Il dibattito su Archiwatch prima e su questo blog, qui e qui, poi intorno ai progetti per la ricostruzione di parte di un isolato in Via Giulia a Roma, mi ha spinto a rileggere alcune parti di Lettura dell'edilizia di base, 1979, di G. Caniggia e G.L. Maffei.
Ne riporto qui un estratto che ha attinenza con il tema, soprattutto in relazione ad alcuni commenti lasciati.
Lettura dell'edilizia di base (1979)
di G. Caniggia e G.L. Maffei
Cap. 1.3 Specificazioni della terminologia e delle definizioni di base.
........Vediamo ora cosa succede quando mi chiedo il perché dell'esistenza dei tipi, ovvero, in altri termini, quando mi pongo il problema dell'esistenza logica, concettuale, fabbricata solo nella mia mente, oppure dell'esistenza autentica, in sé fisica, indipendentemente dalla mia presenza di osservatore, di classificatore, di tali « tipi edilizi ». Cercheremo di risolvere tale problema avvalendoci di strumenti logico-deduttivi, particolarmente propri dei momenti di crisi: ad esempio ci chiederemo se più case sono simili perché hanno utilizzato lo stesso progetto, o perché sono dello stesso autore o di più autori di una stessa scuola; oppure se le case risultano uguali per qualche imposizione a monte, un regolamento edilizio, una legge o un editto. Tutte ragioni inefficaci ai fini di capire quel « perché », nel senso che possono opporre a ciascuna notizie, osservazioni, documenti tali da smentirle — quelle case simili non sono fatte con un progetto unico, non sono dello stesso autore, ecc. -La nostra logica si arena di fronte all'evidenza che le case analoghe, dalle quali abbiamo ricavato « statisticamente » un tipo edilizio « casa a schiera » sono così fatte perché gli autori non sarebbero stati capaci di farle differentemente. In effetti, corrispondendo ciascuna casa al concetto di casa vigente nel momento in cui ciascuna è stata fatta, ne consegue che la casa di Tizio, quella di Caio, l'altra di Sempronio, per il fatto stesso di essere state fabbricate in luoghi non lontani, e in tempi ravvicinati, hanno un identico corredo culturale alle spalle, finalizzato all'azione del « farsi la casa »: hanno, in breve, utilizzato lo stesso concetto di casa formatosi similmente nelle loro tre menti, sintetico di tutti gli aspetti che le case realmente edificate hanno poi assunto, e necessariamente precedente alla stessa presenza fisica delle tre case stesse. Ciò perché la predominante coscienza spontanea ha guidato quel « concetto di casa » a corrispondere in quell'epoca e in quell'area culturale, a un preciso progetto mentale che è responsabile di quella somiglianza tra i prodotti finiti che ora, avvalendoci della nostra coscienza critica, possiamo riscontrare ed etichettare in un tipo edilizio.
Diversamente, ma solo in parte, accade quando predomina la « coscienza critica »; analogia tra i prodotti e costanza di comportamento in tal caso sembrano ignorate.
