Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


19 ottobre 2011

COMMISSIONI "GRATUITE" PER INTERVENTI GRATUITI

di Ettore Maria Mazzola

Purtroppo quello che è circolato in questi giorni sul Blog Archiwatch del buon Prof. Muratore non era uno dei suoi simpatici scherzi firmati “Falso Cascioli”, è tutto vero e documentato sul sito istituzionale del Comune di Roma, sulla pagina ufficiale si legge:

“Il giorno 4 ottobre 2011 e il giorno 11 ottobre 2011 alle ore 14,30 alla presenza dell’Assessore all’Urbanistica, avv. Marco Corsini, si sono insediate ufficialmente la “Commissione Piazze” e la “Commissione Grattacieli”, entrambe istituite dal Sindaco di Roma Capitale”.
“La Commissione Piazze, è presieduta dal Prof. Paolo Portoghesi, Architetto di fama internazionale, è composta dal Prof. Francesco Cellini, Architetto di fama internazionale e Preside della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre, dal Prof. Bruno Dolcetta, Architetto Docente di Urbanistica allo IUAV di Venezia, dall’Arch. Francesco Coccia, Direttore del Dipartimento Periferie di Roma Capitale, e dall’Ing. Errico Stravato, Direttore del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma Capitale, e ha il compito di individuare i siti idonei ad ospitare nuove piazze nell’ambito della città periferica nel territorio di Roma Capitale.
La Commissione Grattacieli, presieduta dall’Ing. Errico Stravato è composta dall’Arch. Massimiliano Fuksas, Architetto di fama internazionale, dall’Arch. Daniel Libeskind, Architetto di fama internazionale, dall’Ing. Francesco Duilio Rossi, Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, dall’Arch. Amedeo Schiattarella, Presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Roma, dal Prof. Livio De Santoli, Ingegnere esperto di energia per l’Università di Roma "La Sapienza", e ha il compito di individuare i nuovi siti adatti ad ospitare edifici con tipologia edilizia a sviluppo verticale.
Entrambe le Commissioni vedono la presenza dei loro componenti a titolo gratuito e hanno l’obiettivo di elaborare le linee guida per ogni sito individuato, unitamente alla procedura concorsuale che verrà successivamente bandita. Nel corso dei due incontri si è stabilito di calendarizzare i lavori delle Commissioni e selezionare i siti che verranno analizzati
”.

Il sindaco Alemanno venne eletto anche grazie alla promessa di provvedere a mettere fine alla campagna di devastazione della Capitale, inaugurata dal sindaco Rutelli e portata avanti da Walter Veltroni, ma ben presto i romani si sono dovuti accorgere dell’inganno.

Nulla è stato fatto per rimuovere la “Bara-Pacis” di Meier, anzi è stato proposto di realizzare un mega parcheggio ed un tunnel a suo supporto. Poi, sul problema dei palazzi demoliti nel ’39 lungo via Giulia, la giunta aveva inizialmente affidato al prof. Marconi (che con il sottoscritto e le Università di Notre Dame, Miami e Roma Tre, aveva prodotto un testo e dei progetti pilota) la redazione di un Bando internazionale per la ricostruzione filologica degli edifici da destinarsi ad Università per Stranieri a Roma, successivamente – di comune accordo con personaggi il cui amore per Roma e conoscenza della città sono ancora da dimostrarsi, nonostante la loro presenza nelle commissioni di cui sopra – il sindaco decise che la ricostruzione andava fatta ma non dovesse essere assolutamente basata su principi filologici! La storia vergognosa di questa faccenda è stata ampiamente raccontata e non merita ulteriori commenti, se non che dal ricordo dello scandalo legato all’appalto del parcheggio che dovrebbe sorgere in quel punto ed al tentativo di devastazione dei reperti archeologici trovati nell’estate di due anni fa. Poi c’è stato lo “strano caso” per cui il sindaco ha sostenuto a tutti i costi il progetto per Tor Bella Monaca e il “no” alla rigenerazione del Corviale su cui occorre stendere un velo pietoso. Che dire poi dei platani abbattuti dove si vorrebbe far sorgere le strutture delle ipotetiche Olimpiadi? Ma sono troppe le cose da raccontare, e allora mi limito a far qualche riflessione nella speranza che il sindaco e i suoi “esperti” facciano altrettanto.

Alemanno, forse a causa delle sue origini politiche, probabilmente vuole impersonare il ruolo del leader della nuova “era del piccone” e così, non pago degli scempi che ha promosso e sostenuto finora, ha deciso – complici i suoi “coltissimi” consiglieri ed assessori – di istituire due commissioni, una più insulsa dell’altra … forse per questo si sono premurati di sottolineare, di seguito ad ogni nome chiamato al capezzale della Capitale “Architetto di fama internazionale”, peccato però che questi personaggi, nella loro carriera, non hanno fatto altro che mostrare la “fame di fama” e perfino l’odio più totale nei confronti della tradizione e della storia!

Qualcuno potrebbe azzardarsi a scagionare da questa categoria di devastatori il prof. Portoghesi, ma poi basterebbe ricordarsi le parole che hanno accompagnato il suo progetto per via Giulia, oppure andare a vedere la piazza mostrata durante la conferenza sul futuro di Roma, o la proposta per Piazza San Silvestro, per rendersi conto che, sebbene abbia scritto libri mirabili in materia di “Barocco”, non provi alcun interesse per la progettazione dello spazio che quel meraviglioso periodo ha prodotto. A ben vedere, il suo unico interesse sembra rivolto alla forma della pavimentazione disegnata da Michelangelo per la Piazza del Campidoglio, forma che ha colonato gratuitamente (come i suoi incarichi gratuiti di cui sopra) ogni qualvolta gliene sia capitata l’occasione in giro per il pianeta. Che garanzie può dare un Presidente di Commissione per le Piazze che disegna piazze fini a se stesse, dove ci si deve recare e ripartire in elicottero perché non hanno alcuna relazione spaziale con una sequenza urbana pedonale? Quali mirabili piazze avrebbero realizzato, o perlomeno studiato e compreso, gli altri “architetti di fama internazionale” della Commissione?

Quanto all’altra Commissione, quella per i Grattacieli, c’è da restare annichiliti alla sola idea di istituirla, specie dopo che l’intera popolazione (non solo romana) s’era mobilitata per spiegare al sindaco, ed ai suoi sponsors, che quella del grattacielo è una tipologia che non appartiene né a Roma, né all’Italia, tipologia da ritenersi folle nell’era della sostenibilità. Si vede che gli sporchi interessi che girano dietro l’edilizia e il mercato fondiario hanno fatto decidere ai nostri amministratori di calarsi le braghe davanti a chi ha intenzioni speculative.
Il solo pensiero che della commissione facciano parte Fuksas, (che attualmente sta sfregiando l’edificio dell’ex Unione Militare all’angolo tra via del Corso e via Tomacelli) e di Liebskind (che ha finora dedicato la sua vita professionale a far violenza agli edifici storici come il Museo di Dresda), non può che suscitare incubi nella popolazione romana che, si deve supporre, vedrà massacrare il suo skyline, e probabilmente il suo centro storico, per lasciar posto quelle infernali macchine di distruzione ambientale che sono i grattacieli.

Non meravigliatevi se, di qui a poco, vedrete spuntare progetti che parlano di “grattacieli sostenibili” o di “boschi verticali”, saranno i nostri “esperti di fama internazionale” a proporceli, ci racconteranno che sono cose che si fanno all’estero, ci racconteranno che stanno cercando di farlo a Milano … ma questo non vuol dire che le parole e le immagini corrispondano alla realtà! Del resto se chiedessimo ad un produttore di pesticidi se sono nocivi non ci risponderebbe mai onestamente, né se chiedessimo ai produttori di alimenti geneticamente modificati quali possano essere gli effetti collaterali essi ammetterebbero mai una simile possibilità.

È incredibile che in questa nazione, e in questa città, ci si accorga sempre in ritardo di come le cosa vadano nel resto del mondo. Basta fare una semplice ricerca nel web, digitando “grattacieli abbandonati” o “ghostscrapers” o “abandoned skyscrapers” per trovare migliaia di pagine che raccontano come nel resto del mondo, dove questa tipologia è stata sposata, essa si è rivelata fallimentare. Onestamente basterebbe conoscere le ultime notizie su Dubai per rendersene conto, eppure sembra che, ottusamente, alcuni “architetti di fama internazionale” e i loro mecenati politici, non vogliano ammettere a se stessi la dura realtà.

Roma s’è già resa ridicola agli occhi dell’intero pianeta il 20 luglio 1972 quando, 5 giorni dopo l’abbattimento del complesso Pruitt-Igoe – ritenuto "ambiente inabitabile, deleterio per i suoi residenti a basso reddito” – evento che lo storico americano Charles Jencks aveva decretato “la morte di quelle utopie”, venne deciso di realizzare il progetto per Corviale a Roma!

Evidentemente dobbiamo credere a chi sostiene che i nostri attuali politici siano diabolici: errare è umano, perseverare è diabolico!

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17 ottobre 2011

DUE STORIE DI SUCCESSO DALLA PROVINCIA

Sabato 15 ottobre si è svolta la festa per il 30° anniversario dell’istituzione dell’Ordine degli Architetti di Arezzo. Oltre al riconoscimento ad un gruppo di decani, del quale mi onoro di non fare ancora parte ma a cui auspico fortemente di arrivare a farne parte … il più tardi possibile, c’è stata una tavola rotonda di colleghi di ogni età, ognuno a rappresentare un modo diverso di svolgere la professione di architetto.

Non farò un resoconto completo che sarebbe lungo e fuori tema ma mi soffermerò su due giovani, laurea nel 1998, un uomo e una donna (par condicio e pari opportunità e pari tutto puramente casuale) proiettati con successo in un genere di attività professionale che non ha confini, in senso fisico, vale a dire nel mondo: il primo, Maurizio Meossi, è Lead architect nello studio di Zaha Hadid e attualmente segue il cantiere CityLife a Milano; la seconda, Simona Franci, fa parte di una corporate (è lei che la chiama così) che, tanto per inquadrare il livello, ha come cliente, tra gli altri, il gruppo Ferrari per cui cura gli allestimenti dei vari “negozi” (e mi scuso perché non si chiamano così, ma non si chiamano nemmeno concessionarie, si chiamano in altro modo che non ho capito). Non si tratta di 4 o 5 negozi, ma di 300 in tutto il mondo e attualmente sono circa 60 in allestimento. Il bello è che lei vive ad Arezzo, è sposata ed ha un figlio, viaggia spesso ma la sua base operativa è ad Arezzo. A quello che ho capito praticamente lavora in casa grazie all’informatica. Incidentalmente, è anche piuttosto bella. Fantastico!

Prima considerazione, doverosa ma sincera: fa piacere sapere che giovani della mia città o provincia abbiano successo e abbiano saputo guardare al futuro con ottimismo e volontà e, da quello che ho capito, senza “accosti” o conoscenze personali ma solo facendo affidamento sui propri mezzi. Mi auguro che altri ve ne siano oltre a questi, ed è possibile dato che pur avendo conosciuto qualche anno addietro Simona non sapevo di questo suo successo, come non sapevo niente di Meossi.

