Sulle pagine culturali di Repubblica del 10 dicembre compare un articolo di Francesco Erbani dal titolo assolutamente invitante: Noi urbanisti abbiamo fallito.
Lo leggo molto incuriosito, dato che non posso che convenire sull’assunto, nella speranza di trovarvi un’analisi delle cause di detto fallimento.
Il primo urbanista a cui Erbani si rivolge è Leonardo Benevolo il quale esordisce dicendo:
Prosegue denunciando la contraddizione che esiste tra questo abbandono della disciplina e il diffuso interesse che invece c’è per il paesaggio e la sua salvaguardia.
Mi fermo a queste affermazioni di Benevolo anche se nell’articolo ve ne sono altre di Paolo Berdini, di Edoardo Salzano e di Paola Bonora.
Ciò che accomuna i vari pareri è il disincanto e il senso di sconfitta che traspare dalle parole di tutti, ma ciò che manca del tutto è un minimo di analisi delle cause e un po' di autocritica sul ruolo svolto dagli urbanisti, forse appena accennata da Benevolo, in quel riconoscere che “gli atti urbanistici sono diventati enormi pacchi di carte, inconsultabili ed ermetici”.
Chi rimanda le colpe alla politica, chi alla speculazione ma nessuno che si azzardi a riconoscere gli errori disciplinari. Sembra che gli architetti non siano esistiti o abbiano subito chissà quali violenze da parte degli altri attori sulla scena. Benevolo stesso non coglie la palese contraddizione che c’è tra la denuncia, reale, di un’urbanistica ridotta a montagne di carte inutili, e quella della inadeguatezza dell’organico degli uffici urbanistici regionali, che sono in realtà i primi legificatori e produttori di quelle montagne di carta, utili solo a distruggere i boschi che, a parole, i piani intendono tutelare.
Nessuno che si sia posto il problema di come gli architetti abbiano svolto un ruolo politico preminente, invadendo campi altrui. Nessuno che si domandi il perché di un fallimento epocale e provi a domandarsi: ma dove abbiamo sbagliato? Le responsabilità sono sempre degli altri.
Nessuno capisce più gli architetti e gli urbanisti, nessuno apprezza, giustamente, il loro lavoro, dato che le città, cioè il risultato e il prodotto del loro lavoro, sono quello che sono ma la colpa sembra stare altrove. Mi domando: ma se tutti i pazienti dei medici morissero, la colpa sarebbe dei pazienti che non amano la vita o dei medici che non sanno curare?
Se gli urbanisti tornassero a fare il loro lavoro, cioè disegnare la città e non inventare marchingegni normativi fatti per soddisfare le loro ideologie o la loro ossessione del metro cubo o le necessità dei politici di turno, se gli urbanisti si sforzassero di farsi capire dalla gente e di entrare in sintonia con essa, invece che essere strumenti sussidiari o collaterali della politica, se, insomma, avessero l’autorevolezza necessaria per dire “non hai fatto come ti ho detto e tu sei il responsabile”, allora sarebbero credibili. Così, invece, entrando in concorrenza con la politica, alimentano solo un clima di impotenza e di sfiducia che permette alla politica di dire: “io ci metto la faccia, io prendo i voti, io rischio e tu, dunque, architetto, fai quello che dico io”.
Per fare l'urbanista non basta amare e rispettare la città e il territorio, bisogna rispettare i cittadini, ascoltarli, cercare di coglierne i bisogni, fare il possibile e il lecito per accontentare i loro desideri e i loro sogni. Vorrei sapere quanti urbanisti lo fanno con convinzione e non come puro atto formale. Io credo che i cittadini siano i veri soggetti dimenticati dagli urbanisti, oggi che c'è l'obbligo dell'ascolto più che mai, anzi, proprio per questo. Quando va bene l'urbanista si rivolge a determinate categorie di cittadini: i commercianti, gli immigrati, le fasce sociali che necessitano di alloggi sociali, le giovani coppie, gli industriali, ecc.
