Pietro Pagliardini
Salvatore d’Agostino, autore del blog Wilfing Architecture, mi ha segnalato, in un suo commento, un articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica. Diamanti viene definito un “politologo” che sembra un’offesa ma lui è molto migliore del mestiere che gli hanno appiccicato.
L’articolo parla di edilizia e di città. Descrive la crescita esponenziale delle costruzioni eseguite in Italia negli ultimi anni ma il suo approccio al problema non è punitivo nei confronti di chi vuole costruire la casa per sé e per i propri figli, pur con tutte le complicazioni che questo costume italiano si porta dietro: un sostanziale immobilismo sociale, perché la proprietà della casa lega la persona al proprio territorio, e questo è un problema per i giovani e per il dinamismo della società nel suo complesso.
Diamanti prende atto di questo fatto senza le consuete supponenze e demonizzazioni del costume tutto italiano del possesso della casa che affonda le proprie radici nella cultura e nel modo di essere di un popolo, opposta a quella americana che, giovane di tradizione e nata dal pionierismo, è (o forse era) assai mobile e poco stanziale; non a caso è diffusa la residenza in case-mobili. Negli Stati Uniti è forte l’orgoglio di appartenere alla nazione americana, in Italia è immenso l’orgoglio di appartenere, in ordine decrescente, ad un quartiere, ad un paese, ad una città, ad una regione, ad una nazione. Ad esempio, nella mia città, Arezzo, c’è una forte propensione a comprare casa nel quartiere in cui si è nati e vissuti, a prescindere dalle qualità dello stesso.
Di questa crescita delle costruzioni in ogni parte del territorio Diamanti rileva invece la pessima qualità dei modelli di aggregazione e osserva, con grande acume, che la domanda sociale di edilizia non è la sola molla della richiesta:
“ Ma per ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono ricondurre alla "domanda sociale". All'evoluzione demografica, ai cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e l'organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del nostro territorio”.
Il politologo ribalta perciò il luogo comune che la brutta architettura è il prodotto di una brutta società e riconosce che è la grande e disordinata crescita immobiliare ad avere cambiato li modelli di vita delle persone, cioè il vero problema è il modo, più che la quantità, in cui questa crescita si è manifestata. In altre parole riconosce che l’ambiente costruito influenza gli stili di vita, le relazioni tra individui. E come si sono trasformate queste relazioni? Lo dice a fine articolo:
“Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po' esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. "Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita" e del "condominio Europa".
È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante”.
Un inciso linguistico: da notare l’espressione “varia metratura” usata per ironizzare sul gergo delle agenzie immobiliari e che dimostra quanto la cartellonistica pubblicitara immobiliare sia ormai diffusa e invasiva. Fine dell’inciso.
Diamanti non si sofferma troppo su questioni di economia, non fa moralismi tanto stucchevoli quanto inutili per trovare la soluzione al problema quantitativo ma si pone, in maniera lucida, il problema del disegno urbano e delle conseguenze che l’assoluta mancanza di questo ha sugli stili di vita degli individui e della società. Individua con precisione alcuni punti essenziali che caratterizzano la costruzione e i difetti delle nostre periferie, nutrite esclusivamente, se va bene, di quantità: il verde, la pista ciclabile, la piazza; è proprio quest’ultima, la piazza, la nuova parola d’ordine perchè viene considerata da amministratori, consiglieri di circoscrizione e, purtroppo, anche da molti architetti, al pari di un elemento costruttivo dotato di una propria individualità e di una assoluta autonomia da tutto il resto, al pari di una panchina, di un lampione, di una statua, completamente svincolato dalla trama delle strade e dai relativi fronti edilizi circostanti che invece sono proprio quelli che determinano non solo la forma della piazza ma anche la possibilità stessa che uno spiazzo diventi piazza.
La piazza è il risultato di una trama viaria specifica che, in determinate punti nodali crea una polarità, un punto di concentrazione di flussi e perciò di informazione.
