Pietro Pagliardini
In questi giorni è in corso nella mia città un dibattito giornalistico sulla costruzione ormai iniziata di un grattacielino di 30 metri circa, più correttamente definibile come edificio a torre. Non siamo affatto nel campo della scelta ideologica del “grattacielo simbolo di modernità”, nel senso che il progetto nasce dall’impossibilità, se non in altezza, di altro tipo di ampliamento dell’edificio, che ospita un albergo ormai da anni in attività.
Tuttavia l’impatto visivo ed emotivo in una città di circa 90.000 abitanti è forte e la sua altezza, unita alla forma, anch’essa obbligata dal lotto e da ragioni strutturali, riduce fortemente la veduta del centro storico da una delle direttrici stradali principali; e per fortuna che, per ora, resta ancora qualcosa della veduta di Arezzo alta così come rappresentata negli affreschi di Piero della Francesca.
Chiacchierando con alcuni colleghi sull’argomento, ho constatato che c’è la tendenza a liquidare il problema spostando il tema sulla “qualità del progetto”, quindi sulla qualità dell’architetto.
Schematizzo il ragionamento in questi termini: “Il problema non è l’altezza ma la qualità del progetto”.
Non che questo tipo di ragionamento mi sia nuovo, che anzi è un ritornello sentito infinite volte, ma sono sinceramente stupito quando viene fatto non da fanatici entusiasti della modernità (almeno a parole) o della ovvia ed ineffabile “cultura del progetto” (un progettista quale cultura deve avere se non quella del progetto?), ma da colleghi attenti che, parallelamente alla loro professione, coltivano e mantengono interesse e attenzione per gli aspetti più generali legati all’architettura.
Cosa sottintende l’affermazione: “Dipende dalla qualità del progetto (cioè del progettista)”?
Intanto sottintende una serie di ovvietà:
- se il progettista è una capra è altamente probabile che qualunque progetto risulterà simile all’autore;
- un progetto ben fatto è meglio di un progetto malfatto, oppure, dovendo scegliere tra due progetti è meglio scegliere quello migliore.
L’ironia è facile ma non gratuita perché è insita proprio in quel tipo di ragionamento che è assolutamente tautologico, privo di informazione e ha, al massimo, valore solo in negativo. E non è neanche facile replicare a discorsi del genere che infatti tendono a esaurire il dialogo, restando aperto quello, scarsamente avvincente, di chi potrebbe essere l’architetto giusto per fare un progetto migliore di……. uno peggiore oppure quello del tipo “io l’avrei fatto…”.
Sforzandomi di approfondire di più, e con l’avvertenza che si tratta di una mia interpretazione, quasi di tipo psicologico, direi che un ragionamento di questo tipo rivela la difficoltà di isolare, restando al tema grattacielo, la categoria generale, cioè il tipo-grattacielo, dal caso particolare, cioè il progetto-grattacielo, che invece è un problema del secondo ordine. Una cosa è discutere della qualità del progetto specifico di un determinato grattacielo, altro è astrarre la tipologia del grattacielo e valutarla in base a considerazioni generali e comuni a tutti gli edifici di quel tipo, relative alla possibilità o meno di integrarla nella città e nel territorio, stimarne i pregi e i difetti sia su coloro che vi risiedono che sui cittadini che lo subiscono, valutare gli effetti climatici indotti (è noto che questi edifici alterano e di molto le condizioni del vento al proprio intorno), le conseguenze urbanistiche sul traffico e sulle infrastrutture in genere, l’inserimento nel contesto da vari punti di vista, tra cui quello dell’ombra prodotta intorno, il loro (pessimo) bilancio energetico, il significato simbolico, le conseguenze sui rapporti sociali e umani all’interno di quell’ambiente separato e autonomo da tutto il resto e al proprio interno tra i vari livelli, ecc.
Probabilmente il punto nodale per cui vi è questa difficoltà di cogliere gli aspetti generali (il tipo) rispetto a quelli particolari (il progetto) dipende non tanto dalle qualità dei singoli, quanto da un atteggiamento culturale che tende, ormai da decenni, a considerare l’architettura come l’arte di progettare e produrre “oggetti” architettonici in cui il contesto non esiste o peggio esiste solo in funzione e spesso in opposizione all’oggetto stesso.