Fino a qui la premessa, non breve ma necessaria. L’architetto Meossi ci ha raccontato, oltre al suo percorso post laurea e del suo master a Londra, della esperienza in atto nello studio della Hadid, con circa trecento addetti nelle varie parti del mondo, del fascino della persona, dell’amore e della dedizione che egli ha per la sua professione, della dimensione internazionale dello studio, del processo di elaborazione del progetto che naturalmente non è paragonabile a quello di uno studio di provincia.
Io, dopo avergli esternato i miei sinceri complimenti per la sua attività che per molti colleghi è un traguardo inarrivabile, gli ho chiesto se non ritenesse che quel tipo di processo progettuale avesse più a che fare con il sistema produttivo tipico di un brand, di una griffe, cioè di un’industria che deve garantire un prodotto riconoscibile con un certo standard e ho concluso chiedendo che cosa resti alla fine dell’architettura. Domanda brutale, mi rendo conto, ma i tempi erano contingentati. E’ chiaro che volevo significare il fatto che se lo scopo, la mission è tenere alto il marchio, l’architettura intesa come progetto prodotto per quello scopo in quel determinato luogo c’entra poco mentre c’entra moltissimo l’oggetto in sé, esattamente come un paio di scarpe, una borsa, un abito. Lui mi ha risposto laconicamente: “La risposta è nel cantiere di CityLife che io seguo”.
Risposta intelligente e abile, senza dubbio, che dimostra attaccamento e fedeltà al proprio lavoro ma che elude chiaramente il problema.

Alla mia domanda ha però risposto indirettamente e molto bene l'architetto Franci, entusiasta quanto Meossi, ma del tutto calata, senza infingimenti, nella realtà industriale e d’immagine in cui lei opera. Ha detto che nel suo lavoro non ha mai fatto uso del timbro professionale, che l’unica volta che l’ha utilizzato è stato per casa sua, che lei non conosce, e si vanta di non conoscere una legge una (oh, che invidia!), che non le vuole conoscere perché non le servono, che il suo lavoro consiste nel soddisfare il cliente fornendogli dettagli anche in scala 1:1 che siano perfetti, che ognuno dei trecento progetti sarà diverso nell’adattamento alle singole “locations” dall’altro ma il concetto è sempre lo stesso.

Mi pare chiaro che i due lavori, pur con organizzazioni diverse e nella diversità dell’oggetto prodotto, sono sostanzialmente analoghi quanto a finalità, obiettivi e processo di produzione. I progetti della Zaha Hadid poco hanno a che fare con l’architettura (questo è il mio parere, ovviamente), anche se una volta realizzati sono, purtroppo, architetture. Dico purtroppo perché restano e perché vengono considerate e venerate come tali dagli architetti. Sono invece, io credo, oggetti artigianali nel processo costruttivo (il cantiere edile non è mai industria) il cui processo progettuale è invece industriale e in questo io trovo molta più coerenza intellettuale nella collega, consapevole e soddisfatta del proprio ruolo e priva di qualsiasi intenzione di lasciare un segno che non sia quello prettamente d’immagine per l’azienda prestigiosa per la quale opera.
Lei sa di fare parte di un segmento importante, e suppongo e spero per lei, anche redditizio, della professione di architetto ed anche ad altissimi livelli, ma non ha minimamente ammantato il suo racconto di quel velo di romanticismo architettonico, di mitizzazione del proprio prodotto in quanto Architettura che deve fare scuola e passare alla storia. Ha solo mostrato un grande e legittimo entusiasmo per il suo successo professionale, consapevole del ruolo che lei svolge nel mondo dell’industria per l’immagine di un marchio come la Ferrari.

Non so se l’architetto Simona Franci diventerà presto archistar, ma se lo diventasse mantenendo questo stile, distruggerebbe l’immagine stessa delle archistar come si intendono comunemente perché farebbe comprendere a tutti di cosa si parla. A meno che anche in lei non risorga quel tarlo che tutti gli architetti hanno nascosto dentro di voler murare, di voler lasciare nel territorio un segno concreto e duraturo del loro passaggio su questa terra.

 Credits:
La foto dell'Arch. Meossi è tratta dal sito ufficiale di Zaha Hadid
La foto di Simona Franci è tratta dal sito della società Fortebis Group

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13 ottobre 2011

L'INGANNO DELL'ARCHITETTURA COME TESTIMONE DEL TEMPO

Torno a casa e, in attesa di cena, sfoglio la rivista trimestrale della nostra cassa di previdenza e vedo un articolo dal titolo “Il nuovo e il vecchio. Riflessioni sul dibattito attuale per un possibile dialogo (tutto italiano)”, di Antonio Crobe. Grazie a Internet vedo che è un delegato della Cassa, ma questo non è importante.
Mi interessa il “possibile dialogo”, cioè la proposta, proprio oggi, il giorno dedicato, diciamo così, al rompighiaccio di Dresda.

Mi ha anche colpito il commento di biz, cioè Guido Aragona al post precedente perché ho la sensazione che quello che lui scrive abbia un fondamento logico più sottile di come appaia ad una prima lettura e so che non è certo un cieco adoratore di scriteriati progetti.

C’è prima un inquadramento generale dei termini del problema, qualche giudizio sbrigativo - ma non sono certo io titolato a far critiche del genere - e infine la parte propositiva.
La possibile soluzione consiste nella “conoscenza profonda del passato [da cui] si possono trarre i principi per la progettazione del nuovo che risulterà fortemente ancorato alla storia e che costituirà un valore aggiunto. Bisogna discernere sia da una conservazione assoluta, tesa alla musealizzazione dell’esistente, che dal criterio di intervento sul costruito inteso come sopraffazione del testo, al fine di aggiungervi la propria griffe. L’intera questione deve, forse, essere ricondotta nell’alveo del “progetto” (virgolettato nel testo), luogo dell’equilibrio di esigenze complesse”.


E poi continua con l’architetto che ha il “compito di amministrare il cambiamento in atto, un inserimento nuovo nel vecchio che deve essere soprattutto un innesto, che è rispetto della memoria, ma anche nuova proposta”. Alcune altre considerazioni dello stesso tenore per concludere che occorre “evitare così di cadere nell’immobilismo”.

Eccoci al dunque, evitare l’immobilismo attraverso il progetto. Ma cos’è l’immobilismo, a quali casi pensa l’autore, a quali situazioni fa riferimento? Immobilismo ha valenza negativa in molti campi ma in molti altri stare immobili può garantire la soluzione e la sopravvivenza. In politica non si può stare sempre immobili, ma in certi casi farlo può evitare disastri. Senza immobilismo la guerra fredda sarebbe stata anche troppo calda, ad esempio. Quindi cominciamo col ribaltare i termini del discorso perché è sempre lo stesso trucco: dare per scontato, attraverso l’uso di termini che hanno un consolidato quanto non sempre giustificato valore negativo, che certe condizioni sono sbagliate e vanno superate per aprire la strada al nuovo E’ una tecnica, in gran parte involontaria, ma molto subdola.

Invece che parlare di immobilismo, domandiamoci dove, perché e in quali casi si dovrebbe intervenire nei centri storici con nuove costruzioni. Domandiamoci perché “Caratteristica inconfondibile delle nostre città storiche è la stratificazione di epoche diverse, la capacità di cambiare aspetto adattandosi ai contesti sociali e culturali che si avvicendano nel tempo” e oggi, invece, questa caratteristica è fortemente e, secondo me, giustamente, contestata!
Non è difficile la risposta: il modernismo - è un dato oggettivo - ha voluto rompere con la storia e le tradizioni ma la memoria non è così facile da cancellare come sembra. Certo, si può distruggere e demolire ma la memoria resta ugualmente e, quanto più traumatica essa sarà, tanto più forte sarà il desiderio umanissimo di riavere ciò che è andato perduto.
Non è neppure una condizione culturale, piuttosto è antropologica. Si dà il caso che da una parte i nostri centri storici esistono, sono lì in piedi, nonostante il tempo, sopravvissuti ai terremoti - salvo i casi in cui è intervenuta malamente la modernità - e dall’altra c’è la città nuova, le cui case sembrano soddisfare meglio esigenze del vivere contemporaneo ma dove lo spazio pubblico è assente o sbagliato e dove l’insieme non appaga, non è appagante o almeno, a livello puramente emotivo e magari non perfettamente consapevole, se ne intuisce il differenziale di valore tra l’una e l’altra parte di città. Il dubbio, come minimo, dovrebbe essere, ed è, lecito per tutti perché ogni cambiamento, ogni trasformazione è da decenni un peggioramento.
Solo architetti e politici, nella loro smania di apparire, di cogliere una visibilità e un successo effimero, gli uni per vanità professionale, gli altri per consenso elettorale, sembrano convinti del contrario.

Ma c’è un paradosso straordinario in questa volontà di lasciare il segno con sulle spalle il bagaglio di una “conoscenza profonda del passato”, come è scritto nell’articolo: gli innovatori del passato non ragionavano in termici storicistici, operavano in continuità con il loro presente, talvolta a piccoli passi, talvolta con concezioni diverse e “dissonanti”, ma sempre e comunque nel solco di una evoluzione. La rottura avvenuta nei primi anni del ‘900 ha stravolto questo metodo, la specializzazione estrema del mestiere di architetto, la rigida periodizzazione degli “stili”, ciascuno dei quali visto come una necessaria e consapevole volontà di cambiamento, attribuendone uno per ciascun periodo, ha fatto perdere ogni legame effettivo, almeno a livello spontaneo, con il passato e con ciò che di esso è rimasto nella città.

Solo una logica intellettualistica e autoreferenziale del genere può far pensare che sia naturale e doveroso “lasciare il segno di un’epoca”. Non esiste motivo razionale che giustifichi questa condizione, siamo in presenza invece di un assioma e non di un teorema che prevede dimostrazione. Il trucco usato è quello di scambiare il progresso, inteso come miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone, con una sorta di destino che ci costringe a testimoniare a noi stessi e ai posteri ciò che è stato fatto in una certa frazione di tempo. E’come se la nostra vita dovesse essere scritta in una timeline in cui, ad ogni settore temporale “debba” corrispondere una traccia caratteristica di quel periodo e diversa dalle altre, a dimostrazione del “progresso fatto”.

Ebbene, coloro che credono in questa condizione assiomatica, non hanno altra possibilità di intervenire nei contesti storici che con progetti di rottura. Per assurdo, si può dire che il rompighiaccio di Dresda sia, in quella logica, la migliore espressione dell’assioma di lasciare testimonianze del nostro tempo.
Chi invece immagina di lasciare un segno “soft” è, ed estremizzo un concetto, afflitto da ingenuità perché qualunque tipo di diversità sarà comunque leggibile e non potrà essere evolutiva rispetto a ciò che c’è.