Per fare un paragone con la rete e con il traffico aereo, la piazza è simile ad un hub, un luogo di incontro e di scambio particolarmente intenso e, come costruire un aereoporto grande è relativamente semplice (questione di denari), farlo diventare un hub richiede invece rotte, relazioni territoriali a livello continentale, interessi economici diffusi, flussi turistici: lo stesso vale per le piazze.
Diamanti l’ha capito benissimo, ha capito che le piazze sono quelle che conosciamo nei nostri centri storici, punto d’incontro di strade principali che conducono da un luogo all’altro e non dal poco al niente, devono essere racchiuse da fronti continui di edifici e, generalmente, comprendono edifici (o come dice Marco Romano) temi collettivi che una volta erano prevalentemente pubblici ma che nulla vieta siano privati basta assolvano ad un interesse generale. Una piazza non si "fa", nasce o da un processo storico o da un progetto complesso, certamente non da una pavimentazione di un luogo qualsiasi e dall'apposizione di una targa con il nome del politico defunto di moda al momento.
Nell’immaginario collettivo la piazza è un luogo popolato di cittadini che intessono relazioni sociali, è un luogo mitico che ricorda l’antica Agorà: in realtà, come osserva giustamente l’architetto Danilo Grifoni, attento osservatore e studioso della città, solo in rare occasioni questo avviene, mentre nella stragrande maggioranza del tempo le persone si collocano ai bordi della piazza, vicino agli edifici, laddove ci sono generalmente le strade che creano la piazza, segno della precedenza temporale e gerarchica delle strade sulle piazze, le quali dall’incontro di quelle hanno origine. Raro vedere nelle piazze storiche il centro di esse occupate da elementi d’arredo, come è d’uso attualmente, a parte le piazze ottocentesche che hanno più il carattere di giardini.
Quali conclusioni trarre dalle considerazioni di Diamanti? Vittorio Gregotti ha commentato su Repubblica questo articolo e ne ha tratto le conclusioni che:
“L'insensato consumo del bene finito dei suoli, che quando sono rimasti liberi divengono solo resti in attesa di occupazione, è anche degli altissimi costi di infrastrutturazione a causa dei contraddittori indirizzi delle amministrazioni territoriali e della distruzione per inglobamento di quella straordinaria ricchezza (specie nel caso della tradizione europea), che è la fittezza dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana, saggiamente distanziati e che proprio le tecniche delle comunicazioni immateriali potrebbero rendere altamente produttivi nella rete delle loro singolarità.”
Un linguaggio come al solito involuto ma anche, a mio avviso un po’ sfuggente: è vero che Gregotti parla della “straordinaria ricchezza…. dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana” con ciò facendo una scelta di campo chiara ma, nella lettura di tutto l’articolo si coglie una diluizione di questo concetto in mezzo a molti altri quali la responsabilità della politica, la concertazione, ecc.
Io credo che per imboccare la giusta direzione sia necessario affermare il principio della centralità, almeno per gli architetti, del disegno urbano, della sua utilità nel progettare spazi che, se ben fatti, possono influenzare positivamente le relazioni tra individui, senza per questo avere nessuna pretesa di risolvere problematiche sociali che spettano ad altri soggetti, senza entrare in questioni procedurali e burocratiche che fuorviano e fanno il gioco di politici e funzionari.
Può sembrare un’affermazione scontata ma il fatto è che nei piani urbanistici il disegno è trascurato o assente del tutto a vantaggio di analisi, stime, uso del suolo, valutazioni integrate, coperture GIS, norme, vincoli, procedure, nell’attesa che il disegno possa nascere meccanicisticamente per “sottrazione”, una volta stabilito ciò che “non si può fare”. Il fondamento principale, ed anche unico, dell'urbanistica è diventata l'analisi mentre la sintesi è quasi completamente abbandonata.
Insomma il progetto della città, disegnato, va riportato al centro della pratica e della teoria degli architetti, tralasciando o mettendo in secondo piano questioni diverse, non deviare dal tema principale cercando di sminuirne la portata a vantaggio di altri: la speculazione, la rendita fondiaria, l’incapacità della politica, le responsabilità sociali dell’architetto, ecc., tutti temi vitali ma che, quand’anche fossero risolti (e dubito che gli architetti ne siano capaci) e mancasse il disegno, (e di questo gli architetti dovrebbero essere capaci) e tutto fosse lasciato al caso o al caos o alle mani di coloro i quali credono che la società sia “fluida” e l’organizzazione territoriale debba essere parimenti fluida, lascerebbe la situazione tal quale a quella descritta da Diamanti.
