Pietro Pagliardini
In un articolo su la Repubblica edizione di Firenze, l’architetto Antonio Godoli, direttore del Dipartimento Architettura degli Uffizi, presente all’incontro di Lèon Krier con la cittadinanza a Novoli, oltre a continuare nell’improponibile difesa d’ufficio (d’ufficio?) del Palazzo d’in-Giustizia di Leonardo Ricci, scrive, tra l’altro:
“Credo che l’errore del Comune fiorentino fu proprio quello di chiamare un unico progettista e di un preciso indirizzo architettonico a disegnare un pezzo di città, pensando così di risolvere automaticamente ogni problema, facendogli riproporre forma, dimensioni e tracciato uguali a quelli di un insediamento storico. Krier rappresenta quel pensiero che vuole il linguaggio dell’architettura moderna causa di ogni male, di ogni disagio, di qui il ritorno a canoni, principi del passato. E’ evidente il richiamo, il fascino dei centri storici ma essi sono prodotti da stratificazioni di eventi nei secoli, memoria del passaggio della vita, la ricostruzione artificiale della loro forma non riprodurrà mai la felicità di un tempo”. Conclude attribuendo a Krier stesso una parte della responsabilità per il disagio dei residenti. Non si capisce, in verità, come possa essere responsabile di un progetto non suo, nè l'articolo accenna ad una spiegazione, ma questo non è l'argomento del post.
L’architetto Godoli è un caso rappresentativo, e non mi riferisco alla persona ma al ruolo che egli svolge e all’istituzione che egli rappresenta ai massimi livelli, di uno strano sdoppiamento della personalità niente affatto infrequente nel mondo della tutela dei monumenti e del patrimonio storico in genere.
Una persona normale, anche un architetto normale, sarebbe portato ad immaginare che l’Istituzione che sovrintende al patrimonio storico dell’architettura dovrebbe nutrire un amore per determinate forme, per un certo tipo di architettura diciamo classica e che aspirasse a vedere riprodotta, almeno in parte, tale bellezza anche negli edifici e nella città nuova. Invece non è così. Diranno gli amici modernisti: ma è ovvio che non sia così, anche se sono restauratori (o conservatori?) vivono nel loro tempo e quindi desiderano l’architettura della modernità! Anzi, immagino che proseguirebbero, proprio per l’amore e il rispetto dell’arte e dell’architettura antica, desiderano, anzi auspicano ed esigono che non si faccia ad esse il verso creando “falsi” che, quand’anche fossero del tutto simili al vero, trarrebbero in inganno gli abitanti e gli osservatori, e sarebbero inoltre anacronistici e sbagliati perché non adatti alla società contemporanea. Forse direbbero anche altre cose, meno garbate, ma per certo queste non mancherebbero.
Tralasciando il luogo comune della non meglio identificata modernità, perché se io faccio un edificio oggi è moderno per definizione, anzi contemporaneo, ma questa semplice ed evidente verità è abbastanza dura da farla entrare in testa a molti, è interessante ricordare come il prof. Paolo Marconi spiega questo paradosso molto italiano nel suo libro “Il recupero della bellezza”. Egli lo fa risalire ad Arrigo Boito e alla trasposizione in architettura della deprecabile usanza del falso pittorico (venduto però come autentico). Ecco il distico di Boito sotto accusa: “far io devo così che ognun discerna/esser l’aggiunta un’opera moderna”.
Marconi avverte però che Boito si riferiva solamente al restauro archeologico ed era rivolto contro i falsari-duplicatori. A questo Marconi fa risalire la cultura modernista delle Soprintendenze, le quali seguono il principio della “conservazione” piuttosto che quella del restauro.
Ha sicuramente ragione, come avrà sicuramente ragione quando attribuisce anche a Cesari Brandi l’equivoco di aver assimilato le falsificazioni di oggetti d’arte finalizzate a frodi commerciali alle “repliche architettoniche a fini di conservazione dei monumenti, seguendo troppo pedestremente l’invettiva di Boito”.
Ma a me sembra vi sia anche dell’altro, più profondamente legato alla cultura architettonica del novecento. Per questo riporterò parte di un post scritto circa un anno fa:
"Parlare di falso vuol dire partire inevitabilmente dalle teorie estetiche e dalla teoria del restauro. L’origine del dibattito e le diverse posizioni sono riconducibili a Ruskin e Viollet le Duc, l’uno con la sua intransigente visione di non restaurare i monumenti e lasciarli decadere per farli tornare parte della natura da cui provengono, una concezione frutto di profonde e rispettabili convinzioni personali ma difficilmente praticabile; l’altro con l’introduzione del restauro stilistico che ammette, quando non vi è sicurezza dell’originale, l'aggiunta cercando di interpretare le intenzioni autentiche dell’autore o, addirittura, l'invenzione, cioè il massimo del “falso”.
Ma è la Carta di Atene che istituzionalizza il concetto di falso, stabilendo che laddove vi è la necessità di inserire nuovi elementi, questi dovranno essere chiaramente leggibili, per riconoscerne l’epoca e per non creare, appunto, falsi.
Questa è la teoria che ha dominato il XX secolo e il metodo di lavoro delle Soprintendenze, trasformandola però nel manuale del politically correct dell’architettura, perché, col trascorrere del tempo, questa è trasmigrata, per osmosi, dal restauro al progetto, con la conseguenza che “l’antico” è stato definitivamente fossilizzato e fissato all’epoca di appartenenza e, per analogia con la teoria del restauro, il nuovo si dovrà esprimere con le forme e con i materiali del proprio tempo; così si è determinata la paradossale situazione che tutto ciò che è antico è intoccabile ma, quando si deve intervenire accanto ad edifici antichi o dentro la città storica si ammetterà qualunque cosa, purché “moderna”.
E’ da qui che è nato il luogo comune e il pregiudizio di falso = zotico; invece io affermo che la falsificazione è una qualità fondamentale dell’architettura”.
Ecco mi pare che questo post si adatti benissimo a quanto l’architetto Godoli ha scritto e a quanto ha detto durante l’incontro.
Per inciso, l’architetto ha dichiarato, con un certo orgoglio, di aver partecipato alla commissione che ha selezionato il progetto di Arata Isozaki per gli Uffizi.
Sì, proprio la famosa pensilina-gazebo.
E' stato forse l'unico momento della serata in cui si è sentito un mormorio e un mugugno proveniente da gran parte del pubblico, ma questo non l'ho letto ancora in nessun articolo di giornale.
24 giugno 2009
COMMENTO SU KRIER A NOVOLI
20 giugno 2009
GLI ARCHITETTI CON IL "FALSO" SEMPRE IN BOCCA
Pietro Pagliardini
Sul quotidiano La Nazione, nella cronaca di Arezzo, è uscito oggi questo articolo di Salvatore Mannino su quello “splendido falso” che è la Piazza Grande di Arezzo. Mannino, giornalista che segue con attenzione i fatti di città, sapendo e conoscendo quanto gli aretini siano affezionati alla loro Piazza Grande e quanto i turisti apprezzino questo spazio che non ha certo l’omogeneità e la coerenza di altre famose piazze italiane ma che riesce comunque a lasciare un forte ricordo di sé a distanza di anni, non solo non si è posto il problema se quei “falsi” sia stato bene farli ma ha anche ironizzato, con il suo virgolettato, sul fatto che qualcuno li possa chiamare falsi. Ma molti architetti, sono certo, penseranno che sia Mannino, sia gli aretini, sia i turisti siano tutti ignoranti e incolti.
Se gli architetti afflitti da carie dentaria (e ce ne saranno, immagino) fossero coerenti con il loro pensiero, invece che usare dentiere in porcellana o impianti al titanio rivestiti di materiale il più simile possibile ai denti veri, usassero apparecchi che mostrassero la loro falsità, ad esempio l’oro, come accadeva una volta, allora m’inchinerei loro e sarei costretto a cambiare idea. Ma se, come immagino e come è giusto, anch’essi scendono, in questo caso, al livello dei comuni mortali e, oltre che conservare al massimo la funzionalità della loro masticazione, garantita dalla solidità del lavoro del dentista, vogliono anche salvaguardare la bellezza e l'ordine del loro volto con una dentatura il più mimetica possibile, per garantire l'armonia complessiva di quelle loro belle e pensose immagini delle riviste, allora la smettano di fare inutili discorsi sui “falsi” architettonici, perché i primi falsi ce li hanno proprio in quell'organo da cui escono tutte le stupidaggini sui falsi, al pari di tutti coloro che vi sono costretti dalla malattia.
E così ho scoperto che la Vitruviana triade di utilitas, firmitas e venustas non è esclusivo appannaggio dell’architettura ma anche dell’odontoiatria.
Almeno fino a che non arriveranno i critici odontoiatrici a fare danni.
16 giugno 2009
ANCORA UN LINK SUL TEMA RICOSTRUZIONE
Il Covile continua nell'approfondimento del tema restauro e ricostruzione con un articolo di Ettore Maria Mazzola.
Inevitabile il link:
10 giugno 2009
LEON KRIER A FIRENZE
Mercoledì 17 e Giovedì 18 giugno Lèon Krier sarà a Firenze per la presentazione di un libro e per un incontro pubblico con i cittadini.
Questo il testo pervenutomi dalla LEF Libreria Editrice Fiorentina:
L'interesse di questo incontro mi sembra stia, oltre che nella qualità del personaggio, anche nella possibilità di valutare se le idee, i progetti, l'architettura di Lèon Krier incontrino ai gusti e le aspettative della gente.