A meno che, come scrive Paolo Marconi, non si consideri l’architettura antica come viva e, conoscendone le tecniche e ricostruendone le possibilità di evoluzione, tipologicamente e morfologicamente, quindi con un atteggiamento che prevede anche la ricostruzione di parti completamente nuove e non documentate ma coerenti con quelle esistenti, si intervenga come su un corpo vivo ricostruendone o costruendone ex-novo nuovi “organi” e “tessuti” ma in armonia con quelli esistenti, esattamente come si farebbe, se fosse possibile, con un corpo umano.
Così facendo si produrrebbero quelli che molti chiamano il “falso storico” – storico perché pronunciato con l’idea storicistica che ogni epoca debba avere per legge la sua espressione – e che pochi invece chiamano l'“autentico contemporaneo”.

La terza via è, anche in questo campo, una illusione, una aspirazione “debole” perché lasciata al “progetto”, come scrive Crobe, vale a dire al progettista, al singolo, all’artista sensibile. E’ possibile che ne esistano, non lo si può certo escludere, ma come dato statistico e di semplice osservazione del reale si può dire che è altamente improbabile, mentre è quasi certo che il risultato sarà disastroso.

Anche perché si pone il dilemma: chi giudica l’artista?

Ho ragionato in maniera estrema ma solo in questo modo si può affrontare un tema del genere, non con il buonismo architettonico che nasconde spesso la medesima volontà, mascherata, di lasciare il segno di coloro che invece non hanno pudore. Forse biz pensava anche a questo.

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12 ottobre 2011

AUTOCENSURA

E’ troppo difficile commentare questo progetto senza rischiare la querela per uso eccessivo e reiterato di aggettivi oltraggiosi e d’altra parte affrontarlo in tono ironico potrebbe essere giudicato da qualcuno come superficiale e inadeguato alla gravità della situazione.
Avventurarsi in considerazioni troppo pensose, invece, può portare ad una grottesca situazione di esagerato contrasto con la quantità di pensiero presente nell’opera.
Inserire questo progetto nella storia dell’autore per inquadrarne il messaggio nel suo personale percorso progettuale, in ossequio alla concettualità dell’opera, potrebbe apparire un omaggio all’autore stesso e rischierebbe di indurre l’idea in qualche mente debole che vi sia anche del vero.
Provare a immaginare come potrebbe risolversi l’inserimento ambientale del Ponte sullo Stretto di Messina, di cui il nostro è incaricato, basandosi su questo disegno mi farebbe diventare per un paio di minuti l’idolo dell’opposizione parlamentare al gran completo, come con l'Arcuri, e di guai ne ho già troppi in casa per andarne a cercare anche fuori.
Osservare che questa nostra società occidentale ha un serio problema con Alzheimer che non lascia presumere niente di buono per il futuro è talmente ovvio che sarebbe inutile approfondire.
Dichiarare di pensare che quest’edificio ci fa sentire più vicini gli orrori della guerra potrebbe essere scambiato per retorica o, molto peggio, come la prova della giustezza del progetto, invece mi è solo balenato per la testa che di cose brutte, oltre alla guerra, in giro se ne cominciano a vedere.
Scrivere sulla degenerazione del fenomeno archistar è sotto gli occhi di tutti, o quasi, e non sarebbe originale.
Affrontare il tema del rapporto del progetto con il contesto o del dialogo tra nuovo e vecchio mi farebbe sentire alquanto scemo.
Mi resta solo la scelta di non scrivere niente e aspettare che qualche coglione di critico o di storico ce lo spieghi con dovizia di particolari e molte citazioni. Sai quanti se ne trovano nel web e pure nelle nostre facoltà!

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7 ottobre 2011

IL DOLORE NON HA PREZZO

Ricevo da Ettore Maria Mazzola questo testo sulla morte delle cinque donne per il crollo dell'edificio nel quale lavoravano. E' un testo scritto sull'onda della commozione, essendosi la tragedia consumata nella sua città natale, ma lucido come al solito nell'evidenziare l'approssimazione con cui vengono emessi giudizi e la scarsa conoscenza delle cause che possono averla determinata.
Il testo è stato anche pubblicato su Archiwatch

Caro Pietro,
ho sentito il dovere nei confronti della mia città natale di raccontare ciò che a 500 km di distanza ho percepito di questa terribile tragedia e della speculazione che c'è stata intorno al dolore di chi ha perso la vita, un familiare o una casa e un lavoro.
Spero possa postare sul tuo blog questo mio sfogo

 IL DOLORE NON HA PREZZO
di Ettore Maria Mazzola

Succede che, mentre una città si stringe intorno ai feretri di cinque povere vite strappate, e la donna sopravvissuta al crollo di via Roma dal suo letto di ospedale racconta si che lavorasse per 4 euro all’ora, ma che non è vero che il suo datore di lavoro fosse un negriero, la stampa locale e nazionale continuava ad accanirsi, descrivendo Barletta come un luogo in cui gli imprenditori sfruttane le operaie .. e trascurando colpevolmente la ricerca della verità sulle ragioni del crollo.

Peggio hanno fatto certi politicanti i quali, stimolati dal banchetto per sciacalli e avvoltoi allestito dalla malasorte e dalla faciloneria, hanno pensato bene di cogliere al volo l’occasione per potersela prendere con il sindaco chiedendone le dimissioni.

Che senso ha tutto ciò? Come è possibile essere così cinici da trasformare una tragedia che ha distrutto 5 famiglie in una occasione di rivincita politica? Dov’è la dignità e l’etica di certa gente il cui comportamento è paragonabile a quello degli sciacalli, se non addirittura a quello degli stercorari?

Se c’è qualcosa che certi momenti richiedono è un’unità, al di là del credo politico, è il senso di solidarietà verso chi ha perso la mamma o una figlia, verso chi ha perso la casa, verso chi non ha più nulla. E invece certa gentaglia, assetata di “politica”, ha pensato bene di approfittare della situazione.

Questa gentaglia ha trovato l’ovvio appoggio di certi media interessati allo scoop scandalistico che, nell’era della società dello spettacolo, trovano molto remunerativo usare la macchina del fango che non mira solo a distruggere la personalità dei titolari del maglificio all’interno del quale hanno perso la vita 5 giovani vite, inclusa quella della loro piccola figlia, ma ad infangare un’intera città, e se si vuole, tutto il sud d’Italia! Ieri c’è stato il funerale, anch’esso immortalato dalle telecamere come in uso per le grandi tragedie, anch’esso preceduto e seguito da passaggi pubblicitari televisivi. I servizi degli inviati hanno “giustamente” dato ampio spazio alle rimostranze dei cittadini che chiedevano la verità … senza assicurarsi dei modi con i quali lo facevano, né a chi fossero rivolte le accuse che, purtroppo, in parte sono sembrate manipolate da chi sosse interessato solo alla testa del sindaco Maffei.

Ora cala il sipario, e probabilmente in Italia, Presidente della Repubblica incluso, non fregherà più nulla a nessuno della tragedia che si è consumata a causa del pressappochismo con cui qualcuno ha operato. Se c’è qualcuno con cui bisognerebbe prendersela, non credo proprio che possano essere le autorità comunali, semmai bisognerebbe alzare l’indice verso quei tecnici e periti che non hanno saputo valutare il pericolo incombente, oppure verso quella cultura generale che a Barletta, come in molte altre città italiane, consente di far demolire edifici storici ritenendoli intenzionalmente “fatiscenti”, mentre nella realtà potrebbero vivere molto più a lungo di quanto non si immagini: la loro colpa è solo quella di essere dislocati in zone centrali, molto appetibili per chi voglia fare speculazione e costruire in zone molto più vivibili che non nelle orribili periferie zonizzate che la pseudo-cultura urbanistica a partire dagli anni ’50 ci ha “regalato”.

Ma c’è di più. Lo sputtanamento mondiale sul salario delle povere vittime andrebbe capito meglio. La fortunata e coraggiosa sopravvissuta ci dice che fossero proprio loro stesse, le operaie, a chiedere di non essere messe in regola: qui si tratta di una situazione di necessità di sopravvivenza!

Uno Stato la cui Costituzione si apre dicendo che “l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro” non dovrebbe consentire che certe cose possano accadere, e se accadono è perché i “moderni” politici – anni luce distanti da chi concepì e scrisse quelle parole sulla Costituzione – hanno trasformato questa “Repubblica” in una “Oligarchia fondata sul precariato e sul gioco d’azzardo”.

Ci scandalizziamo per i 4 euro l’ora delle povere ragazze di Barletta, ma quanto guadagnano le loro omologhe che lavorano nelle altre città d’Italia, nord incluso? Ce lo siamo dimenticato il servizio di Report che mostrava come gli operai delle “grandi imprese” impegnate nei cantieri “a 5 stelle” milanesi vengono pagati 2,5 euro l’ora? E quanto guadagnano i maestri di scuola e i professori delle medie e superiori? E quelli delle Università? E come è possibile accettare la sola esistenza delle Agenzie Interinali che guadagnano sul lavoro sottopagato dei loro iscritti? Quanto guadagnano gli addetti ai call-center della grandi aziende? E quanto i “tecnici” che oggi fanno le perizie per alcune banche italiane pur avendo le loro basi in Romania, togliendo lavoro ai tecnici nostrani che, tra l’altro, potrebbero visionare meglio gli immobili da periziare? Cosa dire poi della mia categoria, gli architetti, dove i grandi studi sfruttano vergognosamente i giovani laureati e abilitati pagandoli (quando li pagano) i giovani e volenterosi ragazzi molto meno di quei 4 euro l’ora?

Cosa può fare un piccolo, o piccolissimo, titolare d’azienda italiano che vuole continuare a produrre in Italia invece di farlo in Cina (magari anche prendendosi dei contributi dallo Stato Italiano)? A nord si sfruttano i lavoratori stranieri i quali, pur consentendo al loro “padrone” di mantenere in vita l’azienda nonostante il mondo globalizzato, viene anche negato il diritto a mantenere il proprio credo religioso perché, essendo in Italia, questi “sporchi stranieri” devono rinnegare le loro origini e tradizioni! Non c’è dunque da meravigliarsi se a sud la cosa avvenga, come è sempre avvenuta, coinvolgendo dei connazionali. Questo non significa voler giustificare chi lo faccia, ma semplicemente voler guardare più onestamente, e senza retorica, alla dura realtà che investe il mondo del lavoro di tutto il Paese, e non solo Barletta.

Il vero scandalo non è dunque questo, ma l’esistenza di un sistema marcio che si ricorda di queste realtà solo in occasione di certe disgrazie, disgrazie che esso stesso ha generato avendo gettato nella disperazione l’intero mondo del lavoro.

