Pietro Pagliardini
Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.
Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.
Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.
La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.
Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.
Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.
In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.
Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
“No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.
A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).
Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.
1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari”.
24 commenti:
Personalmente sono assolutamente convinta della necessità che l’architettura e l’urbanistica debbano essere ‘moderne’, esprimere il proprio tempo, l’adesso, il qui e ora, ma mi resta del tutto misterioso perché ciò debba avvenire nell’indifferenza al contesto nel quale si inseriscono.
Gli edifici che cito nel mio scritto, la torre Velasca dello studio BBPR e il grattacielo Pirelli di Giò Ponti e Nervi, sono datati 50 anni fa e anche se molte cose da allora sono cambiate, non si può certo dire che siano da demolire, restando, secondo me, l’esempio di come si possa conciliare l’esigenza di ‘modernità’ con la possibilità di proseguire con linguaggio attuale ciò che la cultura di una comunità ha espresso in precedenza.
Sottratti alle suggestioni facili dell’International style, le impostazioni progettuali scelgono entrambe di scartare la soluzione costruttiva a telaio in acciaio secondo la tradizione del grattacielo nordamericano, utilizzando un sistema costruttivo del tutto insolito per questa tipologia, il calcestruzzo armato (credo che ancora oggi il Pirellone sia tra i più alti edifici al mondo realizzati in calcestruzzo).
La frenata al verticalismo indotta dall’espansione volumetrica alla sommità della torre Velasca, escogitata per un recupero di superficie abitativa, la compatta solidità del Pirellone, per il quale i progettisti si fanno scrupolo di non superare troppo l’altezza della madonnina del Duomo (e pongono sulla copertura una riproduzione della stessa in segno di omaggio e sottomissione) integrano i due edifici allo skyline di una città dove le modeste elevazioni sono costituite da tozze torri romaniche in mattoni, pesantemente materiche, simbolo di una comunità che fatica a staccarsi dal suolo, poco incline agli slanci mistici, attaccata a valori squisitamente terreni. La Velasca adotta facciate a finestrature regolari che penetrano la pesantezza del volume, essenzialmente brutalista, il Pirelli accosta inusitatamente a leggere facciate in alluminio e cristallo ampi setti pieni rivestiti in tessere di ceramica, instaurando entrambe le strutture un fitto dialogo con l’ambiente, con i suoi campanili, con il castello sforzesco, dove la torre del Filarete costituisce per i milanesi una realtà familiare di grande potere iconografico.
E’ ciò che andava fatto, così come fra pochi anni Citylife, con i suoi grattacieli fantasiosi, esprimerà ciò che non si dovrebbe mai fare (almeno a Milano).
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Quanto a Eisenman, cito testualmente, da una recensione del libro ‘Mistico nulla’, 1996, di Renato Rizzi, uno che Eisenman lo conosce bene per aver collaborato personalmente: “….Renato Rizzi, diretto conoscitore di Eisenman, sull’orizzonte ampio della cultura occidentale e del pensiero greco, usa la mistica ebraica e in particolare il simbolismo della Kabbalah, come un corrosivo per portare a nudo -in una dimensione allegorica, che si pone ovviamente al di la di ogni riduttiva circostanza di ordine religioso, etnico e storico - un’intima unitarietà negli strati profondi del pensiero e dell’opera, di non agevole traduzione, del celebre architetto newyorkese.
Dalle “Notes on Conceptual Architecture” fino ai risvolti teorici impliciti nei più recenti progetti, emerge – nell’indagine di Rizzi - un quadro originale e rigoroso dove ad ogni tappa di Eisenman, riconducibile agli archetipi formali del “punto”, del cubo, dello El-Shape, dello scaling, rispettivamente corrisponde il collante sovrastrutturale degli archetipi mistici, riassunti nei simboli dell’ En-Sof, delle Sefiroth, dello Tzimtzum e delle Sheviàth Hakelim.” (http://www.architetturaamica.it/Biblioteca/recens/Eisenman.html)
Lo stesso Rizzi scrive ‘La muraglia ebraica. L'impero eisenmaniano’, 2009, sintesi di vari saggi attraverso i quali “ penetrare nella cultura ebraica attraverso l’opera di Peter Eisenman per comprendere il linguaggio formale del nostro tempo”.