Con la differenza che avremmo una società regolata ma città brutte come quelle di adesso e individui ugualmente “apolidi”, cioè privi di cittadinanza perché privi di città.
Poi vi è il problema di quale sia il disegno giusto e su questo dobbiamo discutere, questa è la "mission" dell’architetto, per dirla con parole alla moda, la disciplina urbanistica, per dirla in italiano.
10 settembre 2008
ILVO DIAMANTI: GLI APOLIDI ABITANTI DELLA PERIFERIA
Etichette:
Diamanti,
Disegno urbano,
Gregotti,
Grifoni,
Marco Romano
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Etichette
Alemanno
Alexander
Andrés Duany
Angelo Crespi
Anti-architettura
antico
appartenenza
Ara Pacis
Archistar
Architettura sacra
architettura vernacolare
Archiwatch
arezzo
Asor Rosa
Augé
Aulenti
Autosomiglianza
Avanguardia
Barocco
Bauhaus
Bauman
Bellezza
Benevolo
Betksy
Biennale
Bilbao
bio-architettura
Bontempi
Borromini
Botta
Brunelleschi
Bruno Zevi
Cacciari
Calatrava
Calthorpe
Caniggia
Carta di Atene
Centro storico
cervellati
Cesare Brandi
Christopher Alexander
CIAM
Cina
Ciro Lomonte
Città
Città ideale
città-giardino
CityLife
civitas
concorsi
concorsi architettura
contemporaneità
cultura del progetto
cupola
David Fisher
densificazione
Deridda
Diamanti
Disegno urbano
Dubai
E.M. Mazzola
Eisenmann
EUR
Expo2015
falso storico
Frattali
Fuksas
Galli della Loggia
Gehry
Genius Loci
Gerusalemme
Giovannoni
globalizzazione
grattacielo
Gregotti
Grifoni
Gropius
Guggenheim
Hans Hollein
Hassan Fathy
Herzog
Howard
identità
Il Covile
Isozaki
J.Jacobs
Jean Nouvel
Koolhaas
L.B.Alberti
L'Aquila
La Cecla
Langone
Le Corbusier
Leon krier
Léon Krier
leonardo
Leonardo Ricci
Les Halles
levatrice
Libeskind
Los
Maffei
Mancuso
Marco Romano
Meier
Milano
Modernismo
modernità
moderno
Movimento Moderno
Muratore
Muratori
Musica
MVRDV
Natalini
naturale
New towns
New Urbanism
New York
New York Times
new-town
Nikos Salìngaros
Norman Foster
Novoli
Ouroussoff
paesaggio
Pagano
Palladio
Paolo Marconi
PEEP
periferie
Petruccioli
Piacentini
Picasso
Pincio
Pittura
Platone
Popper
Portoghesi
Poundbury
Prestinenza Puglisi
Principe Carlo
Purini
Quinlan Terry
Referendum
Renzo Piano
restauro
Ricciotti
riconoscibilità
rinascimento
risorse
Robert Adam
Rogers
Ruskin
S.Giedion
Sagrada Familia
Salingaros
Salìngaros
Salzano
Sangallo
Sant'Elia
scienza
Scruton
Severino
sgarbi
sostenibilità
sprawl
Star system
Stefano Boeri
steil
Strade
Tagliaventi
Tentori
Terragni
Tom Wolfe
toscana
Tradizione
Umberto Eco
università
Valadier
Valle
Verdelli
Vilma Torselli
Viollet le Duc
Vitruvio
Wrigth
Zaha Hadid
zonizzazione
12 commenti:
Toh, lo vede che alla fine un punto di equilibrio lo troviamo? Condivido parola per parola tutto questo post, ci ho fatto pure la tesi di laurea (anzi, se ha tempo la guardi e mi dica cosa ne pensa, è interamente pubblicata sul mio blog).
