quella sottile linea puramente estetica che fa si che anche quando siano imposti dei principi costruttivi che privilegino i piani dai vuoti e l'utilizzo di determinati materiali (tradizionali o ecocompatibili) l'opera di architettura si manifesti e dichiari per essere un opera incontestabilmente frutto dell'epoca in cui viviamo
possimao dire che in genere siamo daccordo quasi su tutto
ma quel quasi ha il peso di una intera cultura
qfwfq, io ho usato il termine "stilistico" non perché gli attribuisca, invece, grande rilevanza, ma per trovare un elemento paradossalmente di divisione che può servire però ad instaurare una base comune ed immediata di dialogo.
"Stilistico" è elemento semplificativo di una "paura", o di un rifiuto, ad apparire antichisti. Se mi fossi messo a sottilizzare ci saremmo persi in dettagli, importanti sì, ma non saremmo arrivati a niente. Invece siamo arrivati ad un punto essenziale: la nostra diversità. Per me è un risultato importante.
Premesso che è l'elemento tipologico quello determinante, insieme a quello costruttivo e a quello morfologico, tuttavia a monte ci sono due visioni opposte: l'una che (non ne conosco il motivo vero perchè nessuno mai me lo ha spiegato a fondo) dà per scontato il fatto che l'architettura, come il design e la moda debba stare "al passo coi tempi", sia testimone del suo tempo; l'altra invece che crede che l'architettura nasca non solo e non tanto da un processo "creativo" affidato alla fantasia dell'architetto ma da un processo storico maturato nel corso di millenni sulla base di adattamenti a precise condizioni geografiche, climatiche, economiche, sociali e soprattutto antropologiche le quali sono stabili e costanti perché legate alla nostra naturalità di esseri umani.
L'architettura risponde a bisogni di carattere psicologico (e uso questo termine che non mi piace affatto perché soggetto ad interpretazioni molto diverse e largamente banalizzate) in base alle quali una stanza di cemento armato grigio con un divano bianco o nero crea disagio se non angoscia, mentre una stanza intonacata e tinteggiata, pavimentata in cotto e con un solaio di legno (ho preso due estremi evidentemente) comunica benessere. Questo è riscontrabile sperimentalmente tutti i giorni nel confronto con i committenti. Questo è verificabile dal fatto che gli architetti che possono progettano le prime am abitano le seconde. Che poi a Milano vi sia richiesta della prima soluzione è normale, perché l'immagine che passa è quella, al pari delle auto, dell'abbigliamento, del "look".
Ma la casa non è look, è luogo di vita e c'è una bella differenza.
Sono il primo a riconoscere che non si può fare a meno, in gradazione diversa, di ricorrere al primo esempio in molti casi e io mi ci sono trovato e mi ci trovo tutt'ora molte volte, quando progetto fabbriche o uffici. E' chiaro che le aziende chiedono e devono avere immagine e quindi "copio" ciò che circola, senza avere la presunzione di essere io a fare la tendenza. Ma so che è tutto, questo sì, un "falso", un'immagine soggetta ad obsolescenza rapida, un gioco dispendioso e consumista, esattamente l'opposto della tanto decantata sostenibilità, anche questa ormai entrata nel vortice del consumismo bio-eco-compatibile.
Ma la casa e la città sono altra cosa, sono l'ambiente dell'uomo, sono paesaggio artificiale ma che non può non entrare in sintonia con la parte naturale e "animale" che è in noi.
Ciao
Pietro
in fatto di linguaggio, a monte, vi sono due visioni opposte? ce n'è una terza, ed è quella veramente moderna: ognuno (in teoria) ha diritto di scegliere quel cavolo che gli pare e piace e l'opera andrebbe giudicata secondo la sintassi e le regole che uno s'è scelto. questa ipotesi non è accettata nè dai taleban-antichisti nè dai taleban-modernisti...
robert
Per fortuna, robert, che nella forma brutale in cui tu l'hai espressa la terza teoria non è accettata dalle due tribù di talebani.
Se fosse generalizzato il principio che tu esprimi, che è molto meno che relativista ma più modestamente, direi, menefreghista, potrei risponderti che tu sei un taleban-menefreghista. Ma se tu lo fossi davvero, perchè dovresti convincere anche me e gli altri ad esserlo, dato che il nostro parere varrebbe, secondo te, esattamente il tuo?
