Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


19 novembre 2010

IL PERICOLO DI UNA CULTURA MONODIREZIONALE

Un approfondimento del tema svolto svolto in un precedente post sul crollo a Pompei, sempre del prof. Ettore Maria Mazzola.

Sui danni al patrimonio artistico derivanti da una cultura monodirezionale
di Ettore Maria Mazzola

Premessa
E così è venuto giù un altro pezzo del nostro patrimonio: la Schola Armaturarum di Pompei, una costruzione dal volume semplice, costruita in opus mixtum di tufo e laterizio, che grazie agli scavi di Vittorio Spinazzola (1910-23), era stata restituita all’umanità dopo quasi 2000 anni di oblio conseguente l’eruzione del 79 d.C.
L'edificio, che si ergeva su via dell'Abbondanza – la strada principale della città – fino alla settimana scorsa era, per motivi di sicurezza, visitabile solamente dall'esterno.
Subito dopo il crollo, l’ANSA aveva battuto la notizia dicendo: “secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza le cause del crollo possono essere attribuite al peso del tetto in cemento armato della palestra stessa. La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni '40 e gli anni '50. È probabile - fanno sapere dalla Sovrintendenza - che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto".

Nella mia lettera aperta – pubblicata su una decina di blog italiani all’indomani del crollo – avevo stupidamente sperato che il crollo della chiesa delle Anime Sante di L'Aquila e quello della Torre Medicea di Santo Stefano in Sessanio, avessero aperto gli occhi a chi “sovrintende”, e che quindi non si sarebbe più dovuto rimpiangere i nostri monumenti a causa di crolli generati da restauri sbagliati, ovviamente mi sbagliavo … e ovviamente il caso della Schola Armaturarum non può ritenersi l’ultima di queste tragedie.
Dà rabbia leggere quanto è stato pubblicato sui giornali, ed è stato dibattuto in televisione, a proposito del crollo pompeiano. Gli italiani hanno dovuto assistere inermi ad un vergognoso battibecco da pollaio, in cui i politici dei diversi schieramenti hanno menato il can per l’aia, nel vano tentativo di farsi belli davanti all’elettorato: “è colpa del ministro attuale!” “No è colpa dei ministri della sinistra che hanno operato male facendo incancrenire la situazione!
Ciò che è sfuggito ai nostri politici, e ai loro “scriba”, è che, mentre loro approfittano cinicamente di queste situazioni per fare la loro campagna elettorale, la cricca, che è la reale responsabile di questa situazione preoccupante, continua imperterrita per la sua strada!
Come infatti ha ammesso anche la Soprintendenza Archeologica di Pompei, la “responsabilità va fatta ricadere sull’errato restauro in cemento armato che aveva sovraccaricato la struttura!” Il problema è ben noto a tutti da anni, è non è neppure il primo caso visto che il Prof. Marconi racconta, spesso e malvolentieri, della sua triste esperienza Pompeiana relativa alla Casa delle Nozze d'Argento, ove l'Oecus Tetrastilo venne a subire una sorte simile a quella della Schola Armaturarum, grazie all'ottusità della sovrintendenza che si rifiutò di far realizzare (con soldi stranieri per giunta) la sostituzione, con una struttura lignea, di quella in c.a. eseguita negli anni '50... motivo del diniego? Sarebbe stato un falso storico!

