Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


4 aprile 2011

UNA RAGIONE IN PIU' CONTRO I GRATTACIELI

La mia cultura di architetto laureato nel 1976 non mi ha certamente fornito alcun pregiudizio contro i grattacieli, dai quali anzi sono stato, e sono in certi casi tutt’ora, affascinato e intrigato. Ci sono città che traggono da questa tipologia la loro forte caratterizzazione, come New York e Chicago e, non foss'altro che per la fama e il mito dato loro dal cinema americano, ritrovarsi in mezzo ad essi appena sbarcato dall’aereo è stata una delle esperienze di viaggio che ricordo con maggiore intensità.
Ricordo con commozione quel primo viaggio in taxi verso l’albergo a New York, con il naso incollato al finestrino e la testa volta in su ad ammirare luoghi ed edifici resi familiari dal cinema e dai libri: Fifth Avenue, Rockfeller Center, Empire, Chrysler Building, Pan Am e poi l’albergo vicino al City Corp Centre, incredibile edificio con i quattro angoli a sbalzo e la punta tagliata a 45°. E in quel taxi mi veniva in mente un film con Alberto Sordi nella mia stessa situazione.

Immagine tratta dal sito del Comune di Milano

E poi quella immensa parete di indirizzi dell’Empire State Building, e la sua punta che di notte cambia colore e infine la salita in cima alle Twin Towers da cui si abbracciava la penisola di Manhattan, Il New Jersey, la statua della Libertà, il ponte di Brooklyn e tutte le icone di questa città simbolo della potenza americana, del mondo occidentale e della libertà. Fosse stato per me avrei ricostruito le torri come erano e dove erano, come segnale di forza e di determinazione contro una furia distruttrice irrazionale e assassina. Ma gli abitanti hanno deciso diversamente e non si può che rispettare questa scelta.
Per me sarebbe sbagliato rinnegare tutto questo e comunque assolutamente impossibile.

Ma un conto è l’emozione e i ricordi personali, altro è ragionare.
E molte sono le ragioni per cui ritengo del tutto sbagliato la ripetizione di questo tipo in ogni angolo del pianeta, e ancor più in Italia, che di seguito riassumo:

• Esportarlo ovunque significa spogliarsi della propria identità assumendone una diversa che appartiene ad un altro popolo, pur a noi così vicino: ogni città, ogni luogo è unico e diverso dagli altri e questa unicità deve essere mantenuta e salvaguardata, allo stesso modo in cui si salvaguarda l’identità e l’unicità dei paesaggi naturali.

• Il grattacielo è l’edificio più energivoro che esista, sia per la produzione dei materiali da costruzione con cui deve essere costruito, sia per la sua gestione che richiede massicce dosi di energia per la movimentazione verticale nelle due direzioni delle persone e dei fluidi per riscaldamento, refrigerazione, rete idro-sanitaria, scarichi perfino. Il grattacielo è un edificio di grande fragilità ed è totalmente dipendente dall’energia; senza energia è l’anticamera di una bara.

• Il grattacielo è pericoloso, come si capisce bene, in caso di incendio, tra l’altro non infrequente per il tipo di materiali che deve utilizzare per ovvi motivi strutturali, tutti leggeri ed infiammabili.

• Per lo stesso motivo è, dal punto di vista dell’isolamento termico e dei consumi, estremamente inefficiente, essendo le pareti dotate di scarsa massa e quindi, non accumulando calore, necessita di calore continuo in inverno e di raffrescamento d’estate, per supplire al noto effetto baracca. La sbandierata sostenibilità ambientale ed autonomia energetica altro non è che una semplice presa in giro.

• La sua sagoma sconvolge del tutto la percezione delle nostre città e del nostro paesaggio, i cui unici elementi verticali sono le torri e i campanili delle chiese, con ciò impoverendo quella che è anche la nostra unica materia prima: la bellezza delle nostre città e del nostro patrimonio artistico.

• Il grattacielo è un formidabile attrattore di traffico, concentrando in pochi metri quadri di terreno un gran numero di persone e di attività, rendendo imprevedibile e ingovernabile quanto accade a terra.

• La vita all’interno del grattacielo è totalmente artificiale, essendo difficile dotarli di finestre apribili, date le fortissime correnti d’aria, che tra l’altro influiscono non poco sul clima circostante. Quindi l’ambiente deve essere completamente climatizzato.

• I costi di manutenzione sono altissimi, basti pensare alla pulizia o al rinnovo delle facciate, di qualunque materiale esse siano.

• L’idea che si occupi meno suolo e che si liberi una gran quantità di verde è destituita di fondamento ed è uno dei tanti falsi luoghi comuni, utili ad agevolarne l’approvazione presso le varie comunità cittadine.
Mi fermo, ma l’elenco potrebbe continuare.

Esiste però, nel caso specifico della realtà italiana, un’altra importante ragione per contrastare con forza la scelta dei grattacieli. E’ una ragione che potrei definire di carattere strumentale e vale sia per la cultura urbanistica che per la politica.
La cultura urbanistica attuale sembra pigramente e acriticamente incentrata sulla sostenibilità ambientale, articolata in maniera più o meno seria: dalla giusta attenzione che i piani rivolgono alla salvaguardie delle risorse naturali in senso ampio, dopo che la legge urbanistica nazionale era invece rivolta solo alla città (anche se in maniera sbagliata), a dichiarazioni di principio influenzate da un ambientalismo che vede l’uomo come un nemico e la natura amica (amica di chi, se l’uomo è un nemico?) con la conseguente cascata di slogan: consumo di suolo, volume zero, dimensionamento di piano e quant’altro.

