Pietro Pagliardini
In un commento su Archiwatch, il blog di Giorgio Muratore, un architetto di nome Vincenzo scrive:
"Pietro…Non credo bisogna agire senza regole…non credo nell’espressione artistica come soluzione dei problemi urbani…(per fortuna) credo di venire da una scuola di architettura (bari) intelligente, che interpreta l’intervento urbano, a qualsiasi scala, non come un evento, bensì come una trasformazione che si storicizza e che con la storia fa comunque i conti…con la storia più remota e con la storia più recente. Il problema del limite, a mio modo di vedere, è solo una gabbia…è solo tracciare il confine tra luoghi in cui niente si deve fare e (non)luoghi in cui tutto è ammissibile..io penso che ci sia senza dubbio una parte di città da tutelare (sul come ne si può discutere!) con attenzione particolare, ma questo non implica che tutto il resto si possa trasformare senza senso…
da (quasi)specializzato in restauro potrebbe sembrare un’eresia, ma se definire il centro storico/nucleo antico/città consolidata deve voler dire che il resto non lo è, allora non ci sto…come si legge spesso nel suo blog, la regola è fondamentale per l’ordine delle cose ben fatte ma se questa implica deregolamentare tutto il resto, penso che sia del tutto sbagliato
buon lavoro
vincenzo"
Se ho capito bene, Vincenzo mi attribuisce la volontà di voler deregolamentare nelle aree esterne al perimetro della città storica, dopo avere evidentemente letto qualcosa del genere in questo blog.
Immagino che potrebbe riferirsi al fatto che io ho dichiarato da subito il mio entusiasmo per il Piano casa, perché l’ho letto come occasione di libertà, e quindi indirettamente di deregolamentazione, per quei cittadini che hanno il bisogno, o il desiderio, di ampliare la propria abitazione. Se è così, nel riconfermare il mio entusiasmo per quel piano, comprendo però come si possa percepire un’apparente contraddizione tra il desiderio di regole, che in questo blog si propugnano, e la liberalizzazione del 20%. Perché è apparente la contraddizione?
Per dare una spiegazione inizio da un brano tratto dalla quarta di copertina del libro “Adesso l’architettura” di Jacques Derrida:
"Una volta che lo spazio è riempito con case, edifici, strade, templi, chiese e così via, una qualche autorità, qualche potere ha già strutturato lo spazio della città e, per la stessa ragione, ha già determinato un certo numero di norme politiche, comportamenti, costrizioni, ecc. Ecco perché non si può semplicemente decostruire l’autorità politica o il suo discorso senza seguire l’indice dell’architettura"
Prima domanda: che ci fa un libro di Derrida in casa mia? Niente, in effetti, perché dopo avere letto sette pagine l’ho abbandonato in quanto per me incomprensibile. Credo anzi che l’unica frase comprensibile l’abbiano scelta per la copertina. Il libro me lo ha regalato un amico filosofo, molto bravo, con questa dedica: “Caro Pietro, questo è un libro sicuramente più utile a te che a me e altrettanto sicuramente più comprensibile a te che a me. Ammesso che Derrida sia utile e comprensibile! Buon Natale e Buon Anno”. Fiducia mal riposta.
Dunque Derrida individua nella città lo strumento primo del potere e dichiara addirittura che non si può decostruire il potere senza decostruire la città. Questo discorso è chiarissimo anche se non ne condivido l’obbiettivo.
La città è certamente l’opera più importante che l’uomo abbia mai realizzato senza la quale nessun’altra opera, e il progresso stesso, sarebbe stato possibile. Ma Derrida vuole decostruire il potere mentre io, più modestamente, mi limito ad auspicare una minore invadenza dello Stato nella vita dei cittadini. Derrida pensa che decostruendo la città si decostruisca, quindi si annulli, il potere e io invece penso esattamente l’opposto: una città decostruita, come in effetti in gran parte è quella di oggi (ovvio che non mi riferisco alla banalizzazione modaiola della forma stilistica de-costruttiva fatta dagli architetti ma alla rottura completa delle regole urbane) decostruisce la società e lascia il campo libero ai poteri forti che poi altro non sono che i poteri globali economici e finanziari. Direi anzi che la decostruzione della città è cominciata ben prima dell’auspicio di Derrida proprio con l’emergere del potere economico come l’unico in grado di dettare legge, cui si è affiancato, per un certo periodo del secolo scorso, il potere politico delle grandi ideologie totalitarie, con una concezione urbanistica sostanzialmente de-costruttiva che ha trovato diffusione anche nelle società democratiche, dove i rapporti di forza sono determinati da molti fattori, tra cui l’egemonia culturale è uno dei fondamentali.