Leggere quell’articolo è disarmante perché non c’è traccia di ripensamento, di revisione critica dei propri errori e nessuna speranza di intravedere una soluzione al problema, con ciò coinvolgendo anche le nuove generazioni nel loro fallimento.
Edoardo Salzano, ad esempio, nel suo ultimo editoriale sul sito Eddyburg, affronta ancora una volta il tema “consumo di suolo”. Lo fa con argomenti ragionevoli e comprensibili, anche se l’espressione stessa “consumo di suolo” è terrificante perché paventa quasi la morte del pianeta sotto il peso dell’azione antropica, in una visione pessimistica dello sviluppo tout court. Tuttavia, soprassedendo su questo e convenendo invece che è assolutamente necessario, per il bene della città e dei suoi abitanti, di avere una crescita interna alla città stessa, quindi con alte densità, cioè con un numero alto di abitanti per ettaro, ma senza crescere in altezza, non una parola spende Salzano sulla forma e il disegno della città, limitandosi a dati quantitativi e mai qualitativi, con un atteggiamento che, paradossalmente, è simmetrico a quello della speculazione edilizia, cui interessa solo la quantità di metri cubi, naturalmente di segno opposto.
Sembra quasi vi sia una sorta di diabolico, innaturale e indissolubile rapporto tra coloro che vogliono costruire ad ogni costo, e per denaro, e coloro che vi si oppongono ad ogni costo per “salvare il pianeta”. Gli uni e gli altri, pur con intenzioni diverse e opposte, sbagliano e ripetono gli errori già fatti. Vorrei che fosse chiaro che non sono così pazzo da assimilare personaggi che meritano stima e rispetto, non esenti da critiche, quali L. Benevolo e E.Salzano, allo speculatore edilizio, ma dico che sono i due piatti della stessa bilancia il cui peso maggiore è sempre e comunque da una sola parte.
La battaglia sulla quantità è perdente per definizione, perché il mercato è più forte della politica e degli architetti e, se non lo fosse, significherebbe vivere in un regime autoritario e dirigista, come in effetti spesso accade.
Io credo che la battaglia può essere combattuta solo sul piano della qualità, del disegno, perfino del bello non su quello del “quantum”, del metro cubo. Occorre proporre alla gente e agli operatori uno scambio e un patto ragionevole: città belle e vivibili in cambio di qualche metro cubo in più, città simili a centri storici e non periferie squallide, senza centellinare il metro cubo.
La città storica è molto densa, molto vivibile e molto appetibile, a giudicare dai valori immobiliari. Il mercato dice quasi sempre il vero.
Crediti: L'immagine della Torre intoretto è tratta dal blog parlaBrescia.it
20 commenti:
"Nessuno capisce più gli architetti e gli urbanisti, nessuno apprezza, giustamente, il loro lavoro, dato che le città, cioè il risultato e il prodotto del loro lavoro, sono quello che sono ma la colpa sembra stare altrove. Mi domando: ma se tutti i pazienti dei medici morissero, la colpa sarebbe dei pazienti che non amano la vita o dei medici che non sanno curare? "
caro Pietro
ma tu realmente pensi che le nostre città siano il risultato del lavoro degli architetti ?
Non comprendo se sei ingenuo o fai finta di non capire.
Io non sono nè ingenuo nè faccio finta di non capire. Io sono sicuro di quello che dico. I PIANI DELLE CITTA' LI DISEGNANO GLI ARCHITETTI.
Però non devi commettere te l'errore di pensare che io sia così stupido da pensare che gli architetti siano gli unici responsabili.
Ma, si dà il caso, che essendo io architetto, piacendomi questo mestiere, sperando che possa migliorare, non potendo essere io a risolvere i problemi del mondo, mi limito a cercare di segnalare i nostri problemi. Che sono enormi e di carattere disciplinare.
Ma d'altra parte non capisco questo atteggiamento tuo e di altri di supporre che gli architetti non contino niente: siete sempre a dire la qualità, la valorizzazione, il solito blah, blah ordinistico e, quando c'è qualcuno che nel bene, o nel male in questo caso, attribuisce agli architetti una responsabilità ma indirettamente anche un potere decisionale non va bene!