6 giugno 2009
UN LIBRO NON RECENTE DEL PRINCIPE CARLO
Mi è stato prestato un libro del Principe Carlo d’Inghilterra, “Uno sguardo sulla Gran Bretagna. La mia concezione dell’architettura”, 1989 edizioni Frassinelli. E’ un bel libro incentrato sulla Gran Bretagna ma con un occhio attento all’architettura in generale. Ne riporto qui alcuni brani tratti dall’introduzione per infrangere il luogo comune e il pregiudizio, diffuso ad arte, sulla sua presunta incompetenza e anche perché, pur essendo datato 1989, vi sono temi ricorsi di recente con la nota protesta delle archistar contro di lui. A distanza di tempo si ritrova a dover affrontare le stesse polemiche senza retrocedere di un passo. E per essere scritto venti anni fa mi sembra che il Principe abbia saputo cogliere con lucidità e competenza importanti problemi dell'architettura che ricorrono ancora oggi. E' perfino divertente vedere confermati tutti i vizi dell'establishment culturale del tempo (siamo nell'anno della caduta del muro di Berlino) e che continuano tutt'ora, anche se con un po' più di affanno.
Ad alcuni piace definire le mie idee sull’architettura e l’ambiente come reazionarie e contrarie al progresso e alle esigenze del mondo contemporaneo. Più mi addentro nel mondo torbido dell’architettura, della pianificazione e della proprietà edilizia, più mi accorgo della possente influenza di vari gruppi di interesse.
Da qui le reazioni spesso violente e velenose alle mie prese di posizione. Mi si imputa persino di abusare del mio potere (sic) in quanto principe di Galles, intervenendo in questioni che sarebbe più opportuno delegare agli architetti e di agire in modo antidemocratico.

Mi si dice che sono grossolanamente ingiusto nei riguardi della professione, in quanto punterei l’arma contro gli architetti, mentre in realtà i responsabili sarebbero i pianificatori, la proprietà edilizia, i politici a livello nazionale e locale. Perché allora ho preso di mira gli architetti in particolare? Perché sono convinto che è stato l’establishment degli architetti, o un gruppo potente al suo interno, che ha dettato legge negli ultimi anni Cinquanta e Sessanta. Sono stati loro a dimostrare la necessità di una “nuova” architettura ai fini della ricostruzione della Gran Bretagna postbellica e ad attuare scientemente una rivoluzione all’interno dell’ordine professionale e del loro sistema educativo. Sono stati i “grandi architetti” di questo periodo a persuadere tutti che il mondo sarebbe stato più sicuro nelle loro mani. I loro successori mantengono ancora prestigio e una specie di fascino tra i colleghi: decretano lo stile, controllano i curriculum e detengono posizioni di potere nel Royal Institute of British Architects (RIBA) e nella Royal Academy. Sono loro a governare con mano ferrea le scuole d’architettura e loro che vengono fatti passare per eroi dalle riviste di architettura, in gran parte osannati, e che stanno al centro dell’attenzione scarsamente critica della stampa in generale.
Effettivamente questi signori sono così abituati a sfuggire alla critica, che il mio mite appunto in cui definivo il progetto No 1 Poultry “un vecchio apparecchio radio degli anni Trenta” fu considerato in certi ambienti un’interferenza incostituzionale nel processo di pianificazione.
Può sembrare una scappatoia, ma non ho un desiderio particolare di battermi contro gli architetti o gli speculatori edili.
D’altra parte sono preoccupato per il loro approccio filosofico rispetto all’intera questione della progettazione edilizia nella misura in cui in cide sulla gente e la sua vita.
Molti architetti e imprenditori edili credono che l’architettura debba rispecchiare lo spirito del tempo….dato e non concesso si sappia cos’è! Allo stesso modo in cui il Rinascimento ha rappresentato in architettura l’affrancamento dalle catene della chiesa medievale, così sostengono loro, l’architettura contemporanea deve rispecchiare il dominio dell’alta tecnologia e l’evidente trionfo meccanico dell’uomo sulla natura che per tanto tempo l’ha tenuto in scacco.
Evidentemente, in quest’ordine d’idee, il passato è ampiamente irrilevante e il suo significato e le sue lezioni devono essere cancellate.
Credo che quando un uomo perde il legame col passato perde l’anima. Allo stesso modo, se respingiamo il passato architettonico allora anche i nostri edifici perdono la loro anima. Se abbandoniamo i principi tradizionali su cui l’architettura si è basata per 2.500 anni o più, la nostra civiltà ne soffre. Le nostre vite possono essere dominate da forme di tecnologia sofisticata, ma noi possediamo anche un più grande retaggio.
Non c’è nulla di erroneo da imparare dal passato, nell’applicare le lezioni che i nostri predecessori hanno appreso con tanta pena, nel riconoscere che il nostro particolare retaggio isolano è il risultato della risposta a condizioni climatiche e alla disponibilità di determinati materiali locali e dell’ispirazioni fornita dai grandiosi esempi dell’architettura europea.
Questi concetti ci danno un senso di appartenenza di ordine, d’importanza vitale per il nostro sviluppo di esseri umani. Non siamo i soli a nutrire inquietudini per la strada intrapresa dall’architettura moderna o anche postmoderna. (Non fatevi confondere dal postmodernismo e dagli altri “ismi” che i critici di architettura escogitano per cullarci in un malinteso senso di sicurezza!).
In paesi come l’Arabia Saudita dove il ritmo dello sviluppo è stato sorprendentemente rapido e il concetto prevalente che vige è “se è americano”, “se “è nello stile di vita internazionale, deve essere la miglior cosa per noi”, cominciano a rendersi conto che nell’ansia di modernizzarsi allineandosi alle tendenze occidentali hanno perso qualcosa. Sta emergendo un movimento inteso a riscoprire l’eredità islamica e autoctona e a imparare dalla saggezza ambientale locale degli antenati che conoscevano alla perfezione l’arte di costruire tenendo in debita considerazione le condizioni climatiche prevalenti.
Nel Medio Oriente si ascolta con interesse crescente un notevole architetto egiziano Hassan Fathy, che per quarant’anni ha dovuto subire critiche e denigrazioni velenose da parte della classe professionale modernista per aver propugnato con ostinazione la causa dell’architettura islamica tradizionale. E’ stato sempre accantonato come un romantico privo di contatto con la realtà moderna. “Quando si attira l’attenzione della gente sull’estetica e la cultura”, ha scritto il dotto Fathy, “ti tacciano di romanticismo. Questo sta a dimostrare lo stato della nostra società attuale”. [Omissis]
Il dottor Fathy sostiene che “l’architettura per i ceti meno abbienti non deve essere concepita come la cura di una malattia particolare” e si schiera per un’”architettura fruibile sia dai ricchi sia dai poveri”, non privilegio di un determinato ceto sociale. L’estetica dovrebbe essere una componente di tutta l’architettura: “Purtroppo” lamenta il dottor Fathy, “oggi al popolo non è concesso il vantaggio estetico e si assimila a torto la povertà con la bruttezza, il che è un errore grave. Più i costi del progetto sono contenuti, maggior cura e attenzione dovrebbe essere prestata all’estetica”.
Il dottor Fathy è un uomo notevole, la cui voce coraggiosa dovrebbe essere ascoltata. Sentite questa: “Io dico che la bella architettura è un atto di civiltà verso chi entra nell’edificio; si inchina a voi ad ogni angolo, come in un minuetto….Ogni costruzione brutta è un insulto a chi le passa di fronte. Gni edificio dovrebbe rappresentare un ornamento e un contributo alla propria cultura. Ora è molto difficile raggiungere questo obiettivo perché abbiamo abbandonato la scala umana e il riferimento umano. Dobbiamo quindi reintrodurre questi due elementi, più la musicalità in architettura”.
Seguono alcuni link su Hassan Fathy e l'architettura tradizionale islamica:
http://www.youtube.com/watch?v=0myHEjXWElo
http://www.youtube.com/watch?v=LlWFjxd935s&feature=related
http://web.mit.edu/akpia/www/
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2 giugno 2009
IL PROF.PAOLO MARCONI SULLA RICOSTRUZIONE A L'AQUILA
Il Covile propone oggi uno straordinario intervento sulla ricostruzione A L'Aquila del Prof. Paolo Marconi, con una nota sull'autore del Prof. Ettore Maria Mazzola.
Corre l'obbligo di un link immediato:
COSA FARE IN CITTA' COME L'AQUILA DOPO IL TERREMOTO?
LETTERA APERTA DA UNO STUDENTE DI ARCHITETTURA
Questo post è stato scritto da Riccardo Verdelli, studente di architettura di Arezzo, che conosco e a cui avevo chiesto di scrivere qualcosa dopo aver scoperto che è animato da grande passione civile che non riversa solo nell'architettura.
Riccardo ha anche un blog, Il Verde Polemico. Il verde potrebbe avere un doppio senso ma il polemico, ve ne renderete conto, ne ha uno solo.
L'amico Piero mi ha chiesto qualche tempo fa di scrivere qualcosa, di riassumere i pensieri di uno studente di architettura che si appassioni al dibattito su architettura ed urbanistica; ecco, ci ho messo un sacco di tempo, ma alla fine ho trovato il tempo per farlo.
Proprio domenica un'interessante puntata di Report (ovviamente diretta a tutti, quindi magari un po' "banale" in alcuni passaggi per una persona del settore) mi ha dato la spinta: si parlava della morte dello strumento urbanistico e della nascita della città del palazzinaro. E' inutile dire quanto piacevole e confortante sia che anche la società civile finalmente si schieri contro le varie forme di non-città che proliferano oggi e che eminentemente sono sconfinati quartieri dormitorio o marmellate di villettopoli sparse qua e la.