Una visione urbanistica tutta in negativo e sostanzialmente anti-urbana che non va al cuore del problema, non cerca le ragioni del fallimento della città moderna, accontentandosi, al massimo, di attribuire ogni colpa alla speculazione.
Ragionamento anche questo in negativo, perché riduce l’urbanistica ad una storia di malaffare, attribuendo di fatto ogni responsabilità a tutti tranne che agli architetti, e quindi alla politica, ai palazzinari, ai cittadini cattivi, al mercato, alla rendita fondiaria. Questa svolge, ed ha sempre svolto, un ruolo importante e certamente tutto a favore degli interessi privati, ma se fosse la ragione prima dei fallimenti allora dovremmo avere, a controprova, parti importanti di città che, in quanto costruite in base a piani di iniziativa pubblica, dovrebbero essere esempi di qualità da cui attingere e da prendere a modello. Invece non è così, ed anzi la stragrande maggioranza di quei piani sono i simboli negativi par excellence.

Si rifiuta di riconoscere il fatto che le responsabilità maggiori sono proprio della cultura urbanistica che ha sposato entusiasticamente, e a tutt’oggi continua su questa strada, la zonizzazione selvaggia, la specializzazione della città in aree omogenee, la fine della strada, la logica del lotto piuttosto che dell’isolato, il principio della somma di oggetti invece che quello dell’insieme, il disegno geometrico astratto e privo di ogni relazione con lo svolgimento della vita dell’uomo, insomma il modernismo architettonico ed urbanistico.
L’ambientalismo di oggi, con le dovute eccezioni, è il frutto della cattiva coscienza che crede di poter porre rimedio alla disintegrazione della città con dosi massicce di un verde idealizzato, dopo aver creduto di fare supplenza alla mancanza di disegno urbano attraverso gli standard e i servizi. La quantità definisce meglio di ogni altra cosa l’urbanistica moderna.

Il grattacielo è, in questo senso, un’altra scorciatoia, un altro rimedio alla mancanza di analisi della realtà, il simbolo presunto di una rigenerazione urbana e di rilancio delle città verso una non meglio definita modernità, del tutto priva di contenuti. Si possono, o meglio si dà per scontato che possano, appiccicare al grattacielo le etichette di eco-compatibilità, sostenibilità, risparmio di suolo, con ciò dando la percezione di essere in linea con il fariseismo del volume zero ma permettendo ugualmente operazioni immobiliari importanti sotto il profilo quantitativo.
Il grattacielo diventa dunque l'occasione per un altro rinvio, un altro ostacolo a scelte inderogabili di vera rigenerazione urbana, basata sulla maggiore densità, su una difficilissima opera di ristrutturazione urbanistica che dovrebbe fondarsi nel ritorno alla strada, alla prossimità, alla promiscuità delle funzioni, all’identità dei luoghi.

La politica, che naturalmente possiede il dono di fiutare il vento, sfrutta il trend e vede nel grattacielo l’opportunità di veicolare attraverso di esso, che avrebbe tutte le doti di eco-compatibilità possibili e immaginabili, interventi immobiliari importanti, con quel quid plus di fascino che esercita la verticalità nell’immaginario collettivo, a perenne memoria dell’amministratore che per primo ha introdotto la propria città nella contemporaneità, che ha sprovincializzato una realtà da sempre ostile alle novità.
E così si alimenta il luogo comune, per non dire la menzogna, del grattacielo sostenibile, nelle sue varie versioni boscate e/o pannellate al silicio, energeticamente autosufficiente, con tanto verde intorno.
E così si ripetono a scala maggiore gli stessi errori e la (in)cultura urbanistica continua a rotolarsi su se stessa senza imboccare mai la strada giusta.


PRECEDENTI POST SUI GRATTACIELI:
Grattacieli sostenibili e sostenuti
Qualche numero interessante sui grattacieli "sostenibili"
Ancora sui grattacieli sostenibili
L'assioma del grattacielo

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30 marzo 2011

LA CITTA' DOPO IL NUCLEARE

Gabriele Tagliaventi osserva e descrive la condizione urbana di Detroit per ammonire su ciò che potrebbe accadere alle nostre città e in qualcuna è già accaduto.

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29 marzo 2011

DIVERTISSEMENT

…..perciò andranno privilegiate architetture contemporanee, di pregio, che sfruttino energie rinnovabili, e strutture verticali che limitino il consumo di suolo”.
Questa la testuale e meravigliosa sintesi di luoghi comuni fatta da un amministratore per un'area che prevede grattacieli.
Un'area, lo si capisce bene, in cui si prevedono grattacieli dalle forme contemporanee e che sfruttino energie rinnovabili.
Una dichiarazione tipo, uno stereotipo ormai consueto nel mondo della politica locale di qualsiasi appartenenza politica, in cui è condensata lo stato attuale della prassi urbanistica e architettonica.
Analizziamo la frase:

1) privilegiare architetture contemporanee:
Dato che sarebbe difficile privilegiare architetture megalitiche o longobarde e neppure risorgimentali, nonostante il 150°, e dato che non tutte le architetture costruite oggi, quindi contemporanee comunque esse siano, potrebbero soddisfare il significato sottinteso di particolare specialità, è chiaro che per “contemporanee” si debbano intendere architetture che assomiglino alle migliori tra quelle che si vedono in giro o nelle riviste, in TV e nei magazine, cioè più alla moda. Se infatti io ricevessi l’incarico di ordinare uno stock di abiti per conto di qualcuno che mi dicesse solo: "voglio che tu privilegi un abbigliamento contemporaneo", mi documenterei sull’ultimo pret a porter sfilato a Milano o Parigi e tra quello andrei a scegliere. Analogamente, se mi si chiedesse un’architettura contemporanea, cercherei dove devo cercare. Quindi è la moda che comanda l’architettura, è la moda che fa scegliere le “architetture”. Sottolineo questo punto a favore di tutti quei colleghi che ancora vanno cercando l’architettura contemporanea: non si prendano troppa cura, la possono trovare all’outlet a prezzi stralciati. Tra un po’ sarà reperibile anche nei mercatini rionali e pare che già ci siano in commercio molte copie taroccate, non solo di produzione asiatica ma anche italiana. La Guardia di Finanza ne ha sequestrati diversi quantitativi.