Al proposito, in un’intervista rilasciata a Alessandro D’Onofrio Eisenman dichiara : “Renato Rizzi ha scritto un libro sul rapporto tra la cabala e le mie opere. È molto difficile da spiegare. Quando parlo della cabala o del misticismo o del significato esoterico, non sono sicuro che questo rapporto esista come invece lo è Rizzi. Non si deve mai chiedere a qualcuno cosa sta facendo perché in quel momento costui non ne ha la piena consapevolezza….. “ tuttavia poco dopo aggiunge: “Noi tutti siamo la somma delle nostre componenti, non possiamo fuggire da ciò che facciamo e da ciò che siamo. Ma non so se sia lecito per me dire "Peter Eisenman è questo o quest'altro". Non posso rispondere meglio a questa domanda” (http://www.unich.it/progettistisidiventa/REPRINT%20E%20INEDITI/D-Onofrio-EISENMAN.htm)
Tuttavia c’è chi insiste: “nelle opere recenti di Eisenman è stata riconosciuta una componente esoterica ed iniziatica, l'influenza della Kabbalah e della mistica ebraica, allusioni al simbolismo dello Tzimtzum, lo spazio originario, e anche dell'En-Sof, delle Sheviàth Hakelim” (Giuseppe Strappa, Corriere della sera del 11.05.05)
Ora, che Eisenman dichiari che l’identità non sia “un concetto in cui credere” mi sembra francamente paradossale, quando tutto ciò che fa ed insegna è permeato dell’identità della sua personale cultura ebraica e delle tradizioni e delle credenze del suo popolo, così come mi paiono evidenti le contraddizioni in cui incorre.
Saluti
Vilma
Vilma, manca il segue, ma ciò che dici è chiaro anche così, e lo condivido.
Ciò che è inaccettabile, nel caso del tipo grattacielo, è il conformismo che spinge molti politici e architetti a riconoscervi una coincidenza assoluta tra quella forma e la modernità, non solo della città ma proprio della società. Una modernità ormai datata perché largamente battuta. In verità sappiamo essere, come nel caso CityLife, una pura speculazione edilizia che permette densità altissime, un'immagine forte dal punto di vista pubblicitario e l'idea, balzana, di lasciare molto verde intorno. Verde indistinto che non assolve a nessuna funzione reale se non al rispetto degli standard numerici di legge e, sostanzialmente, anche questo specchietto per le allodole ai fini della commercializzazione. Il bosco verticale di Boeri è, da questo punto di vista, la quintessenza negativa della somma delle idee di altezza e verde: difficile pensare ad un oggetto e ad un modo di vita più anti-urbano e anti-sociale di questo.
C'è in questa trovata una genialità perversa e un cinismo architettonico (forse inconsapevole) che mette paura.
La forma verticale è chiaro che nell'immaginario collettivo ha un grande potere attrattivo e simbolico ma, come dice Krier, è l'altezza che determina il fascino, non il gran numero dei piani abitabili, che invece fanno dei grattacieli alveari verticali privi di relazioni al proprio interno e distruttivi di ogni relazione spaziale e sociale al suolo.
E a proposito di contesto, è evidente che una metropoli come Milano può accogliere edifici alti simbolici, ma nella stragrande maggioranza dei piccoli e medi centri diventano elementi di rottura della percezione del paesaggio urbano perché costituiscono un'alternativa a quelli tradizionali esistenti dei campanili o dei palazzi pubblici.
Un grattacielo non è mai una torre o un campanile, non possedendo il requisito fondamentale del coefficiente di snellezza di quelli.
Ciao
Pietro
E' arrivata la seconda puntata mentre scrivevo il mio commento.
Lo leggerò dopo per motivi....alimentari.
Ciao
Pietro
Vilma ho letto il tuo commento con molta attenzione e, pur senza essere un conoscitore, non a quel livello almeno, della cultura ebraica, mi sembra evidente che Eisenmann si porta dietro un'identità culturale piuttosto forte che trasferisce nelle sue opere.
Chissà perché nega non solo la sua ma addirittura il valore assoluto di una architettura identitaria.
Non è evidentemente l'unica archistar di cultura ebraica (Libeskind e Ghery, ad esempio) ed è chiaro che se l'ispirazione fosse di tipo iniziatico ed esoterico (affermazione che prendo per buona senza però capirne a fondo le origini ma solo lievemente intuirle) questo spiegherebbe perché le loro opere sono così indecifrabili e inconcepibili ai più.