Comunque io non so dove tu viva ma se passi da Arezzo scrivimi che facciamo un giro e, carte alle mano, ti faccio vedere i disegni del PRG e ciò che è stato realizzato.
Vedrai l'attuazione di un piano disegnato da un architetto.
Se invece vuoi dire che i disegni sono suggeriti dai politici, dalla speculazione, dalla mafia o da chi ti pare allora è peggio, perchè vorrebbe dire che gli architetti sono corrotti. Io credo di più alla mia versione e conviene anche agli architetti crederci.
Saluti
Pietro
Scusa Antonio Marco Alcaro ma mi sono dimenticato qualcosa: ma tu credi davvero che non ci sia nessun rapporto di causa-effetto tra il disegno di un PRG, anche se poco disegnato e molto retinato, e ciò che accade nel territorio?
E' come dire che non esiste nessun rapporto tra il progetto di una casa e ciò che viene realizzato. Certamente che spesso accade che il progetto sia in un modo e poi tutto cambi, ma io considero quei casi, e sono percentualmente altissimi, in cui il rapporto c'è. Io non mi interesso del malaffare o dell'abusivismo o dei palazzinari romani che, immagino, abbiano fatto molto come hanno voluto.
Io mi interesso del nostro lavoro che non è affatto vero che è tutto emergenziale come te supponi.
Un medico non si può interessare, come medico, solo dei casi di malasanità di Vibo Valentia, ma deve studiare per cercare di curare al meglio i propri pazienti.
Qualche esempio ormai abusato: ma il Corviale chi lo ha fatto? Lo Zen chi lo ha fatto? Interi quartieri PEEP in tutta Italia chi li ha disegnati? Il quartiere San Polo una foto del quale è nel post, di Leonardo Benevolo e che ora vogliono abbattere chi lo ha fatto?Benevolo non è urbanista forse?
Le periferie chi le ha inventate e continua anche a difenderle culturalmente?
Ho l'impressione che io, che critico gli architetti ferocemente, credo in questo lavoro, tu ci creda poco.
Allora chiudiamo le università e cambiamo mestiere tutti. Però vedo che segui le elezioni dell'Ordine e ti appassioni anche. A quale scopo lo fai?
Ciao
Pietro
Caro Pagliardini sottoscrivo totalmente le tue riflessioni sulle modalità negative con le quali si af-fronta la discussione sul fare urbanistica in Italia. Finchè il discorso sarà centrato sulla quantità e non sulla qualità delle trasformazioni previste dai piani, in ottica di salvaguardia identitaria e (ag-giungiamo, in ossequio al mainstream del momento) sostenibilità ambientale, il conflitto si giocherà sul piano delle contrapposizioni ideologiche e i risultati saranno quelli che quotidianamente speri-mentiamo: le città e il territorio non governate da regole condivise saranno plasmate ad immagine e somiglianza degli “attori” più forti in grado di imporre, di volta in volta la loro individuale declina-zione di ambiente costruito… la legittimazione potrà avvenire ex-post con le più disparate motiva-zioni sociali, economiche, di “valore aggiunto”dall’”archistar” di turno ecc…
i cittadini saranno costretti a scegliere tra la concretezza delle realizzazioni e il rischio del nulla e se poi qualcosa non torna…pazienza! sempre meglio il lavoro, la casa, i servizi e le infrastrutture che paralizzarsi con strani discorsi sulla decrescita e lo sviluppo zero! Ho detto “regole condivise” per¬ché come “urbanista locale” continuo a credere testardamente che il momento della condivisione dei valori identitari, paesistici, culturali sia quello in cui una amministrazione decide di adottare un Piano generale, sorta di contratto in grado di prefigurare non solo un futuro possibile per i suoi abi¬tanti ma anche configurato secondo i caratteri e lo spirito che ogni cittadino sperimenta nel corso della sua terrena esistenza in quella data città o territorio…..Qui in Liguria c’è stato un momento in cui l’obbligo regionale di introdurre regole paesistiche “puntuali” ha rappresentato per me che dise¬gnavo il Piano Regolatore di Sarzana, l’occasione di superare lo “zoning”introducendo il concetto di “tessuto” e di coniugare regole qualitative e parametri quantitativi dalla scala morfologica al tipo edilizio, dal controllo dei componenti (es. coperture a falda, porticati ecc.) a quello dei materiali (linguaggio ligure dell’intonaco e della variabilità cromatica per le facciate, utilizzo della pietra lo¬cale negli elementi tecno morfologici ecc. ecc.). ..segue