Il dibattito sano
In questi giorni, sul suo blog De-Architectura, Pietro Pagliardini ha denunciato l’ennesimo scempio in corso nella sua Arezzo, dove la Fortezza Sangallesca è oggetto di “restauro creativo” da parte di professionisti locali che, sotto l’egida della Soprintendenza, stanno provvedendo a ricostruire con una struttura posticcia (“curtain-wall”) la porzione di un bastione: evidentemente, per questi “tecnici illuminati” l’uso del mattone, nella città le cui mura furono menzionate da Vitruvio come il primo esempio romano di utilizzo della muratura piena di mattoni, probabilmente era troppo scontato!
Già all’indomani del crollo di Pompei tutti i blog sull’architettura in Italia si erano scatenati, raccogliendo centinaia di post e commenti, pro e contro, un determinato modo di approcciare il cantiere di restauro.
Succede che, quando si dibatte sui blog, chiunque sia legittimato a dire la propria, e questo nella maggioranza dei casi è un bene! Tuttavia, quando il discorso si fa tecnico, chi partecipa al dibattito animato dall’ideologia, raramente accetta il parere di chi invece possa essere motivato dalla sua esperienza pratica di cantiere.
Del resto, viviamo nel Paese dove tutti si credono ingegneri e allenatori della Nazionale di calcio e, diceva Pirandello, così è se vi pare!
Questa situazione fa sì che i discorsi divengano infiniti, nessuna delle parti in gioco riesce ad ammettere “ok, mi ero sbagliato!” E allora si gira e rigira la frittata, pur di dimostrare di aver ragione anche davanti all’evidenza del contrario; finché, per sfinimento, una della due parti (spesso quella nel giusto) abbandona il ring … ma agli ignari lettori il dubbio rimane.
Il rischio di questa “resa” è che essa possa venir letta come la conferma del fatto che il “restauratore filologico” – quello vuole ripristinare tutto com’era e dov’era, e con gli stessi materiali adoperati all’origine – sia mosso semplicemente dalla sua ideologia, mentre il “restauratore creativo” – o il suo sostenitore – sia invece colui che, per onestà intellettuale e storicista, vorrebbe attualizzare il monumento.
Alimentare questo dubbio, in un’epoca in cui il livello di ignoranza in materia di restauro è ai massimi storici, è quanto di più sbagliato possa avvenire.
Sarebbe invece il caso di ammettere che i vari Brandi e Pane si sbagliavano, e che aveva ragione Ceschi quando a proposito dei palazzi genovesi e del campanile di Venezia difendeva la “falsificazione della storia” a vantaggio del bene e del bello comune, e soprattutto aveva ragione quando sosteneva che il restauro debba essere sempre affrontato “caso per caso”.
In vista di una vera campagna di salvaguardia del nostro patrimonio, sarebbe doveroso un “mea culpa” da parte delle Soprintendenze e, prima di loro, da parte delle eminenze grigie che dalle cattedre universitarie impongono i loro dogmi. Spesso, tra l’altro, molti dei docenti che pretendono di insegnare come restaurare, non hanno alcuna conoscenza della pratica, e devono le loro conoscenze ai soli libri sulla Teoria del Restauro, spesso datati!
Se poi pensiamo che, la maggioranza di chi detiene il bastone del comando all’interno delle Soprintendenze, possiede una laurea in Lettere Classiche e/o Beni Culturali, ignorando in toto il processo costruttivo e la tecnologia dei materiali da costruzione, appare ridicolo che lo Stato riponga fiducia assoluta in un Ente ignorante in materia tecnica.
Ebbene, penso che si debba necessariamente dare qualche chiarimento.