Se fosse vero sarebbe, come è, addirittura inutile chiedere loro spiegazioni, dato che per definizione per capirle occorre essere iniziati.
Non vorrei, però, che questa fosse una comoda interpretazione che alla fine serve a nobilitare un'opera (un po'come il richiamo a Derrida), facendo evitare il rischio di dover spiegare il significato di opere che invece non ne avrebbero alcuno, se non quello di stupire.
Ciao
Pietro
Buonasera.
Premesso che ho trovato molto gustoso ed ironico l'articolo di Vilma Torselli, parto con una critica, poi cercherò di ricucire lo strappo con qualche parola benevola...
Sorvolo sull'analisi economica e dei rapporti di Cina-"resto del mondo", che ritengo abbastanza imbarazzante ed abbastanza superficiale (ovviamente a livello di teoria economica) e punto direttamente al sodo con un esempio pratico: la zuppa Campbell (http://www.softwaredidattico.it/EducazioneAlimentare/java05_finestra.htm) ha il valore di pochi dollari; la sua rappresentazione pubblicitaria vale quanto qualsiasi inserzione pubblicitaria (che ha un valore di mercato superiore, in quanto espressione di un "brand", ma ha un valore intrinseco inferiore, in quanto oggetto virtuale); la rappresentazione eseguita da Andy Warhol vale invece milioni di dollari.
Cosa distingue la lattina dalla sua foto e questa dalla sua rappresentazione artistica?
Visto che si parla di economia, aprendo qualsiasi libro di microeconomia si può leggere che il prezzo esprime generalemente la "scarsità" di un bene: i prezzi rappresentano il modo in cui i soggetti che operano sul mercato comunicano gli uni con gli altri (quando il prezzo di una risorsa è alto, l'impresa che la impiega ha un maggior incentivo a usarne di meno; quando il prezzo di un bene è alto, l'impresa che lo produce ha un maggior incentivo ad aumentarne la produzione e i suoi clienti a consumarne di meno).
Quindi dal punto di vista economico la "scarsità" determinata dall'"unicità" del produttore dell'opera artistica può determinarne il prezzo relativamente alto.
Una Coca-Cola costa pochi euro, ma una bottiglia "millesimata" uscita con produzione speciale costa molto di più.
Il MAXXI non è una Coca-Cola, perchè se è vero che utilizza paradigmi comuni a tante opere "contemporanee", è comunque la realizzazione "unica" di un architetto "di grido": non viene pagata la somma dei materiali usati, ma viene pagato l'utilizzo di una risorsa "scarsa" quale è una archistar come la Hadid (anche se ormai di archistar ce ne sono a bizzeffe).
Quindi il plus-valore attribuito all'architettura della Hadid deriva proprio dal fatto che "tutti gli altri" (per fortuna) costruiscono architetture differenti: se tutti facessimo case sghimbescie, con cemento e vetri a go-go probabilmente l'architettura della Hadid varrebbe molto meno (e quella di Krier molto più).
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Matteo, anche nel tuo caso mi è arrivata, per ora, solo la prima parte del commento ma non ancora la seconda. Credo di avere dei problemi con blogger.
Comunque rispondo sul primo, visto che il secondo hai annunciato essere benevolo. Non che questo sia malevolo, in verità, ma non mi trova affatto d'accordo.
La mia analisi sulla globalizzazione sarà ingenua o che altro ma, guarda il caso, oggi la Cina ha superato il PIL del Giappone ed è la seconda economia del mondo. Quest'anno si prevede la vendita di 530.000 auto di lusso in Cina. I cinesi stanno molto meglio di prima, come gli indiani, d'altronde. E stanno molto meglio a spese nostre che stiamo molto peggio, infatti a Pomigliano d'Arco hanno accettato un contratto impensabile fino a ieri. Dunque è certo che io non sono un economista ma i fatti sono questi.