Così scrive Sergio Los in Regionalismo dell’architettura, Franco Muzzio, 1990:
“…..Ma quando emerse quella polarità? Penso che essa risalga al momento in cui l'architettura assunse, per la prima volta all'inizio del Rinascimento, una determinata organizzazione teorica che istituiva l'oggetto edilizio come delimitazione spaziale del suo ambito disciplinare specifico.
Da quel momento l'edificio parve estratto dal suo contesto e il livello tipologico (che esso rappresentava) cessò di essere uno dei tanti ma assunse un ruolo dominante, diventando talvolta addirittura l'unico pertinente all'ambito teorico della composizione architettonica. Questa operazione costitutiva faceva scomparire il carattere multi¬scala dell'architettura (il suo essere intreccio di tipi a vari livelli tipologici, dalla stanza al sistema insediativo), essa finì per rendere naturale l'esistenza dell'oggetto edilizio come oggetto privilegiato del lavoro progettuale. Ci furono in seguito discussioni accanite sulle differenti modalità di costruzione del progetto e sulle mutevoli caratteristiche dell'oggetto edilizio, senza riconoscere come tutte condividessero e confermassero quella iniziale operazione costitutiva che estraeva l'edificio dal suo contesto urbano (e rurale) per separarlo da esso, contrapponendone la logica evolutiva.
L'edificio dunque è diventato un oggetto formalmente chiuso e monolitico; la stessa città quando è divenuta tema di progettazione ha assunto lo statuto di grande oggetto formalmente chiuso e monolitico, di megastruttura. Basta pensare ai disegni delle città ideali, che accompagnano lo sviluppo dell'architettura teoretica".
Pur ritenendo io che istituire questo legame così diretto tra Rinascimento e nascita dell’oggetto edilizio possa portare a risultati fuorvianti, ma riconoscendo che nella nascita della figura dell’architetto come figura autonoma e specialistica c’è il germe di quanto accaduto in seguito fino ai nostri giorni, non c’è dubbio che Los riassuma bene la condizione di differenza e opposizione tra oggetto edilizio e contesto urbano così come oggi si è ormai configurato e quindi la difficoltà culturale a staccarsi da un modo di valutare la realtà per parti separate. Questo metodo è indotto, oltre che dalle scuole di architettura, da tutta la pubblicistica, specializzata e non, che tende ad esaltare il genio architettonico e la “ricerca” sull’oggetto, trascurando del tutto ciò che sta intorno. Troppo complicato, troppe variabili in gioco che costringerebbero ad una maggiore prudenza, che è ovviamente nemica del “gesto”.
Il gesto, lo schizzo, l’intuizione, l’attimo è appunto la cifra caratterizzante del discorso architettonico contemporaneo, almeno nella sua diffusione mediatica. La figura demiurgica dell’archistar ne è il simbolo eclatante e vistoso.
Ma non solo: l’urbanistica della città per parti separate funzionalmente e geograficamente è l’altra faccia della medaglia della progettazione di oggetti architettonici. Ogni parte deve essere vista chiusa in sé, a prescindere: il centro storico è da salvaguardare come testimonianza storica, le zone residenziali devono essere studiate in base al verde, ai parcheggi e alla distribuzione dei servizi, le aree commerciali in base al bacino di utenza, le zone produttive in base alla accessibilità dalle viabilità principali e alla vicinanza alle infrastrutture. Se anche ogni parte fosse perfettamente ordinata (e non accade mai) e se ogni progetto fosse “di qualità” (idem c.s.), la città che ne risulterebbe sarebbe disgregata e dissonante, fatta di parti diverse non comunicanti, come un’orchestra composta da ottimi musicisti, ognuno dei quali suonasse un pezzo diverso e senza la guida del direttore.
Mettere in crisi questo pensiero schematico e parcellare è il primo passo per ripensare la città nella sua unità.