Se al posto di S. Frediano o Santa Croce prendiamo in esame un qualsiasi aggregato alla periferia di Firenze, recentemente costruito, e andiamo a Novoli o a Sesto, o a Rifredi, è facile verificare che tre case attigue, almeno apparentemente, sono dissimili. Una ha le finestre « a nastro », correnti orizzontalmente per tutta la facciata; l'altra le ha strette e alte, da soffitto a pavimento; nell'altra ancora sono di varie misure e collocazione, frammiste a balconi in aggetto o logge rientranti. La prima sembra fatta di sole travi, che i pilastri (che pur ci saranno se la casa si regge) sono arretrati dal filo dell'involucro; la seconda di soli pilastri, portati in aggetto rispetto all'involucro stesso, mentre di travi non ne compaiono. La terza ha una parete continua, o che almeno si mostra tale; una quarta potrebbe essere di courtain wall e apparire come fosse una finestra sola, non esplicitando affatto il modo di reggersi. Il bello è che ciascuna di queste case seguita a essere « casa », fruita, abitata e perciò stesso legittima, dato che a suo modo si regge ed è utile a qualcuno; e che tali case sono tutte pertinenti allo stesso momento storico, alla stessa area culturale. Allora non c'è che da richiamarsi a quanto già detto in precedenza: quel che appare di tali case è frutto della personalizzazione del prodotto dovuta a scelte individuali nell'ambito di un repertorio di possibilità vastissimo; scelte che tuttavia incidono solo relativamente sulla fruibilità del prodotto, garantita non da quelle scelte, ma da ciò che i vari autori non hanno scelto, da ciò che è rimasto, in quel loro operare, di predeterminato a monte delle scelte stesse, da ciò che seguita a essere residuo di « coscienza spontanea », di « concetto di casa » e quindi, intrinsecamente, di « tipo edilizio » attuale. Ma, intendiamoci bene, non è che quelle scelte siano legittime, tanto che sarebbe facile confrontare il « tipo edilizio » e le scelte secondo le reciproche capacità di associarsi per il miglior rendimento; sarà facile constatare, e lo faremo, che tali scelte, e proprio in quanto tali, sono solo una forzatura espressionistica di componenti legittime del tipo, che a sua volta non le accetta ma le subisce, scapitandone, appunto, il rendimento globale. Facciamo una controprova: guardiamo queste case dal vero, in situ\ confrontiamo poi una rappresentazione planimetrica di quel quartiere con l'immagine che ce ne siamo fatti — un catastale, ma meglio un rilievo murario, come quelli che abbiamo ormai a iosa per gli aggregati antichi e che raramente sono stati fatti per i quartieri di periferia. Quelle diversità tenderanno a ridursi, se non a sparire; quelle case appariranno secondo quello che sono (e saranno certamente case in linea, che è il tipo attualmente vigente, pur con molteplici varianti) e soprattutto si vedrà quanto illusoria, parassitaria e velleitaria sia un’immagine imposta da scelte incidenti a livello estetizzante e non sulla sostanza, che resta fedele all’insaputa dell’architetto al tipo edilizio generalizzato.
Quindi, il tipo c'è e non è una finzione logica; il tipo c'è ed è prodotto di coscienza spontanea, allora e ora. Ma è vero anche che parlare di tipo, rinvenire il tipo, è frutto di coscienza critica; il fatto stesso di applicare definizioni, di incasellare la realtà, di classificare è esigenza critica, derivata da un momento di crisi. Se per assurdo potessimo domandare oggi a un muratore del Quattrocento che stesse costruendo allora, se sta facendo una casa a schiera» a tre piani, con due finestre per piano, larga cinque metri e profonda dodici, egli non capirebbe assolutamente di cosa parliamo, perché la sua operazione, nella sua mente, è unicamente e semplicemente « costruire una casa » e non un « tipo edilizio » da noi distinto per contrapposizione ad altri tipi.
Questo significa che se è vero che il « tipo » è un derivato .genuino della coscienza spontanea, è anche vero che la nozione di tipo è altrettanto genuino derivato della coscienza critica, ossia una diretta conseguenza del porsi di fronte alla realtà, e di cercare di capirla: operazione identica a quella che fa il botanico quando classifica le piante scalarmente secondo analogie di aspetti e qualità, o a quella che fa il linguista quando individua le strutture di una lingua, la grammatica o la sintassi ad esempio: queste ultime sono strutture ceno ignorate, nel senso di non averne nozione critica, da chi le ha fatte nel corso di secoli e millenni per il semplice fatto di aver parlato; e tuttavia proprie e note a livello inconscio a chiunque, oggi come ieri, parli usando una qualsiasi lingua, e che userebbe quelle strutture sintattiche e grammaticali anche se nessun linguista le avesse ricercate e sistematizzate a livello critico.