Poche ore dopo aver appreso la notizia, quasi in diretta perché me l’aveva comunicata mia madre che si era trovata a passare lì vicino quando ancora si levava in volo la nuvola di polvere avevo scritto queste parole:

È una storia che si ripete. Spero che adesso si riescano a salvare i superstiti e si comprendano fino a fondo le cause che hanno generato questo crollo. Che si puniscano gli eventuali responsabili, se non è stato un caso dovuto all'abbandono parziale dello stabile, come sembra di capire da alcune notizie che ho potuto leggere nel web, spero soprattutto che non si speculi politicamente sul dolore e sul lutto che ha colpito Barletta. Dalle foto mi sembra comunque di capire che la malta che legava i tufi delle murature non fosse di buona qualità, mi sembra uno di quegli edifici che, come usano dire gli operai molto anziani, ha sofferto la sete, ovvero un edificio la cui malta aveva poca calce, tanta sabbia e poca, se non pochissima, acqua. In questo caso, finché l'edificio è stato abitato e vissuto, e non ha subito stravolgimenti degli orizzontamenti e delle murature portanti, nulla gli è capitato perché aveva raggiunto un suo equilibrio che lo faceva "lavorare" a compressione, nel momento in cui sono sopraggiunte delle modifiche (pare che ci fossero dei lavori in corso?) che hanno generato delle tensioni, quell'equilibrio precario è venuto meno. Diversamente non mi spiego come possano esserci la quasi totalità dei blocchi di tufo che sembrano essere usciti ieri dalla cava. Chiudo esprimendo il mio dolore ai parenti della piccola che è deceduta e all'intera cittadinanza”.

Il giorno dopo ho potuto capire qualcosa in più e ho scritto:

ho letto stamattina un po' di notizie che non avevo potuto leggere ieri, ed ho anche visto un video prima del crollo che mi ha lasciato alquanto perplesso: Un edificio che viene demolito in adiacenza ad un altro con il quale "collaborava" staticamente. Una demolizione avvenuta sicuramente con l'ausilio di martelli pneumatici (tassativamente vietati sugli immobili costruiti in tecnica tradizionale), un muro ad arcate che è stato demolito venerdì e che, si suppone, facesse da contrafforte alla struttura, sono tutte cose che lasciano sconvolti per la faciloneria con cui si è proceduto. Non sapevo dell'atteggiamento discutibile dei VVFF cui qualcuno ha fatto riferimento, del quale sono venuto a conoscenza solo stamattina. Fino a ieri pensavo che il crollo fosse relativo all'intero blocco che non c'è più, solo stamattina ho compreso che a crollare è stata la casa a schiera con due sole finestre. Penso che sia fin troppo chiaro come le cose siano andate, spero che lo sia altrettanto per chi farà le indagini e le perizie, e per chi emetterà delle sentenze .. nella speranza che certe cose non accadano mai più”.

E poi, avendo letto un post di Niki Vendola sul crollo ho voluto puntualizzare:

Condivido il discorso, ma voglio puntualizzare alcune cose perché potrebbe partire una campagna demonizzatrice di una certa edilizia nell'interesse di chi voglia specularci (specie in conseguenza dei Piani Casa). Voglio ricordare che certi edifici vengono giù per l'incompetenza con cui vengono fatti certi lavori e non perché sono costruiti con pietre, mattoni e calce. Tra l'altro gli edifici in tecnica tradizionale, se ben costruiti, in caso di sismi o altre sollecitazioni, adattandosi gradualmente alle mutate condizioni statiche, possono salvare molte più vite degli edifici in cemento armato e/o acciaio che, in caso di collasso, non lasciano vie di scampo. Per essere più preciso voglio ricordare che i crolli di L'Aquila e Pompei ci hanno dimostrato come, se certi edifici fossero stati restaurati con tecniche e materiali tradizionali, oggi starebbero ancora in piedi, e molte vite sarebbero state salvate. Non si deve demonizzare gli edifici antichi e/o "vecchi", semmai si devono demonizzare le università che non formano più dei tecnici in grado di restaurare a dovere il nostro patrimonio. Non è poi ammissibile che per ragioni economiche (anche dovute alla situazione politico-economica attuale) si debba risparmiare sulle norme e i sistemi di sicurezza: Come è stato possibile demolire l'edificio accanto a quello crollato (col quale collaborava staticamente) senza nemmeno puntellare quello crollato? Chi ha vigilato sulle opere di demolizione in corso ha valutato la necessità di demolire "a mazza e piccone"? Oppure ha consentito l'uso (proibito sugli immobili costruiti in tecniche tradizionali) del martello pneumatico che crea vibrazioni pericolosissime che generano il distacco tra i blocchi di tufo e i ricorsi di malta? Come è stato possibile che, come ha raccontato un volontario, sotto gli occhi dei VVFF e della Protezione Civile, una pala meccanica si sia potuta mettere a scavare senza pensare che sotto potevano esserci ulteriori cedimenti che, come poi si è visto, probabilmente hanno portato ad estrarre solo cadaveri nonostante ci fossero stati dei contatti tra i soccorritori e le "sepolte vive"?

Riflettiamoci tutti, e stiamo vicini, almeno col pensiero, a queste famiglie straziate da un dolore che nessuna condanna potrà più colmare.

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30 settembre 2011

TRASPORTO PUBBLICO E CITTA' DISPERSA

Un link ad un articolo del Prof. Gabriele Tagliaventi che, con il caso Bologna, affronta, numeri alla mano, il tema generale della città compatta alla luce della difficoltà del trasporto pubblico. Argomento che vale per tutte le città.

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22 settembre 2011

IL PARADOSSO DELLE CITTA' INVISIBILI

Segnalo un paradosso che esemplifica il completo distacco dell’urbanistica operante dalla realtà della città e dallo stesso senso della realtà:

la Regione Toscana ha “esploso” la categoria edilizia dell’ampliamento, il cui significato è sufficientemente comprensibile a tutti, dividendolo in due categorie diverse:
l’addizione funzionale e l’addizione volumetrica.
Non sto a riportare la definizione ufficiale e la semplifico: l’addizione funzionale è quell’”ampliamento” che non costituisce un nuovo organismo edilizio e deve essere “funzionale” ad uno già esistente. A titolo di esempio: se ingrandisco il mio soggiorno o aggiungo una camera per un figlio o una stanza al servizio della casa esistente, una serra per esempio, si parla di addizione funzionale.
Se invece accanto alla mia casa costituisco una unità autonoma, oppure accanto alla mia casa costruisco un nuovo volume da utilizzare come “laboratorio” per un’attività lavorativa, a prescindere dalle dimensioni della stesso, si parla di addizione volumetrica.

Ora è evidente, in base al troppo bistrattato “buon senso”, che in entrambe i casi io costruisco fisicamente un “volume”. Per adesso teniamo a mente questa constatazione.

Cosa distingue i due diversi volumi?
In linea di principio tale distinzione non è né astratta né peregrina, perché segue, in qualche misura, il processo di crescita spontaneo di un organismo, di uno stesso organismo edilizio, che si sviluppa nel tempo in base alle necessità di chi vi abita, e questo viene nella legge classificato come “addizione funzionale”.
Se invece inserisco un organismo edilizio nuovo e diverso, faccio un salto di scala, modifico la natura del tessuto, e questo viene classificato come addizione volumetrica. In sostanza, l’addizione funzionale risponde a normali esigenze di crescita legati all’abitare e quindi va incontro alle normali aspettative dei cittadini.

Tutto questo in linea di principio. Ma cosa accade poi nel momento in cui i principi si sostanziano in articoli di legge? Accade, tra le altre cose, che le addizioni funzionali non rientrano nel “dimensionamento” del PRG, mentre le addizioni volumetriche sì.
Già, perchè esiste il dimensionamento del piano, che sarebbe la madre di ogni PRG. Dico madre, ma sbaglio, dovrei dire figlio, perché si suppone che il mitico numero che segna e direi mette il marchio su ogni nuovo piano dovrebbe scaturire dall’altrettanto mitico quadro conoscitivo.
Ora come possa un numero, la cui determinazione è così complessa, scaturire da un quadro conoscitivo territoriale nessuno è in grado di stabilirlo e infatti il dimensionamento è una scelta a monte, una scelta politica che successivamente viene giustificata con una massa di dati, a valle, una parte dei quali certamente necessari, i più invece superflui e abbastanza risibili. Comunque nessuno di questi da solo può determinare automaticamente un valore credibile, ad eccezione di quelli della rete dei servizi: acqua, fognature, ecc. oppure dei servizi scolastici, ma solo se si esclude di poterli incrementare; e questa è, appunto una scelta politica.

In verità è molto più semplice ed anche più logico lavorare per approssimazioni successive, e per sintesi, ipotizzando un certo valore di cubatura, in base a criteri sintetici fondati essenzialmente su scelte di progetto e quindi proiettare, in base al numero di abitanti prevedibili a regime, la necessità dei vari servizi.
E’ chiaro che l’indirizzo del dimensionamento è quello di restringersi al minimo fino a raggiungere lo zero, conseguendo cioè l’altro mito chiamato volume zero.

Con queste condizioni, l’addizione funzionale sfugge al dimensionamento, perché la sua quantità totale non è facilmente prevedibile e perché l’addizione funzionale è classificata nella categoria della ristrutturazione edilizia.
Sì, avete capito bene: con la ristrutturazione edilizia si può ampliare casa ma quel’ampliamento non è classificato come volume. Non è una deroga, in verità (e sta qui la grande furbizia) ma è proprio la categoria dell’intervento edilizio cui si fa appartenere l’addizione funzionale che esclude per definizione l’esistenza del volume in aggiunta. Quindi è un volume inesistente e quindi, anche in un piano che si dicesse essere a volume zero, nella realtà a zero non è.

Paradosso della norma: il dimensionamento, stabilito a monte come principio ideologico, è salvo.
Si stabliscono limiti improbabili allo sviluppo (sostenibile) e contemporaneamente si introduce sotto banco la scappatoia a quei principi. Si introduce cioè una norma fatta apposta per evadere la norma, quindi si può dire che non è il cittadino a compiere azioni criminogene, come qualcuno sostiene, ma è lo Stato, in questo caso la Regione, che produce norme che sono potenzialmente criminogene. La furbizia pubblica incoraggia certamente quella privata.

Dice: ma è tutto fatto a fin di bene, per uno scopo nobile. E io rispondo che è vero, ci mancherebbe, tuttavia si vorrà ammettere che la logica e lo stesso principio di realtà vanno a ramengo?

Una norma che volesse rispettare il principio della crescita naturale dell’abitato esistente, il principio di realtà e un minimo sindacale di logica umana, avrebbe dovuto conservare la categoria dell’ampliamento, regolamentando quello corrispondente alle addizioni funzionali, con incrementi a scalare in base alle necessità, quindi con una norma che conceda di più a chi ha di meno (una casa piccola ha più necessità di una casa grande)e considerare gli ampliamenti per quello che sono, cioè nuovi volumi. Ma non si può farlo perché il dimensionamento, dato ideologico-politico imposto a monte lo impedisce.

