Stamani compro il Giornale e trovo un’intervista a Frank Gehry che viene, come si usa dire, come il cacio sui maccheroni: nel precedente post osservavo la consuetudine di molti architetti di risolvere i problemi in base alla banale discriminante progetto-buono, progetto cattivo, cioè architetto-bravo, architetto-incapace, ed ecco cosa risponde Gehry a Luigi Mascheroni, autore dell’intervista:d
“Archistar! Chi cazzo l’ha inventata questa parola? Che cazzo vuol dire questa parola? L’avete inventata voi giornalisti e non significa nulla: io non sono un’archistar, sono un architetto e basta. Non esistono le archistar, esistono architetti che progettano e realizzano opere, a volte buone, altre meno buone, a volte funzionali, a volte catastrofiche dal punto di vista architettonico o da quello economico”. I suoi edifici (questo lo sintetizza il giornalista) sono tra quelli “buoni” (quindi lui è un bravo architetto).
Eccoci qua, dunque è il progetto che conta e perciò il progettista. Ogni progetto va bene purché sia un buon progetto. Continua, come dicevo, la fiera dell’ovvio, della tautologia, del non significante.
Però Gehry ha anche una sua filosofia e la spiega:
“La contaminazione è inevitabile e inarrestabile. La fusione tra culture è arrivata a un punto tale che è impossibile opporvisi, bisogna seguire il flusso e cogliere gli stimoli”.
Relativismo assoluto e assolutamente strumentale all’affermazione precedente: va bene tutto, tutto va così perché c’è il flusso da seguire e non potrebbe andare diversamente, quello che conta è la qualità del progetto e del progettista.
Non risponde alla domanda sulle accuse mossegli da John Silber nel suo libro Architetture dell’assurdo ma dice che “l’architetto deve fare i conti con i luoghi e i tempi in cui vive e lavora”.
Mah!
N.B. Non posso fare il link all'articolo in questione perhè ancora non l'ho trovato in rete
27 settembre 2009
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20 commenti:
Quella di Frank Gehry è la mentalità del designer, l'oggetto è buono o bello in se e non importa dove è collocato. Dell'oggetto di designer se ne prevede la produzione in serie ed è compito dell'utilizzatore decidere cosa farne, quale comprare e dove è più opportuno collocarlo, e l'utilizzatore di gusto riesce sempre nell'intento.
Ma questo va bene anche per l'architettura?
Secondo Gerhy la globalizzazione impone questo livellamento e anche l'architettura diventa un prodotto in serie esportabile ovunque, l'unica variabile è la novità dell'oggetto: "bisogna seguire il flusso e cogliere gli stimoli".
Quì sta tutta la bravura dell'architetto, questo è il programma. Altre domande è meglio non farle, non ci sarebbe risposta.
Enrico Bardellini
Enrico, correggerei la frase "quì sta la bravura dell'architetto" con "quì sta la bravura del professionista".
E' una sottigliezza ma mi sembra più appropriato.
Tanto di cappello al professionista Gehry.
Ciao
Pietro
Chissà come mai, Gehry non viene mai "contaminato" dall'ambiente in cui si pone. ... Forse perché quando si parla di contaminazione ci si riferisce ad un virus? Allora possiamo dire che la sua architettura è "virulenta"! E infatti è come un morbo che attacca e distrugge il contesto in cui sorge!
Gehry e compagni farebbero bene a parlare meno ... e magari ad imparare il linguaggio dei luoghi
Parlano sempre troppo e a sproposito! "L'architetto deve fare i conti con i luoghi" dice Gehry. D'altronde che deve fare: gli dedicano film agiografici, mostre alla Triennale, riviste. E poi non vuole essere chiamato archistar ma solo architetto! Senza quell'attributo "star" Gehry non sarebbe Gehry. Devo dire che un velo d'ironia in questo c'era da parte del giornalista. Speriamo che gli architetti, soprattutto giovani, sviluppino gli anticorpi per quel virus che rende gli architetti stars e chi abbocca come teenagers, fans dei vari rockettari. Il fenomeno è del tutto identico.