L’applicazione per oltre un decennio di tali regole mi ha indotto a credere che esse fossero ormai patrimonio condiviso, fino alla recente decisione di mutare il sistema di prescrizioni di una delle più grandi trasformazioni “interne” alla città (un Piano Particolareggiato di Iniziativa Pubblica che collega Centro storico e limite urbano verso fiume per complessivi 6 ettari e 50.000mq,di SU);
la variante, ad opera di un grande maestro, ha mantenuto la stessa quantità del piano vigente risa-gomando il planivolumetrico secondo la sua specifica poetica basata sull’iterazione di volumi ele-mentari (torri,cilindri,tipologie ad “arco retto” ecc.) rivestiti dal suo materiale preferito (mattone faccia vista) in opposizione ai tessuti ad articolazione volumetrica variabile peraltro in corso di rea-lizzazione… la città si è spaccata e paradossalmente il capro espiatorio è diventato, per tutti, il vec-chio piano che ha previsto troppo volume! Nessuno ha effettuato un serio raffronto sulla imposta-zione morfologica e sulle regole di composizione urbana alla base delle scelte di dieci anni fa! (A-lexander per i pattern, Romano per le regole di conformità e Habraken per l’applicazione della mi-crozoniz¬zazione “per fasce”). Il dibattito come ho anticipato è divenuto ideologico e “quantitativo” e nessuno ha pensato che urbanistica e architettura dovessero essere co¬niugate a partire da una di-scussione sulle regole ! Regole peraltro che potrebbero essere riscritte per consentire l’applicazione di indirizzi differenti in un determinato contesto in una determinata fase storica. Ad es. se un’amministrazione sente obsoleto il rispetto dell’identità locale è pa¬dronissima di sperimentare linguaggi più “avanzati” e “moderni”, ma allora non si creino eccezioni e da domani tutti liberi dall’imposizione di regole “puntuali” che continuano invece ad essere applicate ai normali cittadini e progettisti delle altre parti di territorio….scrivo dopo aver letto le vostre tesi sulla “Geometria e Vita dello spazio urbano” che paradossalmente penso di aver tradotto nei miei disegni privi però di caratterizzazioni stilistiche “tradizionali” o “neopalladiane”che ritrovo nelle figure del villaggio cul-turale di Doha, Quatar … non sarebbe più fertile per la causa della costruzione delle Regole del Pi-ano evitare riferimenti stilistici la cui attinenza identitaria con il Quatar appare quantomeno proble-matica?
Intanto, per chiarezza di tutti, dato che lo so per ragioni diverse, l'archistar di turno cui piarulli fa riferimento è Mario Botta a Sarzana.
So che il riferimento a torri, cilindri e tipologie "ad arco retto" è praticamente un nome proprio di persona ma è meglio evitare equivoci.
Io aggiungo il fatto che ormai è invalsa la regola non scritta che il PRG lo deve fare per forza "uno di fuori", meglio se famoso perché ritenuto così autorevole, inattaccabile e quindi un'ottima copertura per l'amministrazione.
Il più delle volte va in modo del tutto opposto. Questa regola è nata probabilmente per evitare i famosi "conflitti di interesse", che ci sono indubbiamente con architetti locali, ma il risultato è che si creano altri conflitti, dato che colui che "viene da fuori", tanto più se famoso, impone la sua visione del mondo ad una comunità che lui non conosce e che non può conoscere. E nascono i comitati.