Il risultato finale è che:
- un parte della crescita della città risulta essere invisibile, perché non esiste ufficialmente come volume; questa palese assurdità autorizza il cliente a pensare che tu lo stia prendendo in giro o che non ci abbia capito niente. Vaglielo a spiegare al cliente che un volume non è volume, e quello ti dice, d'istinto, che se non è volume allora perché lo limitano! E’ possibile dargli torto?
- il dimensionamento, posto come limite massimo per legge, ma senza una motivazione reale, tant’è che lo si svicola con una norma che con l’arcivernice fa sparire gli ampliamenti, diventa il nodo scorsoio dei PRG imposto dalla politica e non dalla realtà delle cose, dato che la realtà non è un numero ma la forma della città e il vero dimensionamento è quello che compatta la città in base ad un disegno coerente e non la fa espandere nella campagna;
- la ristrutturazione, che ha una sua accezione chiara nella legge nazionale, a livello regionale diventa un elastico entro cui ci può stare ogni cosa e che contribuisce al sorgere di interpretazioni leguleie da cui la qualità della città ha solo da perdere.

Morale: come rovinarsi la vita con le proprie mani senza ottenere alcun risultato qualitativo accettabile, rovinando la vita ai progettisti, incrementando a dismisura la loro dipendenza dalle interpretazioni degli uffici e inquinando quello che dovrebbe essere il normale rapporto tra la legge e i cittadini: leggo, capisco, applico.
Troppo facile per uno Stato sofferente di bulimia burocratica che ci sta portando alla morte.

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9 settembre 2011

QUALE DENSIFICAZIONE?

Densificazione: parola brutta e anche vagamente sinistra: utilizziamola per comodità di linguaggio e di comuncazione. Vorrei rispondere più compiutamente ai commenti lasciati da robert al post precedente e premetto che: non sarò breve e se robert volesse replicare può non limitarsi ad un commento ma inviarmi un post da pubblicare.
robert afferma, e io non ne dubito, che l’idea di densificazione urbana è presente da almeno una decina d’anni in alcune università, e nel suo ultimo commento porta una serie di dati che lo confermano.
Con questa premessa giunge alla conclusione che noi che facciamo riferimento a Nikos Salìngaros non abbiamo inventato niente e che quanto affermato da Gabriele Tagliaventi nel suo articolo ha il merito, al massimo, di essere entrato nella notizia al momento giusto e che tutto sommato lui e noi del gruppo avremmo colto il vento e ci saremmo aggregati. Insomma, avremmo avuto fiuto.
Se anche si trattasse di fiuto lo riterrei già un merito: perché altri non l’hanno avuto, a maggior ragione se di questi argomenti vi è chi ne parla da almeno dieci anni e oltre e che adesso i tempi sembrano maturi?
Potremmo dire che chi ha introdotto questo principio nella legge urbanistica toscana ha avuto fiuto? Io direi più correttamente che è stato intelligente e lungimirante perché ha dato gambe ad una idea.
Ma robert sbaglia sul fiuto, perché si ferma solo alla superficie della densificazione urbana.

Cosa si intende per densificazione urbana?


Letteralmente è semplice: aumento della densità edilizia delle aree urbane, ottenuta andando a riempire vuoti di aree marginali ma urbanizzate, oppure demolendo e ricostruendo, oppure ristrutturando, con incentivi volumetrici per ottenere il doppio obiettivo di non “consumare “ nuovo suolo agricolo e di razionalizzare la vita all’interno della città in termini di servizi pubblici, di ogni genere, a partire dai trasporti.

Cercando nei vari documenti reperibili in rete, ho trovato molteplici varianti di significato, dalle più fantasiose, a quelle che trovano il sistema di infilarci i pannelli fotovoltaici o l'agricoltura urbana, a quelle che ritengono che sia l’altezza, cioè i grattacieli, l’elemento risolutore. Non v’è dubbio che il modello Manhattan sia molto denso. Il modello italiano invece si declina con grattacieli in mezzo al verde. Una novità già scoperta da un signore svizzero molto ordinato. L’ordine, comunque, diventa un merito rispetto alle proposte attuali che, prevalentemente, mettono insieme qualche birillo e, a posteriori, per giustificarne la presunta utilità ci appiccicano, tra le altre, l’idea di densificazione.

Ho trovato poi questo studio targato INU. Si osservi il risultato progettuale finale: qui non è cambiato niente rispetto a prima, il modello urbano è lo stesso, stecche perpendicolari alla strada, strada solo per le auto, mancanza di ogni caratteristica urbana, semplice ripetizione di modelli periferici, solo molto più densi. La chiamano densificazione insediativa. Già il termine insediativo, più ampio e generico di urbano, più burocratico, a mio avviso connota una certa indifferenza alla forma della città privilegiando l’azione dell’occupazione dello spazio e l’aspetto quantitativo. La proposta progettuale ne è una riprova.

Il punto è proprio questo: densificazione come mero dato numerico e funzionale è “vecchia” di qualche anno, come afferma robert, ma cosa c’è di nuovo, di utile, di positivo se la città resta qualitativamente come prima, e anzi replica e moltiplica i suoi difetti ma con molti metri cubi in più? Una densificazione urbanisticamente sbagliata diventa un’aggravante non un vantaggio.
Anche la speculazione edilizia più bieca è “densificazione”, e in questo caso si può affermare che per ritrovare l’origine dell’idea si può andare molto indietro nel tempo, direi alle insulae romane, che nonostante i divieti imperiali crescevano in altezza. Il condono consisteva nella tolleranza. Anche in questa densificazione, dunque, nihil sub sole novi.

In questo blog, invece, con il contributo dei vari amici, è stata sostenuta un’idea di densificazione urbana ben precisa, la cui necessità è giustificata al contempo dai due fattori fondamentali:
- quello economico-ecologico, cui fa riferimento robert, nel senso che più la città è compatta, minore è la necessità dell’utilizzo dell’auto, maggiore è la possibilità della pedonalizzazione e quindi il risparmio di risorse energetiche, migliore è l’organizzazione del trasporto pubblico;
- quello della forma della città, da perseguire mediante il disegno urbano, sul modello della città tradizionale europea: strade, isolati, cortine edilizie, piazze, pluralità di funzioni, zonizzazione verticale e quant’altro adesso non è il caso di ripetere.

Non è dato un lato della medaglia senza l’altro e direi che l’elemento prevalente è il secondo, la forma urbana, quella che consente, aldilà della situazione contingente di crisi economica, scelte economicamente virtuose, come scrive Tagliaventi nel suo articolo. La situazione di crisi è uno stimolo, direi un’occasione e una necessità in più per spingere in quella direzione, ma la forma compatta della città tradizionale ha un valore indipendente da quella e non ad essa subordinata.

Per restare a Tagliaventi, che sostiene quest’idea da sempre, portando spesso ad esempio il caso dello sprawl americano ed il retrofitting dei centri commerciali a veri quartieri urbani, mai ha egli tenuto separati i due aspetti del problema.
Ma vogliamo ampliare il discorso? Lèon e Rob Krier non hanno fatto altro che progettare e scrivere di città tradizionali, cioè dense, compatte, in cui il margine con la campagna è nettamente definito. Siamo agli antipodi dello sprawl. Altro che dieci anni, e altro che calcoli numerici!

City Pizza, di Léon Krier - La pizza completa (città tradizionale), la pizza per ingredienti (città dello zoning)
Il fatto è che, ragionando per assurdo, se non vi fosse stato quel taglio netto nella storia, quel grado zero dell’urbanistica teorizzato dall’avanguardia, se non fosse stata inventata, diffusa e propagandata fino a far credere che fosse impossibile immaginare una città moderna senza la zonizzazione, se non fosse stato abbandonato il disegno della città a vantaggio dei retini che indicano le varie funzioni parcellizzate, se l’unica forma di disegno, a scala di piani attuativi, non fosse stato quello della astratta geometria di tipo pittorico senza alcuna relazione con l’abitare dell’uomo nello spazio urbano, se non fosse stata vituperata e abbandonata la strada come elemento generatore della città, per sostituirla con edifici staccati e separati (ma dicevano tenuti assieme) da un improbabile verde comune, se non fosse stata abbandonata la città europea, ma solo adeguata ai nuovi standard di vita degli individui e della società, oggi non ci sarebbe stato bisogno di coniare questo brutto termine di densificazione, più adatto ad una confettura di marmellata industriale che ad un insediamento umano.

E’ un discorso per assurdo, l’ho già detto, perché con i se non si fa la storia, ma serve a far comprendere a robert la diversità esistente tra i 10 anni di studi sulla densificazione e quanto da noi sostenuto. E serve per sottolineare che c’è un uso buono ed un uso sbagliato di questo termine.
E noi ne abbiamo fatto un uso buono e lo abbiamo sostenuto con un’azione efficace, tenace e sfidando spesso anche il ludibrio di molti. Niente di eroico, per carità, specialmente per chi come me svolge la libera professione in ambito privato, ma chi è vissuto o ha provato a vivere nell’ambiente accademico credo ne abbia dovuto ingollare di rospi.

Quindi il fatto che vi sia chi l’ha studiato da dieci anni, e magari dal punto di vista sbagliato, e l’abbia tenuto in un cassetto da aprire per qualche convegno da mettere nel cv e presto dimenticato e non l’abbia diffuso presso gli studenti, non abbia insomma fatto scuola, loro che avrebbero potuto farla, per me ha valore "zero".
Lo studio della città non è lo studio delle particelle elementari della fisica, riservato al mondo accademico e della ricerca. Lo studio della città è destinato agli architetti, agli urbanisti e agli amministratori che devono diffonderlo e comunicarlo ai cittadini per renderlo operativo, a vantaggio di tutti.

La città è bene comune, cioè appartiene a tutti, la città è il luogo della politica (e tutti gli architetti lo sanno bene perché tutti i giorni si confrontano o si scontrano con la politica, cioè con l’arte di amministrare la polis, volenti o nolenti) e l’architettura è arte civica e le se le idee non si diffondono e si sostengono, specie in momenti in cui le città sono così in difficoltà, è come non averle prodotte.
Teoria e prassi in urbanistica camminano a braccetto e non possiamo immaginare l’una senza altra proprio per la specificità e direi unicità dell’urbanistica e dell’architettura rispetto ad altre discipline.
Una riprova elementare: qualsiasi quotidiano o foglio locale, oltre che di calcio, tratta sempre di urbanistica, lavori pubblici, traffico. Perché?

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5 settembre 2011

GABRIELE TAGLIAVENTI SU CATTIVA URBANISTICA E DEBITO PUBBLICO. ARTICOLO CHE SI SPOSA CON IL POST PRECEDENTE

Un articolo di Gabriele Tagliaventi sul rapporto tra urbanistica e debito pubblico italiano.
Un articolo che conferma la bontà e la necessità di quei principi affermati nella modifica alla Legge urbanistica della Regione Toscana di cui ho scritto nel post predcedente.