26 settembre 2009
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13 commenti:
Caro Pietro,
leggere nel testo di Los che l'edificio del Rinascimento possa prescindere dal suo contesto e si imponga come entità a sè è qualcosa che mi fa rabbrividire. Non risco ad immaginare nemmeno un edificio rinascimentale che possa verir estrapolato dal suo contesto e possa continuare a funzionare. Questa è una visione modernista del mondo che non ha nulla di reale, è un voler giustificare il modo modernista di approcciare la progettazione, dimostrandolo "storicamente". C'è un qualcosa in più che bisognerebbe prendere in considerazione riguardo al discorso sul "grattacielino" e su questo genere di progetti: L'ARCHITETTURA NON E' UN'ARTE FIGURATIVA! Dunque non può essere concepita come la "firma" dell'architetto (chiunque esso sia) sul territorio. Le arti figurative possono piacere o meno, per cui quando vengono esposte in un museo (o dove si vuole purchè al chiuso) chi le vuole vedere va a vederle, chi non ha alcun interesse non ci va. Le arti figurative moderniste, sono il frutto della cultura consumista e modaiola, per cui spesso sono un concentrato di "usa e getta". L'architettura, invece, dovrebbe essere "per sempre" e, tra l'altro, fa da contenitore e non da contenuto, e come tale essa si impone visivamente a chiunque: non ci si può rifiutare di andarla a vedere. Ragion vuole che l'architetto debba pensare in primis al rispetto del bene, del bello e del desiderio comune, prima che all'autocelebrazione del proprio ego. Infine, mi chiedo come si possa, ancora oggi che si dibatte tanto sulla "sostenibilità", continuare a promuovere "tipi" e "tipologie" insostenibili. Spero di rintracciare un illuminante ed attualissimo scritto di Giovannoni sui grattacieli e ve lo "posto".
Ettore
Ettore, in effetti anche a me quella "datazione" e soprattutto le cause non hanno convinto, come dico. Mi sembra anche un ragionamento un po' contorto in perfetto stile accademico. Ho utilizzato quel brano perché descrive bene il fenomeno più che le cause.
Quanto a Los, che ho appunto scoperto a Firenze, ho notato a distanza di quasi 20 anni un atteggiamento diverso; forse più "libero" da condizionamenti culturali accademici? E' una mia azzardata ipotesi; certo è che in quel libro che cito c'è di tutto, perchè deriva da un convegno, e complessivamente c'è il solito minestrone di giudizi critici sfumati ma da cui, in un modo o nell'altro il modernismo si salva sempre in corner e non viene messo sotto accusa.
Certo non si trovano in quel libro affermazioni chiare e categoriche come: LA NOSTRA GENERAZIONE HA FALLITO, NON SA FARE LA CITTA'. LE CITTA 'ANTICHE SONO MOLTO MIGLIORI DI QUELLE MODERNE.
Poi Los può pensare quello che vuole sulle cause, ma un'affermazione come questa non ammette equivoci: è il riconoscimento della catastrofe della cultura urbana di un'epoca.
Quanto al grattacielo anch'io avrò scritto 100 volte che un edificio non è un quadro che mi tengo in casa o posso regalare o mettere in soffitta e che l'architettura è concettualmente per sempre ma la stragrande maggioranza dei colleghi è tuttavia abituata mentalmente a pensare al "gesto", all'oggetto in sè, all'effimero, quindi all'edificio come ad una scultura o meglio come ad un oggetto di design da progettare, produrre e poi spostare da una mensola all'altra dello studio.
Io non vedo altro modo per mettere in crisi questa pigra attitudine mentale che la provocazione e la faziosità. Le raffinatezze, e non parlo per te, non servono a niente.
L'altro modo, più efficace ancora, sarebbe riuscire a realizzare opere che rispondano alle nostre idee e allora si valuterebbe sul campo il consenso.
Ma lo sanno benissimo e non ce le fanno fare perché il modo migliore per non far crescere la pianta è quella di non piantarne il seme.
Ecco il complotto! Sì, il complotto c'è ed è culturale e politico e ha un nome: egemonia.
Ciao
Pietro
E, infatti, come al solito hai colto in pieno!
Dato ciò che definisci il complotto, continuo a chiedermi: ma vale ancora la pena di mostrarsi compiacenti e rispettosi nei confronti di chi non fa altrettanto con noi? a che serve continuare a fare i "politically correct"? a me piace dire le cose genuinamente come le penso, talvolta qualche nostro amico mi richiama all'ordine per evitare incidenti diplomatici ... ma a cosa ci porta tutto ciò? Corbu appare ancora intoccabile (meglio non esporsi!) i vari Meier, Hadid, Piano e Calatrava, ecc. continuano ad iperversare, se gli diamo anche la possibilità di far credere che siano storicamente giustificati allora non c'è da star sereni
DE ARCHITECTURA,
«Il grattacielo si trova dappertutto ma come tipologia è morto. Si afferma in termini quantitativi, è grande . Ma è una cosa morta. La cosa interessante del grattacielo non è il fatto che possa essere alto, altissimo e sempre più alto, quanto quello che consente una serie complessa di funzioni e di relazioni sociali. Questo, però, può avvenire anche in edifici meno verticali. Insomma, il grattacielo è ancora una struttura interessante ma non lo è la sua attuale versione, che è una cosa morta». Chi sostiene questo?