Dunque esiste una stretta relazione tra città, urbanistica e politica: è noto e superfluo ripetere che politica vuol dire amministrazione della città cioè urbanistica. Derrida ha drammaticamente visto giusto: distruggere la città vuol dire fare esplodere ogni relazione sociale e di civile convivenza, vuol dire minare alla radice l’ambiente entro cui si svolgono i rapporti tra gli uomini e dunque fare saltare la società e la politica.
Se questo è vero, il problema della forma della città non è una variabile indipendente dalla forma politica della società e soprattutto dal tipo di relazioni umane e sociali che si possono instaurare in un modello di città piuttosto che in un altro. Ovviamente non mi illudo che una città con regole costruttive fortemente strutturate e condivise sia necessariamente democratica, però pone certamente le condizioni ambientali perché lo sia, non fosse’altro per il fatto di dare vita a spazi urbani che permettono di intessere relazioni sociali tra gli individui e tra i gruppi invece di creare un deserto affollato di oggetti chiamati edifici.
Il modello urbano che ha decostruito la città è quello che ha cancellato la strada dal suo orizzonte, abbassandola al livello funzionale di supporto alla mobilità, ha parcellizzato la città in aree a funzioni specializzate, creando quartieri esclusivamente residenziali e quartieri esclusivamente produttivi o commerciali, ha tolto le persone dalle strade (che non esistono più) rinchiudendole nei luoghi di lavoro o a casa o in edifici specializzati per il tempo libero, che poi altro non sono che luoghi del consumo, mandandole a correre in tuta nelle specializzate aree verdi o nelle palestre; ha fatto degli edifici oggetti di brutto design sparsi in mezzo ai lotti, staccati gli uni dagli altri, eliminando così, di fatto, ogni luogo e possibilità di relazione sociale. Questa è la città delle “regole” urbanistiche attuali in cui si decanta la libertà individuale ma che in realtà non lascia nessun grado di scelta tra alternative diverse. La vita della città funziona come in un’autostrada: la corsia per viaggiare, la stazione di servizio per il rifornimento, l’autogrill per mangiare e comprare, il casello per pagare.
Questa urbanistica è l’espressione di uno Stato-padrone che tutto vuole regolare mediante un’imponente macchina burocratica cui non deve sfuggire niente, dallo spostamento di un tramezzo di casa all’apertura di una porta interna, che considera i cittadini come nemici pronti all’abuso e all’aggiramento della legge. Si assiste cioè all’apparente paradosso che da una parte si de-costruisce la città e la società e dall’altra si impone un controllo sociale attraverso il controllo edilizio. In una situazione come questa la possibilità di sfuggire a questa camicia di forza con un diritto una tantum di ampliare la propria casa di una misera ma spesso indispensabile stanza, a me sembra una ventata, per quanto effimera, di libertà.
Viceversa una città con regole tipologiche e morfologiche forti simili a quella della città storica non teme affatto una crescita naturale e continua, in base ai bisogni, degli edifici, come Vincenzo credo sappia. Non c’è scempio urbanistico nel fenomeno dell’intasamento dei lotti, anzi c’è proprio la naturale forma evolutiva della città.
Per questo non vedo nessuna contraddizione tra le regole evolutive della città e l’ampliamento in base ai bisogni della propria casa.
Io sono convinto che l’urbanistica e l’architettura tradizionale, che si realizza con regole che non sono di tipo sociale ma di riproposizione critica di quelle spontanee mutuate dalla città storica, consenta gradi di libertà maggiore ai cittadini perché il tessuto urbano che ne risulta è di tipo organico e non funzionale e/o burocratico e astratto, e può crescere in base ai bisogni.
Ciò che è superfetazione nel modello di città (cioè periferia) contemporanea e nell’architettura della geometria astratta diventa crescita naturale nel modello di città e di edilizia tradizionale.
NB: Foto tratte da Google Earth
11 luglio 2009
REGOLE E DE-REGULATION
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10 commenti:
Pietro,
questo post denota la tua mancanza di grammatica architettonica per interpretare l’architettura dei nostri giorni.