A presto
Davide
Pietro,
mi fa piacere aver stimolato il POST/dialogo.
Dell'articolo di Diamanti mi avevano incuriosito le sue considerazioni sulla società che vive nel pieno di un paradosso movimento/statico: "È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante."
Invece mi colpiscono le tue considerazioni: "Per fare un paragone con la rete e con il traffico aereo, la piazza è simile ad un hub, un luogo di incontro e di scambio particolarmente intenso e, come costruire un aereoporto grande è relativamente semplice (questione di denari), farlo diventare un hub richiede invece rotte, relazioni territoriali a livello continentale, interessi economici diffusi, flussi turistici: lo stesso vale per le piazze".
Non ti sembra un ragionamento da sociologo 'fluido' alla Zygmunt Bauman?
Pietro è un caso o caos? o cosa?
Saluti
° WA<--->SD
Il percorso indicato da Diamanti potrebbe essere letto in maniera circolare, dall’inizio alla fine o dalla fine all’inizio, nel senso che potrebbe essere, come lui sostiene, la ‘buona’ architettura ad indirizzare “cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della vita delle persone”, ma potrebbe anche essere vero che siano un nuovo assetto sociale e nuovi modelli di aggregazione a condizionare la struttura dell’ambiente architettonico-urbanistico (personalmente propendo per la seconda ipotesi).
Se bastasse, infatti, mettere in atto “politiche finalizzate a costruire relazioni sociali” per determinare collettività coese ed interelazionate, non sarebbero stati clamorosi fallimenti le new towns, le villes nouvelles, il villaggio della Martella ecc.
Quando poi tu, Pietro, parli delle piazze di nuova progettazione, casualmente collocata tra piste ciclabili e verdi asfittici e dici che “le piazze sono quelle che conosciamo nei nostri centri storici, punto d’incontro di strade principali che conducono da un luogo all’altro e non dal poco al niente [………..] Una piazza non si "fa", nasce o da un processo storico o da un progetto complesso, certamente non da una pavimentazione di un luogo qualsiasi e dall'apposizione di una targa con il nome del politico defunto di moda al momento.” dici una cosa talmente acclarata da essere ovvia, ma allora che si fa? Non facciamo la piazza? Non la facciamo ‘finta’ ma ricicliamo quelle ‘vere’ dei nostri centri storici? Hai visto mai la piazza davanti a Santa Maria Novella a Firenze, riconvertita in bivacco per badanti filippine? O la parte destra di piazza del Duomo a Milano, luogo di raccolta di lavoratori coreani nonché dei loro rifiuti (cartacce, bottiglie di plastica, resti di panini)? O i piccoli slarghi all’incrocio dei caruggi del quartiere di Pré, a Genova, dove sostano stabilmente magrebini di dubbi mestieri e dai quali i genovesi passano alla larga? Certo, una piazza non si fa, nasce spontaneamente dove serve, ma questo processo è possibile nell’ambito di comunità fortemente identitarie, per le quali la piazza è strumento di incentivazione e mediazione della genesi di aggregazione comunitaria, con ruolo attivo nelle dinamiche culturali e sociali perché collocata in un luogo del quale preserva la specificità ed il significato conferitogli dalla gente che lo frequenta, i contenuti simbolici o psicologici.
Alla luce di ciò e della tipologia ‘antropologica’ dell’odierna società la piazza è, come tante altre, un’invenzione urbanistica obsoleta e come tale va riconsiderata. E’ un po’ come scannarsi per impedire l’estinzione delle speci a rischio, accidenti, se si sono estinti i disosauri perché non dovrebbero estinguersi le tartarughe giganti delle Galapagos o l’orso marsicano? Che c’è di strano, o di male, non è attraverso questo tipo di catastrofi che l’evoluzione va avanti?
Salvatore D’Agostino riporta un altro stralcio dell’articolo di Diamanti che scatta un’efficace istantanea delle nuove casalinghe di Voghera: ebbene, leggendolo non ci dovrebbe sfiorare il dubbio che se la società di oggi è quella descritta, e sembrerebbe proprio di sì, sia perfettamente in grado di scegliere ciò che vuole (così come abbiamo fatto noi in passato costruendo le nostre belle piazze), e cioè guardare la televisione, telefonare con il cellulare, frequentare i centri commerciali, fregarsene dell’estinzione delle tartarughe e delle piazze?