Il punto forte della trasmissione stava proprio nella continua violenza cui son sottoposti i piani in Italia, raramente rispettati se un qualche imprenditore mette sul piatto soldi sufficienti a far rifiatare un comune, che accetta così di far stuprare in qualunque modo il proprio territorio, fregandosene non solo dei costi sociali di migliaia e migliaia di metri cubi messi in un posto alieno alla città, ma anche a quelli poi dovuti ad un'architettura che nelle migliori delle ipotesi è semplicemente banale.
Cos'è oggi un architetto? A cosa si è ridotta la figura che nel tempo ha costruito le città? Se il lavoro dell'urbanista viene violentato in nome dei soldi dei palazzinari, se questi vuole spender poco e se i professori universitari insegnano che non ci sono regole, che tutto è soggettivo ma ingiudicabile, che ciò che fa un architetto è giusto e incontestabile? Cosa viene fuori da questo quadro? Architetti che quando siano rispettosi dell'architettura, della storia ma anche del progresso, dell'urbanistica, conoscitori della città, vengono comunque ridotti a poco più di "disegnatori di cartine". A che serve, dunque, che un urbanista presti attenzione a come e dove costruire, alle infrastrutture, alle linee di trasporto pubblico, quando poi un palazzinaro compra ettari ed ettari di terreno agricolo e si presenta al comune con i milioni degli oneri in mano e il comune non possa (o voglia, nella peggiore delle ipotesi) che prostituirsi per far cassa in qualche modo?
La questione è inevitabilmente prima politica che di qualunque altro tipo: evidentemente i comuni italiani non hanno soldi a sufficienza e voglio spendere critiche bipartisan a questo punto, o meglio fare un plauso e una critica a questo governo. Ben venga il federalismo fiscale, gli enti locali sono quelli a più stretto contatto con il cittadino e devono "prendersi cura" di lui, orribile la scelta di togliere l'ICI sula prima casa, ossigeno fondamentale per i comuni.
Oggi ci troviamo in condizioni serie, e non parlo di ambientalismo quanto di qualità della città, anche perché i professionisti capaci, che hanno la possibilità economica di non prostituirsi, hanno un ruolo marginale e possono essere facilmente scavalcati da un amministratore poco capace o semplicemente senza sufficienti fondi.
Lo strumento urbanistico dovrebbe avere un valore molto maggiore, dovrebbe essere "inviolabile" ed è qui secondo me che si può e deve ragionare di qualità edilizia, qualità urbanistica e ridensificazione della città, restituzione della città ai cittadini.
Sottrarre la città ai SUV e restituirla ai cittadini DEVE essere priorità in Italia dove, non fosse chiaro, nessuno viene a vedere i quartieri dormitorio o le villettopoli terzo millennio, ma si viene a vedere la meraviglia di centri storici stratificati, che offrono tessuti nei quali si legge la storia della città, la città dei cittadini; le città delle auto non interessano a nessuno, anzi potendo se ne fugge.
Il piano dovrebbe appunto essere inviolabile, ed indicare nuove aree, che valgano le "C" ma che siano esclusivamente dedicate a "premio" (preferisco scrivere in modo che sia chiaro a tutti, non so quanto sia vasto il tuo pubblico) per coloro i quali accettino la sostituzione edilizia. Dovrebbe cioè indicare gli edifici cittadini impropri e consentire, in funzione della sostituzione, di aggiungere metri cubi, tanti, tantissimi vi prego, se non in sito almeno in queste aree "C bis", e l'allargamento della città deve quindi esistere solo in funzione di una riqualificazione dell'esistente, e ovviamente rispettoso della città. L'esempio della sede della Banca Toscana ad Arezzo l'avevo già fatto (edificio moderno le cui storture sarebbero elencabili solo in un topic dedicato, ma situato in una strada ordinata e di un certo pregio architettonico): sostituisci quell'oggetto e io ti assicuro tanti metri cubi in più, nello specifico anche in sito, essendo l'edificio attuale molto basso rispetto al contesto, in altri casi in aree IMMEDIATAMENTE periferiche, che ovviamente deve individuare l'urbanista; questa dovrebbe essere la concessione che il comune potrebbe fare: può vendere spazio in virtù di una sostituzione che permetta di riqualificare la città, non può vendere la città per soldi, non può l'amministratore far prostituire la città.
I piani dovrebbero essere frequenti, e non indicare come allargare la città, ma come farla crescere qualitativamente, ma soprattutto dovrebbero essere inviolabili!!! Un accordo di programma può vertere su indici e standard, il comune può prendere la "mazzetta" (oggi è tecnicamente questo) per far costruire 100.000 mc laddove se ne potevan fare 80.000, non per far costruire laddove non si può.
Ne viene fuori un disastro sia ambientale (minori aree verdi, maggiori consumi di carburanti) che economico (maggiore dispersione per reti di utenze più lunghe, bisogno di nuove infrastrutture), che sociale (migliaia di cittadini che non si sentono cittadini, non padroni ma schiavi della città, di una città che è a sua volta schiava dell'auto).
Un comune può accettare un piano in più molto più facilmente che una casetta "più in la", una città può alzarsi e rimanere vivibile, non può farlo allargandosi a macchia d'olio.
Ed è qui che bisogna che il piano individui, dopo che abbia fallito la commissione edilizia, cosa c'è bisogno di sostituire, cosa non è città ma villettopoli, cosa non è città ma dormitorio, cosa non è edificio ma delirio di un architetto "universitario".
Assistiamo oggi in facoltà ad architetti che insegnano che non ci sono regole (ovviamente non tutti, ci mancherebbe), che tutto dipende dal gusto dell'architetto (quindi non ancora dello studente, che deve semplicemente assecondare il professore di turno e sperare di incontrarne il gusto), che non esistono regole, che quando si fa un intervento "deve essere chiaramente riconoscibile" e si portano esempi di abitazioni di Gehry, prontamente riproposti poi dagli studenti in pieno centro storico di Firenze, che quella di Richard Meier è una chiesa anche se a fare fotomontaggi che la collocassero altrove è stata scambiata (non scherzo) per centro velico per la Coppa America e per palazzetto dello sport.
Assistiamo alla negazione aprioristica del tetto a padiglione, che appare quasi come un'offesa, se presentata al professore, oppure ad obiezioni del tipo "ma qui c'è umidità" di fronte ad un tema "fai una casa in mezzo al letto dell'Arno" o a giudizi opposti su progetti identici presentati a soli 7 giorni di distanza.
All'interno di un panorama del genere forse la speranza può venire da "Report", inteso come società civile che si interessa al problema e si rende conto della situazione caotica (ad essere buoni) in cui versano l'urbanistica e l'architettura in Italia; forse la coscienza che il traffico si crea quando si costruisce male, violentando il piano, lasciando la città in mano ai palazzinari, forse la coscienza che l'inquinamento dipende da migliaia di alloggi cresciuti dove non era previsto né prevedibile né auspicabile, forse la nuova spinta ecologista verso consumi più bassi scoraggiata da distanze troppo grandi, forse la rinnovata tensione verso una città da percorrere a piedi potranno quello che politica, urbanistica ed architettura non hanno potuto, o forse voluto, cioè restituire la città ai cittadini. E questo è possibile restituendo l'urbanistica agli urbanisti e l'architettura agli architetti.
E purtroppo per questo la strada sarà lunga e passa anche da un'università che non forma architetti, forma studenti impauriti dal mondo dell'architettura, con nessuna forza culturale da opporre al dio denaro: come può un giovane architetto imporre una corretta visione architettonica che non ha ad un imprenditore che deliberatamente la nega poiché non economicamente vantaggiosa?
La strada è lunga, ma la società civile, se pur prima per la paura sismica e ora per la tensione ecologista, e non per una questione prettamente architettonico/urbanistica, può essere la spinta per riuscire in un prossimo futuro a recuperare le nostre città, a restituircele, togliendole dalle mani di amministratori inadeguati, architetti incompetenti ed urbanisti senza potere.
Spero di non essere stato troppo prolisso e di aver inquadrato la richiesta che mi hai fatto: questa è una sintesi (una sintetica sintesi...) della mia visione dell'architettura e dell'urbanistica attuali e delle prospettive delle stesse, o meglio delle mie speranze perché queste cambino nella direzione che auspico, e credo auspichi anche te.
Ciao Riccardo
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1 giugno 2009
RUDY RICCIOTTI SU ITALIA OGGI
Che non sia un prototipo di archistar?
ITALIA OGGI - RUDY RICCIOTTI:LE GRANDI OPERE A MILANO SONO DI ARCHITETTI APOLIDI
31 maggio 2009
UN COMMENTO A EDDYBURG
Pietro Pagliardini
Ecco un esempio di pratica pre-moderna dell'urbanistica moderna: nel sito Eddyburg, curato dal Prof. Edoardo Salzano, ho trovato questo articolo “Edificabilità. Il Consiglio di Stato ribadisce: il piano la dà, il piano puo’ toglierla” scritto dallo stesso Edoardo Salzano a commento di una sentenza del Consiglio di Stato che rigettava il ricorso contro una scelta del PRG di classificare come agricola un’area individuata nel precedente PRG come edificabile.
Per la precisa lettura dei fatti e della sentenza rimando all’articolo stesso che è completo di ogni informazione.
Perché mi occupo di una sentenza, dato che non sembra questo il luogo adatto? Me ne occupo perché mostra quali siano le preoccupazioni principali di una parte importante della cultura urbanistica italiana.