Io credo che fare un PRG per una città e per una cittadinanza richieda, oltre che competenza specifica, una grande attenzione verso le comunità locali, una predisposizione più ad ascoltare che a parlare. E credo che in questo colui che vive e lavora nella comunità stessa sia assolutamente impareggiabile.
I conflitti di interesse ci saranno, indubbiamente, ma non diversi da quelli di un architetto di fama che poi si fa pagare il lavoro lasciando qualche sua opera nel territorio, il più delle volte aggiungendo il danno architettonico a quello urbanistico.
Sulla questione stilistica io sono d'accordo con te e sono certo che anche Nikos lo è.
Tu citi Doha e io credo che dovrebbe risponderti Nikos; però io penso che se è vero che lo stile non può essere imposto, tuttavia non può nemmeno essere negato e, se a Doha hanno fatto quella scelta può darsi vi siano delle ragioni valide.
Saluti
Pietro
A Gino Piarulli,
Nel progetto del villaggio culturale a Doha, Qatar abbiamo sviluppato un linguaggio delle forme Classico/rinascimentale, ed era esattamente quello chiesto dal cliente. Il linguaggio specifico non era la nostra scelta. Ciò nonostante, non è che qualsiasi architetto possa utilizzare il linguaggio immediatamente, perché oggi non c'è una tecnica sviluppata che combina i metodi edilizie con un tale linguaggio tradizionale -- tutto ciò si deve lavorare di nuovo. Ho potuto utilizzare i miei risultati teorici sui linguaggi architettonici generali per poi applicarli a questo caso.
L'amico Pietro Pagliardini non entra in questo progetto. Siamo tre: Hadi Simaan, José Cornelio-da-Silva ed io. Ne possiamo discutere i dettagli del progetto se l'interessa.
Cordiali saluti,
Nikos
cavolo, pietro... qui i momenti topici continuano!
noi che ci masturbiamo il cervello da secoli sul linguaggio e poi ti arriva qui uno "scienziato" dell'urbanistica che ammette candidamente: il linguaggio? lo sceglie il cliente!
(la sensazione che ho da sempre mi viene confermata... i "profani" son più nichilisti e relativisti di noi architetti)
robert
Robert,
Filarete diceva che il committente è il padre dell’architettura mentre l’architetto ne è la madre, a mio parere da allora è cambiato ben poco.
Da sempre gli architetti si sono adattati alle esigenze di chi li paga (chi più chi meno).
Solo da poco con la nascita della figura retorica del "genio solitario" si è fatta avanti l'idea che debba esse il progettista a decidere tutto.
Se ricordo bene Michelangelo non voleva dipingere,ma qualcun altro decise per lui che comunque la Cappella Sistina doveva essere fatta.
Se permetti, io direi che noi architetti ci masturbiamo sull'idea di linguaggio al massimo da un paio di secoli, più precisamente credo che l'inizio delle elucubrazioni sul linguaggio nascano proprio dal momento in cui sono nate le scuole di architettura e le "accademie" ad esse legate.
Credo che sarai d'accordo con me nel dire che la ricerca del linguaggio oggi è diventata il fine della maggior parte dell'architettura che si vede in giro. L'essere un brand è il punto di arrivo agognato da tutti gli architetti o quasi, devo essere onesto ho l'impressione che la ricerca del linguaggio sia un boomerang che sta per finirci dritto sul viso.
P.S.
Avete visto l'ultimo progetto di J. Di Pasquale per la Cina?
http://www.archiportale.com/progetti/joseph-di-pasquale/tianjin/jingwu-eco-town-masterplan_22289.html
Buone Feste
Angelo Gueli
robert, migliore risposta di quella di Angelo non poteva essere data.
Posso solo aggiungere una domanda: cosa c'entra il nichilismo (che mi sembra tuttavia tu citi con una garbata ironia) con il fatto che un progettista cerchi di rispettare le esigenze, i desideri e le aspettative del suo committente?