2) di pregio:
Attributo questo ridondante e pleonastico in quanto scontato. Difficile desiderare un’architettura spregevole: contemporanea già basta e avanza.

3) che sfruttino energie rinnovabili:
Tradotto significa “che abbiano sul tetto pannelli solari”. Poiché è la legge che lo stabilisce, anche questa espressione è un pleonasmo.

4) strutture verticali che limitino il consumo di suolo:
Eccoci al conquibus! Tutto quanto detto prima è l’ouverture, la preparazione, l’introduzione, l’odore di quell’arrosto che è il grattacielo e che riassume in sé tutte le caratteristiche precedentemente esposte: contemporaneità, pregio, sostenibilità ambientale. Con l’aggiunta della più corretta tra le politicamente corrette espressioni correnti, cioè risparmi nel “consumo di suolo”. Ma il grattacielo non viene chiamato con il suo nome, e neppure con il più evocativo torre, bensì: struttura verticale. La capacità d’astrazione è qui eccezionale: l’edificio si smaterializza del tutto per diventare un concetto. Struttura, infatti, non ha niente di fisico, non rimanda a qualcosa che sostiene un carico, dato che la struttura verticale è presente anche in una capanna di un piano. Struttura verticale assume qui il significato filosofico dato dalla omonima corrente strutturalista, diventa un segno che connota un qualsiasi elemento che tenda verso l’alto, quasi l’aspirazione stessa alla salita.

E subito ci si immagina un bel monolite con un meraviglioso e soprattutto grande parco intorno, logica conseguenza del risparmio di suolo: si risparmia suolo e quindi si può liberare il verde, sotto il quale ci sta un immenso parcheggio che sputa veleno sopra ma tanto ci sono le piante che fanno da filtro. E si pensa ad un parco come un green da golf, e gruppi di alberi e fiori e roseti e panchine e squadre di manutentori che tagliano l’erba, raccolgono le foglie cadute e le bottiglie di birra vuote, le siringhe e le cicche, qualche ubriaco, ogni tanto anche un cadavere finito lì chissà come; che accomodano gli irrigatori, sostituiscono le panchine rotte e quelle rubate. E se si prende uno dei tre ascensori e ci si affaccia alla terrazza del roof-garden si può osservare ad est una città compatta, con tutti i tetti rossi, dove le strade appaiono come incisioni tra le masse murarie, come il cretto di Gibellina, e dove non ci si capacita di come per secoli la gente, questa incivile, abbia potuto vivere tutta così appiccicata e per di più intrappolata dentro una cinta di mura che segna un limite preciso all’espansione, dato che oggi non ci vive più nessuno, salvo qualche architetto che ci tiene studio, ma solo per immagine e poi, per comodità, per non perdere tempo nei viaggi, ci vive anche al piano di sopra, ma con grande sacrificio. Infatti possiede anche una bella casa colonica ristrutturata in campagna, con piscina, zona collinare, grande metratura, dove si riposa nei week-end e durante l’estate. Ha cercato, è vero, una casa in una amena periferia, ma è stato sfortunato perché costano meno e lui pensa che il prezzo più basso nasconda qualche magagna. Solo per questo non l’ha comprata, perché non si fida. E poi c’è sicuramente da sanare qualche difformità, troppe grane; il centro storico, invece, pare che esistesse già prima del ’67 e tutto è regolare, dice la legge.

Ci vivono anche pochi altri professionisti, avvocati, notai, psicologi, primari di cliniche private ma anche medici generici, possidenti, commercianti, ricchi di famiglia, industriali e arricchiti a vario titolo. C’è rimasto qualche anziano pensionato ma per poco perché c’è chi gufa perché tiri il calzino per potersi così presentare agli eredi con un bell’assegno. Comunque è un luogo poco raccomandabile perché c’è qualche extracomunitario, anche se, a onor del vero, loro preferiscono i condomini in periferia, perché sono veri amanti del bello. Non ci sono invece parchi tra quelle case, ma tra i tetti e i muri spuntano chiome di alberi che non si capisce proprio da dove vengano: saranno anche quelli sui roof-garden!

Rivolgendo lo sguardo ad ovest il vuoto prevale e, dopo il pieno ad est che costringeva ad aguzzare la vista, il campo si allarga, l’orizzonte si amplia, gli occhi vagano senza meta mancando, per fortuna, un disegno leggibile. Quella città è veramente democratica perché ognuno la può interpretare a modo suo, libera la creatività e incoraggia l’iniziativa perché non c’è regola che comandi se non la mancanza di regole. Un grande parcheggio sulla sinistra, un altro mini-grattacielo sulla destra, un po’ più vecchio, non tanto contemporaneo, collezione di quattro anni fa, vintage, non è chiaramente sostenibile perché non v’è traccia di energia alternativa. Al centro quella che sembra una raccolta di scatole da scarpe tutte ordinate perpendicolari alla strada e, accanto a queste, case sparse con tetti dalle forme più varie e fantasiose, e un po’ più lontano un grande ipermercato.

Un flash di memoria ricorda che quella parte di città dentro le mura ha accolto, nei tempi di massima crescita, fino a 30.000 abitanti. Ma adesso che la città ne conta 100.000, come mai la superficie attuale è almeno 10 volte tanto? Boh!
Comunque adesso, con i grattacieli le cose cambieranno radicalmente: il consumo di suolo si ridurrà drasticamente, il verde aumenterà e …. la campagna diminuirà….. se diminuisce la campagna però cresce la città…. ma la città è verde…. sarà verde la città ma cosa ci si coltiva, l’erba all’inglese?..... no, l’erba no, semmai l’insalata e…. si possono fare gli orti urbani…… ma sull’insalata urbana ci va lo smog delle auto parcheggiate sotto…. e allora portiamole a piano terra le auto…. sì, ma così sull’insalata ci va lo smog delle auto di sopra ….. e allora….. coltiviamo l’insalata in campagna e in città facciamoci le cose da città, magari ci si vende l’insalata della campagna e anche qualcos’altro e per non consumare troppa benzina si potrebbero costruire le case più vicine e un tantino più basse della struttura verticale strutturalista, così il sole c’è per tutti non solo per quelli dei piani alti, e magari al piano terra metterci qualche negozio.
Fammi dare un po’ uno sguardo a quel fittume, tanto, tanto mi venisse qualche idea!