Ormai da molti decenni l’urbanistica è soffocata da leggi, procedure, interpretazioni giuridiche; su queste si fanno convegni, la legislazione urbanistica è cresciuta a dismisura tanto da far perdere quasi il rapporto con la realtà e i piani regolatori vengono costruiti sulle leggi regionali non solo per dare ai piani la loro necessaria legittimazione giuridica, che sarebbe la regola, ma in base ai dettati delle leggi stesse piuttosto che sui dati reali delle città e del territorio.
Il metodo ha preso quasi il totale sopravvento sul merito e questa sentenza, e ancor di più il tono di Salzano, lo fa capire bene.
Nutro il massimo rispetto per il prof.Edoardo Salzano, per la sua storia, per la sua infaticabile attività a favore di quella che lui ritiene essere, ed in parte lo è, la strada giusta per l’urbanistica, ma questo non mi impedisce di dissentire da lui.
Dunque, dice Salzano non nascondendo una grande soddisfazione alla conferma della sua concezione del rapporto stato-cittadino, il PRG non crea diritti edificatori e il diritto gli dà ragione. Su questo niente da obiettare. Ma il fatto che ad una sentenza del Consiglio di Stato, organo di rilievo Costituzionale, ci si debba piegare, non vuol dire perdere il diritto di criticarla e di pensare che non vi sia aderenza alla realtà. Ciò alla luce del diritto positivo, dato che questo è un diritto “in itinere”, cioè è soggetto ai cambiamenti che si manifestano nella società; questa fatto determina la possibilità che ciò che non è ammesso in un determinato momento storico possa diventarlo in un momento successivo, per un cambiamento del costume, dei rapporti economici, del comune sentire di una società.
Dunque, proprio in questa logica, guai a sedersi sulla conservazione dello status quo perché il diritto segue necessariamente l’evoluzione della società, con alcuni punti sacri e inviolabili che sono assolutamente non negoziabili.
Edoardo Salzano introduce l’articolo con la seguente battuta:
"Con buona pace di quanti cianciano di “diritti edificatori” attribuiti dai piani urbanistici e non revocabili senza pagare. Una nota, e il testo della sentenza 2418/2009".
La sentenza afferma dunque il principio che i piani urbanistici non attribuiscono diritti edificatori non revocabili e Salzano sembra attribuire alla legge un potere ed una forza definitiva e quasi di verità assoluta, quasi fosse la legge a determinare la realtà e non l’inverso. Io vorrei mostrare che vi sono in quella sentenza parti assolutamente logiche che derivano dalla funzione stessa del diritto e parti che non trovano fondamento nella realtà ma, al massimo, la trovano solo in quella specifica e particolare situazione e in base a concetti urbanistici assolutamente aleatori se non inesistenti nella sostanza. Non che la sentenza sia sbagliata, non lo penso proprio, ma quella sentenza si basa, come tutte le sentenze, su una "verità giuridica", che non è detto sia una "verità fattuale" e ciò che è sintomatico è proprio il fatto che un urbanista mostri tanta soddisfazione di fronte ad una sentenza che, per sua natura, potrebbe non corrispondere alla reale situazione urbanistica.
La motivazione al primo quesito afferma che “mentre la variante di PRG assume immediata efficacia, per contro non sussiste alcuna approvazione di atto giuridico che sia perciò assurto al rango di uno strumento urbanistico efficace (nella specie attuativo, ad iniziativa di parte privata, quale il piano di lottizzazione) e del quale debba in qualche modo tenersi conto”. Questa è assolutamente corretta perché è il diritto stesso che stabilisce quelle regole che servono a garantire i rapporti e le gerarchie tra i piani, le procedure di approvazione e quant’altro, in modo tale che vi sia certezza del diritto, e in questo caso l’adozione del PRG è intervenuta prima dell’approvazione del piano attuativo, dunque nulla da eccepire sulla prevalenza dello strumento generale sul piano attuativo.
Ma che dire della motivazione su cui si basa il diritto del pubblico di variare il regime delle aree?:
“…tale correlazione non può fondare alcun vizio di illegittimità, rappresentando il contenuto stesso del legittimo esercizio dello “jus variandi” in sede pianificatoria e comporta proprio il potere di mutare il regime giuridico-urbanistico dell’area, che vede quindi cambiare la sua “vocazione” in senso giuridico (nella specie da edificatoria ad agricola). Altra nozione è invece rappresentata dalla “vocazione” intesa come la situazione dell’area nelle caratteristiche geomorfologiche del contesto in cui essa si trova al momento dell’esercizio del potere pianificatorio e quindi indipendentemente dalla destinazione giuridica sino a quel momento impressa ma che può avere o meno avuto esplicazione mediante un effettiva trasformazione del territorio. Ed è tale situazione che viene in rilievo rispetto alla nuova destinazione giuridico-urbanistica che all’area si intende conferire e che, come correttamente confermato dal TAR, il Comune risulta aver nella specie preso in considerazione ove ha evidenziato (nello studio preliminare e carta d’uso del suolo) che l’area ha oggettivamente caratteristiche agricole essendo di natura “seminativo-irrigua”. Rispetto a tale valutazione tecnica, quindi, la scelta del nuovo PRG di imprimere destinazione agricola è del tutto coerente […]”.
Cosa significa questa motivazione? Significa che il Comune ha la potestà di variare il regime giuridico-urbanistico dell’area, e anche qui nulla da obiettare, ma questa variazione si basa su una diversa “vocazione” dell’area stessa, e qui c'è il punto debole. Si noti bene che nella sentenza si scrive, correttamente, “vocazione” giuridica.
Non voglio essere equivocato, non contesto la sentenza, contesto il fatto che Edoardo Salzano creda, o mostri di credere, che la sentenza affermi “una verità assoluta”, quando è palese che non è così. Se un’area aveva precedentemente una “vocazione” edificatoria come fa a cambiare tale “vocazione” in agricola? La vocazione dei terreni è evidentemente a geometria variabile e comunque è ben difficile che la trasformazione passi dall’edificabile all’agricolo, a meno che quella precedente destinazione non fosse frutto di qualche strano marchingegno per cui fosse stata resa edificabile una zona in mezzo alla campagna. Ma anche in questo caso si dimostra la assoluta mancanza di “verità” della sentenza, rispetto a quanto ne sa Salzano e anche noi, perché, come minimo, bisognerebbe conoscere le reali condizioni dei fatti e delle situazioni.
Invece Salzano prende per buono tutto perché la sentenza soddisfa un suo desiderio e una sua convinzione legittima ma su cui è facile constatare la assoluta mancanza di aderenza alla realtà. Inoltre la verifica della “vocazione” dal punto di vista geo-morfologico si basa sulla carta dell’uso del suolo in cui quell’area è indicata come “seminativo-irriguo”; ma è evidente che queste caratteristiche agricole le aveva certamente anche quando venne inserita nel precedente PRG come “edificatoria”!
Può essere questa, per un urbanista, una giustificazione soddisfacente? Per un giurista certamente sì, e io non contesto la sentenza, io contesto Salzano a cui interessa stabilire un principio di tipo ideologico e poco conta se quel principio passa con motivazioni che ad un urbanista dovrebbero apparire, come minimo, deboli, ma meglio sarebbe dire risibili. Se, ragionando per assurdo e per ipotesi, in quell'area fossero state presenti due case e in base a questo "fatto" il CdS ne avesse stabilito la "vocazione" edificatoria, Salzano avrebbe potuto giustamente contestarla perché due case in campagna non costituiscono un inizio di insediamento urbano: ugualmente, l'edificabilità di un'area deriva da ben più complessi rapporti territoriali che non l'essere classificata con la definizione catastale di "seminativo-irrigua".
La sentenza sembra essere, per Salzano, strumentale al fatto di confermare la prevalenza indiscutibile del pubblico sul privato, ma direi la sottomissione del privato al pubblico.
Questo tipo di urbanistica è proprio quella su cui da decenni si dibattono autorevoli esponenti del mondo della cultura; è una cultura urbanistica politicizzata, ideologizzata, che lotta sulle procedure che sono diventate fine invece che mezzo per raggiungere l’obiettivo di progettare un ambiente urbano migliore di quanto non sia stato fatto fino ad ora con tutte queste leggi e sentenze.
Molto bene, professor Salzano, c’è la sentenza giusta e non sarà realizzata quella lottizzazione, ma adesso cosa facciamo: aspettiamo un’altra sentenza, magari contraria, e così il processo può continuare all’infinito e dare voce ad altri autorevoli esponenti dell’urbanistica per condurre la loro guerra?
Nel frattempo la città va avanti e senza alcuna relazione tra quella sentenza e il fatto che vada avanti nel verso giusto, non fosse altro per il fatto che nulla si sa di quella situazione. Ma questo non è significativo perché quello che conta è il risultato politico.
30 maggio 2009
LA PRESA IN OSTAGGIO, ESTETICA, DEL DOLORE
Pietro Pagliardini
Rudy Ricciotti è, per me, il prototipo dell’archistar, forse suo malgrado, non saprei dire. Però devo riconoscere che quanto da lui detto nel comunicato stampa rilasciato al Centro Studi CESAR, sul tema “Archistar a L’Aquila”, mi è sembrato ragionevole e, soprattutto, intellettualmente onesto.
In particolare questa frase mi ha colpito:
"È impensabile a mio avviso - ha osservato - che ci sia una presa in ostaggio, estetica, del dolore; questa è piuttosto una questione politica. Se veramente dovessero venire coinvolte delle archistar, queste dovrebbero confrontarsi con le più umili necessità, con i budget più modesti e con i programmi più urgenti, come la ricostruzione delle abitazioni per le famiglie. La bellezza è sempre utile ma la priorità va data all’efficacia sensata".