Se poi il linguaggio che il cliente desidera corrisponde a quello dei luoghi proprio non vedo il problema in assoluto.
saluti
Pietro
Tanto per continuare il ragionamento per assurdo che hai posto: e se il committente vuole un linguaggio iperfuturista? E se il committente non ha assolutamente le idee chiare su ciò che vuole?
Vorrei aggiungere due chiose: sono d'accordissimo con Marco Alcaro: nelle realizzazioni dei piani urbanistici non hanno alcuna importanza i segni dell'urbanista o architetto, se questi vanno in contrasto con le lobby di potere locali. Sono soltanto buone per le campagne elettorali. Seconda cosa, spesso in queste sedi si separano e riuniscono le problematiche con un fare forse un po troppo impressionista: la questione posta da Robert non è affatto banale...
A presto!
Peja, tanto per assurdo, appunto. A me non è mai accaduto, casomai nel mio passato è accaduto esattamente il contrario, cioè ero io che cercavo di convincere il cliente a fare il "moderno". Se comunque accadesse proverei a convincerlo del contrario e alla fine uno dei due cederebbe e credo che, con un cliente modaiolo o fortemente convinto, credo sarebbe lui a mollarmi.
Naturalmente si parla di edilizia residenziale, perchè nel campo di quella industriale il problema non si pone proprio, dato che il prefabbricato la fa da padrone e lì sono io ad adattarmi.
Ciao
Pietro
È da sei secoli che gli architetti discutono di linguaggio. Da quando, nel ‘400, qualcuno s’è messo in testa di re-inventare il classico. È lì che inizia la speculazione intellettuale sulle forme, è lì che nasce la figura moderna dell’architetto, nemmeno si conoscono i nomi dei capimastri delle cattedrali gotiche. Questi piccoli archistar del ‘400 reinventano il classico, lo vendono ai loro committenti come più confacente alle glorie e ai fasti che vanno cercando, più moderno rispetto al grottesco e barbarico gotico (che deriva appunto da Goti) e, non meno importante, costa meno… molto meno… Inizia lì quel processo di astrazione della forma che ha citato Los, talmente astratti sono certi edifici che vengono calati dall’alto come moderne teche bianche su centri storici per nulla astratti, assai affrescati, assai decorati e irregolari. Fatti non da architetti ma da perfetti sconosciuti. Palladio addirittura se li autopubblica i progetti (due libri dedicati agli antichi e due alle proprie opere) non vi pare che il brand e la figura del cosiddetto archistar nasca lì? E non vi pare che questi qui tengano conto sì delle esigenze del cliente ma son loro che alla fine decidono e impongono il nuovo e moderno linguaggio? Giulio II impone al Bramante di non spostar la tomba di Pietro ma mica è lui che inventa il linguaggio classico ma Bramante stesso. Sono delle vere e proprie elite gli architetti del ‘400, come lo sono le avanguardie del ‘900. Si va avanti così più o meno fino al ‘600 poi, nel ‘700, la nascita della storiografia inizia ad aprire alla babele dei linguaggi e l’arrivo della tecnica nell’800 apre totalmente alla libertà: da lì in poi ognuno (compreso il committente) può far quel che vuole e sogna, ognuno inizia ad avere diritto al proprio gusto e se lo sceglie tra gli innumerevoli linguaggi disponibili. Qualcuno cerca comunque di dare un ordine: municipo = rinascimento, museo = tempio greco, chiesa = gotico e via così... trasformando la città e il paesaggio in un catalogo a cielo aperto di stili. Questo fino agli inizi del ‘900 quando le avanguardie e il modernismo tentano di generare un linguaggio comune che superi le esperienze individuali e un secolo che ai loro occhi appariva come un’orgia formalistica. Non a caso, qualcuno, il modernismo l’ha