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21 agosto 2011

L'ISOLATO APERTO DELLA RIVE GAUCHE

Nella cassetta della posta ho trovato un giornale dal titolo Architetti, sotto titolo Idee, Cultura e Progetto. Ho pensato a materiale pubblicitario che fa sempre la solita fine, dopo la separazione della plastica che lo avvolge dalla carta. Poi ho visto la casa editrice, Maggioli, e l’ho sfogliata. Formato tabloid, fogli staccati tipo quotidiano, carta pesante, veste grafica studiata per una buona leggibilità. E’ già un pregio.
Sostenibilità a piene mani, ovviamente, qualche premio (alla sostenibilità), immancabile l’IPad, applicato all’architettura in questo caso.
Un titolo verso la fine attrae la mia attenzione: Sì alla rue, no al corridor. E sotto: Il quartiere Masséna, Paris, Rive Gauche. Sono costretto a leggere l’articolo. Che vorrà dire? Le Corbusier rivisitato? Oppure una sua mezza negazione? Insomma, il bicchiere sarà mezzo vuoto o mezzo pieno?


La faccio breve: si tratta di un nuovo quartiere in costruzione il cui piano urbanistico è di Christian de Portzamparc. Io ero rimasto alla Villette, quando ancora mi interessavano i nomi dei progettisti, anche se la Citè de la Musique non mi era piaciuta proprio. Cosa ha di speciale questo piano di Masséna? Ha che de Portzamparc pare essere famoso per l’isolato aperto, o open block o ilot ouverte - dico pare perché io non lo sapevo e quindi per me è una novità – e in questo quartiere c’è l’applicazione di questa novità.

Quale sarebbe la caratteristica di questo ilot ouvert? Sarebbe che le strade formano un tessuto analogo a quelle della città tradizionale, nella fattispecie credo che rimanga più o meno la trama attuale, ma gli isolati non sono costituiti da fronti continui lungo strada, bensì vengono lasciate aperture, varchi, distacchi tra gli edifici, essendo però costruiti gli incroci, cioè i punti più interessanti e singolari di un isolato. Ma qual è lo scopo di questa scelta o trovata che dir si voglia? Quella di permettere la costruzione di tanti edifici staccati l’uno dall’altro, ma abbastanza vicini l’uno all’altro, in modo tale che ogni progetto possa essere diverso dall’altro ma, è specificato nell’articolo, nel rispetto di certe sagome o profili.

Cito il brano specifico dell’articolo di Carlo Teodoli: “Dov’è l’idea chiave di de Porzamparc nel quartiere Masséna? E’ nel suo concetto di Ilot-Ouvert; un solo concetto semplice, ma che vale tutto il quartiere, e che apre a un vasto scenario, anche infinito, di “variabili” dell’architettura senza rinunciare alle “costanti” di buon funzionamento urbanistico e viabilistico del quartiere; parafrasando Le Corbusier (no alla rue corridor) de Porzamparc afferma invece: sì alla rue ma no al corridor”.
Chiaro no? Lo scopo è quello di consentire la massima libertà progettuale inserita in un tessuto apparentemente simile a quello proprio della città.

Nell’articolo vi sono una serie di foto di edifici ma non c’è alcuna planimetria. Gli edifici sono molto fantasiosi, nel senso che sono tutti diversi, come da concetto-guida, di varie altezze da quattro fino a circa 12 (almeno nelle foto del giornale; nel sito se ne vedono di molto più alti) e sono molto vicini tra loro. Non si capisce bene, o meglio, a giudicare dalle foto non vedo nessuna novità rispetto ad una città fatta di grattacieli, ma molto più bassi, cioè non sono grattacieli. Cerco su internet e trovo di più qui, su www.arthitectural.com (ma che nome impronunciabile che ha questo sito!).
Le immagini sono accattivanti e mi è impossibile capire se siano foto o rendering di altissima qualità. Per essere realtà è troppo ordinata, per essere rendering ci sono particolari troppo realistici (oggetti di uso comune che si intravedono dai parapetti traslucidi delle terrazze). Ma non ha troppa importanza, qui si capisce abbastanza bene ciò che è o dovrà essere.
Ci sono poi anche alcuni grafici che sintetizzano l’idea che sta dietro al quartiere.

La trovata è, dal punto di vista del marketing, assolutamente geniale. Lo slogan è azzeccato. Insomma, la confezione è ottima. Il risultato molto meno. Gli spazi tra gli edifici sono privi del minimo senso. Non sono strade, non hanno altro scopo che mantenere i distacchi in funzione dell’esaltazione degli edifici, sono vuoti lasciati per la vuota vanità dell’architetto e sono inevitabilmente destinati all’abbandono.

Il principio dell'ilot ouvert non è urbanistico, è architettonico. Nell’articolo della rivista c’è scritto: “…i risultati sono molto interessanti: rinuncia (de Portzamparc) a firmare l’architettura di edifici ma firma l’urbanistica del planivolumetrico come se fosse un immenso e articolato edificio, per affermare, magari senza volerlo, il ruolo del progettista “dal cucchiaio alla città” o, più semplicemente, il primato dell’architettura come disciplina globale nel design della città dove l’urbanistica (come l’ingegneria del resto) è insomma un suo autorevole affluente, ma non il contrario”.
Ecco, io credo sia vero proprio quel contrario, anche se, idealmente, le due discipline dovrebbero essere intimamente unite, come lo sono state nel passato. Penso però che questo non sia più pienamente possibile, non nel linguaggio architettonico almeno. E’ possibile invece negli aspetti tipologici e morfologici, nella indicazione planivolumetrica (come nel caso in oggetto, in fondo), nel controllo delle altezze, nella continuità della cortina stradale, che è un aspetto urbanistico e architettonico allo stesso tempo.
Insomma, il bicchiere è mezzo vuoto, la rue o è corridor o non è. Inutile tentare mediazioni tra l’isolato (sostantivo) e l’edificio isolato (aggettivo) nel lotto. Il risultato resta quello di una città priva di sequenze, una somma di oggetti cui la presenza della strada non riesce comunque a garantire una continuità.

Ma voglio finire con una nota di ottimismo estivo: prendiamola come una manovra di avvicinamento al punto di...inizio.

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19 agosto 2011

COMPLETARE LA FACCIATA DI SAN LORENZO

Un altro testo di Ettore Maria Mazzola sulla proposta del Sindaco di Firenze Matteo Renzi di completare la facciata della chiesa di San Lorenzo, argomento già affrontato nei commenti al post sulla "riqualificazione" della Piazza San Silvestro a Roma.
A fine articolo riporto qualche link ai vari pareri sulla proposta e ad una storia dei progetti per il completamento dal 1900 al 1905.

Sull’ipotesi di completare la facciata di San Lorenzo a Firenze
di Ettore Maria Mazzola

Lunedì 25 luglio 2011, il Corriere della Sera” ha pubblicato una di quelle notizie definibili “shock” in ambito architettonico e accademico: il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, previo referendum popolare, propone di completare la facciata della Basilica di San Lorenzo secondo il progetto elaborato da Michelangelo nel 1515!
Il sindaco di Firenze, in occasione del 150° anniversario di Firenze Capitale d’Italia (2015), propone la “riqualificazione” dell’edificio, con una previsione di spesa di circa 2 milioni e mezzo di euro, in gran parte sostenuta da privati. In concreto, il piano prevede il completamento della facciata costruendo ex novo l’ingresso della Basilica.
La notizia, come era preventivabile, ha suscitato un vespaio di domande, la più ricorrente delle quali è stata: Ma è lecito riprendere in mano i progetti di un architetto scomparso più di 500 anni fa e tentare di andare incontro al suo volere con gli strumenti e le idee di oggi?



Inizialmente mi sono chiesto: ma con tutti i problemi delle periferie, del traffico e del degrado urbano che possono rilevarsi a Firenze, è davvero necessario ipotizzare una “riqualificazione” di San Lorenzo? E ancora, indipendentemente dalla facciata incompleta, considerata la vitalità della piazza in tutte le ore del giorno, pensiamo davvero che San Lorenzo sia un edificio che necessiti di essere riqualificato?
Ebbene, per non avvalorare le tesi di coloro i quali dicono di no a tutto – spesso stupidamente – e mettendo da parte questi interrogativi maliziosi, voglio prendere per buone le intenzioni del sindaco, e voglio dare dei suggerimenti a sostegno di questa proposta, affinché non si avvalori la posizione dei sostenitori della “necessità di evitare falsi storici, realizzando qualcosa di contemporaneo”, che già sta prendendo piede.

Che l’ambiente accademico italiano sia totalmente avverso a certi temi è cosa ben nota: a causa delle Carte del Restauro di Atene (1931) e Venezia del (1964), e soprattutto a causa delle teorie del restauro di Cesare Brandi, l’Italia è oggi il Paese dove, più di tutti gli altri, vige il terrore della “falsificazione della storia”, un problema del tutto falso, nato solo ed esclusivamente per tutelare il mercato nero delle opere d’arte! Sicché, in base a questa assurda posizione, e pensando di essere nel giusto, si insegna nelle università, si scrive sui libri e sulle riviste e si esercita la professione.
Così, a proposito della proposta del sindaco fiorentino, c’è stato chi si è chiesto: “che senso avrebbe dover rispettare il progetto di Michelangelo piuttosto che realizzare “finalmente” qualcosa che mostri che siamo nel XXI secolo?
Questa domanda esprime il generale sentimento serpeggiante tra gli architetti e i critici di architettura formatisi nella scuola modernista-storicista, quella scuola che ha fatto delle teorie di Gropius e di Zevi (l’insegnamento della storia andrebbe eliminato perché limitativo delle potenzialità della mente degli architetti), il proprio cavallo di battaglia. Partendo da questa affermazione, la scuola modernista ha via via sviluppato idee come “tutti abbiamo il diritto di esprimere la nostra arte”, oppure “tutti siamo artisti”, “tutti hanno diritto ai propri 15 minuti di notorietà” ecc. e, altrettanto gradualmente, ha formato una massa “ignorante" di professionisti (e di critici), questi, grazie a questa semplificazione della professione, hanno potuto credersi artisti, architetti, critici e storici.
Il lavaggio del cervello operato da questa scuola di pensiero impostasi come l’élite colta portatrice del verbo – specie a partire dal secondo dopoguerra – è stato talmente vasto che oggi molta gente, per paura di essere accusata di anacronismo e/o ignoranza, finge di comprendere il significato di determinate opere che non hanno alcun senso, se non quello dettato dalla legge del “prendi i soldi e scappa”.

La cosa gravissima è che questo fenomeno si ritrova anche in ambiente ecclesiastico, ragion per cui, chi dovrebbe tutelare l’istituzione della chiesa, spesso e volentieri si lascia ammaliare dalla visione consumistica dell’architettura dettata dall’ignorantissima “società dello spettacolo”, visione che consente, con il minimo sforzo intellettuale, di produrre forme architettoniche generate da uno scarabocchio – opportunamente trasformato in tre dimensioni dal computer – che nulla hanno a che vedere con l’architettura delle chiese, con la liturgia, e con la religione stessa e, più in generale, con l’architettura degli edifici … non è un caso se Patrick Schumacher, partner di Zaha Hadid, ha avuto l’ardire di affermare che il “parametricism” – secondo il quale è il computer, grazie ad appositi softwares, e non più la mano dell’architetto a generare il progetto – da loro teorizzato, sta diventando la “nuova tradizione egemone!”.