Il cemento … se lo conosci lo eviti!
Il cemento è un pessimo materiale per il restauro, chi lo ha inventato non poteva conoscere i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine, tuttavia la Carta di Atene del '31 ne impose il suo utilizzo, e quello dei materiali sperimentali, nel restauro dei monumenti ... si ritenevano utili perché più resistenti … inoltre consentivano di riconoscere l'antico dal nuovo.
Prima di addentrarmi in discorsi chimici – ovviamente semplificati per essere accessibili a chiunque – voglio ricordare un dato fisico, ben noto sin dagli albori di questo materiale, che riguarda il suo peso rapportato a quello delle murature tradizionali.
Mentre una muratura tradizionale pesa in media 1700-1800 Kg/mc, una muratura in cemento armato ne pesa 2500! Va da sé che, se una muratura venne dimensionata (anche gli antichi facevano le loro valutazioni, pur su basi geometriche e proporzionali) per reggere un solaio ligneo, il cui peso va dai 32 ai 50 kg/mq, è ben difficile che oggi possa reggere un solaio latero-cementizio, il cui peso oscilla tra i 250 e i 300 kg/mq!
Il cemento si ottiene per cottura di marne, oppure di miscele artificiali di calcare e argilla. La caratteristica fondamentale del prodotto di cottura (clinker) è che – a differenza delle calci idrauliche – la calce vi è interamente combinata come silicati, alluminati e ferriti di calcio. Il meccanismo di indurimento di questo legante riguarda pertanto sostanzialmente l’idratazione dei composti formantisi durante la cottura.
Per prevenire fenomeni indesiderati in fase di esercizio, dei quali dirò, occorre controllare molteplici parametri (modulo idraulico, modulo silicico, modulo dei fondenti e modulo calcareo) che potrebbero inficiare la qualità del prodotto finale.
In particolare, se il livello ammissibile di “calce libera” venisse superato, si potrebbero avere seri problemi, mentre se risultasse inferiore al minimo, il cemento si polverizzerebbe spontaneamente all’aria!
Durante la cottura, la calce che si forma dalla dissociazione termica del carbonato di calcio (CaCO3) reagisce con l’allumina e con l’ossido ferrico; la parte residua (calce restante) si combina chimicamente con la silice per formare silicato bicalcico (2 CaO SiO2) e silicato tricalcico (3 CaO SiO2): questi due silicati sono i più attivi costituenti idraulici del cemento.
Il silicato tricalcico, nella sua reazione con l’acqua d’impasto, sviluppa un’elevata quantità di calore (che nelle murature antiche è molto pericolosa), inoltre presenta un’accentuata attitudine al ritiro, accompagnata da un’elevata velocità di indurimento: quest’ultima proprietà è importante ai fini della resistenza alle brevi stagionature. Esso perciò si tiene abbondante nei cementi (supercementi) che devono servire per strutture non molto spesse da disarmarsi rapidamente. Dal punto di vista chimico le sue proprietà, come vedremo, sono poco soddisfacenti. In ogni modo questa velocità fa sì che molte imprese usino questo tipo di cementi per velocizzare il lavoro!
Il silicato bicalcico, invece, sviluppa pochissimo calore durante la reazione con l’acqua, ha scarsa attitudine al ritiro, ed ovviamente una lenta velocità di indurimento: affinché raggiunga una resistenza meccanica accettabile occorrono mesi, anche se la resistenza finale è simile a quella del silicato tricalcico. È ovvio che questo tipo di cemento, nella società del mordi e fuggi non nutra le simpatie delle imprese che vogliono accelerare i cantieri. In ogni modo, considerato che il silicato bicalcico è il costituente che consente l’aumento della resistenza meccanica alle lunghe stagionature, esso viene mantenuto abbondante nei cementi utilizzati per costruzioni di grosso spessore, e per quelli che devono avere una certa resistenza chimica.
Tuttavia, nei corsi di Tecnologia dei Materiali da Costruzione, (il mio professore è stato Francesco Romanelli, già collaboratore del grande Pier Luigi Nervi) ci insegnano che “con la sostituzione del silicato tricalcico con il silicato bicalcico, entro i limiti accettabili per le resistenze meccaniche, si realizza il duplice vantaggio di ridurre il calore d’idratazione e migliorare la resistenza chimica del materiale. I cementi ricchi in C3S sviluppano, infatti, una notevole quantità di calce di idrolisi (cementi ad alta basicità) che, dal punto di vista chimico, rappresenta il “tallone di Achille” del cemento”.
Ci si dovrebbe dilungare nel raccontare i problemi collegati con la necessità di accelerare i tempi di realizzazione cercando di mantenere delle buone resistenze meccaniche, cosa che però comporta grossi problemi di fessurazioni, dovute al rapido ritiro, e con esse un indebolimento strutturale e un’elevata permeabilità. Sarebbe utile far conoscere i vari “trucchi del mestiere” escogitati dai costruttori per ottenere questi obiettivi; trucchi che però non portano a nulla di buono: per esempio, per ripristinare le caratteristiche di lavorabilità del cemento, si usa aggiungere acqua in betoniera, ma questo trucco diminuisce gravemente la resistenza meccanica ed aumenta la permeabilità del manufatto indurito!
Ciò che non viene raccontato del cemento è il perché esso tenda a deteriorarsi in tempi molto brevi se raffrontati a quelli delle malte tradizionali.
La causa di disgregazione di una pasta di cemento può essere provocata da cause sia interne che esterne: nel primo caso la disgregazione si produce in tutta la massa, che si altera profondamente in tutte le sue parti; nel secondo l’alterazione si manifesta inizialmente solo in alcuni punti della superficie, e procede poi verso l’interno. La calce libera (CaO) e la magnesia (MgO), ed un eventuale eccesso di gesso, sono le cause intrinseche di alterazione. Si noti che, anche piccoli tenori di calce non combinata chimicamente nei clinker creano enormi problemi. Questa calce, cotta all’elevata temperatura del cemento, risulta bruciata per cui si idrata molto lentamente, quando il cemento ha già fatto presa, provocando rigonfiamenti e screpolature: il cemento risulta espansivo a causa dell’espansione della calce.