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25 marzo 2011

COSTRUIRE CON PARSIMONIA

di Ettore Maria Mazzola

Prefazione
La tragedia del terremoto senza precedenti avvenuto in Giappone, e soprattutto la catastrofe nucleare che si sta abbattendo su quel Paese, e che presto investirà una grande parte del pianeta adombrando gli eventi di Chernobyl, dovrebbero farci riflettere moltissimo sul nostro stile di vita.
Può sembrare demagogico, o cinico, affrontare questo discorso in questo triste momento, tuttavia ritengo che sia proprio questo il tempo per riflettere, poiché l’atteggiamento blasé che caratterizza la nostra società tende a farci dimenticare in fretta degli avvenimenti tragici.
Non voglio parlare di politica, perché non è il mio campo, tuttavia devo esprimere il mio disappunto circa alcune affermazioni recenti dei nostri politici i quali, all’indomani della catastrofe, hanno dichiarato che “il programma nucleare in Italia deve andare avanti”, oppure che “in Italia non ci sono rischi”. Non meno preoccupanti sono state le affermazioni del premier il quale, nascondendosi dietro un dito ha detto che “la decisione spetta al Consiglio d’Europa” e che, in termini di localizzazione delle centrali nucleari, la decisione non spetta a lui ma ai consigli regionali!


Nel 1987, scossi dal terrore della catastrofe di Chernobyl, i cittadini italiani votarono a larghissima maggioranza l’uscita dal nucleare, e quel referendum costò, come di consueto, tanto denaro pubblico. Come mai quindi oggi dovremmo rimettere in discussione una decisione quasi unanime del popolo italiano? Quanto conta, per i nostri politici, la volontà del popolo di fronte agli interessi lobbistici?

Ragioni
Il motivo della nuova corsa al nucleare è ovviamente intimamente connesso al fatto che, come aveva ammonito James Howard Kunstler nell’ormai famosissimo “The Long Emergency”, è terminata l’era del petrolio a buon mercato. Allora si deve trovare una soluzione energetica alternativa che non si basi sui combustibili fossili.
Tuttavia, come Kunstler ha ampiamente dimostrato senza possibilità di smentita, tutte le cosiddette “fonti alternative”, dipendono in qualche modo dal petrolio, energia nucleare inclusa. Tra l’altro questo tipo di tecnologia prevede un problema non indifferente legato alle scorie radioattive e alle acque di raffreddamento, anch’esse radioattive, del quale fingiamo di ignorare l’esistenza.

Ma perché quindi dovremmo orientarci in questa direzione? Il motivo basilare è che, nella società che abbiamo costruito per migliorarci la vita, tutto è stato, o tende a venire automatizzato. Ciò che nelle fabbriche un tempo veniva fatto dagli operai, oggi viene svolto dalle macchine, altrettanto dicasi per ciò che avviene nelle nostre case. Per spremere le arance si usa lo spremiagrumi elettrico, per spazzare le stanze si usano le aspirapolvere o, addirittura, veri e propri impianti centralizzati di aspirapolvere, ecc.
Ovviamente questo meccanicismo, se da un lato apre i tristi scenari della disoccupazione, dall’altro richiede un quantitativo di energia smisurato che, lo stiamo vedendo nei “Paesi emergenti”, comporta un danno al pianeta enorme in termini di surriscaldamento globale e, ovviamente, una domanda di combustibili fossili di gran lunga superiore all’offerta.

Ma c’è un altro aspetto, silente, alla base dello smodato fabbisogno energetico: le nostre case! Le stime (1) – in crescita – che emergono dalle conferenze, ci dicono che l’incidenza in termini di fabbisogno energetico dell’edilizia industriale attuale è pari al 36%, (a fronte del 31% dell’industria e del 31% del trasporto), mentre le emissioni di CO2 dell’edilizia sono pari al 34,5 % (a fronte del 32,5% dell’industria e del 30,5% del trasporto).
Dalle stesse stime risulta che l’intero settore edilizio è responsabile del 50% dell’energia consumata a livello Europeo, di cui il 36% è imputabile al fabbisogno energetico in fase d'uso degli edifici, mentre circa il 14% è causato dal settore industriale legato all’edilizia. Oltre a ciò va considerato che gli edifici comportano notevoli consumi di materiali ed energia sia in fase costruttiva che durante il loro uso e la loro dismissione: il settore edilizio consuma circa il 40% dei materiali utilizzati ogni anno dall’economia mondiale e produce circa il 35% delle emissioni complessive di gas serra, senza contare i consumi di acqua e di territorio, nonché la produzione di scarti e rifiuti dovuti alla sua demolizione … ma da noi c’è chi continua a costruire grattacieli ed edifici vetrati, presentandoli anche come “sostenibili”!
Da questi dati sconcertanti viene da chiedersi come possa essere possibile che la nostra società, quella che rivendica di appartenere alla specie animale più evoluta, quella che dice di appartenere alla generazione più avanzata e che ha raggiunto i massimi successi nel campo delle scienze, sottovaluti il problema e, in nome di un egoismo di massa, si limiti a rimandare la soluzione alla prossima generazione … che sono i nostri figli!!

Davanti ad affermazioni come quelle di G. W. Bush, che disse “lo stile di vita americano non è negoziabile” non possiamo quindi non pensare esattamente l’opposto. Infatti si deve proprio al profondo egoismo della nostra società – disinteressata perfino al futuro dei propri figli – che non vuole rimettere in discussione il proprio stile di vita, se questo pianeta, diversamente dai “programmi” di Madre Natura, sta velocemente andando incontro all’apocalisse!