Ebbene, alla domanda sulla legittimità o meno di realizzare la facciata di San Lorenzo progettata 500 anni fa, e considerato che chi ha posto questa domanda l’ha giustificata tirando in ballo “Le Sette Lampade dell’Architettura” di Ruskin: « ... lo spirito dell’artefice morto non può essere rievocato, né gli si può comandare di dirigere altre mani e altre menti. E, quanto alla copia semplice e diretta, è chiaramente impossibile, Come si possono copiare superfici consumate per mezzo pollice? L’intera finitura del lavoro era nel mezzo pollice sparito; se si tenta di restaurare quella finitura, lo si fa congetturalmente; se si copia ciò che è rimasto, affermando che la fedeltà è possibile, (...) come può il nuovo lavoro essere migliore del vecchio? C’era ancora un po’ di vita, in quello vecchio, un misterioso suggerimento di ciò che era stato e di ciò che aveva perduto ... » voglio brevemente esprimere il mio parere.

Che senso avrebbe avuto, per tutti gli architetti ch si sono succeduti nella realizzazione del Duomo di Firenze, dover giurare con una mano sulla Bibbia e l’altra sul modello ligneo del progetto di Arnolfo di Cambio (1296), che avrebbero portato a compimento l’opera originaria?
Chi conosce la storia del Duomo di Firenze sa che il progetto di Arnolfo venne interrotto nel 1330, privo della cupola perché non si sapeva come realizzarla. Nel 1367 Neri di Fioravante, sviluppò uno modello alto 4 metri che mostrava come, rinforzando le strutture arnolfiane, fosse possibile realizzare la gigantesca cupola ogivale. Tuttavia sorse il dubbio su come reperire il materiale e realizzare una centinatura e delle gru in grado di realizzare la struttura vera. Nel 1418 venne bandito il concorso, vinto da Brunelleschi e Ghiberti (ma questo nel ’25 venne rimosso) per realizzare la struttura medievale che venne portata a compimento nel 1468 con il completamento, ad opera del Verrocchio, della lanterna sormontata dall’enorme sfera dorata. Tutti questi personaggi, nonostante la loro fama, vennero costretti, dai membri dell’Opera del Duomo, a giurare sul modello di Neri, che avrebbero realizzato quella cupola.

La facciata venne addirittura realizzata solo nel 1871, da Emilio De Fabris (l’opera venne completata dopo la morte di quest’ultimo, nel 1887 da Luigi Del Moro) sulla base di un progetto che prendeva ispirazione dalla porzione basamentale già rivestita nel medioevo.
La stessa storia si ritrova per la Basilica di Santa Croce, sempre a Firenze, progettata da Arnolfo di Cambio nel 1294-95, dove il campanile venne realizzato ex-novo da Gaetano Baccani tra il 1847 e il ’65 e la facciata da Niccolò Matas tra il 1853 e il ’63!

Ma se andiamo in altre realtà, come il Duomo di Siena o quello di Orvieto, abbiamo facciate che ci raccontano fino a 700 anni di lavori, durante i quali si sono succeduti fior di architetti, scultori, mosaicisti e lapicidi … eppure l’immagine d’insieme ci mostra una coerenza e un carattere senza tempo e, soprattutto, una profonda devozione nei confronti del Signore.

Ecco, è proprio questo il punto, diversamente da oggi, un tempo non era la firma e/o il nome dell'architetto, né la "datazione", ad avere importanza, ma l'edificio costruito per il Signore!
Basta dunque con la lettura della storia fatta di schede datate infilate in cassetti la cui riapertura è vietata. Basta con l'egoismo dei critici e degli storiografi, che per dare un senso al loro mestiere e alla loro visione ideologica debbono imporre a tutti quella che è la loro lettura della storia. Se Renzi vuole completare San Lorenzo, come già era stato fatto a Firenze (con grande apprezzamento dei turisti) per Santa Maria del Fiore e per Santa Croce, che lo faccia, purché si proceda fedelmente nel rispetto del lavoro Michelangiolesco, (o arnolfiano, perché no?) senza stravaganze necessarie a far riconoscere che il lavoro sia stato fatto nel 2011!

Certo, Michelangelo non aveva tenuto in grande considerazione il programma medievale della Basilica di San Lorenzo, però aveva progettato una facciata in perfetta armonia con la “grammatica”, le proporzioni, i materiali e i colori dell’architettura fiorentina dopo l’opera di Brunelleschi, Michelozzo, Alberti e Rossellino.

Come propone il sindaco dunque, spero davvero che sarà la cittadinanza ad esprimere il proprio parere, Michelangelo o Arnolfo, purché tutto avvenga nel massimo rispetto della filologia e del contesto!


Link:
Libero: Confindustria, positivo dibattito su completamento facciata San Lorenzo
Blog Cristallo di Rocca: Caldi agostani
La Nazione, Firenze: San Lorenzo, pensiamo alle crepe sulla cupola
Corriere Fiorentino: San Lorenzo: Festa e rivoluzioni
Skyscrapercity: E' giusto o no completare le facciate delle basiliche secoli dopo?
Corriere Fiorentino: La città non è delle Soprintendenze
FAI, Fondo Ambiente Italiano: Michelangelo, una archistar per Firenze
Massimiliano Savorra: progetti per la facciata di San Lorenzo a Fierenze (1900-1905)

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14 agosto 2011

BUON FERRAGOSTO

Una cartolina di Buon Ferragosto con il drappellone o "cencio" del Palio dell'Assunta del 16 agosto, a Siena naturalmente (che pare abbia scampato il pericolo di perdere la provincia: peccato, già ad Arezzo pensavamo di averla "conquistata").
La spiegazione della fattura del drappellone è qui.

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8 agosto 2011

PROPOSTA DI LEGGE SUI CONCORSI DI ARCHITETTURA

Questa è una proposta per i concorsi di architettura che non ha affatto la pretesa di essere proposta di legge, come c’è scritto nel titolo che è uno specchietto per le allodole.
E’ solo un post in cui parlo dei concorsi e formulo alcune proposte, non organiche certamente ma in cui io credo abbastanza. Dico abbastanza perché non di tutte sono convinto al 100%.
Globalmente si tratta di una provocazione. Tuttavia la legge attuale e le altre proposte che ho letto non portano a niente perché si basano su presupposti assolutamente sbagliati, il peggiore dei quali è che sono sempre gli esperti, i tecnici, i "migliori" a decidere perché la politica sarebbe corrotta (e i cittadini non li prende in considerazione nessuno).
Se questo fosse vero, allora tanto varrebbe rinunciare alla democrazia, dato che i politici sono eletti dai cittadini e quindi, se sono corrotti i politici lo sono anche i cittadini. E non si tiri fuori la legge elettorale, dato che le attuali leggi trovano origine nel post tangentopoli, cioè quando c’erano le preferenze e l’uninominale.


Legenda: in rosso i commenti a me stesso

PRINCIPI GENERALI
Si soprassiede sulle premesse e sulla storia dei concorsi, per amor di patria, e si arriva subito ai principi generali.

Quello che i concorsi non devono essere:
• I concorsi di architettura non sono un metodo per fare lavorare gratis et amore dei, e senza speranza, centinaia di architetti per volta
• I concorsi di architettura non sono neppure welfare e non servono quindi a fare poca assistenza a molti allo scopo di creare consenso
• I concorsi di architettura non devono alimentare il sistema corruttivo, in senso etico ma anche in senso molto materiale, dei giudici che favoriscono i propri sodali, con scambio di ruoli con i sodali che giudicano i giudici della volta precedente
• I concorsi di architettura non devono servire solo a fare svolgere i concorsi di architettura e poi tutto finisce lì. A concorso deve seguire incarico e opera. Basta con l’onanismo dei concorsi

Quello che i concorsi devono essere:
• I concorsi di architettura servono a scegliere i migliori progetti per la città e non i migliori architetti per le riviste.
• Poiché la città è composta da cittadini e amministrata da amministratori eletti dai cittadini, i giudici dovranno essere gli esperti, i cittadini e gli amministratori eletti dai cittadini.
• E’ garantita alle riviste libertà di stampa e di opinione e se vorranno poi recensire i migliori architetti per le riviste, liberissime di farlo, tanto non le legge più nessuno, a parte gli architetti, che sono solo una parte - anche se consistente - dei cittadini.

PROPOSTA
I concorsi sono aperti a tutti.
Ma non tutti devono lavorare come pazzi a vuoto, anche per non creare inutili e frustranti aspettative.
I concorsi si svolgeranno in due fasi:
• nella prima fase tutti inviano un curriculum e una proposta progettuale composta di 1 max 2 tavole A3 che illustrino l’idea del progetto e una relazione in una pagina A4
• la commissione seleziona un numero di progetti limitato, massimo 5, tra quelli pervenuti, che passeranno alla fase successiva in cui il progetto sarà approfondito con massimo 3 tavole A1 e una relazione
Scendere nel particolare del formato e del numero delle tavole potrà sembrare sbagliato in questa fase, ma “Dio sta nei dettagli” ed è invece proprio nei dettagli delle leggi italiane che si annida il Diavolo.
A tutti i selezionati sarà riconosciuto un rimborso spese adeguato alla natura del progetto e comunque non simbolico.
Per fare un esempio: da 5 a 10.000 euro ciascuno. I concorsi costano ma costa molto di più bandirli e poi non assegnarli, cioè il solito coitus interruptus.
Al progetto vincitore sarà affidato l’incarico per la progettazione dell’opera (a questo punto si inserisce la proposta, molto ragionevole ed equa, di cui ai punti 6 e 7 della Proposta di legge del Sole 24 ore)
Questa prima parte di procedura non è inventata di sana pianta, ma fa riferimento al sistema adottato in Francia dove, con un metodo analogo a questo, vanno a concorso moltissime opere non solo pubbliche ma anche private.