La chiarezza con cui ha inquadrato il “fenomeno archistar” nella sua essenza profonda e ineluttabile è formidabile. Quando Ricciotti parla del rischio di “una presa in ostaggio, estetica, del dolore” non credo voglia fare del facile moralismo, non vuole dire che qualunque archistar andrebbe volontariamente a fare la passerella tra i terremotati, in barba ai lutti subiti; non vuole attribuire a nessuno in particolare il cinico calcolo professionale di sfruttare il terremoto come una ghiotta possibilità di apparire a livello mediatico. A me sembra proprio che Ricciotti abbia capito la ineluttabile, intrinseca e tragica “condanna mediatica” di un’operazione del genere se affidata alla presenza delle archistar.
Qualunque progetto, anche non eseguito, ma direi qualunque dichiarazione fatta sul campo da una qualsiasi archistar avrebbe una risonanza spettacolare, capace di coprire la realtà della fatica della ricostruzione, anche contro la volontà dell’archistar stesso e di mettere in secondo piano i problemi e i drammi umani dei cittadini di L’Aquila.
Le archistar, per loro natura, devono apparire continuamente, devono essere al centro dell’attenzione di TV e giornali. Loro sono archistar proprio per questo, altrimenti sarebbero bravi e normali architetti. Non può esistere l’archistar che si mimetizza, che si mette in seconda linea, che “si confronta con le umili necessità” perché il suo progetto sarebbe in ogni modo sotto i riflettori e dovrebbe esprimere comunque “una tappa” del suo lavoro e non potrebbe permettersi il lusso, un vero lusso, di fare un’opera “normale”, modesta, umile, non riconoscibile. Se anche lo facesse verrebbe interpretata, suo malgrado, come un’opera che si è calata nella realtà ma che porta impresso il marchio dell’architetto. La macchina mediatica del successo svolgerebbe, per conto dell’archistar e indipendentemente dalla sua volontà, la “presa in ostaggio, estetica, del dolore”.
L’archistar, fino a che non decade, è condannato ad essere grande e famoso comunque e a coprire e sovrastare tutto ciò che gli è intorno. Non è certo una novità, questa, per il mondo dello spettacolo e ormai non lo è neanche più per il mondo dell’architettura.
Ricciotti mi sembra abbia avuto il merito di cogliere il fenomeno archistar in tutta la sua dimensione mediatica e perciò effimera e questo, a prescindere dal fatto se egli stia o meno all’interno del cerchio di quel fenomeno, non può non essergli riconosciuto come prova di grande intelligenza.
23 maggio 2009
PRATICHE PRE-MODERNE DELL'URBANISTICA MODERNA
Pietro Pagliardini
Una serie di commenti piuttosto critici agli ultimi tre post hanno affrontato il rapporto tra l’urbanistica, ma direi meglio l’abitare, e la libertà. In realtà credo che questi commenti fossero lo strascico di un precedente post, quello dell'Arch. Pier Lodovico Rupi, nel quale si sosteneva, in maniera esplicita, che le principali scelte urbanistiche fatte dal dopoguerra ai giorni nostri sono state influenzate da precise e consapevoli scelte politiche e ideologiche. Premesso che io condivido i contenuti di quel post, altrimenti non lo avrei pubblicato o almeno l’avrei fatto prendendone le distanze, non intendo proseguire quel discorso che mi sembra svolto in maniera egregia, esauriente e documentata dall’autore, quanto di riaffermare, più in generale, che la visione politica di una società si ripercuote in maniera consistente e diretta nella visione della città e nel rapporto, infine, tra stato e cittadini.
Non che io pensi che questa sia una mia grande scoperta, anzi direi che a me sembra così ovvio e scontato da apparire perfino banale doverci ritornare, ma sembra invece che questo aspetto sia dimenticato o rimosso al punto che, quando se ne è parlato, sono stato sospettato di farlo strumentalmente, in funzione di subdoli fini elettorali.
Giova perciò ricordare, per l’ennesima volta, che politica deriva da polis, città, e dunque la politica altro non è che l’arte di amministrare la città e in quest’arte rientra, a pieno titolo, la modificazione fisica della città la quale ha, ovviamente, influenza diretta sulla vita dei cittadini; perciò l’urbanistica, almeno per certi aspetti, è il metro per misurare il rapporto che esiste tra stato e cittadini e, in ultima istanza, per giudicare il grado di libertà che una società esprime.
Francesco Finotto, nel suo bel libro “La città aperta”, saggi Marsilio, 2001, ha mirabilmente sintetizzato questo rapporto stato-cittadini con questa frase ad inzio libro:
“In che cosa consiste l'urbanistica moderna? Nella possibilità di condurre una pratica premoderna in una società moderna. Di fare una politica premoderna in una società moderna”.
La pratica pre-moderna è certamente quella che costringe gli individui a sottostare a limitazioni e controlli della collettività nell’uso del bene privato, in una società fortemente individualistica.
L’urbanistica moderna è il risultato del conflitto continuo tra il diritto alla libertà dell’individuo, che è anche diritto di disporre della proprietà privata, e l’esigenza di imporre limitazioni a questo diritto. Questo limite è connaturato all’idea stessa di città, che è spazio collettivo in cui si devono armonizzare interessi diversi, per cui esiste una soglia oltre la quale il diritto dell’individuo collide con quello degli altri e, infine, con la collettività. L’esempio più semplice è, ovviamente, quella parte del Codice Civile che impone determinate regole tra i confinanti.
Continua il libro di F.Finotto:
“Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di termini: prima era la libertà a doversi giustificare; la politica era di per sé legittima. Ora accade il contrario: è la libertà ad essere legittima; la politica, anche quella urbanistica, deve legittimarsi, fornire spiegazioni, darsi una teoria credibile, accettabile”.
Non si pensi, da queste poche righe, che il libro appartenga alla categoria dei libri militanti; è invece un serio esame storico delle varie teorie urbanistiche nate con la rivoluzione industriale e del conflitto tra la libertà dei cittadini e il disegno urbano.
Contrariamente ad altre realtà, quali ad esempio gli USA, dove esistono vaste aree il cui territorio non è sotto la giurisdizione di nessuna Contea o ente territoriale e in cui comunità di privati possono auto-organizzarsi (1), in Italia non esiste cmq di territorio che sia libero da tale giurisdizione e si può anche affermare che non è data città europea che possa ammettere una totale assenza di regole. Ciò che non è affatto naturale è il metodo con cui avviene questa limitazione.
Una breve citazione:
"La prima imposta (sulla casa), di questo genere fu il denaro del focolare, ossia un’imposta di due scellini per ciascun focolare. Per accertare quanti focolari vi fossero nella casa era necessario che l’esattore entrasse in ogni camera della casa. Questa odiosa visita rendeva odiosa l’imposta. Perciò, subito dopo la rivoluzione, essa fu abolita come segno di servitù". (Adam Smith- Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni).
L’odiosa visita è esattamente l’atteggiamento prevalente nel rapporto tra stato italiano e cittadino. Uno stato occhiuto e invadente è preoccupato di ogni intervento, anche minimo, che viene fatto entro le mura domestiche. In realtà lo stato, attraverso norme di questo tipo, esercita un controllo sociale capillare proprio nello spazio sacro ed inviolabile di ciascun individuo, la casa, che la stessa Costituzione Italiana tutela, dichiarandola appunto inviolabile (art. 14 - Il domicilio è inviolabile).
Paradossalmente, tanto è curioso lo Stato di quanto accade dentro casa quanto è indifferente a ciò che avviene fuori di essa. Sembra avere dimenticato che “l’opera esterna non appartiene al proprietario quanto alla città”, e così ha fatto norme che rendono superflua la Commissione Edilizia e ha inventato la DIA che non è soggetta a valutazione di merito. Le procedure burocratiche sono aumentate a dismisura ma l’unica che è stata tolta è proprio l’ultimo residuo di un passato capace di dare senso alla scelta di condivisione del progetto, da sempre, specie per le opere importanti, appannaggio della civitas.
Controllo sociale in casa, indifferenza al valore della qualità della città.
C’è, inoltre, l’esclusione dei cittadini dalle scelte importanti per la città.
Almeno dal 1200, le principali scelte per quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi” non sempre sono state imposte alla città, anzi spesso sono state rimesse nelle mani dei cittadini in varie forme, tra cui quella del concorso. Osservo dunque che nella società pre-moderna l’urbanistica presentava qualche segno di maggiore modernità che non in quella moderna.
Senza voler mitizzare il passato non si può cioè non constatare che la “forma” della città era decisa con metodi più democratici di quanto avvenga oggi.
Sul piano della libertà individuale, il fallimento dell’urbanistica moderna è dovuto anche all’imposizione dall’alto delle idee elaborate da architetti ed urbanisti che, dal Bauhaus in poi, passando per Le Corbusier, sono riusciti ad imporre l’idea di essere loro gli unici depositari della conoscenza e della verità. Questa cultura architettonica elitaria, che ben si sposa oggi con la globalizzazione economica e culturale, configura l’idea di un potere non democratico e rifiuta con disprezzo la possibilità che i cittadini abbiano qualsiasi capacità di decidere.
Scrive Le Corbusier in una lettera del 1946:
“L’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna”.
Anche Platone nel Politico afferma:
“Non crederemo certo che sia possibile che una moltitudine in una città possa acquisire questa scienza?..Una moltitudine di persone di qualunque genere non diverrà mai in grado di amministrare la città con intelligenza per avere acquisito tale scienza”.