Ciao
Pietro
Caro Pietro,
hai ragione, è davvero patetico pensare alla finta modestia di questi personaggi, che vivono nel narcisismo più sfrenato, modellando i contesti a loro immagine e somiglianza, piuttosto che cercando di armonizzarsi al loro interno (l'architetto deve fare i conti con i luoghi), si autocelebrano come una elite di professionisti che ha il verbo nelle sue mani ... poi fingono di cadere dalle nuvole quando vengono definiti "archistars". Che per caso hanno paura di trasformarsi in meteore? O peggio ancora in "buchi neri"? Ai posteri l'ardua sentenza ... e a noi i postumi dei loro interventi.
ciao
Ettore
Quindi ora arriveranno pure le magliette "I love Gehry" o "Gehry rules"?? :)
Purtroppo anche l'architettura è ormai entrata nel circolo vizioso della "moda" e "mercificazione del prodotto": basta chiedere alle donne se tutte le scarpe che portano sono comode non firmate.
Rassegnamoci e prepariamoci ad avere "nuove tipologie di palazzoni per l'autunno-inverno 2009" e le grandi novità per "i centri commerciale della primavera-estate 2010".
A presto (aspettando quindi le nuove collezioni)
Matteo
Caro Matteo,
purtroppo hai totalmente ragione!
Gli architetti dovrebbero leggere un po' di sociologia da Durkheim a Bauman sulle mode passeggere.
Ettore
PS
la sfilata è pianificata alla prossima Biennale di Venezia
E' assolutamente singolare il fatto che Bauman venga citato spesso dagli architetti come fosse un profeta del disordine urbano e invece non è così. Io ho letto poco di lui ma l'ho sentito in un convegno e non dice affatto questo.
Ma il termine "liquido" suggestiona gli architetti (vedi l'imitazione di Fuksas fatta da Fuffas) e gli attribuiscono valenze del tutto diverse, affibbiandolo all'architettura per giustificare ogni tipo di progetto.
Ciao
Pietro
Caro Pietro,
io nutro una grandissima passione per la Sociologia Urbana sin da quando, da studente, ho scoperto che si era dovuto creare una disciplina specifica che studiasse gli effetti collaterali della nostra professione .. specie di quella degli urbanisti. Di Bauman ho letto 6 libri, uno più affascinante dell'altro. Quando lo cito non lo faccio per il discorso sul disordine urbano. In questo caso mi riferisco più al discorso delle mode passeggere
DE ARCHITECTURA,
la citazione del precedente commento è tratta da: Rem Koolhaas, Junkspace, Quodlibet, 2006
«L’Italia si rivela ancora una volta un laboratorio socio-politico di grande interesse: l’autismo comunicativo acquista un carattere epidemico e una fisionomia collettiva nell’antipolitica di un comico, Beppe Grillo, il cui blog riceve qualche migliaio di commenti ogni giorno. Questi riesce a mobilitare centinaia di migliaia di persone, spostandole dalla tastiera del computer alla piazza, all’insegna dello slogan più banale e triviale: “Vaffanculo!” In questo modo gli “incazzati in pigiama” si sottraggono alla noia e ritrovano una pseudo-identità, in una specie di “autismo di massa”, che costituisce un fenomeno differente dal populismo, dal qualunquismo e dal moltitudinismo.
Ma cosa c’entrano i blog e Beppe Grillo con la letteratura e con l’arte? Essi sono il prodotto finale, la forma compiuta, il punto d’arrivo di un disastro che è cominciato molto tempo fa e che può essere definito come il dissolvimento dell’opera nella comunicazione. Il proliferare bulimico di scritture che pretendono di essere in presa diretta con l’attualità registrandola nel momento in cui avviene comporta conseguenze clamorose sulla letteratura, rendendola impossibile. L’autismo comunicativo toglie ogni autorevolezza all’autore, contrae il passato e il futuro in un presente effimero, spezza ogni rapporto con una dimensione storica collettiva la quale implica l’esistenza di un significato che va aldilà della mera cronaca.
