Quello che segue è un piccolo estratto dal Prologo del nuovo libro di Marco Romano, “Ascesa e declino della città europea”, Raffaello Cortina, 2010 (Il libro è scaricabile anche in formato PDF nel sito Estetica della Città).
Quattro capoversi che sono una sintesi dell’origine della crisi della città e dell’architettura moderna, e la spiegazione del paradosso per cui, ad una società tesa ad allargare sempre più gli spazi di democrazia, ha corrisposto invece una città “scritta” con un linguaggio che esclude i cittadini che non capiscono ma devono subire.
“L’urbanistica contemporanea, figlia di un mondo dominato dal mito trionfale della tecnica, insiste sull’efficienza che sarebbe conseguibile con un buon piano regolatore, su come sarebbe più facile vivere in una città con le sue cose disposte secondo i principi razionali stabiliti dalla disciplina e raccordate da strade veloci che leghino le tre funzioni fondamentali, la casa, il lavoro, la ricreazione: e in questo, nel far coincidere l’efficienza con la bellezza, la conclamata bellezza di un silos, consiste tutta la dottrina estetica moderna sulla città.
La bellezza di una rigorosa efficienza era poi congruente con il rigore delle avanguardie artistiche contemporanee, e come le avanguardie andavano maturando una visione estetica nuova che tendeva a ridurre la pittura a una composizione di punti, linee e superfici (è il titolo di un noto libro di Kandinsky), quasi a prescindere dal suo significato, dalla consistenza figurativa del suo soggetto, così nella città doveva venire messa in campo una visione altrettanto astratta, e come dai quadri e dalle statue andava cancellata la riconoscibilità delle figure così dalle città dovevano scomparire tutte quelle cose che avevano costituito gli elementi essenziali della loro bellezza, le passeggiate e i boulevard, le strade principali e quelle monumentali, le lunghe prospettive trionfali e le piazz , in effetti cancellate dalle futuristiche prospettive della Ville Radieuse di Le Corbusier o della Groszstadt di Ludwig Hillberseimer.
Tuttavia, mentre una qualsiasi nuova forma di espressione artistica è legittima, dalla “maniera moderna” del Pontormo e di Rosso Fiorentino ai quadri luminosi di Claude Monet o ai tagli di Lucio Fontana, anche se coltivata e condivisa soltanto da pochi estimatori, la città deve venire invece apprezzata da tutti i cittadini, e dunque la sua bellezza non può venire fondata su un linguaggio estetico così nuovo da essere comprensibile soltanto da una élite ma deve per sua natura essere accessibile, proprio come il linguaggio verbale, all’intera cittadinanza, perché le scelte che la concernono debbono poter venire discusse da chiunque e non diventare il campo privilegiato di pochi esperti.
Quanto alla coincidenza tra la razionalità dell’organizzazione cittadina e la sua bellezza i conti non tornano, perché la sfera della tecnica è per sua natura soggetta all’intrinseca legge del progresso, dove ogni novità cancella la precedente, mentre l’aspirazione alla bellezza è quella di durare in eterno, sicché ciò che è nato nella sfera dell’efficienza tecnica non potrà mai aspirare all’eternità della bellezza…”.
Sono per me di grande interesse gli esiti degli ultimi due periodi, e cioè:
1. l’origine elitaria dell’urbanistica moderna, mutuata dalle teorie artistiche delle avanguardie, sovrapposte automaticamente alla città, con l’aggiunta di dati tecnici legati all’igiene e alla mobilità, già presenti dal XIX secolo, che sovrappone la visione urbana di pochi, peraltro dimostratasi da tempo del tutto sbagliata, alla visione estetica e ai bisogni reali dei più;
2. il riconoscimento del bisogno di “eternità della bellezza”, che implica il riconoscimento dell’esistenza del bello condiviso e assoluto, basato sulla osservazione della natura e della figura umana in particolare, che non può risiedere nella tecnica, destinata per sua natura intrinseca alla evoluzione e alla transitorietà.
Le teorie urbanistiche basate sul funzionalismo e sulla scomposizione del tempo di vita dell’uomo in “fasi” diverse, corrispondenti a diversi momenti del trascorrere della giornata di tutti e di ciascuno, estrapolate dal taylorismo industriale ed applicate anche alla città, con la divisione in zone a diversa destinazione programmata, hanno trovato la loro espressione grafica e compositiva nelle teorie artistiche “astratte”, che trattano la città come una tavolozza bianca da riempire con disegni che nulla hanno a che vedere con la complessità e ricchezza di relazioni proprie di un insediamento umano. La diffusione di questa teoria, ad ogni livello, fa dire a Marco Romano che, dopo vent’anni di insegnamento di urbanistica, egli non avrebbe saputo dare una risposta adeguata ad un Sindaco che gli avesse chiesto di progettare una città “bella”. E’ ormai abbastanza diffusa nella generazione cui appartiene Romano, non molto lontana da quella a cui appartengo io, la convinzione che l’uomo moderno non sappia più progettare città, tanto meno belle città. Ed è anche maturata la certezza delle cause del disastro, cioè il fallimento completo della disciplina che ha creato generazioni di architetti allevati al gusto “estetico e artistico” dell’astrattezza, con una divaricazione sempre maggiore tra città e abitanti, tra urbs e civitas.