Da quanto detto, deriva che il tipo può avere una formulazione critica, desunta mediante un'analisi a posteriori: ma deve ineluttabilmente la sua esistenza all'essere « sintesi a priori », « concetto ». Ossia esiste nella mente dell'artefice prima di realizzare una casa, e non è una prefigurazione di uno o pochi aspetti che saranno assunti dal prodotto costruito, ma di tutti insieme: è un vero e proprio organismo, inverante l'intera realtà della casa prima che questa esista fisicamente. Se la situazione dello studioso di tipologia edilizia è assimilabile a quella di un linguista, la situa-zione dell'artefice è identica a quella di chiunque parli: ossia di formulare, mediante la lingua, concetti necessariamente anteriori al momento del parlare e necessariamente sintetici di ogni carattere strutturale che il linguista potrà isolare e poi classificare.
Attraverso la nostra opera critica, che ci porta al riconoscimento di un tipo edilizio, in sostanza, ripercorriamo la via della formazione dell'oggetto edilizio fino al momento in cui questo oggetto, un istante prima di esserci (esserci nella sua fisicità di oggetto costruito) ancora non esiste se non nella sua concettualità, che è presente come programma nella mente di chi lo sta per fare, con tutta la sua storicità, ossia la sua appartenenza a un momento temporale e a un luogo determinato.
Tipo è, allora, la concettualità dell'oggetto realizzato: come tale, dunque, non è concettualità di parte dell'oggetto, non è schema funzionale-distributivo, non è struttura, non è una facciata, e basta. È tutto questo insieme, e tutte le aggettivazioni che potremo poi applicare all'oggetto stesso: tipo è l'insieme unitario delle definizioni che concorrono mutuamente a formare l'oggetto stesso, integrate organicamente; è proiezione totale, prima concettuale, quando nasce, poi logica, quando lo esaminiamo, dell'oggetto esistente, conformata secondo il «concetto di casa» presente nella mente dell'artefice a livello di coscienza spontanea, vigente in un determinato momento storico, frutto del progressivo succedersi dei « concetti di casa » evoluti anteriormente a quel momento storico. La globalità delle componenti del « tipo » è riassumibile nei tre caratteri dell'edilizia, nella nota triade vitruviana firmitas, utilitas, venustas o meglio, come sottolinea molto giustamente L. Vagnetti, ratio firmitatis, ratio utilitatis, ratio venustatis: precisazione importante perché rafforza più chiaramente il senso della distinzione, riaffermandone la fondamentale unità. È un'unica ratio, un'unica ragione globale in tre aspetti concorrenti. In linguaggio odierno potremmo dire: la globale razionalità della struttura (cioè del modo di « star su » di una casa), inscindibile con l'esigenza che questa sia utilizzata secondo un'integrata globale razionalità della distribuzione (cioè dell'uso che si fa di una casa); ambedue inscindibili con una globale razionalità della leggibilità (cioè di come questa casa riesce a essere capita da chi la guarda o ne fruisce, riesce a trasmettere le sue modalità di star in piedi e di funzionare); come questa casa riesce a esprimere unitariamente tutto questo attraverso un linguaggio, un codice collettivo caratterizzante un'area e un momento civili, tanto da risultare leggibile quale proiezione totale del suo essere oggetto fatto dall'uomo.
La cognizione di tipo richiama indispensabilmente un'ulteriore definizione, quella di processo tipologico. Se esaminiamo più tipi edilizi non contemporanei, in una stessa area culturale, ci accor-giamo di una progressiva differenziazione tra questi, più sensibile tra tipi distanti nel tempo, meno vistosa se letti in intervalli ravvicinati.