L’ origine dell’autismo dell’immediatismo e del presentismo dei blog sta nel Romaticismo, che ha attribuito all’autore la pretesa di avere nei confronti delle proprie opere un atteggiamento ironico ed ha assegnato alla soggettività infinita un primato assoluto nei confronti di qualsiasi prodotto. Nel corso del Novecento le avanguardie artistiche e letterarie hanno radicalizzato questo orientamento. Nella letteratura, il romanzo L’innominabile di Samuel Beckett, porta la narrativa nel vicolo cieco dell’autismo comunicativo dei blog. Non c’è più la possibilità di raccontare qualcosa che interessi a chicchessia, perché è venuta meno la possibilità stessa dell’esperienza, perfino quella della scrittura. I blogger sono innominabili che non sanno quello che fanno e non hanno neanche alcun interesse né possibilità di saperlo. Lo scrittore francese Jean Paulhan, si chiedeva ironicamente: “ Chi potrebbe tollerare, si domanda un giovanotto, di non essere uno scrittore?” ma aggiungeva: “ E ogni giovane scrittore si meraviglia che lo si possa considerare solo uno scrittore”, perché pretende di esprimere se stesso liberamente senza essere condizionato dalle convenzioni letterarie, esattamente come l’estensore dei blog.
In altre parole, tra L’innominabile e Beppe Grillo non esiste soluzione di continuità: perché mai uno dovrebbe leggere Beckett, se questi non è capace di raccontare nessuna azione, nessuna esperienza che riguardi anche gli altri? Il ragionamento del blogger è dunque questo: “Perché deve essere solo lui a parlare di se stesso? Tutti devono poter parlare di se stessi, anche se nessuno li ascolta”. Ma giustamente scriveva Malraux nelle sue Antimemorie: “Che cosa importa ciò che importa solo per me?”.»
Mario Perniola, Editoriale:‘L’arte senza opere, Ágalma, n17, Marzo 2009
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Vabbè, Salvatore, tutta questa storia di Koolhaas per dirmi che come tutti i bloggers sarei uno che si fa le seghe mentali?
Me lo potevi dire direttamente e capivo lo stesso.
Non escludo tu abbia qualche ragione ma io mi diverto così, che ci posso fare? Quando non mi divertirò più smetterò.
Ognuno di noi ha qualche debolezza e passione: c'è chi la domenica lava l'auto sperando di fare bella figura con le ragazze, c'è chi va a pescare per raccontare quanto l'ha preso lungo, chi passa le nottate a chattare sperando di cuccare, e c'è perfino chi scrive nei blog sperando di essere letto.
Sarà così, ma tanto non mi convinci a smettere, né te né Koolhaas, perché io in sovrappiù ci metto anche la mia convinzione, o illusione, di avere un ruolo piccolo, piccolissimo ma alquanto originale. Koolhaas mi direbbe che do' proprio di matto!
Ma Wilfing Architettura è un blog o che altro?
Ciao
Pietro
Professionista piuttosto che architetto, Piero, non so se il tuo appunto fosse anche ironico, ma mi piace vederlo così e mi trovo d'accordo.
La professionalità di Gehry è legata in parte all'utilizzo del software Rhinoceros 3D.
che è Il programma più utilizzato nella progettazione di oggetti di industrial design, è infatti un modellatore puro e non ha nessuna caratteristica per un'uso architettonico tradizionale. Una delle sue potenzialita (ne ha tante ed è un programma favoloso per la modellazione) è quella di permettere di inserire delle forme complesse dentro un'involucro, il quale può essere deformato in modo che tutte le parti contenute all'interno si adattino inmaniera coerente. Gehry lo usa per le sue superfici e volumi liberamante modellati, altrimenti sarebbe impossibile disegnare e realizzare tutte le parti dell'edificio in quanto tutte diverse. Inoltre è un modellatore di superfici di tipo NURBS, cioè di superfici che possono essere modificate a piacimento e liberamente senza perdere la continuta di superficie, come potrebbe fare uno scultore con la creta.