Tornando al punto, non ti sembra estremamente presuntuoso ed utopistico pensare che siano gli architetti in grado di creare ‘cittadini’ per il solo fatto di essere in grado di progettare città? Buone per chi? Se vale il concetto dello ‘spontaneismo urbanistico’ e la città è il prodotto dei cittadini, dei loro usi e costumi, della loro memoria storica, della loro struttura sociale (e non il contrario, altrimenti sarebbe molto semplice risolvere tutti i mali), lo dobbiamo accettare sia per il passato che per il presente, non verrà più fuori una Siena, o un’Arezzo, o una Todi, verrà fuori ciò che i nostri tempi si meritano.
La rivincita dei non-luoghi, l’affermarsi di un’architettura da tempo libero per non-persone con tempo da perdere non si verificherebbe se i loro frequentatori non fossero stati educati da cattivi maestri a cattivi esempi, non fossero stati macdonaldizzati da annose opere di colonizzazione mediatica, non fossero stati inquinati da integrazioni selvagge e senza mediazione con culture sconosciute ed ignorate, ma è un po’ come dire che se mia nonna avesse le ruote sarebbe un tramvai: se la società fosse diversa lo sarebbero anche le città.
Saluti
Vilma
Mi viene un dubbio: mi sono forse "imborghesito"? Voglio dire, mi fa piacere di trovare qualcuno con cui essere d'accordo, ma cos'ha questo post di concettualmente diverso dagli altri? L'unica differenza che trovo è che non parlo di Archistar ma qui l'argomento non lo richiedeva.
Forse è la conclusione, ecumenica e dialogante? Io ho sempre detto e pensato che il vero problema della città non è l'architettura ma l'urbanistica, ma è chiaro che il mio modello è la città tradizionale. Sempre per rimanere nell'ecumenismo, penso effettivamente che l'architettura ha il potere di dividere perchè le differenze sono macroscopiche.
Quanto alla tua tesi io l'avevo già vista e la riguarderò con maggiore attenzione ma non è che da Internet si legga molto bene.
La forma, cioè la grafica, è decisamente curata.
Saluti
Pietro
Meno male che c'è Vilma a mettermi i bastoni tra le ruote....
Vado per ordine:
a Salvatore: se ho parlato da sociologo non mi resta che chiudere il blog e darmi alle parole crociate. Ma la colpa è la mia che non mi sono spiegato bene. Quella dell'hub è una semplice metafora o meglio una similitudine per dire che la piazza è uno spazio assolutamente speciale che può nascere solo in determinate ma precise circostanze, determinate dall'incontro di strade principali. Non ho utilizzato, sia per non esserne del tutto padrone, sia perché è molto poco divulgativo, il linguaggio e la terminologia dei muratoriani, ma quello volevo dire. Mi sembrava che la proporzione hub:aereoporto=piazza:spiazzo fosse più comprensibile, invece non è stato così.
Comunque ti ringrazio della segnalazione dell'articolo che io ho faziosamente, ma non troppo, forzato nelle parti che più mi interessavano.
a Vilma: è verissimo che l'articolo di Diamanti può essere letto bidirezionalmente ma proprio per questo io ho scelto una direzione.
Lo so che tu sai che una piazza non nasce da quattro panchine in un luogo qualsiasi e credo lo sappiano anche le casalinghe di Voghera che non si fanno infinocchiare facilmente e se uno dice piazza loro pensano alla piazza del Duomo, ma, su questo mi devi dare fiducia, non lo sanno affatto sindaci, assessori e molti architetti, se è vero che la maggior parte dei concorsi, che non siano per edifici, richiedono una piazza. Mi divertirò, se riuscirò a trovare materiale sufficiente in Internet, a fare un post per immagini di progetti di piazze e vedrai se ho ragione. Se lo volesse fare qualcun altro mi risparmierebbe la fatica.