Una possibile soluzione
Quindi, non volendo “cambiare il suo stile di vita”, l’uomo si affanna alla ricerca di un sistema per mantenere immutato il suo comportamento nei confronti dell’ambiente.
Ma non ci vuole un premio Nobel per comprendere che ciò che fa cortocircuito è proprio il non voler rinunciare alle città e agli edifici energivori!
Noi dovremmo costruire delle centrali nucleari, oppure dovremmo installare ettari di pannelli fotovoltaici (in assenza di un piano di smaltimento per i prossimi 15-20 anni quando dovranno essere sostituiti) per far sì che i nostri edifici, e le nostre città, continuino a succhiare sempre più energia.
Quando questo modello di città e di edilizia ci venne imposto, si parlava di “funzionalismo” … e non sono bastate le pagine ironiche di Tom Wolfe (2) a farci capire che molte cose di quel funzionalismo non funzionassero.

Se dunque nella nostra società consumista tutto converge sul vile denaro, perché non proviamo a seguire una strada diversa, in grado di mettere d’accordo gli interessi privati con quelli comuni? Se non altro per prolungare la vita della nostra specie su questo pianeta!
Come ho più volte ribadito nelle mie pubblicazioni, l’urbanistica del XX secolo ci ha lasciato in eredità una infinita serie di problemi, ma anche delle potenziali enormi possibilità di business. Le città che si sono sviluppate in maniera caotica, sebbene pianificata, sperperando territorio e producendo edilizia energivora, oggi si presentano come delle realtà caratterizzate da vuoti piuttosto che da pieni, e quei “vuoti urbani” sono prevalentemente proprietà demaniali.
Rivedendo il modo di pianificare le città, riportando l’essere umano al centro della progettazione e limitando l’importanza data all’autotrazione, potremmo dar vita ad un enorme progetto di ricompattamento urbanistico e di sostituzione edilizia che adoperi solo ed esclusivamente materiali naturali a chilometri zero, sarebbe possibile limitare il traffico veicolare al solo trasporto pubblico, considerando quello privato solo in caso di bisogno. Ovviamente questa circolazione veicolare dovrebbe prediligere sistemi non inquinanti.

Gli studi sulla fisica tecnica e impianti, e soprattutto quelli sulla termo-igrometria, dimostrano ampiamente che gli edifici costruiti con tecniche e materiali tradizionali richiedono circa il 40% in meno di riscaldamento invernale e fino al 100% del raffescamento estivo. Questo aspetto però, non facendo gli interessi delle lobbies dei produttori di materiali isolanti, o dei fabbricanti di pannelli solari e fotovoltaici, è stato ignorato dai legislatori che hanno stabilito le agevolazioni e gli sgravi fiscali in materia di risparmio energetico. Né tantomeno è stato preso in considerazione il danno ambientale generato dalla installazione di ettari ed ettari di pale eoliche e campi fotovoltaici che, grazie all’accesso ai contributi europei, stanno rimpiazzando i nostri campi coltivati! Quale fiducia si può dunque riporre nel Consiglio d’Europa, i cui “saggi decisori” risultano fortemente coinvolti nel sistema lobbistico privo di scrupoli nei confronti del futuro del pianeta?

Qualora rivedessimo radicalmente l’approccio, e mettessimo in pratica le cose che ho esposto, potremmo generare enormi profitti, pubblici e privati, legati al settore edilizio, al restauro, al turismo, ecc., ma soprattutto ridurremmo drasticamente quel 50% di energia consumata per produrre industrialmente, trasportare, riscaldare, rinfrescare i nostri edifici, che si tradurrebbe in un abbattimento del surriscaldamento planetario, e in una mancanza di necessità di investire sul nucleare. Non ultimo, un processo di questo tipo genererebbe un notevole abbattimento del problema della disoccupazione, e allora perché non dovremmo farlo?

Note
1) Fonte European Environment Agency e World Resources Institute - rilevazioni 1990-2004
2) Maledetti Architetti, Bompiani Edizioni, Milano 1988-2001 – Titolo originale From Bauhaus to our House