Personalmente ho lavorato con questo programma e quando vedo le opere di Gehry vedo la traccia indelebile dell'uso di questo software.
In questa interessante pagina si vede il metodo:
http://www.rhino3.de/design/modeling/developable/architecture/index.shtml
In altre pagine dello stesso sito si possono vedere le caratteristiche di questo software per chi non lo conoscesse.
Questo metodo di progettazione non è forse industrial design più che architettura?
Forse secondo il Gehry-pensiero è contaminazione anche questa.
Enrico Bardellini
Enrico, penso che anche la Zaha Hadid usi questo procedimento. A me non scandalizza l'uso intensivo del computer il cui software assurge dal ruolo di puro strumento a vero produttore di progetti. E' il risultato che contesto perché quello che resta nell'ambiente non è il "metodo" ma l'edificio che non è software ma hardware e di quello più duro possibile.
Già in campo artistico ho difficoltà ad apprezzare quelle opere in cui senza i precedenti, senza la storia dell'autore e del suo percorso, senza l'inserimento in un determinato "discorso a monte" è impossibile sperare di capire di cosa si tratti. Ma se appunto nell'arte può avere una sua ragion d'essere in campo architettonico proprio non è così. L'architettura è arte civica, è l'ambiente dell'uomo che non dura una stagione autunno-inverno ma, come diceva Mazzola, per sempre e il metodo può interessare gli architetti, gli addetti ai lavori, la critica ma non la gente che deve vivere in quegli edifici.
Ciao
Pietro
Certamente, Pietro (scusa per il Piero prec.), sono perfettamente d'accordo con quello che dici ma per deformazione professionale (da storico più che architetto) a me piace ricostruire tutto il percorso in quanto sono abituato a rendere più oggettive possibili le mie valutazioni. Certamente i risultati, come tu dici sono quelli che contano e condivido una valutazione non positiva per le ragioni espresse anche da Ettore Maria.
Mi piacerebbe sapere da coloro che ammirano le opere di Gehry quale è il valore da attribuire ad esse, per quale ragione dovremmo considerarle opere degne di attenzione, ed esprimersi sul valore e non un semplice : mi piace, è interessante, è innovativo e così via.
Perché la storia dovrebbe ricordarle?
Ciao a te e a tutti
Enrico
Bella domanda Enrico. Attendiamo risposte.
Per il Piero non ti scusare: Piero in famiglia, da sempre, Pietro all'anagrafe e nella professione. Sono...ambidestro.
Ciao
Pietro
La domanda "è industrial design o architettura?" trovo, l'ho già detto, che sia per alcuni aspetti fuorviante.
Le costruzioni edilizie contemporanee sono, in larghissima parte ormai, assemblaggi di prodotti industriali, secondo "kit" sempre meno artigianali.
Spingono verso questo vari fattori, ma individuiamo quelli "immateriali":
1) normative tecniche e di enti di unificazione (verifica della qualità edilizia secondo il sistema requisiti-prestazioni misurabili secondo certi standard oggetto di "certificazione" e pertanto tendente ad escludere la costruzione in opera artigianale
2) i sofware di progettazione: non soltanto - e non tanto - come già da alcuni accennato, i nuovi modellatori, quanto i BIM e gli applicativi sorti appunto per verificare e certificare che l'assemblaggio dei componenti sia "certificabile" in base alle prestazioni normative.
Questo è il dato di fatto.
Ora, è legittimo ed anche giusto invece negare - filosoficamente - che una costruzione edilizia possa essere considerata e giudicata alla stregua un mero prodotto industriale.
Quindi il vero nodo non è tanto la "archistar" (che sono solo complementari, poi dirò come, ad un certo sistema), quanto l'imposizione (per nulla ineluttabile) di un certo modello volto alla più completa industrializzazione dei processi che stanno attorno alle costruzioni.