Il disegno urbano moderno non prevede e non considera il fatto che, una volta realizzata, la città contenga persone, che hanno necessità ed emozioni che non trovano soddisfazione in quegli spazi frammentati, pur se progettati unitariamente, privi come sono di una narrazione continua, di un flusso sequenziale di informazioni, di cui gli individui hanno bisogno per muoversi, orientarsi e sentirsi a loro agio nello spazio.
La “bellezza” dell’architetto moderno è invece assolutamente autoreferenziale, prodotto ad uso interno di una categoria di persone capaci solo di immaginare oggetti separati in uno spazio sincopato, discontinuo e inanimato, in cui l'uomo assume lo stesso valore del materiale d’arredo. Scelta consapevole questa, dato che agli abitanti delle case e della città moderne si dovrà “insegnare ad abitare", secondo l'espressione di LC, come se l’abitare non fosse un istinto naturale e primordiale che esclude la possibilità di maestri.
Ma per l’uomo normale, non per l’architetto, la bellezza è eterna, è oggettiva, non necessita di, e non è inquinata da, teorie estetiche imposte dall’alto.
A questo proposito c’è una certa sintonia con Romano in un articolo scritto su Il Covile di Stefano Borselli da Luciano Funari, che è un grido di libertà e di rifiuto dai condizionamenti di una cultura conformista e acritica. Purtroppo non posso linkarlo perché per adesso è stato inviato in newsletter e non è ancora in rete, ma tra poco ci sarà (qui e poi sul N° 586):
“Prima di resuscitare la “Bellezza”, occorre mettere in terapia intensiva l’uomo stesso e applicare un defribillatore alla cultura umanistica, forza generatrice di autocoscienza e libertà! “Anomia, eteronomia, autonomia” scriveva alla lavagna mia madre-professore di liceo- il primo giorno del corso di filosofia: la cultura forma la capacità critica, la libertà ed autonomia di giudizio. Ma non basta! Ci vuole anche il coraggio. L coraggio di proclamare le proprie idee, senza timore alcuno dei mille epiteti e sberleffi che il “mondo” è pronto a lanciare: il mondo dei “conformisti dell’anti-conformismo”, del gregge ossequioso delle conventicole pseudo-intellettuali e delle consorterie politico-affaristiche.
Dunque, per salvare la Bellezza, lanciamo i kamikaze della Verità!....
La Verità, la realtà, lo spirito critico, l’autonomia di giudizio e il coraggio delle proprie idee...
Per salvare l’arte e le nostre città dal Brutto non c’è bisogno di un pubblico di eruditi, esperti in critica sensista: basterebbe tornare alla realtà, alla verità, alla natura delle cose, recuperando almeno la dimensione “organolettica” della fruizione artistica. Se una scultura, una pittura, un’architettura è brutta, lo è e batsa! Chi se ne importa di chi l’ha fatta e dei fiumi di chiacchiere, verstai dai ciarlatani prezzolati per convincerci del contrario, opportunamente mimetizzati dalla cortina fumogena del loro gergo da iniziati: “sfumature sintattiche, semiologia del’infrastruttura e semantica della struttura”, “morfemi di spazio negativo” e “polifemi del dopo immagine architettonico”… “Il significato sintattico non concerne il significato che compete agli elementi o ai rapporti effettivi fra gli elementi ma, piuttosto, concerne il rapporto fra diversi rapporti” (Eisenmann)….
In casuale quanto singolare coincidenza con quanto sopra, è uscito su Il Foglio un articolo di Fabrizio Giorgio, La mirabile visione, su Roggero Musumeci Ferrari Bravo, artista e scrittore dei primi del ‘900, che “rivelò” il canone della Divina Proporzione, cioè la “formula” del bello assoluto.
Dicevo casuale coincidenza, nel senso che certamente non c’è alcuna concertazione, ma non credo sia affatto casuale il fatto che da figure così distanti e diverse l’una dall’altra si affronti lo scivoloso e scandaloso tema della Bellezza. Posso almeno dire che di fronte a tanta bruttezza era finalmente l’ora?
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