Antonio Signorini,"C'è un complotto contro il premier" Lo rivela l'ex manager dell'Espresso, Il Giornale, 5 giugno 2009
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Ettore, il mio primo post di questo blog è una mail, autentica e non inventata come formula retorica, da me scritta e inviata ad un amico architetto durante una mia vacanza siciliana nel 2003 dove, dalla terrazza di un albergo aperta sul panorama di Ragusa e di Ibla, la città storica, constatavo l'impossibile o almeno la difficilmente possibile convivenza tra l'architettura moderna e quella storica. Era intitolata, anche in originale: Lettera di un modernista pentito ad un antichista incallito, dove, ovviamente, il modernista pentito ero io.
Racconto questo per dire che io ho una storia diversa dalla tua e, come tu mi insegni, la storia non si cancella. Generalmente i "rinnegati" come me tendono ad essere più talebani di altri e spesso anch'io lo sono, forse anche più di te. Però i "rinnegati" hanno il vantaggio di conoscere il modo di pensare degli avversari di oggi, compagni di strada del passato e, forse, ne hanno conservato anche alcune scorie, proprio per il fatto che la memoria è permanente, anche se nascosta. Questo fa in modo che io diventi intollerante e molto poco corretto politicamente contro i talebani della modernità ma aperto al dialogo verso coloro che fanno del dubbio critico la propria cifra caratteristica.
Perché una cosa è essere provocatori per strategia o tattica, altro è non riconoscere che dubbi ci sono, su tutto.
Semmai, restando nell'ambito del dubbio bisogna saper distinguere la linea sottile che divide il dubbio autentico da quello che invece sottende sempre una certezza, cioè che il modernismo.
Dunque, per riassumere, io ho acquisito una certezza di fondo ma sono aperto al dubbio critico (non dico sincero) degli altri.
In un'altra vita farò il politico!!!!
Ciao
Pietro
Caro Pietro,
mi ripeterò, ma nessuno di noi ha avuto la possibilità di formarsi come architetto tradizionale, tutti noi, me incluso, abbiamo ricevuto una formazione modernista, almeno in termini di esami progettuali. Per cui, chi ha saputo sviluppare una capacità critica, e autocritica, si è allontanato da quella imposizione. Anch'io sono sempre aperto al dibattito, solo che inizio a chiedermi della necessità di mantenere un contegno e un rispetto che non vedo dall'altra parte, e mi dispiace quando mi si suggerisce di non essere esplicito nel denunciare "pane al pane, vino al vino" le malefatte di Corbu & Co.
Un caro saluto
Ettore
PS
Per Salvatore: sarei davvero curioso di sapere come, e dove, il grattacielo può "consentire una serie complessa di funzioni e di relazioni sociali". Ti prego di illuminarci sull'argomento. Per quanto mi riguarda il grattacielo è una macchina da guerra contro ogni possibilità di relazione, inclusa quella con la natura!
Ettore, io non ti suggerisco certo di cambiare. Ci mancherebbe. Continua tranquillamente a dire pane al pane e vino al vino. Io volevo solo spiegare il mio atteggiamento, non spingerti ad imitarlo.
Su LC credo di avere più volte detto cose assolutamente coerenti con quello che tu dici. Considero LC un ideologo dell'urbanistica e a me, da tempo, gli ideologi mi piacciono molto poco. E non mi piace la beatificazione che si tende a fare di un soggetto disposto ad ogni compromesso con poteri terribili pur di vedere riconosciute e applicate le sue idee.
Cosa che in realtà è avvenuta, magari senza riconoscimento diretto, sia nella ex URSS che in Italia: i nostri PEEP, le nostre periferie sono suoi figli naturali. Ma anche i nostri PRG passati e presenti sono suoi figli legittimi e i risultati sono evidenti.
La zonizzazione non è un'invenzione ma l'applicazione del principio abitare, lavorare, ecc.
Ciao
Piero
Salvatore, senza fare quiz, facci sapere di chi è la citazione.
Domando anche: che c'entra il complotto contro Berlusconi?
A me, l'ho già detto, piacciono i discorsi diretti del tipo: io affermo questo, per questo motivo e quest'altro.