E aggiungo, stando al tuo illogico ragionamento: perchè stiamo a parlarne: fatti quello che cavolo ti piace e finisce qui. Anzi ognuno si faccia i cavoli suoi su tutto e abbandoniamo ogni forma di comunicazione, orale, scritta, grafica, pittorica, musicale, gestuale, ecc.
Ho brutalizzato ripeto, ma con logica, perché immagino che tu volessi dire qualcosa d'altro. Ma cosa non so.
Ciao
Pietro
peccato per le tribù pietro perchè, se venisse accettata (e per fortuna non sono l'unico che ragiona così) ci potrebbe essere una convivenza civile. invece spesso e volentieri degenera in talebanismo che si rinfaccia la propria verità e, di conseguenza, in continue mode passeggere che durano 'na decina d'anni e, in quei dieci, i poveracci che la seguono pensano di aver trovato il "centro di gravità permanente".
poi, se non l'hai notato, c'è un "in teoria" tra parentesi...
cambiando discorso... noto che a destra state scoprendo le primarie. fa piacere, un po' di sano nichilismo democratico fa solo bene.
robert
Oh, lo so che non sei l'unico robert. Quanto alle mode passeggere di cui parli non ti seguo. Qui c'è una moda che dura dai primi decenni del secolo scorso. A me non sembra affatto passeggera. Sembra invece molto permanente, pervasiva, pervicace, cronicizzata, irrazionale e ottusa, visto che a fronte del fallimento su ogni fronte possibile continua però a perpetrare se stessa. La città si è dileguata e liquefatta a causa anche di quella "moda". le leggi sono imperniate su quella "moda", architetti ed urbanisti hanno la testa settata su quella "moda".
Se poi ti riferisci alle mode che tanto piacciono alla critica e alla storiografia, che a me davvero interessano poco, qui non si perseguono.
Sono una persona semplice cui piace andare alla sostanza dei problemi. Magari non mi riesce sempre, però in questo caso non è davvero molto difficile individuare il problema. Ma ce ne sono molti di molto più duri di me nel capire e il guaio è che sono anche molti che contano molto.
Qualche cambiamento in verità si comincia a notare ma bisogna stare attenti perché l'abilità di appropriarsi del linguaggio altrui senza però cambiare niente è radicato e antico. "Che tutto cambi perché niente cambi" non è patrimonio della sola politica ma anche del suo spesso succedaneo mondo della cultura.
Quanto alle primarie, che non c'entrano niente con il tema, è tema che non mi affascina affatto e che non seguo, ma se vuoi sapere un mio giudizio non maturato, d'istinto dico che nel PD hanno un senso (non sempre), vista la cronica presenza di troppi galli nel pollaio e soprattutto la sua nascita per "aggregazione", ma nel PdL mi sembra improbabile passare di botto da una guida forte e carismatica alle primarie, e inoltre siamo in presenza di una "frammentazione". Comunque questi sono riti che interessano i pur necessari tecnici della politica ma che rischiano di distrarre dalla soluzione del problema di fondo, vale a dire quale sia l'anima del centro-destra italiano. A me questo interessa, visto che non faccio politica attiva. In questo, devo dire, sono uno dei pochi in Italia, visto il numero dei candidati alle comunali, in cui gli architetti non mancano.
Ciao
Pietro
allora, pietro, tu sei come quegli architetti a cui interessa l'essenza e l'anima dell'architettura e non far decidere alle persone in che architettura devono vivere, in modo che siano gli esperti e i loro riti ad arrangiarsi...
o sbaglio? :-)
robert
comunque, a parte gli scherzi... non mi venire a raccontare che a te interessa solo la città e non le mode. di fronte a qualsiasi edificio che abbia linguaggio contemporaneo inserito nel centro storico inorridisci e ricorri a una quantità incredibile di motivazioni per dimostrare che è sbagliato (ovviamente succede la stessa identica cosa ai taleban-modernisti nel caso contrario). penso d'aver mai visto un solo esempio di linguaggio contemporaneo che si rifà a matrici ben lontane da quelle moderniste. ho visto solo krier, tagliaventi, rusponi... ecc ecc
robert
robert, tu confondi le acque. Nel centro storico io credo che non si debba sperimentare un bel niente, nemmeno linguaggi contemporanei con matrice antichista. Il risultato sarebbe solo una inutile dissonanza. Inoltre la sfiducia nella capacità degli architetti, ormai consacrati alla creatività induce alla assoluta prudenza e diffidenza.