La sintonia è perfetta e dunque di pre-moderno in campo urbanistico non c’è solo la limitazione dell’uso del bene privato ma c’è anche il patto tra sapere e potere, appannaggio degli esperti e della politica, e da cui il popolo è escluso in quanto ritenuto ignorante.
Di un’applicazione diretta e grossolana di questo pensiero ne è testimonianza l’uso invalso nella Russia di Stalin di costruire abitazioni con servizi collettivi e comunitari, al punto che i singoli alloggi erano progettati privi di cucina, allo scopo di fare forzosamente convivere insieme gli abitanti anche in uno dei momenti più intimi della famiglia, quello cioè dei pasti, annientando così la libertà individuale ma anche scardinando la famiglia stessa, annullata e assorbita nel bene supremo che è la collettività, cioè lo Stato. Un sistema che è stato veicolato dalla critica urbanistica occidentale al mondo come una forma superiore di vita collettiva, suffragando questa idea con il fatto che essa è nata proprio nell’occidente stesso, dove analoghi concetti furono poi applicati e magnificati nell’Unitè d’habitation di Le Corbusier.
Ecco dunque che si giustifica, all’uscita della proposta di legge del Piano Casa , la reazione immediata e viscerale di alcuni governatori, con il loro: “Noi non lo adotteremo”. Perché tanta reattività, poi in parte rientrata, pena la defenestrazione da parte della base? Perché il diritto automatico all’ampliamento del 20%, piccola cosa in verità, mette in discussione il potere di controllo della politica su milioni di proprietari di case. Il piccolo proprietario avrebbe ottenuto, probabilmente, lo stesso incremento nel corso del tempo, al piano regolatore successivo, ma passando, in questo caso, per tutta una serie di procedure in cui sarebbero stati i vari enti ad elargire, al termine di quell’estenuante rito collettivo che è la trattativa del piano, durante il quale il cittadino viene portato ad essere totalmente alla mercé della politica e della tecnica (in genere architetti e geometri).
In questo senso il Piano Casa ha destabilizzato uno schema politico consolidato, è stato cioè un gesto dal forte significato liberatorio.
Se dunque è inevitabile che l’urbanistica sia praticata attraverso strumenti pre-moderni è anche vero che si tratta di dosare tale strumenti in modo tale che si ribaltino i ruoli, e l’onere della prova, per poterli applicare, spetti allo Stato. Deve insomma avere fine l’atteggiamento punitivo che caratterizza il tono, lo spirito e la sostanza di molte leggi.
L’interesse pubblico esiste in campo urbanistico ma le limitazioni all’uso del bene, e dunque alla proprietà privata, per essere accettate devono essere fortemente motivate da un interesse pubblico e trovare contropartite in efficienza dell’amministrazione pubblica, in incentivi e in partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali della città.
Perciò la città deve essere chiamata a prendere le decisioni importanti, come è avvenuto, ad esempio, per la tramvia in Piazza Duomo, a Firenze. Possono essere trovati anche metodi più informali ma ciò che conta è che passi questo principio: la città appartiene a tutti i cittadini e non solo ai politici e tanto meno ai gruppi economici e agli architetti; nel caso di nuovi importanti insediamenti, di opere pubbliche, di progetti di concorso, si affianchi al giudizio degli esperti quello dei cittadini, senza bollare la democrazia come populismo dato che il suo contrario è proprio l’autoritarismo platonico.
Nota 1) vedi questo link all’Istituto Bruno Leoni sul caso Partigliano:
http://brunoleonimedia.servingfreedom.net/Focus/IBL_Focus_134_Boccalatte.pdf
15 maggio 2009
UNA CLASSE DIRIGENTE SENZA MEMORIA
Pietro Pagliardini
Non so dire come possa essere accaduto, né quando, ma è un dato incontrovertibile che la grande maggioranza della nostra classe dirigente ha perduto la percezione del tempo, della storia e con essa la memoria. Per classe dirigente intendo i politici, gli amministratori, i sindaci, il mondo della cultura (almeno quella che più appare), il mondo accademico, i media, le professioni, perfino le Soprintendenze che per definizione dovrebbero essere deputate a tramandarla intatta a chi verrà dopo di noi.
Come decifrare diversamente quello che sta accadendo nelle nostre città, in quasi tutte le città, comprese le nostre grandi città d’arte, compreso il povero Abruzzo che, dopo i danni del terremoto, dovrà subire anche la devastazione degli architetti famosi (per una volta non li chiamerò archistar), degli uomini immagine e simbolo stesso della perdita della memoria?
Dopo l’implosione dell’Unione Sovietica, la caduta del muro di Berlino e la vittoria, senza guerra, dell’Occidente e dei suoi principi di libertà, Fukuyama parlò di fine della storia. Non ho letto i suoi scritti ma solo articoli di giornali e riviste e ricordo che il senso del suo pensiero consisteva nel fatto che la democrazia liberale sarebbe stato il punto di arrivo del lungo cammino umano dal quale non sarebbe stato possibile tornare indietro. Dunque l’obbiettivo, almeno sotto il profilo politico, era stato raggiunto e, in questo senso, la storia avrebbe potuto considerarsi chiusa. Da molto tempo non mi appassionano più le grandi visioni e previsioni sul futuro e anche allora non detti molta importanza a questa teoria. Credo di avere avuto una facile ragione (lo scetticismo, purtroppo, premia sempre).
Però, in fondo, anche Fukuyama un po’ di ragione deve averla avuta perché, se è vero che il cammino dell’uomo prosegue, e con esso la storia, secondo strade difficilmente prevedibili da chiunque, è altrettanto vero che tutto ciò che è accaduto prima di quella data sembra dimenticato, rimosso, cancellato, come accade ad uno sportivo che, dopo aver tagliato il traguardo per primo, si gode la sua vittoria senza pensare a come essa sia maturata.
Molti sono gli esempi in tal senso, e non solo nel campo della cultura, dell’architettura e dell’arte; solo per citarne alcuni e per capire quanto sembrino lontane certe prospettive, almeno per me che, pur avendo i miei bei anni, non sono ancora medicalmente considerato vecchio e nemmeno anziano: l’eugenetica, che io associo all’infame vicenda del nazismo e che invece oggi ritorna travestita da conquista umanitaria e libertaria; l’anti-semitismo, tanto deprecato a parole ed esorcizzato con le dilaganti gite scolastiche ai campi di sterminio, quanto presente in maniera strisciante nella società e macabramente conclamato in alcune situazioni; le guerre di religione, che sembravano appartenere a secoli bui e lontanissimi da noi e che invece sono drammaticamente presenti in ogni parte del mondo. E molte altre.
Non sono questi, segni evidenti di perdita reale e pericolosa di memoria?
Lo stesso fenomeno si presenta, in maniera drammatica, nelle nostre città, nella percezione che la classe dirigente, appunto, ha dell’immenso e incommensurabile patrimonio culturale e architettonico che ci è stato consegnato e che essa sta distruggendo in nome di una generica e indistinta modernità.
Accade che la mancanza di pensiero riesce a far convivere gli opposti senza alcun ritegno o rigore logico; si prenda la parola magica che ricorre ormai più frequentemente parlando di architettura e urbanistica: “sostenibilità”.
Io non ho capito veramente cosa intendano dire quando la citano (spesso dubito che lo sappiano anche coloro che ne abusano) perché ormai viene appiccicata dappertutto, anche per vendere un Hammer, ma suppongo che vogliano significare la convinzione della esauribilità delle risorse del pianeta e dunque della necessità di farne un uso accorto e parsimonioso. A prescindere dal fatto se sia ragionevole o meno immaginare la fine delle risorse del pianeta in tempi rapportabili alla vita umana e non piuttosto a quelli dell’universo o almeno del sistema solare, mi verrebbe da pensare che ad un tale atteggiamento, giusto o sbagliato che sia scientificamente, dovrebbe corrispondere, come logica conseguenza, un’idea di “conservazione”, di rispetto per l’ambiente nella sua interezza, comprendendo in essa sia la poca natura incontaminata e selvaggia rimasta che la molta natura antropizzata esistente.
Mi parrebbe un modo di pensare e di comportarsi coerente con il concetto stesso di sostenibilità e, poiché l’Italia è praticamente tutta antropizzata, vale a dire che non esiste quasi area del paese che non sia stata modificata e adattata dall’uomo alle proprie esigenze (economiche, estetiche, sociali, psicologiche ) e dato che, di questa opera dell’uomo, la città è la massima espressione, proprio per questo essa dovrebbe essere oggetto di grande attenzione e tutela, specialmente in quelle parti che sono riconosciute come le più belle, le più ammirate dal mondo intero, le più irriproducibili perché nate in periodi storici completamente diversi dal nostro e che perciò meritano rispetto più di ogni altra cosa, per essere tramandate alle generazioni future.
Non vorrei tirare in ballo l’entropia in maniera impropria e non strettamente scientifica ma se una città presenta una forma ordinata e armonica e ha una sua struttura urbana forte e leggibile e in essa si introducono elementi esterni diversi e incongrui che la rendono illeggibile e ne indeboliscono e diluiscono la struttura originaria, si passa da uno stato di ordine ad uno stato di disordine ed è un processo che, almeno letterariamente e intuitivamente, aumenta l’entropia perché si perde informazione e perché quel processo è irreversibile.
Eppure processi di questo genere sono generalizzati tra amministratori e sindaci, i mandanti, con il silenzio colpevole delle Soprintendenze e con gli architetti come esecutori materiali. Gli esempi sono numerosi e noti.