Poi possono seguire anche citazioni, battute e quant'altro.
Ma non è che ogni volta si può rispondere alla domanda della Sfinge!
Siamo qui per discorrere, mica per superare un esame!
Ciao
Pietro
Secondo me ci sono dei distinguo da porre a monte del dibattito, Pietro, che non vengono mai fatti e la cui mancanza inquina le considerazioni che ne discendono: il discorso dell’ambiente urbano da preservare e da ampliare secondo le direttive ‘a misura d’uomo’ che ne hanno permesso lo sviluppo è valido se applicato a città ‘a dimensione d’uomo’, dove le distanze, la capienza abitativa, i tempi di percorrenza ecc. si contengono entro certi limiti, ma decade totalmente parlando di grandi città, dove la parcellizzazione è una realtà inevitabile. Le città antiche sono migliori di quelle moderne perché parametrate su quantità oggi inadegute, non a caso quelle che sono rimaste ‘belle’ sono piccole città, con incrementi demografici gestibili, ma come fai ad applicare lo stesso criterio di giudizio a Milano o Londra o Berlino?
Ho scritto una breve pagina (http://www.artonweb.it/architettura/articolo44.html) alla quale rimando per non ripetermi troppo, dove, in modo semplicistico ma non del tutto criticabile, cerco una mia personale ragione che giustifichi la frammentazione del tessuto urbano ed anche la presenza degli ‘oggetti architettonici’ che nascono come funghi nelle metropoli del mondo, Formulo un’ipotesi piuttosto grossolana, ma non priva di fondamento, secondo la quale l’episodicità dell’architettura delle archistar si allinea perfettamente alla mutata percezione dello spazio urbano da parte del fruitore moderno. Per l’influenza soprattutto dell’evolversi dei mezzi di locomozione e la conseguente contrazione del tempo e dello spazio percorso nel tempo, ciò che l’abitante urbano chiede oggi all’architettura è (anche) la possibilità di fungere da cronotopo, di essere un elemento fortemente caratterizzato sotto l’aspetto meramente visivo (oggettuale), di significativa emergenza e riconoscibilità ai fini di un rapido orientamento spazio-temporale. Ed è curioso notare come, da sempre, le realizzazioni architettoniche più conosciute e forse apprezzate da tutti sono in genere architetture 'inutili' (l'Altare della Patria, la Tour Eiffel , le piramidi d'Egitto ...... ), fortemente oggettuali a funzione prevalentemente simbolica, riconducibile ai canoni estetici della scultura.
Comunque, perché mai un’architettura non deve/può avere una sua valenza anche oggettuale? Pensa al Partenone, non è esso stesso un fantastico oggetto architettonico che “si libra come un cristallo nello spazio" e Fidia una straordinaria archistar ante litteram?
Vilma
Vilma, avevo già letto il tuo articolo che non è affatto campato in aria ed è suggestivo.
Avrei voluto commentarlo ma confesso di essere stato in difficoltà. La mia impressione non era solo quella che le tue considerazioni possano valere limitatamente alle grandi città ma che fossero letterariamente raffinate ma solo in piccola parte vere. La tua ipotesi sui simboli che danno riconoscibilità ai nodi delle comunicazioni, credo sia assolutamente vera; l'idea che nella metropolitana il tempo sia la misura di riferimento, piuttosto che lo spazio, è altrettanto vera; ma da qui a mettere insieme queste due verità e ricavarne una sorta di destrutturazione dello spazio urbano che sia in grado di giustificare una città fatta solo di oggetti simbolici mi sembra che il passo sia lungo. Questo perché, ad esempio, ad un certo momento si esce dal mezzo di trasporto e si cammina e si va dove si deve andare e si vive nella città a piedi, che sia per le strade o negli uffici o nelle case. E allora ci ritroviamo nelle stesse condizioni in cui ci troveremmo abitando in una città di dimensioni ragionevoli e umane e torna il problema originale. Questo giustifica, semmai, una città policentrica, come in effetti è NY, fatta di mille quartieri ognuno dei quali presenta caratteristiche diverse. Per assurdo direi quasi che le tue osservazioni confermano l'idea della necessità di città a scala umana.
Che in città vi sia bisogno di edifici simbolici che fungano da punti di orientamento è certamente vero ma quelli che citi sono edifici-scultura non fatti per ospitare persone. Le potremmo definire sculture a scala gigantesca, come la statua della Libertà, dove è vero che vi si entra dentro ma solo per salire in cima a vedere il panorama.