La magnesia presenta fenomeni simili a quelli della calce, ovvero l’espansione si manifesta in tempi molto lunghi, anche 1 – 2 anni dopo la messa in opera!
Nel caso del gesso in eccedenza, si hanno forti fenomeni di espansione a causa della formazione di solfoalluminato di calcio successivamente alla presa, che provoca un forte aumento di volume.
Altre volte, il deterioramento è causato dall’impurità del cemento che presenta degli alcali.
Ovviamente, occorre prendere in considerazione anche le ragioni del deterioramento causato da un attacco esterno, cosa anche questa ben nota, ragion per cui risulta ridicolo che si sia teorizzato, e si continui ad adoperare il cemento a faccia vista della cosiddetta “architettura brutalista”.
Una certa influenza su deterioramento è data da fattori di origine fisica (calore eccessivo, gelo) e chimica (azioni di acque aggressive, capaci di provocare fenomeni di dilavamento e di rigonfiamento) … non volendo annoiare con discorsi troppo tecnici, lascio al lettore la possibilità di comprendere da sé per quale motivo la soprintendenza e i politici, per il crollo di Pompei abbiano accusato le piogge!
Finora ho descritto il problema limitandomi al cemento; il discorso però andrebbe fatto per quello che è il materiale che viene adoperato nei cantieri: il calcestruzzo armato, ovvero un composto di cemento e inerti, rinforzato con barre di acciaio, cui spesso e volentieri vengono addizionate sostanze chimiche, (molto tossiche), che servono a ritardare o accelerare il processo di presa e indurimento e/o altro.
Ovviamente, per renderle solidali con le preesistenze, le strutture in c.a. vengono opportunamente “ammorsate” nelle murature originarie, ragion per cui, nel caso dell’uso del c.a. nei cantieri di restauro, risulta necessario fare delle piccole (o grandi) demolizioni per realizzare gli ancoraggi tra le vecchie e le nuove strutture. C’è da dire che, mentre le strutture antiche hanno la capacità di adattarsi gradualmente ai vari cedimenti, assestandosi e mai collassando, le strutture in c.a. risultano estremamente rigide e indipendenti dalle strutture originarie, sicché, come si è visto a L’Aquila, in caso di sisma queste strutture tendono a partire per la tangente, schiantando a terra ciò che le sosteneva!
Non occorre avere una laurea in chimica per sapere che il carbonato di calcio, CaCO3, è il peggior nemico del ferro, va da sé che qualche problema all’interno di una struttura in c.a. poteva essere immaginato da chi la teorizzò.
Per quanto riguarda il calcestruzzo, un problema molto serio è quello della carbonatazione, il fenomeno consiste nella reazione dell’anidride carbonica CO2 dell’aria con l’idrossido di calcio Ca(OH)2 della pasta di cemento, con la formazione di CaCO3. In determinate condizioni tale processo si manifesta con una diminuzione di volume. L’influenza della carbonatazione non è però limitata al ritiro. Ma anche alle notevoli conseguenze per quanto riguarda la corrosione delle armature in acciaio. Infatti nelle zone carbonatate il calcestruzzo non è più alcalino, o lo è poco, e quindi non è più sufficiente ad assicurare la passività dell’acciaio. Pertanto, ai fini della durevolezza, si richiede che il copriferro esposto all’aria risulti di spessore adeguato, e l’impasto abbia bassa porosità … ma spesso e volentieri chi costruisce lo fa e basta, e se ne frega di tutte queste precauzioni.
Vanno considerati poi gli effetti collaterali dell’acqua sul calcestruzzo.
Quando una struttura di calcestruzzo è in contatto con acqua, o altri liquidi, le cause di degradazione possono essere suddivise in cause di natura chimica, fisica o meccanica. Le prime ovviamente sono le più importanti
I tipi più comuni di agenti chimici aggressivi naturali sono i sali solfatici, quelli magnesiaci, le acque ricche in anidride carbonica, le acque pure e i cloruri; l'azione corrosiva di questi ultimi riguarda più i ferri del calcestruzzo armato che non il calcestruzzo stesso. Sono esclusi da queste considerazioni i liquidi di scarico industriale, acidi alcalini o contenenti composti organici ed inorganici, i quali per la loro azione specifica nei confronti del calcestruzzo andrebbero considerati caso per caso.
L'azione di questi agenti chimici si esplica sostanzialmente in tre modi:
l) per solubilizzazione della calce d'idrolisi (dilavamento); 2) per trasformazione dell'alluminato tricalcico ad opera dei solfati in un prodotto di volume maggiore, il solfoalluminato di calcio, da cui deriva la disgregazione della massa; 3) per attacco dell'idrossido e dei silicati di calcio da parte dei sali di magnesio, con formazione di prodotti ancora espansivi o incoerenti.
L'azione dei sali di magnesio è diversa a seconda del tipo di sale; per es.: il solfato di magnesio attacca l'alluminato tricalcico con formazione del solfoalluminato, ma questo in presenza di solfato di magnesio forma solfato di calcio, allumina idrata e idrossido di magnesio. Il solfato di magnesio attacca anche i silicati con formazione di solfato di calcio, idrossido di magnesio e silice. La silice e l'idrossido di magnesio tendono ad ostruire i pori, ma col tempo formano silicato di magnesio idrato privo di coesione. In modo analogo si comporta il cloruro di magnesio.
In aggiunta ai fenomeni descritti, e ormai ben noti, ce n’è un altro silente e terribilmente dannoso per il calcestruzzo armato, si tratta di un fenomeno quasi sconosciuto e poco studiato: l’inquinamento acustico!
La costante vibrazione delle strutture in c.a. sollecitate al rumore crea un lento ed inarrestabile processo disgregativo all’interno delle strutture che, nel tempo, tendono a perdere del tutto le loro capacità meccaniche!
Concludo questo paragrafo ricordando che, peggio del calcestruzzo si comportano i materiali chimici adoperati nei cantieri di restauro, per esempio le resine epossidiche le quali, benché finalmente bandite, continuano imperterrite ad essere adoperate dai restauratori senza cultura!