Io non penso che la società possa essere cambiata da un progetto però penso anche che gli architetti, in quanto architetti e basta, abbiano il dovere di fare buoni progetti che non contribuiscono a rendere peggiore la vita delle persone. chi ha progettato le banlieu ha peggiorato parecchio la vita di chi vi abita (caso estremo). Se le banlieu fossero state migliori forse ci sarebbe stata ugualmente rivolta ma almeno la coscienza di architetti e amministratori sarebbe stata più apposto.
L'ho già scritto non ricordo dove, ma lo ridico: è difficile che i genitori possano migliorare i propri figli ma è facilissimo peggiorarli. Ulteriore conferma che io ragiono come le nostre mitiche casalinghe di Voghera.
Il mio post, evidentemente non riuscito bene, voleva solo dire che è il disegno urbano lo strumento di cui disponiamo per evitare quei fenomeni deprecabili di cui scrive Diamanti.
Osservazione alla Catalano: tra 1.000.000 di mc progettati male e lo stesso 1.000.000 progettato bene è preferibile la seconda scelta.
Quando scrivo che una piazza nasce da un progetto complesso voglio dire che chi fa piani deve conoscere le REGOLE per farli e se, come ad alcuni sembra ancora opportuno, la richiesta è quella di avere un centro in un nuovo quartiere, cioè una piazza, che magari non sarà un'agorà però può contribuire a dare identità ad un luogo e ai suoi abitanti, bisogna che tutta la rete stradale sia disegnata perché quel luogo ne assuma tutte le caratteristiche.
La teoria per farlo c'è, basta studiare Caniggia, Maffei, Cataldi, ed altri. La sua applicazione è molto più difficile perché influenzata da una pluralità di altri fattori non controllabili dall'architetto.
Poi non saprei dire se una nuova, vera piazza possa essere in grado di essere più appetibile di un Outlet o di un MacDonald ma certo che se non la facciamo non lo sapremo mai.
Saluti
Piero
è difficile proporre esempi "buoni", ma se cercate un esempio "cattivo" di piazza concepita e fatta male, vi invito tutti a Castel Maggiore, 5 km a nord di Bologna.
Abbiamo il record mondiale di piazza negativa.
Da quattro lati, strade si dirigono verso di essa....ma non solo nessuna la attraversa. Addirittura, nessuna strada arriva nella piazza; da qualsiasi direzione si arrivi, si è costretti a fare dietro front. A parte qualche fortunato che puà occupare i pochi striminziti posti-auto.
Mi si dirà: ma la gente deve smetterla di andare in auto !
E infatti il genio urnanistico locale ha predisposto le famose rastrelliere dove prendere in uso la bici gratuitamente.
Con estremo acume, le rastrelliere sono appunto in piazza, e il regolamento prescrive che il mezzo prelevato e utiliozzato deve essere ri-sonsegnato nello stesso posto ove è stato preso. La comodità e la convenienza è assicurata.
Per usufruirne, io dovrei partire da casa in macchina, fare 6 chilometri e arrivare in piazza, parcheggiare (se trovo posto), girare i negozi della piazza in bici (280 metri di perimetro), e riporre la bici !!!
A Londra a Barcellona a Zurigo hanno fatto qualcosa di simile, ma (forse per sbaglio) permettono di riconsegnare le bici nel posto di arrivo. Che strani questi barcellonesi....
Dimenticavo, i nostri amministratori, con estrema lungimiranza e un occhio particolari per i giovani, pretendono che alle 11 di sera le bici siano tutte ai loro posti. Altrimenti scatta la sanzione. Mi chiederete come fanno a comminarla? Non vi avevo detto che per accedere al servizio occorre regiostrarsi agli uffici comunali in acconcio orario ed essere dotati di chiave numerata e nominativa. Ottimo per i turisti che magari arrivano nei weekend per qualche sagra e vorrebbero vedere i dintorni.....
Mi sono divertito a fare una giratina su europaconcorsi e ho cercato "piazze".
Purtroppo c'è il copyright e non si possono utilizzare le immagini, ma di piazze non-piazze andate a concorso ce ne è un subisso.
E panchine, alberelli e dislivelli abbondano.
Provare per credere.