Ciao
Piero
Purtroppo l’orrore è stato commesso nella stesura del PRG: quando si è permesso che fosse inserita dal progettista (con il beneplacito dell’establishment economico-politico ) qualche “chicca” qualche cadeaux alla cittadinanza .
Il piano, ovviamente, non poteva non essere approvato pena grande discapito per la cittadinanza minuta.
Di queste autentiche bombe ad orologeria ve ne saranno svariate centinaia, in giro per l’Italia, nascosti nelle tavole colorate e rassicuranti dei PRG.
I cittadini, espropriati anche culturalmente del controllo del loro territorio, affidato a sedicenti tecnici, quando va bene, riescono a strappare un giardinetto o svincolo in più e quando se parla è troppo tardi: i meccanismi “giusti” sono stati messi irrimediabilmente ed implacabilmente in moto: si tratta solo di mediare l’inevitabile l’impatto mediante il ricorso a concetti vaghi ed onnicomprensivi tra i quali spicca ormai la “qualità del progetto”.
Torino docet.
La qualità dell’architettura, nuova frontiera su cui rifondare l’esperienza costruttiva, è spesso opposta a quella di tutti gli altri operatori , geometri, ingegneri, architetti di secondo piano cui vengono totalmente addebitati guasti evidenti ed innegabili dimenticando spesso che questi, espropriati da un linguaggio comune e consolidato, hanno ripreso stimoli ed input pervenuti dall’alto; semplificandoli ed adattandoli, spesso senza successo, alla necessità, bieche, di non allagarsi continuamente, proteggersi dal freddo e dal caldo incalzante dietro finestre spropositate e murature extrafini, disposizioni planimetriche sprecone ed imbarazzanti suggerite vieppiù dall’onnipotenza della tecnologia che promette e permette ognicosa.
Inconvenienti imperdonabili per persone normali nonchè letali per chi si ripromette di costruire ancora.
Ma le elucubrazioni geometriche, gli eccessi tecnologici che fanno tanto discutere i sedicenti addetti ai lavori (… addetti alla critica “psicologica” dei lavori…) applicate al 98% dell’edilizia corrente, alle case unifamiliari, a modesti edifici commercial-industriali generano per lo più sorrisi ed imbarazzi ( ..la prossima volta andrà meglio…)
Tuttavia la “qualità” si distingue soprattutto dai seguenti caratteri:
• quantità degli allegati e degli studi preparatori (…inverosimili e spesso taroccati ma garantiti da “consulting” di prestigio in grado di dimostrare anche gli innegabili pregi dei terremoti )
• il grado di complicazione tecnico-costruttiva ( il più delle volte cassata per mancanza di fondi )
• la quantità di citazioni colte (…o presunte tali…) riferibili ad altri recenti modelli di accertata benevolenza critica.
• una buona dose di originalità (… le stranezze sono un indicatore importante di appartenenza : ne può bastare anche una sola purchè ben evidente… ).
Fondamentali i primi due punti: gli altri, essendo soggettivi ed opinabili, non hanno neppure bisogno d’essere verificati: sono garantiti dalla fama che il progettista s’è guadagnata sulle riviste per soli architetti e supplementi femminili di quotidiani.
memmo54, mi sembra difficile aggiungere altro a quanto tu dici, tanto il commento è sintetico e da me condiviso.
Solo una piccola precisazione tecnica: quel grattacielino, essendo un albergo esistente, non stava scritto nel Piano ma, come la legge consente, è una concessione in deroga.
Ma questo non inficia affatto il tuo ragionamento, dato che, a qualche decina da quel progetto il piano prevede un altro grattacielino, inserito da Gregotti associati sotto forma di piano particolareggiato e che non ha avuto inizio solo grazie alle solite beghe burocratico-politiche e alla crisi del settore.
Insomma, è triste ma bisogna ringraziare l'inefficienza del sistema politico-istituzionale se non c'è ancora un altro "simbolo della modernità".
Non è però una bella consolazione.
Saluti
Pietro
Suggerisco la stimolante lettura di "Palladio's Children" di Nikolaas Habraken con argomentazioni inoppugnabili sulla presunzione propria di una intera categoria professionale di dover lasciare ai posteri il proprio specifico "segno" architettonico in opposizione alla "normalità del tessuto"!
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