Riflessioni sullo stato attuale
La maggioranza della classe docente, dei responsabili delle Soprintendenze, e dei professionisti che operano nel settore del restauro sono “cresciuti a pane e cemento armato”, sicché non conoscono altra possibilità che quella. A questo limite culturale va aggiunto il problema, prettamente italiano, generato dalla teoria del Falso Storico.
Questo presunto “reato” induce – chi interviene e/o sovrintende ai lavori – a mettere alla base dell’intervento un approccio ideologico, fondato sui contenuti delle Carta di Atene e Venezia, così si dà per giusta la necessità di differenziare il nuovo dal vecchio, e opta per la“conservazione” del bene piuttosto che per il suo “restauro” … anche se poi, lo abbiamo visto, questa conservazione dura molto poco.
I crolli di Pompei e L’Aquila, e quello della Torre Medicea di Santo Stefano in Sessanio – tutti edifici mal restaurati (addirittura consolidati!) ad opera delle soprintendenze – lasciano supporre che, presto o tardi, verranno seguiti da altri eventi simili, a meno che non si provveda sollecitamente a rimuovere le strutture “moderne” insistenti su quelle antiche. Ma per far questo risulta necessario rivedere al più presto il modo di affrontare, ed insegnare, il restauro dei monumenti, a partire dalla necessità di abbandonare il “falso” problema della “falsificazione” che ci ha indotto all’uso di materiali e soluzioni aliene ai monumenti stessi.
La situazione non è dissimile da quella che lamentava, alla metà dell’800 nelle sue Conversazioni sull’Architettura, Viollet-Le-Duc; epoca in cui l’Academie des Beaux-Arts imponeva il solo studio del linguaggio Classico e Neoclassico. Il suo dubbio può essere riassunto in questa frase: se non diamo la possibilità ai nostri architetti di conoscere l’architettura gotica, chi potrà prendersi cura del patrimonio architettonico francese?
La differenza sostanziale è che, i fin dei conti, gli “accademici” francesi producevano edifici duraturi, benché lontani dall’architettura francese, mentre noi oggi non facciamo più nemmeno quello!
Chiudo citando alcune frasi illuminanti, tratte dalle “Conversazioni” di Viollet-Le-Duc, poiché esse sono da considerarsi una sorta di “testamento morale”, testamento sul quale occorre ancora oggi riflettere a fondo. Queste frasi, infatti, potrebbero essere state scritte in questi tristi giorni, durante i quali piangiamo la perdita della Schola Armaturarum, e assistiamo inermi allo scempio della Fortezza di Arezzo.