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20 marzo 2011

L'ASSIOMA DEL GRATTACIELO

Se avevo definito noioso il mio vecchio post Grattacieli sostenibili e sostenuti, al confronto di questo potrà apparire eccitante, perché qui analizzo puntigliosamente il grattacielo con calcoli di tipo geometrico per smentire luoghi comuni diffusi in buona e cattiva fede su questo tipo edilizio, con dovizia di calcoli, per evitare l’accusa di partigianeria (che comunque c’è). Chi non se la sentisse di seguire la “dimostrazione” e si fidasse, può andare direttamente alle conclusioni.
*****
La giustificazione tecnica prevalente di tipo assiomatico per la costruzione dei grattacieli è quella della “minore occupazione di suolo”, con il correlato e inevitabile corollario dei grandi spazi di “verde” liberato intorno. Successivamente ne derivano anche altre di giustificazioni, ma sono prevalentemente di tipo “ideologico”, quali la loro presunta, quanto risibile sostenibilità ambientale e autonomia energetica. Soffermiamoci però sul primo assioma che è di facile e immediato utilizzo da parte di ognuno, in specie sindaci e amministratori, ma che in effetti ha una certa presa anche a livello popolare. Perché si tratta di assioma? La definizione che Wikipedia da di assioma è la seguente: In epistemologia, un assioma è una proposizione o un principio che viene assunto come vero perché ritenuto evidente o perché fornisce il punto di partenza di un quadro teorico di riferimento. In questa definizione c’è la ragione in base alla quale un sindaco-tipo che affermi la “minore occupazione di suolo” da parte del tipo grattacielo non può essere tecnicamente considerato un mentitore. Ma è un po' come affermare solennemente che un grattacielo è alto, e sarebbe folle negare questa evidenza. Ma constatare l’altezza di un edificio e fermarci lì non ci dice molto oltre alla sua….altezza. Il sindaco-tipo non può essere accusato di menzogna ma può essere serenamente tacciato di omissione. Vediamo perché. La minore “occupazione di suolo” discende da una semplice considerazione geometrica svolta in via intuitiva: a parità di volume, all’aumentare dell’altezza diminuisce la superficie di base. Poiché questa affermazione è certamente vera, si immagina, probabilmente in buona fede in coloro che si fermano a questo dato, che per “consumare meno suolo” sia opportuno costruire sempre più in alto. Voglio dare per scontato, almeno per ora, che “consumare meno suolo” non richieda specificazioni sul suo significato reale, voglio cioè stare anch’io al gioco delle omissioni, e concentrarmi sul fatto se sia vero e in quale misura e in quali condizioni che un grattacielo occupi “meno spazio” di un edificio con identico volume ma con altezze inferiori, e quindi con maggiore superficie coperta, e quali siano le conseguenze di questo assioma applicato alla città. Consideriamo un grattacielo alto 100 metri con base di 20x20 metri, posto al centro di un lotto di dimensioni 100x100 metri (Figura 1). L’edificio sviluppa un volume di 40.000 mc e l’indice fondiario è di 4 mc/mq. Sul medesimo lotto si disegni un edificio continuo, perimetrale al bordo della profondità di 12 metri. Il lotto si trasforma in isolato (Figura 2). Perché questo edificio possa sviluppare volume pari a quello del grattacielo è necessaria un’altezza dell’edificio di 9,6 metri, cioè 3 piani. Una prima considerazione anticipata: aumentando di un solo piano l’edificio, con caratteristiche prettamente urbane, si otterrebbe un indice fondiario di 5,5 mc/mq, analogo a quelli dei centri storici e quindi una densità maggiore che, valutata a scala urbana, comporterebbe una “minore occupazione di suolo”. Torniamo al “verde”. Nel caso del grattacielo la superficie occupata è di soli 400 mq, ma si dà il caso che occorrano i parcheggi. Applicando i valori minimi di legge, largamente insufficienti, cioè una superficie pari ad 1/10 del volume, si ottengono in entrambe i casi 4000 mq di superficie necessaria. Nel caso del grattacielo ipotizziamo di porli su due piani interrati posti sotto l’edificio stesso. Se ne ricava una superficie di 2.000 mq. Rimane potenzialmente destinata a verde una superficie di 8.000 mq. Nel caso dell’isolato, poiché un piano interrato non è sufficiente, data la presenza di numerosi vani scala, ipotizziamo gli stessi due piani: se ne ricava certamente una maggiore quantità di parcheggi e una superficie libera a verde di 5.776 mq, minore dell’altra di 2.224 mq che corrisponde a 2,24 mq ad abitante. Da questo dato risulta dunque che l’assioma del sindaco-tipo è vero ma ancora non completo e non giustificativo della scelta - che io ritengo di altro genere - del tipo grattacielo. Continuiamo con le valutazioni “oggettive”. Calcoliamo adesso quanti alloggi si possono collocare, a parità di superficie per alloggio, nel grattacielo e quanti nell’edificio a corte. Consideriamo solo la destinazione residenziale, per confrontare valori omogenei. Nel grattacielo ritengo siano utilizzabili allo scopo: 29 piani totali (ottimistico) –2 piani tecnici – 1 piano al livello 0 per l’ingresso (ottimistico) e si ottengono 26 piani utili. Considerando un corpo centrale per i collegamenti verticali con almeno due ascensori e due vani scala che ipotizziamo di 100 mq (ottimistico perché occorrono anche i disimpegni per gli appartamenti e le vie di fuga) rimangono 300 mq, cioè quattro appartamenti della superficie lorda di 75 mq. Dunque otteniamo un totale di 4x26= 104 appartamenti (Figura 3). Nell’edificio a corte consideriamo 24 vani scala (pessimistico), ciascuno di 30 mq. Rimangono ad ogni piano mq (4.224-(24x30))x3= mq 10.512 di superficie che, divisa per mq 75 ad alloggio, restituisce 140 appartamenti, cioè 36 appartamenti in più del grattacielo (Figura 4). Come è possibile? Semplice, basta sviluppare il volume dei “collegamenti verticali” e si troverà una differenza in più a favore del grattacielo di circa 3081 mc che comportano 41 appartamenti . La differenza con 36 è data dalle approssimazioni al taglio degli alloggi, dunque in realtà la differenza è 41 e non 36. 41 appartamenti in più significano 41 famiglie o nuclei abitativi in più da collocare e quindi una densità nettamente superiore di quasi il 40% in più dell’isolato rispetto al grattacielo. Ho preso poi in considerazione una soluzione mista, cioè una città ad isolati con qualche grattacielo, che sarebbe la soluzione più realistica, dato che tenderei ad escludere vi sia chi auspica la soluzione estrema del tutto grattacieli (Figura 5). Ebbene, è proprio questo il caso che mostra l’inutilità del dato di minore occupazione di suolo per optare per i grattacieli, dato che l’aumento di verde nel territorio urbanizzato è solo del 3,50%, una quantità insignificante per il verde, molto significativo invece per il peggioramento della qualità della città. Conclusioni Dai dati esposti, che sono un'astrazione ma significativa per quanto riguarda i valori trovati, risulta una autentica minore occupazione di suolo della città tradizionale, perché il suolo occupato non è la mera superficie coperta degli edifici bensì la superficie complessiva del territorio urbanizzato, cioè quanto una città è espansa nel piano orizzontale e una serie di grattacieli che “vogliono” mantenere quella maggiore superficie di verde di differenza rispetto all’isolato tradizionale produce una città molto più estesa: il 20% in più della città ad isolati. In verità il dato è molto superiore, perché non tiene conto del fatto che su quella superficie inferiore del 20% ci possono abitare il 40% di famiglie in più, e con edifici di soli 3 piani. Portando i piani a 4, si liberano a piano terra spazi per attività commerciali, artigianali, fondi, magazzini, garage e quant'altro; funzioni queste del tutto assenti nella soluzione con grattacieli e che, una volta inserite, come necessario, occuperebbero ulteriore spazio a detrimento del "verde". Una città di grattacieli consuma molto più suolo, sottraendolo a quello agricolo, di una città tradizionale. O meglio, più realisticamente: la scelta di costruire grattacieli in una città, valutando la scala urbana, consuma più suolo, sottraendolo dunque al territorio agricolo. Si dirà: d’accordo, ma in città c’è più verde! Non è vero, ed è qui che l’assioma si dimostra ancora fallace, ambiguo, vero solo se valutato sul singolo oggetto (tipico atteggiamento dell’urbanistica e del’architettura contemporanea) piuttosto che nell’insieme, perché nella soluzione ad isolati è possibile prevedere grandi parchi urbani esterni al centro abitato che non sono urbanizzati, che sono a diretto contatto con il verde agricolo e che svolgono quella funzione igienica di filtro, oltre che di limite tra città e campagna, di attività ricreativa e sportiva che il parco assolve. In verità il verde tra un grattacielo e l’altro è un non-luogo insicuro e destinato a rapido degrado, come ci insegna l’esperienza di molte aree residenziali e come ha scritto con grande lucidità e preveggenza Jane Jacobs fin dal 1961. Invece il verde all’interno dell’isolato, che sia condominiale, o di uso pubblico o privato, svolge una grande funzione sociale, perché i bambini possono giocarvi, gli anziani possono frequentarlo senza pericoli, chiunque ne può godere affacciandosi alla finestra di casa, ad un tiro di voce per fare sentire la propria presenza o richiamare i figli a casa piuttosto che sporgersi dal 20° piano e guardarli con il binocolo e chiamarli con il megafono. Che poi nessuna persona di buon senso lascerebbe il proprio figlio da solo in quel grande vuoto. Un esempio in questo senso è il progetto del Borgo Corviale di E.M. Mazzola che trasforma un grattacielo orizzontale in un quartiere con corti verdi. Ma anche tutti questi calcoli dicono solo una parte della verità, che consiste nel dato essenziale, da chiunque intuibile, e cioè che una sequenza di grattacieli nel verde è la negazione, la dissipazione, l’inesistenza della città stessa, il suo esatto contrario: una vita alienante in casa, perché segregata completamente da quella degli altri condòmini e alienante fuori casa, perché segregata dentro un’automobile per poter svolgere qualsiasi elementare funzione che non sia un’abitare segregato. E’ lo sprawl verticale, sicuramente peggiore di quello orizzontale, perché astrae completamente dalla natura, dalla percezione di vivere sulla terra, e astrae dalla società, cioè dai normali rapporti quotidiani tra persone.