L'operatore del Trecento che si fa la casa la costruisce secondo il tipo, il concetto di casa, di quel momento; l'operatore del Quattrocento agisce similmente, facendosi la casa secondo il concetto, il tipo, vigente alla sua epoca. È facile riscontrare, quindi, una scalare mutazione del tipo edilizio a seconda dell'epoca: anche se all'interno di una stessa definizione, la « casa a schiera », varia a seconda della data di edificazione; non solo, ma è facile anche notare che la casa a schiera costruita nel Trecento, soltanto per essere ancora utilizzata nel Quattrocento, tenderà a modificarsi secondo il tipo del momento. Il che vuoi dire che per ogni epoca si è raggiunta un'accezione differenziata del « concetto di casa » che ha prodotto case diverse: non solo limitatamente al tipo della casa (che chiameremo, come meglio vedremo, « tipo di base »), ma anche per qualsiasi altro oggetto edilizio, e diciamo pure per qualsiasi oggetto antropico in generale, vediamo prodursi in una stessa area similari mutazioni al variare del tempo. Tuttavia, al di là delle differenze, vediamo un vistoso fenomeno di continuità, altrettanto facilmente leggibile delle differenze, tra prodotti analoghi: cosicché la casa a schiera del Trecento avrà certi caratteri che seguiteranno ad accomunarla a quella del Quattrocento come a quella del Duecento, attestando una mutazione graduale dei prodotti attuati prima e dopo rispetto a quello pertinente ad un certo intorno temporale. Se poi confronto le mutazioni del « tipo » a più minuti intervalli temporali intermedi, mi accorgo che nel corso di un secolo il tipo è variato attraverso una serie di mutazioni intermedie, alcune caduche, nel senso che non hanno sensibilmente inciso sulla nuova formulazione del tipo, altre permanenti, che ritrovo appunto nel tipo rinnovato: ciò anche indipendentemente dalla progressiva e scalare edificazione, nel senso che quasi sempre l'attività edilizia in un luogo non è continua, ma si realizza per alterni momenti di « boom » edilizio e di stasi.
Nella meccanica di mutazioni incidono soprattutto le variazioni progressive degli edifici già esistenti, gli adattamenti capillari di quel che già c'è per renderlo atto, a volte con limitati aggiorna-menti, a un continuo rincorrersi tra processualità degli edifici e parallela mutazione processuale dei bisogni. In realtà il contributo delle mutazioni capillari risulta leggibile solo ad intervalli prolungati, confrontando un nuovo assetto raggiunto con la stesura anteriore: chiameremo fase l'intervallo cronologico di sufficiente ampiezza a che tali mutazioni siano riscontrabili con una sufficiente chiarezza. Se, dunque, esamino i tipi nella loro progressiva mutazione, nel susseguirsi di una successione di fasi, ottengo quel che chiamiamo « processo tipologico ». Il quale può anche leggersi in un delimitato intorno storico, ma tenendo ben presente che vi è di necessità un certo margine di riduttività, in tal modo, poiché per definizione il susseguirsi di tipi non può aver inizio se non dal momento in cui nella mente dell'uomo si è formato il concetto generale di « casa »; e non può aver fine se non quella, del tutto provvisoria, corrispondente al momento attuale. Diciamo ancora che, esaminando i prodotti edilizi di un'area culturale, noto che questi mostrano diversità dagli analoghi prodotti di qualsiasi altra area: e che tali diversità sono scalarmente crescenti a seconda sia del crescere della distanza puramente metrica, sia anche delle delimitazioni spaziali imposte, fase per fase, a ciascuna cultura.
Ossia in una stessa fase storica sono diversi gli edifici prodotti, mettiamo, nel Lazio o in Toscana; ma ancor più lo sono quelli della Toscana rispetto agli analoghi in Francia; e presenteranno ancora maggiori diversità, al confronto, gli edifici della Toscana e quelli della Cina, al punto che diventano quasi simili quelli tra Toscana e Lazio che a prima vista avevo qualificato come diversi. Tutto ciò sempre relativamente alla precisazione di un intorno temporale, poiché, ad esempio, sono maggiormente differenziate due case, una toscana e l'altra emiliana, nel Duecento, di quanto non lo siano due esempi analoghi nel Quattrocento.