Sulla libertà dell’Arte: “le arti si sviluppano in modo attivo quando sono, per così dire, solidamente legate ai costumi di un popolo e ne costituiscono il linguaggio sincero. Esse declinano allorquando diventano una specie di cultura privata; allora gradualmente si rinchiudono nelle scuole e si isolano; ben presto adottano un linguaggio che non è più quello della massa. L’arte allora diventa un estraneo che talvolta viene accolto senza che si associ alla vita quotidiana. Si finisce con il farne a meno perché più di impiccio che d’aiuto; pretende di governare e non ha più sudditi. L’arte può vivere solo se libera nella sua espressione, ma sottomessa nel suo principio; perisce quando, al contrario, il suo principio è misconosciuto e la sua espressione ridotta alla schiavitù”.

Sul rischio di perdere la capacità di intervenire sul patrimonio a causa di un insegnamento distorto e limitato: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze”.

Sulla necessità di conoscere la tradizione per progredire: “è necessario riunire la più grande quantità di materiale possibile, per conoscere quanto è stato fatto e approfittare dell’esperienza acquisita; poiché è importante non passare il tempo ricercando la soluzione di problemi già risolti, e partire sempre dal livello raggiunto” […]. Esaminiamo quindi a fondo i nostri procedimenti e le forme solite della nostra architettura; confrontiamoli con i procedimenti e con le forme dell’architettura antica, e vediamo se non ci siamo sbagliati, se non occorre rifare tutto, per trovare quest’architettura del nostro tempo reclamata ad alta voce proprio da coloro che ci privano degli unici mezzi atti a crearla”.

Sull’esterofilia degli architetti: ”se ci teniamo a possedere un’architettura della nostra epoca, facciamo innanzitutto in modo che tale architettura sia nostra, e che non vada a cercare le sue forme e le sue disposizioni ovunque fuorché in seno alla nostra società. Che i nostri architetti conoscano gli esempi migliori di ciò che è stato compiuto prima di noi e in condizioni analoghe; niente di meglio se a tali conoscenze associano un metodo valido e uno spirito critico. Che sappiano come le arti anteriori hanno costituito l’immagine fedele delle società nel cui ambito si andavano sviluppando”.

Sulla perdita dei principi dell’unità e dell’uniformità: “tutti i nostri antenati sono rimasti degli osservatori fedeli di questi principi primitivi, derivanti dal semplice buon senso, solo noi li abbiamo messi da parte. ... gli antichi, al pari degli artisti medievali, hanno sottomesso le loro opere ai principi dell’unità, senza mai cadere nell’uniformità”.

Sul fallimento dell’architettura alla moda: “in definitiva, per il pubblico, questa architettura ha prodotto edifici scomodi, dove i servizi non sono né posti in risalto, né tanto meno soddisfatti; che non parlano alla sua mente, né ai suoi gusti; spese enormi che lo stupiscono talvolta senza commuoverlo mai”.

Del controllo assoluto: “il corpo, ricordo di istituzioni estranee alle idee della nostra epoca, è, nonostante tutto, padrone dell’insegnamento delle belle arti, padrone della maggioranza delle amministrazioni che dispongono dei capitoli di bilancio statale e delle grandi città destinate alle belle arti; padrone, quindi, delle sorti degli artisti e in modo più particolare degli architetti che, per manifestare il loro talento, hanno solo i lavori che dipendono da queste amministrazioni”.

10 commenti:

ettore maria ha detto...

grazie Pietro!

lorenzoleggeri ha detto...

Grazie Ettore per questo post! Incredibili le frasi di Viollet-Le-Duc... sembra che siano state scritte ieri! Per quanto riguarda l'insegnamento del restauro, ti porto una testimonianza che ti potrà dare un po' di speranza: in cinque anni di università (Quaroni) i vari professori di Restauro, Consolidamento degli edifici storici e Statica delle murature ci hanno sempre parlato in termini molto negativi dei restauri eseguiti con l'uso del cemento armato. Stesso dicasi per la conferenza che c'è stata a Valle Giulia un paio di settimane dopo il terremoto de L'Aquila. Magari ho solo avuto fortuna, però penso che il futuro ci possa portare a svolte positive.
ciao ciao

Lorenzo

ettore maria ha detto...

Caro Lorenzo,
ti ringrazio per il commento, non avevo dubbi che le frasi di Viollet avrebbero colpito per la loro attualità.
Quanto alle lezioni all'università, so bene che ci sono alcuni docenti che raccontano raccontano la verità relativamente al cemento, purtroppo però molti di essi continuano ad esser convinti della validità del "restauro creativo" e della differenziazione tra vecchio e nuovo. Dopo L'Aquila l'evidenza dei fatti era talmente grande, che sostenere posizioni diverse diveniva impossibile: Parafrasando Goethe quando esprimeva il suo parere sugli effetti dell'eruzione del Vesuvio del 79 d.C., direi che il dramma umano e culturale abruzzese ha avuto il "merito" di aprire gli occhi a molte persone.
Un caro saluto
Ettore

Anonimo ha detto...