Il Brillo di Andy Warhol io ce l'ho attaccato in garage, l'ho comprato quando ero studente e credo proprio di averlo pagato poche lire, forse 500, perchè nel caso di quel tipo di arte l'originale conta niente in quanto perfettamente riproducibile. Se ti interessa ho anche 4 Lichtestein. Poi ho anche una bella stampa della città ideale del, non si sa bene di chi, ma lì l'originale conta eccome, perchè ce ne è uno solo. Che poi l'originale di Warhol (ma qual'è l'originale?) costi molto è semplicemente un fatto di collezionismo, quale quella della Coca Cola, di cui io ho la casa piena, essendone apputo collezionista. Ho anche quelle millesimate, che in verità non costano un bel niente, o meglio poco più di quelle normali. Vuoi il rapporto? Al massimo 1:5, che è sempre una miseria. Certo, le originali fatte direttamente dagli stilisti sono pochi (mi pare 30) e venduti all'asta per beneficenza, ma restiamo nel campo del collezionismo, direi dell'evento. Se io ne avessi un set completo, finito l'evento, sono certo che se le dovessi vendere per necessità ci prenderei una miseria. I frigoriferi a pozzetto originali Coca Cola, costano, ma le bottiglie..... Un giorno metterò nel blog la mia collezione, altrimenti ne parlo sempre ma qualcuno penserà che me lo sono inventato.
La Hadid: forse io mi sono spiegato male ma Vilma si è spiegata benissimo; i progetti della Hadid sono architettura globalizzata che presenta solo gli svantaggi della globalizzazione, cioè l'uniformità, ma non i vantaggi, cioè il basso costo.
E', come ho scritto all'inizio, un testo ironico che ha il pregio di sdrammatizzare, ridicolizzandolo un pò, il fenomeno archistar. Tutto qui.
Ciao
Pietro
Ciao.
Continuo di seguito allora (e visto che devo riscrivere, riassumo, per la gioia di tutti).
Credo che il problema fondamentale sia un altro: Citylife e MAXXI non sono scelte architettoniche (o meglio, non solo), sono scelte politiche.
Purtroppo tanti (brutti, è inutile negarlo) progetti, che richiamano "archistar", sono dettati da motivazioni politiche più che da reali esigenze urbanistiche. E ovviamente la richiesta "politica" non è quella di soddisfare le esigenze dei cittadini, ma di dare visibilità: del MAXXI se ne è parlato tanto ma, come si dice, "bene o male, basta che se ne parli", la Hadid ha avuto un altro momento di visibilità e Roma ha un altro "oggetto" controverso al suo interno. Tutti felici.
Il fatto che non si tenga conto delle esigenze dei cittadini (che in realtà sarebbero i datori di lavoro di quei politici che li snobbano) e che a questo genere di incarichi, chissà come mai, vengono sempre ivitati gli stessi nomi...ogni tanto mi piacerebbe vedere progetti pensati prima di tutti per gli utenti, fin dal concorso.
Infine, per quanto riguarda Eisenman, mi trovate pienamente d'accordo: basta architetti che giustificano la propria opera "a posteriori" (perchè altrimenti non ci sarebbero altre giustificazioni sensate prima della costruzione), ricorrendo a citazioni più o meno corrette di filosofi (peraltro morti e quindi senza diritto di replica).
Filosoficamente parlando, Eisenman non ha capito un cavolo di Derrida e chi cerca di seguire le sue astruse spiegazioni, non fa altro che stare al suo gioco: tutte queste polemiche non fanno altro che nutrire questi "poveri" affamati di successo, chiamati "archistar".
Fortunatamente ci sono progetti (come quello che stai portando avanti con Salingaros) che, in silenzio, fanno concretamente qualcosa.
A presto
Matteo, a parte l'ultima tua frase sul progetto, sulla quale è evidente che non posso non essere d'accordo, per il resto...siamo d'accordo ugualmente.
Sappiamo bene che lo spettacolo prevale ormai in modo bipartisan anche nella politica e quindi gli amministratori si rivolgono agli attori più famosi, le archi-star appunto, per usufruire del loro riflesso.
La differenza però tra la star del cinema e quella dell'architettura è che per la prima il successo lo decreta il pubblico, per la seconda.....solo la critica. Se la Julia Roberts ha un cachet di 15 milioni di dollari a film, vuol dire che piace (a me piace assai) e fa vendere il prodotto.
Invece i film che vincono i concorsi non sono quelli di maggior successo (a parte l'Oscar).
Ciao
Pietro
"Cosa distingue la lattina dalla sua foto e questa dalla sua rappresentazione artistica?"