Pietro
E invece mi permetto di contraddirla, architetto Pagliardini. E' proprio per il fatto che non parla di archistar che troviamo un punto di accordo. Parliamo di cosa va bene e si deve fare, di aspetti concreti del progettare e del comprendere gli stili di vita e la società, magari senza per forza dare un rimedio precostituito ma capendo se ci sono gli estremi per rimettere in discussione e migliorare anche ciò che appare indiscutibile, e smettiamo di veder sempre tutto nero. No?
Non ho pubblicato solo le tavole della tesi, ma anche i testi tramite Adobe Player, non si legge mica? Fatemi sapere che controllo.
Saluti
Davide Cavinato
Davide, è esattamente quello che ho detto: parlare di Archistar divide, non ne ho parlato e ci troviamo più vicini.
Però non credere che non ne parlerò ancora perché io non è che devo trovare consensi per forza. Io parto da una posizione che ho dichiarato essere faziosa, cioè di parte, schierata. E'una volontà precisa questa perché, ad esempio, il commentare, l'entrare nel merito di questo o quel progetto, di questa o quella "novità" architettonica da rivista non mi diverte affatto, anche perché non esistono, il più delle volte, parametri condivisi di giudizio, e credo in realtà che non esista più una disciplina architettonica sorretta da una teoria che non sia quella di stupire. Insomma, l'oggetto architettonico buttato lì, avulso dal contesto, come un qualsiasi oggetto di design, il massimo di giudizio critico che può suscitare è: mi piace, non mi piace; troppo poco per opere che lasciano segni secolari. Se invece parlo di Archistar e dico che fanno una pessima architettura, spesso non la fanno proprio, ecco che quei pochi che la leggono hanno una reazione, qualunque essa sia.
Non mi importa niente di discutere di questo o quel progetto della Zaha Hadid: sono tutti uguali, fatti con un marchio, una griffe per una precisa e redditizia (beata lei) scelta d'immagine e commerciale. Meglio allora parlare dei casalinghi della Alessi.
In proposito ti allego il link ad un articolo di Andrea Branzi dal titolo "contro l'architettura" http://www.internimagazine.it/Dynamic/Publication,intCategoryID,9,intIssueID,306,intLangID,1.html.
Se lo dice perfino Branzi ....
Quanto alla tua tesi di laurea io non ho trovato niente di scritto ma può darsi che mi manchi qualche ...plug in (si chiamano così?).
Ultima cosa: puoi omettere "architetto" davanti al mio nome, altrimenti sarò costretto anch'io a utilizzarlo con tutti nei commenti e diventa una riunione di lavoro.
Saluti
Pietro
Pietro,
non ci sono dubbi sulle sue idee da ‘Arcitaliano’, nessuno vuole metterle in crisi, almeno io.
Interessanti le osservazioni di Vilma che analizza la sua soluzione architettonica ‘piazza’ dal punto di vista della nuova complessità sociale:« Certo, una piazza non si fa, nasce spontaneamente dove serve, ma questo processo è possibile nell’ambito di comunità fortemente identitarie, per le quali la piazza è strumento di incentivazione e mediazione della genesi di aggregazione comunitaria, con ruolo attivo nelle dinamiche culturali e sociali perché collocata in un luogo del quale preserva la specificità ed il significato conferitogli dalla gente che lo frequenta, i contenuti simbolici o psicologici».
A mio parere alcuni architetti del ‘centro storico’, hanno perso il contatto con la realtà, discutendo di archistar e lasciando costruire il tessuto più vivo e importante agli ameni archiPop-olari.
Questa cecità ha portato all’attuale devastazione del nostro patrimonio territoriale.
Dare soluzioni spesso obsolete o scontate senza processare la complessità della società attuale è un errore che un architetto non si può più permettere. Su questo tema bisognerebbe vedere la mostra del padiglione Italia curata da Francesco Garofalo alla Biennale d’Architettura di Venezia ---> http://www.archphoto.it/2008/04/07/francesco-garofalo-curatore-del-padiglione-italiano-alla-biennale-di-venezia/
Io non ho cultura musicale, ma ho amato Miles Davis, un autore talentuoso che sapeva rinnovarsi introducendo elementi minimi, ma sostanziali, ad ogni sua nuova composizione. Questo musicista non era apprezzato da un mio amico che ascoltandolo esclamava: «ma come puoi sentirlo sembra sempre uguale!» Io rimanevo basito e non capivo la sua esternazione.