chiamato International Style. Si è visto come è andato a finire anche questo ultimo tentativo… In mezzo ci sta come al solito l’Italia che , come dice Purini “contratta” l’appartenza alla modernità e cerca posizioni di mezzo: razionalismo classicizzato o classicismo razionalizzato. Dalla seconda metà del ‘900 però qualcuno s’è posto il problema che se il linguaggio non può essere metafisico almeno, per esser comune e condiviso, a qualcosa deve pur riferirsi… e quindi si è ha iniziato a parlare di “contesto”. È il contesto che fornisce gli elementi del linguaggio, è il contesto che, parlando coi propri segni, dice qualcosa su ciò che l’architetto deve fare. È la scuola italiana ad aver portato l’attenzione sul luogo, non a caso Aldo Rossi diceva: a Berlino faccio il berlinese in Giappone devo fare il giapponese (qualcuno, anche qui dentro, lo chiama genius loci). Fino a giungere ai giorni nostri nei quali qualcuno ha descritto la realtà, purtroppo non senza ragione, con una frase esattamente contraria: vaffanculo il contesto. La babele è totale, il committente sceglie l’architetto come si scelgono i calzini: Armani… Versace… Dolce&Gabbana e l’architetto si adegua. È una situazione totalmente rovesciata, non c’è più l’elitè che scende dall’alto ma le elitè economiche scelgono lo stilista-architetto che preferiscono… e, ovviamente, lo stilista cerca di ritagliarsi un target. C’è il target modernista, il target del new-urbanism… del neomedievalista… del decostruttivista… (e, ultimamente, pure la nicchia dell’architettura parascientifica sta cercando il proprio mercato).
Si è talmente obbligati a scegliere un target piuttosto che un altro che tutti ci si radicalizza, le posizioni di mezzo (le più intelligenti, logiche e che possono ricondurre a condivisione) sembrano sparire.
Concludendo, nella storia del linguaggio si intersecano gli IO dell’architetti, gli IO dei committenti e la potenza della tecnica, del mercato e della globalizzazione. Ridurla semplicemente ad una discorso personalistico dell’architetto mi pare francamente assai semplicistico. Ovvio che il linguaggio non è l’unica questione in ballo nel processo architettonico ma, se proprio lo si vuole espellere dall’architettura, almeno ce se ne dimentichi in qualsiasi occasione non che poi, alla prima opera un po’ sghemba si gridi al solito archistar brutto e cattivo mentre alla prima opera stile disneyland mi si venga a raccontare che il cliente ha sempre ragione.
Torno a quella che è la mia convinzione principale: i “profani” son assai più relativisti e nichilisti di noi architetti. Perché noi con le sedimentazioni dei sei secoli precedenti c’abbiamo a che fare loro (i profani) no . Ed è per questo che il villaggio dell’emiro è rinascimentale, ma potrebbe anche essere modernista, decostruttivista, minimal-retrò o…. a spirale coi pannelloni! In fin dei conti, se lo dice Rem, perché non lo può dire l’emiro? Vaffanculo il contesto! Oppure, cosa assai più probabile è successo esattamente il contrario… sarà stato Rem a dire: - Cazzarola, se lo dice l’emiro, lo dico anch’io! E ri-vaffanculo il contesto!
Robert
robert, per ora ti faccio i miei complimenti per l'approfondita analisi che merita un po' di riflessione e di calma per risponderti.
Ma non c'è dubbio che molti degli argomenti che tu adduci abbiano un fondamento.
Osservo che vi sono echi del post del mio amico Enrico. Anche i "profani", come vedi, hanno qualcosa da dire.
A presto
Pietro
Caro Pietro,
gli impegni mi impediscono in questo periodo di partecipare al dibattito interessantissimo, e spero di poterlo fare al più presto.
Intanto mi congratulo per il post e per alcuni commenti aggiuntivi.