Matteo, come certo immagini, il discorso sarebbe lungo e impegnativo, ma messo in soldoni direi che ciò che le distingue è che nel primo caso la foto rappresenta la lattina in quanto prodotto commerciale alimentare, di tot centilitri, con tali componenti ecc., nel secondo caso l'immagine rappresenta un'idea. Nel primo caso lo scopo è quello di indurre l'osservatore a comprarsi una lattina di Campbells'Soup e mangiarsela, nel secondo caso lo scopo è quello di indurre lo spettatore a chiedersi quello che ti sei chiesto tu, coinvolgendolo in quella che Mary Acton chiama "la partecipazione interrogativa dello spettatore” (Mary Acton,“Guardare l’arte contemporanea", 2008).
Scrive Arthur Danto, che forse abbiamo già citato in un altro post ("L'abuso della bellezza" 1997): "Per usare il mio esempio favorito, nulla indica una differenza esteriore fra la Brillo Box di Andy Warhol e le scatole di Brillo al supermercato. E l’arte concettuale ha dimostrato che non serve nemmeno un oggetto visivo tangibile affinché qualcosa sia un’opera d’arte. Ciò significa che non puoi spiegare il significato dell’arte per esempi. Ciò significa che, in quanto si tratta di apparenze, qualunque cosa può essere un’opera d’arte, e significa che se si cerca di scoprire che cosa sia l’arte, ci si deve spostare dall’esperienza dei sensi al pensiero. Si deve, in breve, voltarsi verso la filosofia."
Si impone quindi un allontanamento dalla visione che già gli impressionisti chiamavano 'retinica', a favore di un approccio sostanzialmente intellettuale.
Perché, per usare le autorevoli parole di Luca Baldacci, "tutta l’arte moderna, in un certo senso, può essere chiamata concettuale nella misura in cui il programma, la poetica, il manifesto, l’intenzione e la dichiarazione critica finiscono per mangiarsi lo spazio destinato all’opera, a precederla e a sostituirla. Così che l’opera è tutta nelle istruzioni per l’uso contenute nel catalogo della mostra.”
Del resto già Sartre parla dell'opera d'arte come di una struttura irreale, cioè priva di senso corrente (come può esserlo un quadro di Pollock o un multiplo di Warhol) in grado di rivelare un mondo dell'immaginazione diversamente non accessibile dalla coscienza (l'opera come 'analoga').
Quanto al MAXXI, ciò su cui mi pare dissentiamo è che sia una realizzazione "unica", il che non è, in quanto la Hadid esporta il suo 'modus progettandi' negli ambiti più diversi senza compiere alcun sforzo di adattamento alle culture locali (basta guardare il Maxxi e farsi un giro per Roma), facendo musei uguali ovunque, a Vienna come a Cincinnati come a Roma. Per restare alla tua interpretazione, sarebbe come dire che la coca cola è unica perché la multinazionale che la produce è una: cito da wikipedia "Le foglie della qualità Eritroxylum novogranatense, coltivate legalmente in Perù, sono poi esportate in New Jersey, dove la Stephan Chemical Company, sotto l'egida della DEA, l'ente antinarcotici statunitense, provvede a ottenere l'estratto aromatico decocainizzato, la cui produzione è interamente acquistata dalla The Coca-Cola Company."
Vilma
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Ecco la seconda puntata.
Come per qualsiasi prodotto commerciale, o commercializzabile, l’architettura moderna si caratterizza per una netta prevalenza del “potere del concetto sull'oggetto” ridotto a firma, non solo quella dell’artista, ma dell’organizzazione economica che lo gestisce. E l'Italia si sta allineando.
Secondo me è piuttosto indicativo il fatto che il supermanager Mario Resca, consigliere del ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi, dal 1995 al 2007 sia stato Presidente e amministratore delegato di McDonald's Italia. Sono esperienze che lasciano il segno!
Una volta spesi, con buona pace dei contribuenti italiani, 150 milioni di euro ( a fronte di una previsione per 57!) per il MAXXI museo e per la 'maxxi' parcella dell'archistar, ora si tratta di dotarlo di una collezione permanente di opere d'arte moderna prestigiosa e competitiva, completando il 'maxxi' investimento.
Cito i punti salienti di un articolo comparso su 'Il Sole 24ore' domenica 01.11.09, a firma di Paola Pierotti e Giorgio Santilli:
"Il prossimo 5 novembre Resca, come presidente di Confimprese, e il ministro Sandro Bondi parteciperanno a un incontro che vuole proprio soffermarsi sulle criticità del turismo culturale in Italia, esaminando lo scenario attuale e le potenzialità di sviluppo. Alla base della discussione uno studio di Bain & company che svolge una comparazione internazionale tra i musei più visitati: nei primi venti, dagli otto milioni e mezzo del Louvre al milione e 727mila visitatori del museo del Cremlino di Mosca, con dentro cinque strutture londinesi, non ci sono musei italiani. Il primo, gli Uffizi, è al 23esimo posto con un milione e 554mila visitatori.