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17 marzo 2011

DAMNATIO MEMORIAE

Segnalo questo articolo di Vilma Torselli su Artonweb, dal titolo

Come al solito Vilma ci induce alla riflessione; lei penetra negli anfratti delle cose alla ricerca di spezzoni di verità, contrariamente a questo faziosissimo blog. Non offre soluzioni ma propone problemi, anche se vi sono affermazioni chiare sulla memoria e sul compito che l'architettura svolge rispetto ad essa.
Per adesso lo segnalo ma spero prossimamente di commentarlo.

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12 marzo 2011

shikataganai

Un link ad uno splendido articolo sul Giappone sconvolto da terremoto e tsunami, tratto da Il Foglio, non per indurci all'impossibile, e anche sbagliata, imitazione della cultura di un altro popolo, ma per rendergli omaggio e riflettere sulle rispettive diversità in casi analoghi.

I giapponesi fatalisti ripetono “shikataganai”, non ci si può fare nulla

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11 marzo 2011

RISPOSTA A QFWFQ SULLA SEMPLIFICAZIONE

Caro qfwfq,
solo adesso trovo il tempo per risponderti, anche se avevo letto subito il tuo ultimo, acuto commento, espresso tra l'altro con molta pacatezza. Preferisco risponderti in forma di post, sia a causa della lunghezza, sia perché l'argomento, o l'accusa, di una mia eccessiva e ruvida, quando non rozza, semplificazione ricorre spesso anche da parte di altri.
Commento acuto il tuo che richiede una mia spiegazione, specificando che ovviamente le mie ragioni valgono solo per me e non intendono coinvolgere altri.
Per sintetizzare al massimo, tu mi imputi, e non solo a me, un eccesso di semplificazione che porta a trascurare del tutto quanto di buono esiste nell'architettura e nell'urbanistica moderna. Mi sembra che tu non neghi che la semplificazione possa essere utile ma non ne apprezzi l'uso estremizzante e strumentale che io ne faccio.
Non c'è dubbio che io tenda, in questo blog, ma anche in situazioni diverse, alla semplificazione e non c’è dubbio che io lo faccia in maniera intenzionale, volontaria ed anche con grande convinzione. Una semplificazione che io chiamo, tra il serio e l'ironico, anche faziosità.

Esistono diversi livelli di approccio alla realtà, che vorrei semplificare (guarda caso) in approccio pubblico e approccio privato.

L'approccio pubblico è quello in cui si esprime il desiderio, la volontà, la velleità, se vuoi, di incidere, se pur in piccola parte, secondo i propri mezzi, nella realtà sociale.
E' pubblico, ad esempio, l'approccio politico. Questo è più facilmente comprensibile, specie in questo momento, perché esistono due schieramenti fieramente contrapposti. Ma, a prescindere dalla situazione contingente, io credo che la politica, vista dalla parte dei politici, richieda comunque una buona dose di semplificazione, dato che deve parlare a tutti i cittadini, deve farsi comprendere e deve distinguersi con chiarezza dalle altrui posizioni e deve, soprattutto, prendere decisioni, non struggersi nei dubbi o perdersi nei meandri dei dettagli perdendo di vista l’insieme.
Certamente, prima di decidere devono essere valutate e analizzate con precisione e raziocinio le varie opzioni e variabili, ma chi detiene il potere di prendere decisioni per gli altri ha l'obbligo di fare scelte chiare e può essere tormentato quanto si vuole, ma il suo tormento deve rimanere nell'ambito privato, pena la non credibilità, perché gli indecisi non possono affrontare situazioni gravi che riguardano la collettività. Naturalmente, maggiore è il potere, maggiore è la responsabilità, maggiore è la capacità di decidere che viene richiesta. Il presidente degli USA non può tentennare. Quei presidenti che hanno tentennato hanno fallito, vedi Carter.