I libri vanno letti e non sfogliati, pena la scrittura di post ‘ingenui’ come questo.
Un suggerimento di lettura: Bayard Pierre, Come parlare di un libro senza averlo mai letto, Exclesior 1881, 2007.
Ti può servire per costruire meglio i commenti critici basati sulle non letture, che con orgoglio sbandieri.
Io credo che non conosci il significato del termine decostruttivismo, poiché confondi lo sprawl urbano con l’urbanistica.
Ovvio come per Mister B., l’urbanistica di derivazione progressista è la peggiore, il male di tutti i mali.
Bob Geldof: «Signor presidente, vado subito alla sostanza. Lei è lo statista di più lungo corso del G8. Nel 2001, a Genova, avete creato il Fondo Globale per l’Hiv/Aids, rendendo disponibile una terapia salva vita gratuita per 3 milioni di persone in Africa. Quindi ha partecipato al vertice di Gleneagles, dove vi eravate impegnati ad investire in aiuti lo 0,51% del Prodotto Interno Lordo entro il 2010, e lo 0,7% entro il 2015: l’Italia, al momento, ha mantenuto solo il 3% di questa promessa. Dalle speranze di Genova siamo passati alla delusione di Gleneagles: non sente il peso di questa responsabilità?»
Silvio Berlusconi: «Lei ha ragione, c’è un ritardo nei pagamenti. Noi, però, siamo stati via dal governo per due anni e mezzo. Quando siamo tornati, abbiamo trovato un debito del 110% rispetto al Pil. Ora, a causa della crisi economica, questo debito è salito al 120% e l’Unione Europea non ci permette di restare a questi livelli. Nel fare la legge finanziaria, il Parlamento ha deciso di limitare le spese. Ci è dispiaciuto ridurre anche gli aiuti all’Africa, e su questo abbiamo aperto un dibattito. Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti si è impegnato a tornare in linea con i nostri impegni entro tre anni».
Link: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/africa/200907articoli/45230girata.asp
Concordo due anni e mezzo devastanti.
«Si assiste cioè all’apparente paradosso che da una parte si de-costruisce la città e la società e dall’altra si impone un controllo sociale attraverso il controllo edilizio.»
Vorrei capire che intendi per de-costruire la città.
Questo tuo articolo mi sembra un po’ forzato. È un tentativo maldestro di coniugare il ‘Piano casa’ (coatta immissione di cemento a spese della collettività, si preleva dai risparmi, l’unica fonte preziosa di questi tempi) con l’urbanistica tradizionale.
Inoltre, la definizione di periferia come superfetazione delle città, dimostra l’ennesima tua scarsa sensibilità nei confronti dei temi della città. Una generalizzazione senza senso.
L’urbanistica in Italia non è stata solamente vittima dell’idea progressista della città si sono discusse e realizzate anche città (parafrasando Francoise Choay) culturaliste, rare città naturaliste o tecnotopiche e qualche tentativo di antropopoli. Senza dimenticare le città mafiose o le edificazioni abusive mafia diffusa (consideriamo nord e sud, la mafia non ha confini). La mafia va intesa come concetto, l’uso di sistemi prevaricativi per realizzare i propri interessi.
Il tuo riduzionismo sminuisce la ricchezza del nostro patrimonio urbano, in Italia ogni città potrebbe essere un modello da imitare o da evitare.
Su una cosa sono d’accordo con te occorre densificare e non frastagliare.
Saluti,
Salvatore D’Agostino
Sono daccordo con Salvatore e penso anche lastragrande maggioranza degli architetti che non siano così ottusi e ideologizzati da non vedere i veri problemi. La densificazione, la riqualificazione e la rivitalizzazione delle tante aree dismesse e problematiche delle nostre città sono tutti ideali da perseguire contro la speculazione edilizia, l'urbanizzazione selvaggia e l'abusivismo che è oggi divenuta pratica molto diffusa, purtroppo, nel nostro paese.
L'aspetto architettonico conta poco se manca prima una strategia urbanistica seria e concreta, ma soprattutto lungimirante e, per dirla con termini di moda, eco-sostenibile.