Il confronto fatto da Bain è soprattutto sul conto economico e sulla capacità di valorizzazione commerciale. Promossi solo i Musei vaticani e il museo Poldi Pezzoli di Milano, bocciati gli Uffizi, la galleria comunale d'arte moderna di Roma e la pinacoteca di Brera. Il rapporto tra i ricavi retail (bookshop e punti ristoro) e i ricavi core (biglietti d'ingresso, audio guide, prevendite e visite guidate) è dell'1,6 al Metropolitan, cresce al 2,2 al Moma e a 3,8 alla Tate. In Italia è a 0,5 per la galleria degli Uffizi e a zero per gli scavi di Pompei. Non va meglio con l'altro parametro, i ricavi retail per visitatore: 14,2 euro al Metropolitan, 18,4 al Moma, 6,9 alla Tate, 3,8 agli Uffizi, 0,3 a Pompei. Una fotografia a base di numeri che però servirà a Resca e Bondi per lanciare le loro proposte per facilitare la partecipazione privata.
Se per la gestione e il business del Maxxi si dovrà ancora lavorare, il primo risultato certo è dato dalla capacità di questa nuova architettura di confrontarsi con la città, come nuovo attrattore e come volano di riqualificazione urbana. La presenza del Maxxi ha già riscontrato un effetto nella crescita dei valori immobiliari del quartiere e alcune agenzie della capitale già mettono in vendita o affittano alloggi «vista Maxxi"
Ora, mi chiedo e con me credo/spero un congruo numero di italiani, invece di rincorrere le performance commerciali del Moma o della Tate, non sarebbe stato meglio spendere qualcosa per ottimizzare il funzionamento degli Uffizi o del sito archeologico di Pompei? quelli ce li abbiamo solo noi, quelli sì sono unici, mentre all'estero, dove il patrimonio culturale da esibire ai turisti è men che mediocre rispetto al nostro, le (spesso pessime) collezioni d'arte moderna si sprecano!
Vilma
Vilma, ti regalo il mio blog (il valore di mercato è inesistente) e io me ne faccio uno per la Coca Cola,
tanto ormai condivido tutto quello che dici.
Bisogna che trovi il sistema di farti arrabbiare un po'.
Ciao
Pietro
lo dici tu che il valore è inesistente, guarda un pò qua ....
http://bizinformation.org/us/www.de-architectura.com
Questa è davvero bella! Non sapevo vi fosse anche chi stima siti e blog!
Vediamo: $10.628 pari ad € 8.175/880 giorni= €/giorno 9,29.
Posso sperare nella rivalutazione del dollaro!
Ciao
Pietro
P.S. Ho fatto altre prove su http://bizinformation.org/us e devo dire che come agenzia di rating non vale granché. Sarà un sito per la finanza virtuale e creativa?
Pietro
Breve appendice al mio commento sul Maxxi:
esiste da qualche anno un ferreo sistema di connessione degli interessi economici di gallerie, musei, grandi collezionisti, critici, che parte da quando, passata la Grande Depressione dell’America degli anni ’30, esplode da New York, nuova capitale artistica mondiale e nuova ‘casa’ fornita da Peggy Guggenheim agli artisti in fuga dall’Europa nazista, un boom economico che coinvolge anche il mondo dell’arte e dà luogo a quello che Lawrence Alloway, nel 1972, definisce per primo come ‘sistema dell’arte’.
Uno dei nomi che detengono le chiavi del potere nel mondo dell’arte è Guggenheim, marchio di una diffusa rete di musei in molte parti del mondo, da New York a Bilbao a Venezia a Berlino (dove è in joint-venture nientemeno che con Deutsche Bank), una vera e propria industria dell’arte che intesse collaborazioni e contratti come qualunque multinazionale.