Senz'altro concordo con il pensiero di rivedere la densità di alcune porzioni di città, un processo molto delicato che non significa volontà di speculare, bensì volontà di migliorare le condizioni di vivibilità dei quartieri moderni che sono sorti (grazie alle imposizioni normative ispirate dal guru Le-Corbusier) solo ispirandosi al principio dell'autotrazione e della speculazione. Conseguentemente gli architetti e gli urbanisti, indipendentemente dagli interventi "spontanei", sono i soli responsabili del disastro, se non altro perché i principi progettuali vengono dall'ideologia degli architetti modernisti. Ovviamente, una responsabilità maggiore la individuo nel modo di insegnare l'architettura e l'urbanistica, poiché i neo laureati escono dall'università con un bombardamento ideologico-modernista che li convince di essere nel giusto, il risultato è che essi si muovono guardando solo in avanti (spesso troppo avanti), senza mai fermarsi a riflettere sul presente e sul passato, così non si accorgono che i modelli "passati" che hanno funzionato (e continuano a funzionare), potrebbero essere la giusta via da seguire. Ma questo prevederebbe una liberazione dal pregiudizio sul "passato" difficile dal realizzarsi. Concludo con uno slogan su cui mi piacerebbe discutere: dopo il processo di "periferizzazione" dei centri storici sarebbe il caso di procedere alla "centro-storicizzazione" delle periferie
Caro Ettore, purtroppo anche io sono in questi giorni occupato in altre cose e ho poco tempo da dedicare al blog. Tra l'altro devo una risposta a robert, non perché sia obbligato a farlo ma perché mi interessa farlo.
Inutile dire che mi riconosco in quanto tu dici e lo "slogan" che tu enunci è certamente centrale per la soluzione dei problemi della città. E', tra l'altro, molto superficialmente affrontato in diversi PRG: segno che, sia come sia, anche gli architetti modernisti e rendono conto, senza dichiararlo, dei danni fatti e in qualche modo cercano di porvi rimedio. Ma affrontano il tema con la stessa strumentazione culturale, ideologica e procedurale di sempre, quindi non servirà a niente.
Ciao
Pietro
E' una questione bella e buona. L'urbanistica, dicono, che è il settore dove avvengono più intrallazzi politici, dove c'è la possibilità di corrompere di più il professionista per eventuali speculazioni immobiliari ed edilizie. Io dico che questo può accadare e i giochi politici ci sono sempre e comunque. C'è solo una questione che non riesco a capire... Ovvero per quale motivo gli urbanisti non possono pianificare in santa pace senza che nessuno gli dica cosa debba fare? Perchè la professione dell'urbanista può essere esercitata dall'architetto, mentre quella dell'architetto non può essere esercita dall'urbanista. L'albo è il medesimo.
Perchè questa bella professione è soffocata in italia, mentre se si va oltre Sondrio o Como è un campo molto più riconosciuto, soprattutto ai giovani?
Grazie
Mi dispiace, ma io non sono al corrente della reale differenza che esiste per legge tra il "pianficatore" e l'architetto.
Le sembrerà strano ma nella mia provincia credo ce ne sia uno solo, che tra l'altro prima è diventato architetto e poi è diventato anche pianificatore.
Ma, rispetto al problema iniziale che lei pone, la cosa mi sembra abbastanza ininfluente. Che l'urbanistica sia il settore "pubblico" in cui più di ogni altro vi sia commistione tra pubblico e privato è nelle cose.
Da sempre direi, non è un fatto contingente. La commistione tra pubblico e privato, con grossi interessi in campo determina inevitabilmente la ricerca di "favori". Quando questa ricerca supera il limite diventa fenomeno corruttivo. Ma lei consideri che la legge attribuisce al cittadino la possibilità di "chiedere" l'edificabilità dei suoli attraverso vari strumenti, tra cui il più importante è quello delle "osservazioni" al piano adottato, cioè approvato ma non definitivamente. Prima di essere approvato definitivamente chiunque può presentare osservazioni che il comune "DEVE" esaminare e quindi accettarle o respingerle.
Questo non la deve scandalizzare perché è normale chiedere, meno normale è ottenere con metodi non illeciti. Non solo. Deve essere data pubblicità al piano per molti motivi di carattere privatistico, ma anche perchè il territorio è bene comune e tutti devono essere messi al corrente dell'uso che si intende farne attraverso il piano.
La corruzione è una degenerazione del sistema penalmente perseguibile, mentre la pessima urbanistica è diventata quasi la regola, e nessuno la può punire.
Saluti
Pietro
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