Chi va a comprare un'automobile sarà anche interessato al colore, al tipo di impianto stereo che monta oppure alle rifiniture, ma molto di più alla sicurezza del veicolo, alle dotazioni che ne migliorano la tenuta di strada, la guidabilità, i consumi e il rendimento, a tutto ciò che rende il mezzo uno strumento sicuro e affidabile, dato che questo influisce MOLTO sulla qualità della vita delle persone. Se poi non ha l'aspetto di una vecchia Topolino perchè oggi il design ha un'altra forma ... beh può piacere o non piacere ma si passa tranquillamente sopra. Conosco diversi cultori di auto d'epoca ma non le userebbero mai per viaggi lunghi, magari con la famiglia, per i costi, i consumi, i rischi di inaffidabilità, di tenuta di strada e di mancanza di dispositivi di sicurezza a cui siamo abituati oggi e, non da ultimo, per comfort. Certo, fanno raduni e magari anche gare storiche (tipo Millemiglia) ma sono sempre seguiti e controllati da uno staff tecnico pronto a intervenire in caso di guasti e a soccorrere in caso di avarie (che viaggia in genere su auto contemporanee). Viaggiare da soli con quelle automobili è un bel rischio.
Master, puntare l’indice contro la “speculazione” serve a molto poco e risulta alla fine fuorviante. E’ circa 50 anni che c’è il lamento sulla speculazione con risultati zero ed è diventata una litania che, tra l’altro, coinvolge nel fango tutto il sistema produttivo edilizio. Ma soprattutto sposta il problema ad altri soggetti che sono i politici e non gli architetti.
Noi dobbiamo guardare in casa nostra e il problema è la mancanza di una disciplina seria, anche grazie al fatto che gli architetti si impossessano di tutto fuorchè della propria disciplina e divagano su sociologia, politica, speculazione e quant’altro. Invece vorrei fare presente che dietro ogni “speculazione” come la chiami te, ma anche dietro i piani di zona, le lottizzazioni e, soprattutto i Piani Regolatori c’è un architetto che ha disegnato, o meglio, descritto un piano, con numeri, tabelle, dati, facendo zonizzazioni, eliminando la strada. Quando l’architetto ha disegnato ha creato la nuova città. Come puoi non immaginare che la responsabilità non sia della cultura degli architetti.
La soluzione politica va cercata in altre sedi, noi dobbiamo trovare la soluzione disciplinare; che non vuole dire fare finta che la politica non esista, ma vuole dire disinteressarsi della politica politicata quotidianamente ma prima dobbiamo chiarirsi noi le idee. Che cosa proponi alla politica? La sostenibilità? La sostenibilità è già entrata nella politica ma non è un disegno di città è un concetto larghissimo, e abusato, dietro cui c’è tutto e il suo contrario.
Parlare di speculazione vuol dire sfuggire ai problemi, nascondersi dietro ad un dito, gridare al vento, fare qualunquismo. Le soluzioni dobbiamo trovare, altrimenti non siamo architetti.
Saluti
Pietro
Infatti nel mio Blog cerco di proporre soluzioni concrete.
Pietro, copio un brano che mi sembra pertinente (forse anche ad altri post del blog), a firma di Stefano Boeri (agosto 2003), punto di vista insolito ed originale sul fenomeno periferia:
"- Pregiudizi di periferia -
(...) La retorica del "delitto in periferia" ha addirittura messo in secondo piano alcuni caratteri precipui del luogo della tragedia, come la fortissima omogeneità socio-culturale che caratterizza i suoi abitanti. Casermoni rimasti sotto il controllo delle solide reti parentali nate con l’immigrazione degli anni 60 e 70. Strade e ballatoi restati impermeabili agli altri stili di vita che hanno invece contaminato nell’ultimo decennio molte zone dell’edilizia economica milanese (...). A essere "periferici" sono infatti oggi soprattutto i luoghi dell’omologazione, quelli dove ci si conosce e ci si assomiglia, dove si vive in una sorta d’incestuosa "cattività", culturale o etnica. Quando invece divengono luoghi misti e polivalenti, le grandi macchine dell’abitare cambiano natura. Restano spazi difficili, dove però il conflitto tra stili di vita diversi, il controllo reciproco, pur generando traumi e rischi, aiutano a volte a creare delle relazioni comunitarie; reti di vicinato, magari contrapposte, che agiscono però da antidoto alla follia solitaria. Invece che predicarne la demolizione (come sem-
brano suggerire alcuni urbanisti "pentiti"), bisognerebbe abolire le norme che vietano in questi blocchi rigidi la commistione di attività e incentivarvi la coabitazione di popolazioni diverse. Trasformare questi "dinosauri di cemento" in laboratori di convivenza. Ma tutto questo richiederebbe un grande coraggio e una conoscenza diretta, precisa dei luoghi. Richiederebbe soprattutto di usare la cronaca come indizio per capire la verità locale; non come una sua comoda spiegazione."