Non sono un segreto le trattative finanziarie precedenti alla realizzazione del Guggenheim di Bilbao, il gioco delle poltrone dei posti chiave, l’incarico del progetto ad una archistar in grado di garantire ‘a prescindere’ la risonanza dell’iniziativa. Questa organizzazione internazionale gestisce attraverso le sue sedi praticamente la totalità delle opere del ‘900, dal Surrealismo al Cubismo, all'Astrattismo alla Pop Art e gestisce anche un bilancio da capogiro per ciò che riguarda l’indotto, vendita di cataloghi, di riproduzioni, gadget firmati, shop museum, guggenheim store, café museum ecc.
L’arte si inserisce così in un processo a largo raggio definito per antonomasia ‘americanizzazione’, intesa come "propagazione di idee, usanze, modelli sociali, industria e capitale americani nel mondo" (George Ritzer - Il mondo alla McDonald's, 1997) assecondato da una parallela globalizzazione della comunicazione che ha come esito la trasmissione di informazioni in eccesso, semplificate nei contenuti, per una conoscenza superficiale, ma vastissima.
McDonaldizzazione è termine divenuto sinonimo di globalizzazione, poiché entrambi designano un collaudato modello funzionale di successo planetario, una struttura controllata, efficiente, prevedibile, completamente asservita alla logica di mercato, sovrapponibile a tutti i fenomeni sociali e culturali, dall'alimentazione al lavoro, al tempo libero, alla politica, alla famiglia, e, perché no?, all’arte.
Il meccanismo è assai meglio analizzato nell'articolo del Covile che tu hai segnalato:
http://www.ilcovile.it/news/archivio/00000597.html
Che si può fare? deve essersi chiesto Bondi, stare a guardare e perdere il treno? Rischiare di sembrare una nazione antiquata e retrograda?
Giammai, facciamoci un MAXXI, qualcosa succederà!
Vilma
Sono estremamente felice di sapere che qualcuno la pensa come me in fatto di musei: ho avuto la fortuna di viaggiare spesso e, tutte le volte, mi sono meravigliato di come gli altri paesi -pur possedendo una minima parte delle opere italiane- poliferassero di spazi museali, rassegne, conferenze, esposizioni.
Con esposizioni che spesso sono delle cazzate (scusate il termine) bestiali.
Ma come è possibile che questi riescano con così pochi mezzi (intesi come "materia prima" artistica) a creare un clima culturale così vario e coinvolgente? E invece anche i nostri musei più belli (giustamente citi gli uffizi) sembrano al confronto cupi e squallidi?
Ma forse anche in questo caso ci addentreremmo in un discorso troppo lungo (ci sono pochi fondi?Gli italiani fondamentalmente sono ignoranti?Non abbiamo bravi galleristi?Non abbiamo una politica che si adopera per diffondere la cultura?Non abbiamo le infrastrutture?).
Anch'io avrei speso quei 150 milioni per sistemare Pompei (ma anche Ercolano e Paestum), che considero fra i "monumenti" (se così possiamo chiamarli) più importanti della storia, in tutti i sensi: ad ogni visita mi stupisco della cultura architettonica ed urbanistica raggiunta dalla civiltà romana. Non solo per quel che riguarda il costruito: a Milano, alla mostra "i due imperi" erano esposte valvole idrauliche romane che fondamentalmente ancora oggi vengono usate senza sostanziali modifiche. Tanto più che questi siti sono estremamente "fragili" e invece vengono tenuti come fossero "orti" di campagna.
...ah, mi sono profuso sul tema dello squallore italico e mi sono dimenticato di quello che veramente volevo dire: è vero, dissentiamo sul fatto di considerare "unica" l'opera della Hadid.
Riparto da più indietro:comprendo e condivido la diversità fra coca-cola (oggetto "universale",che ha lo stesso sapore sia che venga prodotto in Nepal sia che venga prodotto a Cinisello Balsamo) e parmigiano reggiano (prodotto "locale",ossia che se fatto fra Parma e Reggio diventa "parmigiano", se fatto ad Amburgo diventa "parmesan" e non è proprio la stessa cosa).
Concordo sul fatto che la Hadid utilizza sempre e ovunque lo stesso "metodo" di "disegno" urbano,ma credo allo stesso modo che esprima nelle sue architetture una certa tensione verso il "contesto" (e che è ovviamente diversa ed altra rispetto a quella storicistica o "mimetica" adoperata da altri architetti). Antonino Saggio parla di "tessitura" ma, a mio modo di vedere, è più una deformazione "tettonica" dell'ambiente volta a evidenziare i vari flussi che conformano il progetto a scala urbanistica.