Nel nuovo, poiché io credo che una buona struttura urbana sopporti tutto (quasi tutto) ed inoltre credo anche che quartieri interi o peggio città intere progettate da una sola testa, siano terribilmente monotoni (anche se indubbiamente ad ognuno di noi piacerebbe), e ve ne sono di esempi, siano sufficiente regole tipologiche e morfologiche scritte e pensate bene. Poi ognuno rispetti quelle regole (che di fatto ci sono anche oggi, anche se di tipo quantitativo-ragionieristico) e la città ne guadagnerà.
In genere la buona architettura non nasce dalla libertà assoluta ma dai limiti e dai vincoli. E' in questi casi che l'impegno è maggiore: un lotto complicato, un allineamento tra edifici lievemente disallineati, distanze da rispettare, la presenza di un edificio con caratteristiche particolari con cui dialogare o dissentire, insomma, è un tema ormai vecchio e conosciuto da tutti. Da noi sono decenni che non si vede un quartiere progettato con isolati a filo strada, ma pensa se ci fossero a quale tema sarebbe il progetto di un lotto libero tra lotti edificati! Neanche da paragonare alla banalità di progettare un edificio in mezzo ad un lotto a distanza dai quattro confini di tot metri! Per forza, in un caso come questo, uno si mette ad inventare: non c'è relazione con gli altri edifici e con lo spazio pubblico!
Tu dici di avere visto solo quei tre nomi, ma ti sbagli e di grosso. Anche qui in provincia di Arezzo ce ne sono diversi esempi, a Parma c'è Bontempi, all'estero è pieno: Francia, Inghilterra, USA. A Novoli stessa, se avessero rispettato il piano Krier, ci sono progetti di Natalini assolutamente di qualità. messi come sono, senza aver seguito la trama viaria proposta, sono però i soliti oggetti. E poi, come facciamo a vederli se non vengono pubblicizzati da nessuna parte?
Questa censura dell'informazione è terribile e la dice lunga sul clima e lo stato della cultura italiana!
Ciao
Pietro
"interi o peggio città intere progettate da una sola testa, siano terribilmente monotoni (anche se indubbiamente ad ognuno di noi piacerebbe)"
non generalizzare, a me non piace, per nulla.
bontempi... è sempre scuola tradizionalista, è come dire krier o tagliaventi.
pietro, il contemporaneo, anche se è una venezia contemporanea, mi sa che non lo pubblichi nemmeno se ti pagano :-)
http://www.uniroma2.it/didattica/labaca1/deposito/Case_a_schiera_II-3.pdf
robert
Va bene, non generalizzerò. Ma io non sono abituato ad incontrare santi.