Questo sta a significare che la stessa scalarità che leggo nel tempo in una stessa area culturale la leggo anche nello spazio, al confronto tra più aree culturali; cioè vedo che nello spazio v'è una continuità di differenziazioni dei prodotti edilizi al punto che posso parlare di un processo tipologico anche nella progressiva dislocazione differenziata di aree a contatto. Mi approssimo alla realtà processuale solo se associo ambedue le varianti, e leggo unitariamente il processo tipologico come un susseguirsi di mutazioni temporali e di distinzioni, e relative mutue influenze, spaziali: in breve, devo parlare di processualità storica. La storicità, che è condizione di esistenza sia di ciascun uomo, sia di ciascun oggetto che produce, sia di ciascun avvenimento che lo riguarda, è inscin-dibile da una duplice relazione spazio-temporale. Un uomo, un oggetto, un avvenimento esiste in quanto collocato in un tempo e in uno spazio determinato. La storia è un sistema di individuazioni spazio-temporali leggibili attraverso la loro processualità, prodotta dalla unità-distinzione che deriva dall'essere, ciascuna individuazione, collocata in un reciproco legame, che è anche reciproca contrapposizione. Nulla esiste che non sia, o non sia stato nello spazio e nel tempo: condizione di esistenza è di essere in un determinato tempo e luogo.....
4 commenti:
Se c'è una lezione che ho tratto da tutta la discussione è che la «fissa» per l'architettura mi ha portato e mi può portare a guardare il «mondo» con lenti talmente distorte da ingrandire o rimpicciolire polemicamente dettagli a detrimento dello sguardo d'insieme sulle cose, sulle persone, sulla mia persona tra le altre, tra gli altri architetti.
In fondo è quello che forse sta dicendo Caniggia riconoscendo implicitamente i limiti della sua scuola.
In questo senso mi colpisce la scelta di questo passo da approfittare adesso di questo tuo blog.
Ma adesso di Caniggia non mi importa.
Come delle mie interpretazioni scorrette dei suoi testi, come probabilmente anche in questo caso.
Quello che voglio dire è che la mia cura del mondo come architetto sarà sempre al «rustico» in antinomia con gli intendimenti di un mestiere che ha la pretesa di investire l'intero mondo al «finito».
Addirittura costruendolo.
E' la consapevolezza dura di un'antinomia irrisolvibile con cui bisogna fare i conti senza infingementi ideologici.
Prima dell'ecososteniblità delle proprie architetture occorre un'ecosostenibilità della propria cultura e dei propri rapporti umani.
L'unico modo per non ritrovarci faccia a faccia con la delusione delle cose è metterle in una giusta scala di valori tra il resto in modo da riconoscere il potere illusorio che hanno.
Molto evidente nei bilanci esistenziali dei maestri della scuola romana.
Mi scuso per non poter rispondere ma sono fuori e dal cellulare questo e' il massimo che posso fare
Pietro
indipendentemente dalla fumosità e dalla discutibilità di alcuni passaggi, la lettura di Caniggia è sempre utile. Peccato però che tra il dire e il fare ci sia di mezzo il mare.
Ciao
Ettore
Mi scuso di nuovo con santo scolaro, per un verso e con ettore maria per un altro: infatti non avevo pubblicato il suo commento, pur avendolo letto.
santo scolaro mi sembra di capire, ma posso sbagliare, che la tua cura del mondo, come architetto, al rustico voglia significare un atteggiamento che non pretende di dire una parola conclusiva, che ogni opera, cioè, è solo una tappa e non un arrivo definitivo.
Fino a qui, se questo è il senso, mi sembra un modo giusto di interpretare il mestiere di architetto. Quello che mi sfugge è perchè il pensiero di Caniggia dovrebbe essere opposto. Forse perché nel suo complicato e splendido testo usa un linguaggio e un tono che non ammette repliche?
Di certo, e rispondo con questo anche ad Ettore, il passaggio dalla teoria alla pratica è il punto debole di questa scuola, però la debolezza, e il senso di frustrazione di cui parla santo scolaro, è più evidente nell'architettura, mentre nell'analisi e nel progetto territoriale e urbano l'apporto è davvero significativo e fornisce molte regole senza le quali strade e piazze difficilmente possono davvero acquistare vita e funzionalità. E il brano in questione, che è davvero un estratto parziale, tratteggia gli elementi di base da cui partire per leggere l'esistente e per disegnare il futuro.
Ciao
Pietro
Posta un commento