Ho raccontato quest’aneddoto a proposito della sua chiosa sui progetti della Zaha Hadid, perché se ‘osserva’ non può non notare il progresso di stile, magari non condivisibile, ma indiscutibile dell’architetto ingloirachena, invece se ‘guarda’ ha ragione lei sono tutti uguali.
Saluti--->SD
N.B.: Avevo notato e fotocopiato l’articolo di Branzi appena mi era arrivata la rivista, ma non credo che sposa le sue tesi: « La responsabilità diretta degli architetti, in questo contesto di crisi epocale, sembra essere dunque limitata; ma in realtà anche loro hanno una buona dose di colpe, anche gravi. La prima di queste è sicuramente quella di aver abbassato (forse azzerato) la componente intellettuale del proprio lavoro, continuando a dibattere anche nel primo decennio del XXI secolo delle vecchie questioni compositive, infilando l’architettura in un imbuto autoreferenziale che non interessa nessuno, salvo gli addetti ai lavori. La seconda colpa – derivata dalla prima – consiste nell’avere abbandonato qualsiasi tipo di ‘ricerca’ che non sia quella di nuovi clienti. Così facendo, in nome di un duro realismo professionale, gran parte dell’architettura contemporanea non è in grado di gestire positivamente la propria crisi epistemologica come occasione per attivare processi di innovazione profonda. Così, gran parte dell’architettura ‘nuova’ nasce già ‘vecchia’, perché inadeguata rispetto alle grandi opportunità che le trasformazioni sociali e tecnologiche potrebbero offrirle. La società contemporanea avverte istintivamente tutto questo: avverte che dietro l’apparente innovazione c’è molta improvvisazione; che dietro le questioni ambientaliste, di cui molto si parla nelle nostre università, c’è carenza di idee; avverte che l’architettura è rimasta – fino a oggi – fuori dalle nuove tecnologie, estranea all’informatica, alle nuove economie sociali, alla globalizzazione delle idee. Un’architettura che ha “una grande difficoltà a integrarsi nel mondo contemporanea” – magari criticandolo – e preferisce, innamorata di se stessa, vivere la propria crisi come ultima testimonianza della propria grandezza perduta.»
Errata corrige:
...non ci sono dubbi sulle tue idee da ‘Arcitaliano’...
...la tua soluzione architettonica...
...dell’architetto anglo-irachena...
...hai ragione tu sono tutti uguali..
A presto--->SD
Arci-italiano: buona questa! Come Alberto Sordi. Non afferro bene il significato, di certo non è un complimento ma comunque ho capito che non è un'offesa.
Quanto ad Andrea Branzi...ci mancherebbe che la pensassimo esattamente allo stesso modo. L'ho conosciuto perché per diversi anni è stato un consulente del Comune di Arezzo per l'urbanistica.
E'un affabulatore, una persona di grande intelligenza che sa affrontare il tema urbano da molti punti di vista. Ascoltare un suo intervento è un piacere intellettuale perché sa fare ragionamenti spericolati in cui è capace di dimostrare che è vero tutto e il suo contrario.
Riesce a fare grandi sintesi sulla società estremamente fascinose è quasi più un sociologo, non noioso come solo i sociologi sanno esserlo, ma quando propone, a mio parere, perde un pò di consistenza. Proprio come accade in quell'articolo in cui sa riconoscere il problema dell'architettura come puro oggetto di design ma la proposta finale, quella che tu riporti, qualcuno me la spiegare? L'informatica, la globalizzazione (ma non è già troppo globalizzata l'architettura!). Diciamo che "non stringe".
Andrea sa dare grandi suggestioni e stimoli intellettuali ma il fascino si ferma lì.
Già, ma io sono Arci-italiano, dunque provinciale, che posso capire di queste cose?
Saluti
Piero
Posta un commento