Vilma
Vilma, avevo letto questo brano di Boeri, o almeno uno simile, perché ricordo appunto il fatto della commistione di attività e di popoli diversi. Sul primo punto credo si possa riconoscere il fatto che sia quasi una mia fissa detta e ripetuta all’infinito. Sulla seconda, cioè sul fenomeno immigrazione e sulla commistione di popoli diversi non credo di averne mai parlato. Forse perché, vivendo in una città di provincia che pure ha un'alta percentuale di immigrati non esiste ad oggi in maniera vistosa la divisone in ghetti etnici. In questo Arezzo, credo in maniera spontanea e senza alcuna particolare guida politica, è sempre stata “accogliente”. Oggi non esiste quartiere urbano o palazzo dove non si trovino famiglie immigrate: centro storico, quartieri ritenuti “di lusso”, immediata periferia, frazioni. Si va configurando, è vero, una zona a maggioranza islamica (identità religiosa, dunque, non etnica) indotta probabilmente dalla presenza di una moschea, ma è immediatamente a ridosso del centro e c’è ancora una grande presenza di autoctoni e ad oggi non c’è nessuna particolare tensione. Ma non si può essere idilliaci, il problema esiste e prima o poi ovunque esplode. Resto dell’avviso che dal punto di vista urbanistico la commistione e l'integrazione in tutto l'ambito urbano è l’unica scelta possibile ma vi sono comunità, come quella cinese, che non è detto che l’accettino, vedi Prato. D'altronde l'integrazione non è facilmente governabile, ma è facilissimo invece impedirla commettendo l'errore di costruire o destinare edifici solo agli immigrati. Ma il brano di Boeri dice altro oltre a questo: è un testo suggestivo con tratti molto ispirati ma, credo, anche un pò troppo idilliaco. Vorrei sapere, ad esempio, se il suo “bosco verticale” è progettato per la mixitè! Lo dico non per fare il moralista ma perché oggettivamente può essere problematica la convivenza tra usanze diverse: basti pensare ai cibi diversi e agli odori che questi emanano ai piani di sopra e a cui non siamo abituati. Lo so, ai palati fini, multietnici a parole, sembrerà superficiale questa degli odori ma spesso i problemi nascono da piccole cose, non da chissà quali pregiudizi; un po’ come nelle liti condominiali. Per il resto non ho mai avuto la pretesa di fare il sociologo. Può darsi sia vero che il delitto di periferia nasca negli ambienti omogenei, come è vero che molti delitti vengono perpetrati in famiglia, ma a questi problemi della società quale tipo di città può dare una risposta? Io non lo so, invece vedo che Boeri crede di saperlo, insinuando il fatto che le zone dei piani di edilizia economica e popolare siano luoghi della felicità! Anche lo Zen è contaminato da attività diverse nate in quelli che avrebbero dovuto essere i garage, ma non mi sembra che gli abitanti l’apprezzino molto e credo nessuno potrebbe apprezzarle. Può darsi che ciò dipenda anche dal degrado in cui lo Zen è lasciato da chi dovrebbe averne cura ma credo che in parte dipenda anche dal fatto che progetti rigidi di quel tipo non si prestano ad una trasformazione spontanea nel tempo senza mostrare i segni del degrado. Io credo che una città strutturata con strade, piazze e isolati, con progetti che non corrispondano ad una purezza geometrica astratta ma che consentano la crescita e la trasformazione, con una pluralità di funzioni e che perciò è vissuta tutto l’arco della giornata offra le condizioni, non la certezza, per favorire una vita sociale migliore e più civile. Vivere in parallelepipedi multipiano, tutti paralleli tra loro, senza una strada che non sia solo funzionale agli spostamenti automobilistici per andare al lavoro, ad accompagnare i figli a scuola, a fare shopping nei luoghi del consumo, non può che rinchiudere gli abitanti nelle loro case. E’ vero che se uno sta chiuso in casa non ha occasione di “scontri” con gli altri, ma nemmeno di incontri. Ciao Piero
Pietro,
sei mai stato allo ZEN?