L’Ara Pacis su cui a me sembra persino paradossale dover discutere: un progetto modesto in sé del quale Camillo Langone si domandava, appropriatamente, perché aver chiamato un americano famoso per ottenere un progetto che avrebbe potuto fare un geometra qualsiasi.
La pensilina di Isozaki, la seggiola come la chiama qualcuno, il gazebo come lo chiamo io: roba da bocciare a Composizione 1.
I parcheggi a ridosso della Fortezza da Basso, come dicevo nel post precedente, non opera di archistar, ma gravissima per il fatto stesso che una simile offesa alla città abbia potuto ottenere tutte le autorizzazioni del caso, compresa la Soprintendenza, senza che nessuno si accorgesse di quello che sarebbe accaduto (ma ci dobbiamo proprio credere a questa disattenzione?). Un caso emblematico di mancanza di classe dirigente nel suo complesso. Se son si fosse mobilitata l’opinione pubblica, che ha bloccato in corso d’opera la costruzione dell’ultimo piano, adesso saremmo addirittura al ridicolo internazionale!
La tramvia, sempre a Firenze, che chiude completamente la vista dell’ingresso e del viale del Parco delle Cascine!
E’ questa la sostenibilità, è questa la modernità sostenibile?
E non c’è differenza politica che tenga, in questo campo: Milano, Torino, Roma, Firenze, tutte rigorosamente schierate in quest’ottica modernista di ricerca dell’effetto spettacolare.
Ma se la memoria l’ha perduta il sindaco de L’Aquila allora vuol dire che la malattia è all’ultimo stadio.
Come è potuto accadere tutto questo?
La domanda non me la pongo per gli architetti, che sono stati i mandanti culturali della tabula-rasa, e che ritengo, nella grande maggioranza, ormai persi ad ogni ragionamento serio sulla città ma direi, semplicemente, a volere e sapere prestare attenzione alle caratteristiche e al sapore di un luogo rispetto ad un altro. Non me la pongo perché è una battaglia persa ma so anche che, se cambiasse la committenza pubblica ed istituzionale, se almeno questa avesse conservato una percezione minima del carattere della propria città e ne chiedesse con autorevolezza il suo fermo rispetto, gli architetti si adatterebbero, eccome, e rientrerebbero nei ranghi velocemente, anche se con difficoltà per la mancanza di attitudine mentale ad una interpretazione del progetto che non sia puramente “creativa”, cioè infischiandosene del contesto e del luogo e pensando all’architettura come se fosse design.
Mi pongo la domanda per le Soprintendenze, in cui enorme è il divario tra il trattamento che riservano al cittadino che vuole rifare il tetto rispetto all’Amministrazione che vuole “riqualificare” una piazza e a cui tutto viene consentito; e più contemporaneo è il progetto più esse si sentono interpreti del tempo e in linea con la modernità perché non sia mai che possano essere tacciate dell’accusa di essere “conservatori”.
Mi pongo la domanda per la classe politica che, cadute le ideologie del ‘900, sembra ritrovarsi smarrita e senza valori di riferimento, senza saper discernere ciò che è effimero da ciò che è permanente e si comporta come il nativo americano davanti a Cristoforo Colombo, scambiando inutili oggetti luccicanti con l’oro.
La vera tabula-rasa è nella testa di molti sindaci che aspirano al grattacielo, al grande nome, a lasciare un segno forte che li porti all’attenzione delle cronache come innovatori, invece che dedicarsi ad interventi di manutenzione e restauro piuttosto che squalificante “riqualificazione”; invece che acquistare gadgets costosissimi dissolvendo un patrimonio culturale non riproducibile e fare operazioni altamente “insostenibili”.
P.S. Leggo ora sul Corriere della Sera dello strano caso di un uomo che ha perso completamente la memoria ma cita a raffica particolari minimi e dettagliatissimi di tutta la sua vita che però sono frutto della sua fantasia. I medici hanno dato un nome a questa forma di amnesia: "iperamnesia confabulatoria".
Mi sembra un termine che ben si adatta al sindaco di L'Aquila che dice di ricordare benissimo, e di rimpiangere anche, il suo centro storico distrutto e poi dichiara di voler chiamare le Archistar per ricostruirla!
14 maggio 2009
13 maggio 2009
ARCHISTAR PER RICOSTRUIRE IL CENTRO STORICO
Pietro Pagliardini
“Via Fortebraccio, via Bone Novelle, via San Martino, via Garibaldi, il Corso, i vicoletti di zona Pretatti e Ortolani dove nelle domeniche d’estate al tramonto andavo a passeggiare con mia moglie. Ecco, tutto questo vorrei farlo tornare com’era prima”.
E’ il sindaco di L’Aquila, Massimo Cialente, che, sul Corriere della Sera parla e ricorda con affetto e rimpianto sincero luoghi cari a lui e sua moglie. E par di vederla questa coppia felice aggirarsi a braccetto tra strade dai nomi noti e vicoletti con squarci di cielo tinti di rosso. Se non ci fosse il titolo dell’articolo ad averci avvisato del contenuto dell’intervista, verrebbe da pensare che il sindaco abbia in mente una ricostruzione “dov’era e com’era”. Verrebbe da pensare che il sindaco di L’Aquila abbia presente il sindaco di Gemona in Friuli. Verrebbe da pensare che, insieme alle case degli aquilani, egli sia fermamente intenzionato a ricostruire la loro memoria, a conservare la loro identità, a riaffermare la resistenza dell’uomo alle forze della natura.
Invece c’è quel titolo che fa comprendere tutto. Tutto fuorché le parole del sindaco, in patente contrasto con la sua intenzione di chiamare le “grandi star dell’architettura” per ricostruire la sua città.
Risulta difficile persino fare ironia. Se, anche per assurdo e contro le mie abitudini, tentassi di mettermi nei panni altrui e mi sforzassi di penetrare nella sua mente per indagare sulle ragioni di una tale scelta, ipotizzando che egli abbia voluto fare una provocazione, oppure che voglia tenere alta l’attenzione del paese sui problemi dell’Abruzzo, oppure che sia un convinto assertore dei progetti spettacolari e modaioli delle Archistar e che sia un seguace di quel filone di sindaci che, in mancanza di idee per la propria città, utilizza la scorciatoia del grande nome per mettersi al riparo da critiche e per gettare fumo negli occhi ai suoi concittadini; se anche ci provassi non potrei riuscirci perché non c’è un minimo di razionalità e logica tra i dati e la soluzione del problema: far tornare come prima quell’ambiente e quell’atmosfera che dice di rimpiangere con i progetti delle archistar!
E’ concettualmente sbagliato che qualsiasi membro appartenente alla categoria “archistar”, a prescindere da giudizi di merito, possa e voglia cimentarsi nel “dov’era e com’era”, in base alle dichiarate aspettative del sindaco, altrimenti non farebbe parte di quella categoria ma di un’altra.
Ma il sindaco non lo sa, evidentemente, e forse pensa, in buona fede, che sia conciliabile una città “dagli scorci inimitabili: archi, portici, cortili, davanzali” con opere in acciaio, vetro, grigliati, c.a., ecc.
D’altronde ci vuole comprensione perché non è solo, come già detto: a Firenze, che per fortuna non ha avuto terremoti, ma ha avuto un sindaco del 6° grado Richter, si ritrovano con una Fortezza da Basso coperta da una lato da un parcheggio semi-interrato cui è stato anche eliminato un piano in corso d'opera, e dall’altro da una lunga reception in acciaio e vetro, dove lo sforzo e la capacità del progettista non possono essere sufficienti ad impedire l'inevitabile ingombro visivo delle mura; si ritrovano anche una Piazza Santa Maria Novella “riqualificata” con sedute a parallelelipedo in acciaio corten e anche in vetro e acciaio uso teca per orefici e una pavimentazione, di quello che è divenuta uno slargo indistinto, in pietra ma con rigatura trendy, uso show-room. Forse queste opere, dei cui autori non so il nome, non sono archistar in senso stretto ma fanno parte della stessa logica perché sono liberi, creativi, artisti insomma. D’altronde si sono cimentati nel superbo tentativo di competere e confrontarsi con il Sangallo e Leon battisti Alberti e chi se non un artista può competere con questi nomi.
Il sindaco Cialente è “sub commissario per la ricostruzione del Centro Storico”, e lui chiama le archistar! Ma oltre il sub commissario, io dico, ci sarà un supercommissario che stia sopra il sub e che lo richiami alla realtà? Se non ci fosse .... non ci resta che sperare in Bruno Vespa.
L'immagine aerea è tratta da Microsoft VirtualEarth
5 maggio 2009
OGNI SANA RIVOLUZIONE URBANISTICA DEV’ESSERE ORIZZONTALE
Questo articolo, scritto da Paolo Masciocchi, da Pietro Pagliardini e da Nikos Salìngaros, è stato pubblicato da Il Foglio il 30 aprile 2009.
Il Vice Direttore Esecutivo de Il Foglio, Daniele Bellasio, ci ha autorizzato a postarlo.
Il dibattito di questa stagione politica, teso tra città da ricostruire e incentivi a rideterminare periferie e aree urbane sterili, mostra che l’Italia si sta preparando ad un’importante revisione del pensiero urbanistico delle città. Per meglio contribuire a questo cambiamento radicale, desideriamo esporre la nostra proposta.
La ragione per la quale si realizza una città è la costruzione e la crescita della comunità dei cittadini che la abitano. E la comunità urbana non riesce a svilupparsi al di fuori di proprietà geometriche molto precise dell’abitato.