Composizione della commissione e criteri di determinazione del vincitore:
La commissione sarà composta da un numero dispari di membri e sarà presieduta dal Sindaco o suo delegato (o comunque dal rappresentante dell’ente banditore).
Questa è una proposta scandalosa nell’Italia moralista, giustizialista e anti-casta di oggi ma è l’unica che possa ridare responsabilità e dignità alla politica. Il Sindaco è eletto dai cittadini e quindi lui risponde del proprio operato a fine mandato, non gli altri.
I rimanenti membri saranno nominati al 50% dal Consiglio Comunale (o dall’organismo rappresentativo dell’ente banditore) e il rimanente 50% scelto dall’ente banditore tra una rosa di nomi indicati dagli Ordini professionali. Un funzionario dell’ente banditore svolgerà mansioni di segretario.
E’ chiaro l’intento di rimettere le scelte nelle mani della politica, sempre in base al principio di rappresentatività. Mi pesa un po' indicare gli Ordini, però al momento non conosco altro organismo che abbia maggior rappresentatività degli architetti. L'Università forse? Peggio mi sento! Meglio gli Ordini, almeno sono presenti in ogni provincia.
La commissione stabilirà una graduatoria tra i progetti selezionati e ammessi alla seconda fase, giustificandone con precisione le motivazioni, che saranno rese pubbliche.
I progetti selezionati saranno successivamente sottoposti al giudizio dei cittadini, previa esposizione dei progetti stessi. Nell’ambito di tale esposizione sarà tuttavia possibile prendere visione di tutti i progetti partecipanti, cioè anche quelli della prima fase.
E’ evidente la finalità di rendere accessibili tutti i progetti e non solo quelli selezionati: i cittadini, i partecipanti e  chiunque ne abbia interesse potrà così giudicare il lavoro della giuria. Data l’esiguità degli elaborati sarà un lavoro che non richiede particolari sforzi e costi di allestimento.
Per cittadini si intendono i residenti nel comune in cui sorgerà l’opera. Il periodo a disposizione per il voto non potrà essere inferiore a tot giorni, dopo un minimo di tot giorni in cui sarà data ampia pubblicità all’evento. Il voto sarà raccolto con la semplice presentazione del documento di identità che attesti la residenza.
Il tot sta a dire che non sono sicuro, ma immagino che 10 sia numero sufficiente per entrambe le scadenze. La cosa deve essere snella e non andare alle calende greche (tanto ad andarci, alle calende, ci pensa da sola).
Nelle città grandi, per opere di interesse esclusivo di zona o di quartiere, il voto potrà essere limitato ai residenti nella zona o nel quartiere.
Al termine della consultazione popolare il Sindaco (o il rappresentante dell’ente banditore) decide il progetto vincitore. Il Sindaco può avvalersi dei consulenti che ritiene più opportuni, i quali presteranno la loro opera dietro pagamento di un semplice rimborso spese.
Sarebbe più corretto che il Sindaco intervenisse solo nella fase finale, senza dunque partecipare ai lavori della giuria. Però è importante che tale figura sia presente anche nella prima fase di selezione dei progetti. Semmai è da valutare se debba partecipare alla scelta della seconda fase o se al suo posto non debba essere previsto un funzionario tecnico dell’amministrazione, visto che il Sindaco sarà quello che alla fine decide.

Considerazioni finali
Come ho detto questa proposta di legge è chiaramente una allegra provocazione. Sono una serie di principi generali e particolari (ricordiamoci sempre che Dio ecc. ecc.). E’ tutta da valutare, in specie nella fase di votazione dei cittadini. Quello che fa paura non è la possibilità, anzi la certezza, di polemiche, ché anzi è proprio questo il cuore e la vita della scelta di un progetto per la città, semmai la scarsa partecipazione, oppure la possibilità di organizzare politicamente i votanti. Perché è chiaro che a quel punto i nomi dei progettisti saranno resi noti. Ma anche questo, in fondo, è un rischio da correre, perché la città si organizza in base alla politica e non esiste, né può esistere, meccanismo perfetto, essendo la democrazia imperfetta per sua natura. Se si vuole scambiare la democrazia con la perfezione, si accomodino lor signori.
Un dubbio mi rimane sull’anonimato. Personalmente sarei propenso ad eliminare questa ipocrisia, ma capisco anche le ragioni contro.

Pietro Pagliardini

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6 agosto 2011

PIAZZA SAN SILVESTRO: L'ATTACCO AL CENTRO STORICO CONTINUA

Ricevo dal Prof. Ettore Maria Mazzola questo testo sul progetto di "riqualificazione" di Piazza San Silvestro a Roma che pubblico con piacere.

****
Piazza San Silvestro: l’attacco al centro storico continua
di
Ettore Maria Mazzola

La cronaca romana di questi giorni ci ha mostrato la rivolta pacifica suscitata dall’avvio del progetto di “riqualificazione” di Piazza San Silvestro. Una rivolta più che prevedibile.
Intanto c’è da chiedersi se, con tutti i problemi di Roma, specie in periferia, la “riqualificazione” di piazza San Silvestro sia una priorità che giustifichi una spesa di circa € 2.500.000,00.
Poi chiediamoci se il progetto in corso possa realmente definirsi un progetto “riqualificante”, oppure se non si tratti dell’ennesimo abominio progettuale, figlio dell’ideologia modernista e del disinteresse per il contesto nel quale si interviene, che pone al centro di tutto l’affermazione dell’ego del progettista.
Il risultato di questa ennesima “gaffe urbanistica” dell’amministrazione capitolina, è stata l’ovvia rivolta dei cittadini che hanno manifestato il proprio disappunto bloccando il cantiere. Contemporaneamente sui blog si sono moltiplicati i messaggi che implorano la sospensione del progetto e chiedono un cambio di direzione nella gestione dell’urbanistica romana.

Per quanto mi riguarda non posso che unirmi al coro degli indignati; del resto, dopo la violenza all'Ara Pacis, e lo stupro dell’Unione Militare, questo intervento rappresenta il progredire delle metastasi, di un "tumore" che, originatosi con il Museo dell'Ara Pacis, si sta estendendo fino a Piazza San Silvestro in una direzione ... e Largo Perosi nell’altra. Del resto era prevedibile, se si dà a Meier e Fuksas il permesso di sfregiare il centro storico più bello del mondo, chiunque può sentirsi legittimato a fare altrettanto!

La realtà dei fatti è che non c'è più alcun amore per la nostra città, né da parte degli architetti (che in realtà pensano solo al loro ego), né tantomeno da parte dei politici, ai quali interessa solo la propaganda. Per questi ultimi, spesso profondamente ignoranti, l'importante è che il proprio nome sia sui giornali e, siccome la gente legge a stento i titoli e sempre meno i contenuti, che si parli bene o male non fa nulla, basta che si parli.
Eppure non è che ci vorrebbe molto a capire come fare una piazza: se facciamo il raffronto tra la mobilitazione in atto per bloccare l’esplanade di San Silvestro, con quella che fu la mobilitazione popolare per mantenere in pristino la finta fontana barocca istallata a Fontanella Borghese per il set cinematografico Disney 2 anni fa, ci accorgeremmo che la gente comune, ovvero i fruitori degli spazi urbani, non fa polemica per il gusto di farla, ma la fa per evitare di vedere violentati gli spazi che le appartengono. Nei due casi menzionati, infatti, si è “combattuto” per evitare uno scempio o per mantenere un qualcosa che, esteticamente, si riteneva apportasse una miglioria allo spazio preesistente.

A tal proposito sarebbe il caso di ricordare che il Codice Civile italiano tutela tutti coloro i quali rivendicano il possesso di un luogo che utilizzano, frequentano o guardano, e che come tali devono essere tenuti in considerazione prima di apportare delle modifiche; sarebbe quindi utile recuperare concetti come quello contenuto nel Piano per Bari Vecchia del 1930, (G. Giovannoni – C. Petrucci) che recitava «[…] Tra le attribuzioni del Comune e della commissione dovrà essere quella che fa capo al Diritto Architettonico, in quanto l’opera esterna non tanto appartiene al proprietario quanto alla città».
Ovviamente, nel coro di protesta contro il progetto di Piazza San Silvestro, c’è stato anche chi, dalla Facoltà di Architettura, ha suggerito di coinvolgere personaggi come Foster, Pei, Piano e l'Aulenti che, a suo avviso, potrebbero dare delle soluzioni più consone ad una piazza … da parte mia, se penso a ciò che Gae Aulenti ha fatto al Foro Carolino di Napoli mi viene la pelle d'oca!!

A tal proposito, penso che più che suggerire delle archistar, che mirano solo a mettere la loro firma sul territorio, sia necessario coinvolgere tutti coloro i quali vogliano mostrare ciò che vorrebbero venisse realizzato in Piazza San Silvestro; ma soprattutto, vorrei che ad esprimersi non debba essere una "commissione di esperti" (visto che si sono formati, o meglio che sono stati lobotomizzati, nelle facoltà di architettura e ingegneria italiane votate al modernismo), ma che debbano essere i cittadini ad esprimere le loro preferenze, mediante un processo partecipativo reale e non fasullo, come quello della recente presa in giro per Largo Perosi alla Moretta.
A mio avviso Roma, che è la città delle fontane, meriterebbe di avere una vera fontana in Piazza San Silvestro, (l’ultima degna di tale nome è quella realizzata da Attilio Selva nel 1928 in Piazza dei Quiriti!) meriterebbe di avere una pavimentazione non astrusa come quella del progetto in corso, ma legata alla geometria che la contiene, una pavimentazione che tenga in considerazione le gerarchie degli edifici che la circondano; Piazza San Silvestro meriterebbe dei lampioni degni di portare luce nel centro di Roma, e non brutti come quelli installati lungo via Veneto.
Il progetto in corso presenta una serie di orribili “panchine-bara”, prive di schienale e messe alla rinfusa: una soluzione che sembra più una disposizione casuale di oggetti, utile a riempire il vuoto della piazza, che non un tentativo di realizzare un luogo per la socializzazione ove riunirsi e chiacchierare … non ci vogliono le archistar per capirlo, ma una semplice analisi storico-tipologica degli spazi urbani di Roma.

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4 agosto 2011

SOGNO DI UNA NOTTE MEZZA ESTATE

Un augurio di buone vacanze con una precisazione e un sogno.
La precisazione è che ho letto nel libro Fascio e martello, Laterza che Antonio Pennacchi è diplomato geometra, mentre io nel post precedente avevo scritto, come apprezzamento, che non era né architetto né geometra. Il mio apprezzamento resta intatto.
Il sogno è dettato dalla contingenza della crisi economica: tutti parlano di risparmiare, meno auto blu, il Quirinale ha tagliato 15 milioni, alla Camera hanno rinunciato all'apertura serale del ristorante e facezie varie. Al danno della crisi si aggiunge la beffa della ridotte vacanze del Parlamento: meno ferie = più leggi inutili, complicate e illiberali.
Il sogno di una notte di mezza estate? Che comincino a liberalizzare, eliminando le leggi e non producendone nuove. Allentino il controllo sociale su tutto. Un cittadino per fare una nuova stanza spende più di tecnici e di carta che di opere. Per costruire e aprire un'azienda occorrono mille permessi e tempi infiniti. E se poi il progetto è pessimo non interessa un accidente a nessuno.
Liberalizzino l'edilizia per i cittadini e semplifichino quella per le imprese, e anche gli architetti la finiscano con l'ipocrisia di gridare allo scempio edilizio se un cittadino fa una stanza in più perché gli serve. Discreditano la categoria.
Il vero risparmio? Allentare la presa della politica sulla società, diminuire le procedure, diminuire le "istruttorie" e quindi gli addetti a compiti inutili nei comuni e negli enti.
Più responsabilità ai cittadini = riforma a costo zero.
Intanto il ristorante alla Camera la sera è chiuso: un bel sollievo per l'economia!
Buone vacanze.
Pietro

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