«Io non lo so, invece vedo che Boeri crede di saperlo, insinuando il fatto che le zone dei piani di edilizia economica e popolare siano luoghi della felicità! Anche lo Zen è contaminato da attività diverse nate in quelli che avrebbero dovuto essere i garage, ma non mi sembra che gli abitanti l’apprezzino molto e credo nessuno potrebbe apprezzarle. Può darsi che ciò dipenda anche dal degrado in cui lo Zen è lasciato da chi dovrebbe averne cura ma credo che in parte dipenda anche dal fatto che progetti rigidi di quel tipo non si prestano ad una trasformazione spontanea nel tempo senza mostrare i segni del degrado.»
Queste mi sembrano parole in libertà.
Tu credi che Boeri s’identifichi in una città costruita solo in verticale?
Tu credi che Boeri sia di estrazione modernista (mera relazione funzionale degli edifici)?
Boeri è molto più vicino alle tue idee di edifici in mutazione (sociale/economica) e soprattutto non sopporta la città diffusa o funzionale.
Ti passo un blog per capire la ricerca di Boeri: http://multilab.wordpress.com/
Finalmente rispondi, indirettamente, ad alcune mie domande sulla città. Vedi Prato.
Una domanda ma il falso storico è conciliabile con l’idea di un work in progress, dettato dai cambiamenti funzionali?
Saluti,
Salvatore D’Agostino
P.S.:Ti consiglio di non usare il termine mixité da l’idea di una lettura arraffazzonata dei saggi di Antonio Saggio.
Al solito ti sono grato delle tue "lectio magistrali" senza le quali mi sentirei un pò più povero.
Mixitè lo usa Bauman, a meno che non lo abbia ripreso da Saggio.
Boeri lo conosco e alcune sue cose le condivo.
Lo Zen è quello che ho detto, ho visto servizi su servizi video.
Se uno dovesse parlare solo di cose che ha visto credo che ci sarebbe solo silenzio. Ma per fortuna sono lieto di informarti che esistono diverse forme di informazione.
L'ultima domanda è totalmente priva di senso e la definirei sgrammaticata.
Parafrasando Nanni Moretti ti dico: Salvatore, dì qualcosa di tuo!!!
saluti
Pietro
All'ultima domanda di Salvatore posso rispondere io: il falso storico non può adattarsi ai cambiamenti funzionali di una società in continua mutazione proprio perchè fissa forma e funzioni a un periodo storico passato, in cui le esigenze dei cittadini erano ovviamente diverse da quelle di oggi. Secondo me la cosa migliore che può afre un architetto è essere lungimirante e capire come la società può evolversi e quali aspetti dovranno essere rilevanti.
---> Master,
nel mio troll sgrammaticato commento con diversi errori, ponevo come mia consuetudine altri punti di vista.
Le considerazioni sullo ZEN ricalcano la triste abitudine degli architetti di criticare il risultato architettonico e non le cause del sistema. Osservando i soliti quattro esempi e non le migliaia di situazioni simili dall’architettura di stile vario e spesso anonimo.
Un difetto cronico, avvalorato dalla presunzione che l’architetto non è un sociologo ma un demiurgo che si può permettere di non fare anamnesi del tessuto sociale.
Per la tua risposta ti cito parte di un commento scritto oggi per il mio blog, che mi sembra pertinente:
«La riflessione di Leslie Sklair sull’architettura iconica e la loro transitorietà, come ‘non fenomeni’ ma realtà che vanno osservate, con acutezza, implica l’osservare come negl’ultimi anni,gli edifici sono mutati anno dopo anno in funzione dell’innesto delle nuove tecnologie, significa cominciare a porre le basi per capire ciò che occorre costruire o demolire nel futuro immediato. È un errore leggere l’architettura senza includere le superfetazioni che possiamo osservare camminando: parabole, condizionatori, telecamere, antifurti ma che domani, e intendo il prossimo sabato, possono essere diverse.
La tecnologia è vitale ma transitoria.
Qualcuno pensa che la tecnologia sia effimera, quasi invisibile ma è solo una personale cecità estetica.»
Saluti,
Salvatore D’Agostino
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