“Città” significa una rete di spazi pubblici definiti dal tessuto edilizio urbano, da realizzare con dimensioni in scala umana, secondo proporzioni e rapporti matematici che possono risultare facilmente sensibili all’intervento umano. Su questa struttura geometrica, che richiede l’attività degli esperti e non può essere demandata alla politica, va a sovrapporsi lo sviluppo di una maglia connettiva che permette l’interazione di singole reti molto diverse tra loro, come quella pedonale, del trasporto pubblico, la rete automobilistica e la rete industriale degli autotrasporti e delle ferrovie. In forza di questa visione, è possibile creare una città compatta nella dimensione orizzontale, che costituisce il punto di partenza per uno sviluppo corretto dello spazio civico. È uno sbaglio credere di ottenere la densità giusta attraverso una crescita verticale della città, perché tale dimensione alimenta un processo di scollegamento tra gli elementi urbani e tra le persone. La nostra soluzione vuole spazzare via la debolezza delle posizioni circolanti con alcune indicazioni precise.
Riteniamo occorra una progettazione delle piazze pubbliche in situ, senza preconfezionate geometrie standard (tipiche quelle a semicerchio), perché ogni luogo genera la propria geometria urbana come conseguenza naturale dell’applicazione di codici generativi.
La nuova città va concepita come una rete di connessioni a cui case ed edifici si devono adattare. [Il tessuto urbano vive di questa simbiosi, e i manufatti architettonici devono trovare collocazione nella sfera della geometria connettiva degli spazi della città. E ancora, desideriamo allontanarci dai prodotti abitativi mirati e dedicati ad una specifica funzione: i quartieri solo residenziali, le aree solo commerciali, o industriali, o di servizi, nonché le soluzioni urbanistiche rivolte ad un target determinato]. La nuova città costruita secondo il nostro modello assomiglia più al tessuto urbano medioevale che a quello tipico della pianificazione di stampo moderno.
La natura è inclusa in modo intimo, su piccola scala, e strettamente collegata alle strutture artificiali, con la stessa logica dei frattali. Se dunque la matrice centrale è l’individuo, tutto ciò che straborda dalle dimensioni umane è da eliminare alla radice.
Lo studio della biofilia urbanistica ha dimostrato che l’uomo ha bisogno d’uno stretto contatto con la natura, cioè la città umana deve mescolarsi con piante e verde alla scala più intima dell’ambito cittadino, quella del diretto contatto. Tuttavia non basta unire edifici e verde senza criterio, specie se la natura diviene un elemento addolcente e giustificativo di orrori architettonici.
Operare secondo il gusto compositivo individuale dell’urbanista, può condurre facilmente a far smarrire alla natura la sua stessa funzione integrante l’abitato, come è accaduto nelle città intrise del modernismo di Le Corbusier, dei palazzi fluttuanti tra prati sterili e non vissuti.
Gli esempi migliori di aggregazione di edificato e natura sono da ricercare in ciò che rimane dei piccoli giardini della città tradizionale ottocentesca, e ancora nei centri storici delle città europee che sono gli unici a favorire lo scambio sociale. È invece fuori da ogni logica scientifica di vivibilità il miscuglio delle tipologie urbane verticaliste con il verde a corollario, anche inserito a dosi massicce. Tutte le soluzioni così prospettate sono dei non-luoghi utopici, validi solo a suscitare le attenzioni del marketing e un fracasso sensoriale. Infatti, queste tipologie artificiali di abitato non definiscono comunità di esseri umani a causa della loro geometria, che risulta ostativa per sua natura a tale sviluppo.
Dunque, occorre capire cosa si nasconda dietro l’espressione “città-giardino”, perché il nome in sé esercita fascino su molti, inducendo una visione semplice e immediata fatta di un sentimento di ritorno alla natura e di una reazione al caos e al disordine della città contemporanea. Il movimento d’opinione e l’eco mediatico indirizzato a proporre nuovi orizzonti di urbanità ci spinge a consigliare ai politici di non seguire modelli già risultati fallimentari. Tra gli slogan della sinistra pseudo-ambientalista e la visione decisionista della destra, che nelle amministrazioni locali fanno il gioco delle archistar e degli immobiliaristi, occorre che si faccia largo un’opzione innovativa e culturalmente valida, da cui chi governa può attingere senza pregiudizi.
L’urbanistica è una scienza giovane, che risulta essere ancora incompleta, perché dominata da uno spirito fondato su dogmi autoreferenziali. È tempo che la politica e i cittadini se ne accorgano, e contribuiscano a favorire una visione più corretta del rapporto tra il costruire e il vivere bene.
La foto aerea di Arezzo è tratta da Virtual Earth
1 maggio 2009
TUTTI A PARIGI, FINCHE' SIAMO IN TEMPO!
Pietro Pagliardini
Instant-post questo e con ancor meno pretese del solito. Solo un consiglio: chi già è stato a Parigi, ci torni prima possibile e se la goda. Chi non c'è stato ancora, fugga a vederla perchè, se va avanti così, la Parigi che vedranno sarà un'altra cosa.
I 10 progetti per la Parigi del XXI secolo sono arrivati al loro iter finale.
Si dirà: ma Parigi è sempre cambiata, anche in maniera drammatica. Sono state abbattute chiese e monumenti. Sono stati tracciati viali riconfigurando gli isolati in modo drastico. La modernità high-tech è entrata nel cuore della città (e ora si parla di smontarla e rimontarla altrove), i parchi stessi sono qualcosa d'altro che altrove. Ma proprio ieri leggevo che la cosa considerata più brutta dai parigini è il grattacielo Montparnasse (segue l'Opera Bastille), e oggi vedo una selva di guglie alla Gaudì spuntare lungo la Senna!!!
Andiamo a Parigi, finché non sarà come Dubai!
26 aprile 2009
COMMENTO DI VILMA TORSELLI SULLA CHIESA DI FOLIGNO
Ho ricevuto questo commento di Vilma Torselli sul progetto della Chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Come faccio spesso quando ho fretta l'ho dapprima pubblicato nello spazio dei commenti, riservandomi di leggerlo con calma. Dopo averlo fatto, pur nella diversità di opinioni, mi sono reso conto che quel luogo era troppo stretto.
Ogni attività creativa dell'uomo produce immancabilmente simboli: unendo significati lontani e sintonizzandoli su un significato comune, l’opera costituisce il medium per svelare intrinseci valori simbolici ed un segno o una forma possono far riferimento ad una realtà non raccontata, ma resa comprensibile alla nostra capacità percettiva al di fuori dei normali processi razionali.
Come afferma Freud, il simbolo è un'eredità filogenetica grazie alla quale l'uomo ha una disposizione mentale che lo mette in grado di relazionare le pulsioni e le emozioni psichiche con gli oggetti, il campo della rappresentazione visiva è quello nel quale queste capacità relazionali vengono utilizzate costantemente e al meglio.
Si dice che "ogni figura racconta una storia", e questa asserzione generale vale per gran parte dell’arte, se si eccettua la ’mera’ decorazione geometrica.", così scrive Gregory Bateson ( "Verso un’ecologia della mente", 1997), e vale, aggiungerei, per l’architettura, che come l’arte è chiamata a istituire un criterio formale che convogli il linguaggio verbale verso la codifica iconica dell’immagine.
Tutte le attività umane, l’arte, l’architettura, che si esprimono attraverso segni acquistano un valore simbolico al di là della rappresentazione pura e semplice, per addivenire attraverso il simbolo alla rappresentazione visibile dell’invisibile.
Se accettiamo l’idea che l’architettura debba immancabilmente organizzare lo spazio secondo una funzione e al tempo stesso rappresentare i modi e il senso nei quali la funzione viene espletata, in relazione al contesto culturale in cui si colloca e che in essa si riconosce (da cui il valore simbolico dell’architettura), si comprende come tutto possa essere simbolo, che lo diventi o meno dipende dal significato che l’uomo gli attribuisce, in determinate circostante, in determinati contesti, nell’ambito di una realtà culturale precisa.
La religione ha sviluppato una vera e propria teologia simbolica, incorporando il concetto che il simbolo è mezzo per denunciare ed al tempo stesso surrogare l’inadeguatezza della parola o dell’immagine ad esprimere il sacro, cosicché l’architettura religiosa è per eccellenza quella che più si esprime attraverso una grande ricchezza di contenuti simbolici.
Tuttavia l’esecutore dell’opera, l’architetto che progetta un luogo sacro, esprime, sì, nella forma architettonica precisi contenuti liturgici e dogmatici codificati dalla tradizione religiosa, ma anche il senso che in quel momento storico e in quel contesto sociale viene annesso a quel tipo di edificio, filtrandolo, e questo è un passaggio chiave, attraverso il suo vissuto umano e culturale conscio o inconscio.
Solo grazie a questo passaggio un’architettura ‘simbolica’ diventa ‘simbolo’ (vedi la La Chapelle Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp).
Detta in parole povere, nella chiesa di Foligno Fuksas ci ha ‘messo del suo’, egli stesso spiega il significato della modesta elevazione del terreno, del taglio trasparente alla base, “la sospensione di un volume all’interno di un altro”, ecc.
Questi sono innegabilmente contenuti ‘simbolici’ che si sovrappongono a quelli dogmatici con il rischio reale di prevaricarli (rischio peraltro di tutta l’architettura moderna) e con la possibilità di una reificazione dell’architettura in oggetto architettonico. Ma questo rischio c'è sempre stato e sempre ci sarà, finchè, per fare una chiesa, non decideremo di mettere tutti i dati (dogmatici e liturgici) in un computer che, dopo una bella ‘shakerata’, sfornerà la chiesa perfetta!
Ciao
Vilma