Rispetto alle altre ipotesi progettuali a gara, il progetto della Hadid non pone estreme innovazioni per quanto riguarda la dislocazione delle varie strutture, mentre si distacca completamente dagli altri per quel che riguarda la realizzazione concreta: la maggior parte dei progetti presentati consisteva di "padiglioni" isolati e ancora più sconnessi rispetto alle preesistenze.
Il disegno della Hadid è molto incisivo se visto "dall'alto", a scala urbanistica. Visto dal basso invece è abbastanza anonimo e oscuro.
Ritornando quindi alla questione opera-rappresentazione, mi sembra che la sua architettura risulti molto bella "rappresentata" (con assonometrie, disegni, schizzi), molto meno invece "realizzata" (al contrario ad esempio di quel che a me è successo con Pollock, che visto in foto non mi ha mai appassionato, ma visto dal vero mi ha fatto esclamare "ah!" e penso che questo dica tutto).
A presto
Matteo
Aggiungo pochissimo a quanto detto da Vilma e Matteo.
Intanto una domanda, non importante ma solo per completezza: ma il MAXXI non mi sembra che l'abbia voluto Bondi, dato che l'operazione è partita circa 10 anni fa, quindi Bondi può averla cavalcata, come succede sempre da noi, visto che tra l'inizio e la fine di un oepra cambiano governi e giunte comunali a iosa.
Che ci sia una differenza colossale tra i progetti e la loro realizzazione nel caso della Hadid è cosa nota ma questo dovrebbe far pensare che l'architettura non è solo rappresentazione al computer, ma è disegno non disgiunto però dalla tecnica. Ora mi dicono invece che il MAXXI è abbastanza ben realizzato (vorrei vedere con quello che è costato) ma, al solito, la sua realizzazione è stata apertamente rivendicata da uno studio di ingegneria che si è dato un gran da fare senza poi vedersi riconoscere niente dall'architetto. Infatti hanno rilasciato una intervista molto critica con la Hadid.
Questo fatto la dice lunga su quale sia il ruolo dell'archistar in genere, cioè una pura griffe. Non si tratta certo di disconoscere la necessità di una progettazione integrata tra figure professionali diverse, ci mancherebbe altro, ma qui siamo agli eccessi.
A proposito di musei vuoti, ricordo di essere stato nel museo di Meier a Francoforte e di essere rimasto sconcertato nel vedervi esposti materiali che da noi possiamo trovare .....appesi nei corridoi delle scuole medie come opere degli studenti. Altrettanto dicasi per il vicino museo di Jean Nouvel. Almeno in quello di Ungers c'era uno mostra dei disegni di Wright!
Pietro
a me piace il chinotto
robert
robert, io sarò antico, ma te sei autarchico!
Ciao
Pietro
Anche a me piace molto il chinotto.
Anzi, di più: boicotto la Coca-Cola in quanto multinazionale e compro il chinotto biologico al negozio equosolidale sotto casa. Dite che è troppo? :)
Non sarà troppo, ma non è neanche ...poco.
In verità io non bevo Coca Cola, colleziono gadgets. Non per scelta politico-ideologica ma perché non mi piace molto.
Piuttosto, sull'equo-solidale, ho l'impressione che non sia il modo migliore per dare reddito ai produttori. Mi sa che il modo migliore è sempre il mercato, quello normale. Una cosa è la produzione solidale, cioè l'organizzazione sul posto dei produttori, altro è la commercializzazione, su cui, mi spiace, ma sono convinto che ci campano in molti senza razionalizzazione dei costi.
Ma è una mia idea, non verificata (però non è neanche verificata la tua).
Io so questo però: ad Arezzo c'è un ottimo e importante cioccolataio il quale ha comprato coltivazioni di cacao a Santo Domingo. Lui paga bene le cooperative che lavorano per lui, naturalmente non rispetto ai prezzi italiani ma rispetto a quelli locali (testimoniato da funzionari del Comune di Arezzo che ci sono stati) e poi utilizza l'ottimo cacao per i suoi prodotti.
Ci guadagnano i due soggetti senza sovrastrutture ideologiche.
Insomma, globalizzazione.
Ciao
Pietro
autarchico? autarchissimo sono!
il chinotto sta alla coca cola come libera, terragni e moretti stanno all'internesciunal stail
robert
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