Le archistar servono solo da contraltare - essendo l'eccezione alla regola, estrosa, irrazionale ecc. - alla più pesante industrializzazione del prodotto edilizio mai vista nella storia.
quindi, estremizzando il pensiero di Biz, possiamo asserire che la Lobby dell'edilizia è la mandante dell'assassinio dell'artigianato in edilizia (e con esso dell'architettura), mentre le archistars (e tutti coloro che si prestano a tale crimine) sono i sicari!
Biz mi sembra che la tua osservazione sia vera solo in parte.
Il processo costruttivo e di produzione del bene tende certamente a porre limiti alla lavorazione artigianale ma dal punto di vista tipologico nulla spinge verso fantasie e astruserie varie. Una tipologia tradizionale può essere tranquillamente progettata e costruita nel pieno rispetto di ogni normativa vigente. Cioè il 90 e più per cento delle nuove costruzioni potrebbero essere tranquillamente costruite in modo "tradizionale".
Anche per il software vale lo stesso discorso: io faccio uso di BIM, nel senso che utilizzo Revit e ti dirò che più l'edificio è tradizionale e semplice e meglio mi trovo. Certamente manca del tutto o quasi, e quindi potenzialmente si va a perdere, qualsiasi riferimento alla decorazione.
E poi non credo che le archistar siano il simbolo dell'industrializzazione edilizia, proprio perchè ogni loro edificio deve essere ingegnerizzato in maniera specifica e diversa dagli altri. Per assurdo direi che proprio i progetti delle archistar sono, in un certo senso, opere completamente artigianali, dovendo essere ciascuna un pezzo unico (non appartenendo a nessun tipo consolidato che è potenzialmente industrializzabile) costruite mediante materiali industrializzati.
Ciao
Pietro
Pietro, non mi sono spiegato bene, e in effetti il discorso è lungo e non semplice.
In breve, sostengo che le archistar e le loro bizzarrie sono eccezioni che si giustificano solo in relazione ad una regola.
Se, con un certo sistema produttivo e concettuale, pervengo necessariamente ad un risultato, diciamo "standardizzato", l'unico cambiamento che è permesso è una infrazione a quella regola: il casermone storto anzichè quello dritto (per banalizzare). Questo consente uno "sfalsamento", una "distrazione", rispetto alla percezione comune del dato essenziale: cioè che sempre dello stesso prodotto si tratta .... uno "razionale" e l'altro "artistico", unico, d'eccezione. Una variante dello stesso prodotto, sostanzialmente. La fuoriserie (vertice del prodotto industriale, come l'auto concept, per intenderci), da non confondersi con il prodotto artigianale.
Concordo pienamente con Pietro e da buon (si spera) ingegnere in effetti mi sono sempre stupito ad esempio del fatto che nessuno voglia più costruire in muratura portante (che può benissimo rispettare le nuove normative antisismiche, ovviamente per una tipologia tradizionale che preveda pochi piani). Inoltre non si avrebbero tanti problemi, come giunti termici, diffusione acustica, sostituzione di elementi portanti, ecc...
Il cemento piace perchè gli architetti pensano che con il cemento tutte le loro più folli astruserie si possano realizzare (pilastri in falso a gogo), i costruttori possono usare mano d'opera non specializzata e come viene viene, siamo sicuri che tenga (poi vediamo cosa è successo a L'Aquila), i produttori di materiale pure, perchè tanto chi le controlla poi veramente le loro miscele?
Inoltre tanti edifici "contemporanei" sono quanto di più artigianale si possa pensare: il Beaubourg è un enorme assemblaggio di parti prodotte artigianalmente ed ognuna diversa dall'altra; gli edifici di Gehry sono fatti sono con pezzi unici e presagomati.
Lamento anch'io la mancanza di manodopera specializzata (ma d'altronde non si va tanto avanti a pagare operai 4 euro all'ora...).
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