Complimenti a Ettore per una preparazione di eccezionale vastità e profondità, solo una riflessione, rivolta sia a Ettore che a Pietro: 'restauro creativo' e 'restauro con l'uso del c.a.' non sono necessariamente la stessa cosa, perché coinvolgere il primo, che è espressione di una posizione culturale, con il secondo, che è una scelta (sbagliata) eminentemente tecnica? Non è che la vis polemica vi ha preso la mano (per la serie 'l'occasione fa l'uomo ladro, ma anche ipercrititco')?

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Vilma, detta così e considerando i due fenomeni separatamente hai sicuramente ragione perchè una è una scelta tecnica e l'altra metodologica.
Però il legame esiste in quanto entrambe negano il "restauro" a favore della "conservazione", il rispetto non solo delle caratteristiche storiche ma anche costruttive originarie dell'oggetto a favore di tecniche nuove e di interpretazioni contemporanee.
Credo che questo volesse dire Ettore.
E se invece voleva dire qualcosa d'altro, lo dico io, nel senso che non posso non vederci questo legame.
Poi può darsi anche che il tecnicismo abbia preso la mano e che sia riducibile dunque a scuole di pensiero tecniche, ma, gira gira, sotto, volontariamente o involontariamente, c'è un atteggiamento verso il bene completamente diverso dalla lettura storica, tipologica e delle sue caratteristiche costruttive.
Ciao
Pietro

ettore maria ha detto...

cara Vilma,

ti ringrazio per i complimenti e ti rispondo sul perché abbia messo le due cose insieme.
Il "restauro creativo" va a modificare il manufatto originario, e come tale lo snatura. Spesso poi, per consentire le aggiunte derivanti dal "restauro creativo", il manufatto originario deve subire degli stravolgimenti strutturali irreversibili.
Se per "restauro creativo" vogliamo parlare delle aggiunte alle chiese e castelli francesi fatte da Viollet-Le-Duc e compagni, non credo che ci sarebbe da lamentarsi, anche perché sarebbero fatte partendo dalla conoscenza del sistema strutturale originario e dalla conoscenza delle regole compositive dell'autore antico, se invece il "restauro creativo" è quello proposto alla Fortezza di Arezzo o all'Altare della Patria (l'ascensore posteriore), allora sarebbe meglio che gli autori pensassero a realizzare i loro manufatti altrove. Se domani mi venissero a mostrare un progetto di "restauro creativo" per il completamento della torre campanaria mozza di San Biagio a Montepulciano, purchè seguendo il programma di San Gallo, sarei il primo a firmare per l'approvazione.
Un caro saluto
Ettore

Anonimo ha detto...

mi permetto di mandarvi un link ad un articolo di Mariopaolo Fadda:
http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=311
interessante anche il commento di Allessandro Baricco.
Ciò che vorrei sottolineare è che il discorso sul restauro non è così facilmente divisibile in bello/brutto, corretto/scorretto, modernista/antichista, culturale/tecnicista ecc.
Credo di aver capito le intenzioni di Ettore, e per scrivere una trattazione come la sua è necessario mettere dei punti fermi, in qualche modo categorizzare per rendere comprensibile la sintesi del discorso.
Ma resto del parere che le tue conclusioni siano in gran parte arbitrarie.

Vilma

Linea del cls carbonaro... ha detto...

Ettore è sempre un po' “apocalittico”. Io non sono esperto di restauro, comunque in passato ho avuto ho avuto a che fare con esso assieme (e guidato) da altri professionisti molto più esperti di me, si metteva in pratica la logica di Vilma: ci si distacca e si denuncia pur usando materiali "tradizionali"; colori, intonaci e finiture sono infinite, non è necessario a tutti i costi tecnologia “hard”. Non ho trovato molta ignoranza in materia e il rapporto delicato tra strutture murarie, calcestruzzo e cemento era un tema all'ordine del giorno. Comunque, una cosa mi ha assai stupito del post, il degrado del cls: la carbonatazione la scoprii all'università (prima metà anni '90), grazie al al mio professore di “consolidamento e...”. Era ben più restrittivo di ciò che riporta Ettore, la carbonatazione avanza 1mm l'anno, anche se il cls è ben gettato, i copriferri son ben fatti, le armature non arrugginite in fase di getto... niente, non c'è verso, 25-30 anni e i problemi insorgono, ragion per cui concludeva:
- Ragazzi, il cls a vista... scordatevelo! Intonacatelo, rivestitelo, incappottatelo, in poche parole: proteggetelo... sappiate che ho visto condomini degli anni 50 demoliti... la struttura interna in cls praticamente non esisteva più. Quindi, se non volete guai, il cls a vista, evitatelo.
Ovviamente con mio sommo dispiacere, era un quinquennio ancora postmodernista, ero arcistufo di colonne, timpani, simmetrie, basamenti e rivestimenti in pietra... e io andavo alla ricerca (come un carbonaro) dei Tadao Ando, del primo David Chipperfield e delle ultime cose di Louis Kahn... come dire: non c'era opera dove il cls a vista non facesse capolino :-)))

Rob

PS: Pietro, lo sai vero che alla Biennale c'era un sala intera di un artista anti-corbuseriano? cazzarola... sapessi che cattivo... te in confronto sei un agnello :-)

Pietro Pagliardini ha detto...