Il contemporaneo non lo pubblico certamente, se non risponde ai criteri che non sto a ripetere! Quello che mi mostri nel link è un molo con le case sopra! Ma ti sembra che sia un esempio utile per il nostro paese! Tutto si risolverebbe nell'esaltazione delle forme architettoniche e non si fa un passo avanti. E' chiaro che, nel mio piccolo, anzi piccolissimo, questo blog ha una sua mission, come si dice, che è estremamente limitata e precisa ed è quella di fare "controinformazione", di dare voce ad un mondo che voce non ha ma esiste. Di fare conoscere idee diverse e negate, a cominciare dalle università, di fare squadra con altri blog analoghi. Che motivo e che competenza e capacità e tempo avrei per fare quello che fanno moltissimi altri, anzi quasi tutti i blog di architettura del mondo? Vuoi vedere quel progetto del link? Vai su Abitare, lo trovi senz'altro, se ti riesce a capirci qualcosa in quella grafica tanto accattivante quanto confusionaria. Si potrà competere con RCS, anche restando in quel campo? No, robert, quando mi accorgerò di non avere più niente da dire, e ci sono vicino, smetterò, punto e basta. Ma qui architettura contemporanea, come si intende generalmente, non ne vedrai. E' da circa il 2000 che ho smesso di comprare riviste, figuriamoci se comincio a farne una io. Con ritmo costante mi arriva la news di Archiportale dove vedo sempre le stesse cose, la ripetizione di progetti assurdi di cui non mi frega veramente niente. Al massimo posso cogliere qualche idea nel caso mi capitasse di applicarla, con i miseri mezzi della provincia. Ma mettermi a discutere di moda proprio non se ne parla. Guarda che quando dico che la moda architettonica mi annoia e spesso mi disgusta lo penso davvero. A me dell'architettura dei giovani non mi interessa niente se i giovani sono uguali o peggio dei vecchi. Io, se ne ho la possibilità, e richiede tempo che mi manca, mostro qualche progetto delle mie zone, perché mi piace far vedere che la provincia, la mia provincia, esprime valori di alto e buon livello, perché sono attaccato alla mia terra, perché molti sono amici oltre che colleghi. Qui posso derogare e mostrare anche qualcosa non del tutto rispondente ai canoni. Ma lo faccio su altri blog, su Archiwatch in particolare, che è generalista, un luogo aperto di discussione talvolta con qualche approssimazione ma da internet cosa vuoi pretendere!
L'ho fatta davvero troppo lunga ma spero di essermi spiegato.
Ciao
Pietro
Scusami robert, ma nel sonno mi sono dimenticato di dire due cose: questo è un blog militante e fazioso! L'ho sempre dichiarato apertamente, quindi è ovvio che non potrei fare quello che mi chiedi né potrei mettermi a pubblicare progetti contemporanei per dire quanto sono sbagliati. Quando l'ho fatto, e l'ho fatto e lo rifarò, c'era la motivazione di smitizzarli ed evidenziarne l'assurdità al confronto dell'architettura tradizionale. Solo per questo. Ma pensare di fare un blog solo in negativo non è proprio da me.
Ciao
Pietro
1 non mi serve abitare, l'ho visitato e ho trovato ragazzini che giocavano a pallone e gavettoni come fossimo in una contrada anni 70
2 semplici case su un molo? è del 97, fronti strada e continuità del tessuto, facciate una diversa dall'altra come prevede una città storica, spazi umani ecc ecc... vedi un po' te...
3 grafica di abitare? non capisco cosa c'entri.
4 se esser faziosi significa perdere di vista cosa si è fatto di intelligente un bel po' di anni prima e non si sa riconoscerlo... lasciamo perdere...
5 se è un esempio per l'italia? direi proprio di sì... sempre se uno non preferisce la cacca-diffusa (detta città diffusa negli ambienti accademici) del nord italia
robert
Bene robert, allora analizziamolo con maggiore attenzione. Che sia un molo non mi sembra una mia fantasia. Su un molo, se non si è fuori di testa, si costruisce nel senso longitudinale. Fino a qui tutto bene. E' evidente che in quella situazione di linearità senza sbocco non si può certo costruire una città ma, quel poco che può esserci di questa, sono le strade. E qui ci sono. Va benissimo, ma se costruisci in senso longitudinale, come è giusto, e devi fare anche cubatura, è chiaro che le case debbano essere messe lungo strada. E anche qui va bene. Ma vai a vedere nell'unica eccezione, nell'unica parte in cui si crea uno spazio più ampio cosa ci si va a mettere? Un blocco alto in diagonale! Alla prima difficoltà incontrata, alla prima anomalia, come si comporta il progettista? Prendendo il tecnigrafo e inclinandolo a 45%, con la tipica scelta della geometria astratta che nulla ha a che vedere con la città. Non si pretende, ma si potrebbe anche farlo, che lì fosse prevista una piazza, ma proprio un cuneo di traverso, un ostacolo proprio no.
Cosa ci deve insegnare questo progetto? Solo che gli olandesi conoscono come pochi l'ordine e la geometria. Ma come può essere un esempio da seguire?
E' meglio delle nostre periferie? Certo che è meglio, ma ci vuole davvero poco.
Ciao
Pietro
lasciamo perdere...
robert
Posta un commento