No, non lo sapevo. Non seguo né la Biennale né i vari festival bar dell'architettura. Sarà l'età, ma gli eventi non mi interessano. Guardo qualche foto, leggo qualche titolo di copertina dei vari direttori, e ho subito un rifiuto. Ripeto, è l'eta che mi induce a non credere alle copertine lucide. E poi al liceo mi hanno insegnato a guardare dietro le cose. E' scomodo perché col tempo si diventa cinici e disincantati, ma è un vizio acquisito che difficilmente si perde.
Il fatto che sia anticorbuseriano è uno scoop ma....non vorrei che le sue opere fosse peggio di quelle del suo nemico. Però non le ho viste e non posso dire.
Quanto al restauro garbato di cui tu parli, che è certamente meglio di quello gridato e ignorante della Fortezza di Arezzo, tuttavia continuo a non comprenderne il significato, lo scopo, la filosofia. Quella è la tecnica che viene usata per quadri e affreschi.
La differenza tra un quadro e un edificio, ancorché monumentale, sta nel fatto che quest'ultimo nasce sempre con uno scopo: l'utilitas è il suo primo attributo. Prima di essere monumento era edificio vissuto dalle persone. Serviva a qualcosa, non aveva come unico scopo l'arte. Il modo migliore per salvaguardare quel bene è considerarlo ancora edificio e quindi, che si voglia riutilizzare oppure no, ma a maggior ragione nel primo caso, io credo dovrebbe essere ricostruito con le stesse tecniche costruttive dell'origine. La visione di congelare la vita di un edificio ad una determinata fase (quale?), cioè di "conservarlo", invece di "restaurarlo", monumentalizza e astrae dal contesto l'edificio stesso, lo consegna agli storici, ai critici, lo fa uscire dall'architettura per consegnarlo all'arte. Ma l'architettura "può" essere arte ma "non deve" essere arte. Quando è arte è forse qualcosa di più di un quadro, quando non lo è, è qualcosa di diverso. In ogni caso non è mai assimilabile ad un quadro.
Dunque l'edificio "conservato", contrariamente a quello che suggerisce la parola, è "stravolto" nella sua essenza. Utilizzare materiali analoghi a quelli originari, quindi non dissonanti, è sicuramente meglio che mettersi a fare il creativo, ma stravolge ugualmente l'architettura, la cui parte tecnico-costruttiva è la sua stessa essenza e la sua ragione di esistere, ed è comunque il primo passo verso la manomissione creativa: se accetti il fatto di distinguere il "vero" dal "falso", la conseguenza dell'acciaio o di che altro è inevitabile.
Poi esistono casi straordinari in cui può essere èreferibile "conservare" una ferita all'edificio, che so, nel caso di eventi bellici o altri casi eccezionali in cui il fatto storico appartiene alla coscienza collettiva di una città, di un popolo e in cui quell'evento deve essere ricordato, per motivi civili, e allora il fatto architettonico può andare in secondo piano. Ma sono davvero pochi casi. Nella stessa fortezza di Arezzo c'è un altro bastione minato dai francesi e, poiché quella è un pezzo di storia della città molto controverso io posso capire che la ferita venga conservata. Ma davvero sono eccezioni la cui scelta però non è dell'architetto ma della comunità.
Ciao
Pietro

Linea di ba-ba uau-uau ba-ba uau-uau ha detto...

se ti interessa vedere l'anticorbu alla biennale:

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-43296da2-fa60-437d-9a4e-730fe3049cc3.html#p=0

non ti devi guardare l'intera puntata (anche se magari rischi che vi siano altri discorsi antimodernisti che ti interessano) bastano 3-4 minuti.

rob

PS: per la firma, non sono matto, è il mio cane che abbaia così, è un cane dodecafonico :-))) e, come tutti i cani, è senza radici... si affeziona alle persone, non al territorio...

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