La scelta richiede semplificazione del problema. E’ lo stesso caso dei giudici i quali mi immagino, o forse mi illudo, che siano molto tormentati nel decidere della vita di un imputato e di quella della vittima (se la vita è rimasta). Ma non c’è alternativa, deve decidere, sapendo che può sbagliare, sapendo che la verità processuale, per sua intrinseca natura, non necessariamente coincide con la verità in assoluto. Il dramma deve essere grande ma non c’è alternativa alla scelta: condanna o assoluzione.

Ma quello che vale per i “potenti” vale, in modo diverso, per tutti. Vista con gli occhi dei cittadini, nella scelta di un partito da votare è quasi certo che non ve ne sia uno che possa rispondere in assoluto e in tutto e per tutto alle inclinazioni di ogni singolo elettore. E’ chiaro che si sceglie quello che più “si avvicina” ai nostri desideri, interessi, modi di immaginare la società; ma è altrettanto chiaro che ognuno di noi fa, privatamente, dei distinguo e manifesta dei punti di non condivisione. Non è possibile diversamente. Ma nel momento “pubblico, quello del voto, si sceglie, si dovrebbe scegliere, razionalmente quello a noi più vicino. Si sacrifica cioè una impossibile coerenza assoluta e una sovrapponibilità totale tra le nostre aspettative e i programmi e le azioni di quel partito per non favorire altri partiti di cui condividiamo molto meno o addirittura niente. Si compie, cioè una grande e opportuna semplificazione.

Venendo all’architettura e all’urbanistica non cambia quasi niente. Da una parte c’è il chiaro, acclarato, evidente, riconosciuto da tutti (indirettamente) fallimento di un’idea di architettura e di città che si perpetra da 80-70-60 (quanti?) anni, un’idea presuntuosa quanto folle di azzerare secoli di storia, intesa come lungo e faticoso lavoro dell’uomo per creare ed adattare ai propri bisogni il suo habitat naturale, cioè la città e la casa, ritenendo che si dovesse ricominciare tutto da capo, eppure, con una testardaggine che è molto vicina alla stupidità, o alla malafede, o alla superbia, si continua, con una sorta di cupio dissolvi, a reiterare ogni giorno l’errore stesso. AD un certo momento è stato deciso di tirare una linea e tutto ciò che c’era prima è stato dichiarato come anticoe sbagliato, e tutto ciò che c’era dopo come moderno e giusto. In nessun’altro campo, se non nell’arte, forse perchè da questa mutuato, è avvenuto un fenomeno simile. Strappi ve ne sono stati, certamente, ma sempre all’interno di un processo evolutivo.

In una situazione come questa, domando, ha senso, è logico, è interessante stare a selezionare quel poco di buono o di meno peggio che è stato prodotto? Ha senso cercare la mosca bianca, la personalità individuale che non ha fatto scuola e sperare che da questa eccezione, tra l'altro fagocita e digerita dal sistema, possa nascere il cambiamento?
Io credo di no, perché in un ambiente sostanzialmente corrotto culturalmente significherebbe solo dare ad esso ulteriore legittimazione e fare il gioco di quel pensiero che domina da decenni la scena, soprattutto in Italia. Non mi interessa, e non mi deve interessare, se c’è qualcuno più bravo degli altri, perché non è una gara in cui si deve premiare il migliore ma è una lotta per la sopravvivenza della città, in cui i protagonisti non sono le star ma i cittadini. Me ne frego tranquillamente dei maestri, perché io non devo scrivere libri di critica e se li dovessi scrivere, ove ne fossi capace, li scriverei con l’intenzione di ottenere un risultato in meglio e non con quella dell’appassionato d’arte che disquisisce sulla qualità di un quadro rispetto a quella di un altro. L’architettura non è pittura, non è scultura, non è filatelia, non è collezionismo, é studio di come l’uomo si relaziona attraverso lo spazio con gli altri uomini, è una scienza sociale, con criteri e regole proprie e peculiari, attraverso la quale si manifesta un pensiero politico alto. Il Buon Governo e il Cattivo Governo si rappresentano attraverso scene di vita urbana e agreste, i due diversi scenari in cui si svolge la vita nell’uomo e che questi ha imparato a creare o trasformare, escludendo la natura selvaggia che è ambiente ostile e gradito solo a pochi avventurosi o a molti seduti in poltrona a guardare Discovery Channel.

Questo è dunque il lato pubblico delle idee urbanistiche e architettoniche, quello che ha uno scopo, un fine, ancorché modesto nei risultati (e non più di tanto, perché le idee si trasmettono e qualcosa resta sempre) ma ambizioso nelle intenzioni. Un lato pubblico che deve semplificare.

L’approccio privato può essere in molti casi molto diverso, più pensieroso, dubbioso, articolato, raffinato perfino. Può andare a verificare le sottigliezze, può essere più tollerante nel giudicare, più consapevole delle difficoltà oggettive da superare in una società aperta come la nostra, perfino affascinato da alcune soluzioni architettoniche (mai urbanistiche); ma è un fatto privato che, nel mio caso almeno, può al massimo rivelarsi nello scambio diretto con colleghi e talora persino nella prassi professionale quotidiana, dato che io considero l’architetto a livello di un artigiano, mai di un artista creatore, e come tale deve rispondere alle leggi del cliente e del mercato, nei limiti del lecito.

I due approcci diversi convivono benissimo e senza traumi né sensi di colpa proprio per la serena convinzione della totale diversità dei livelli che sono paralleli e solo raramente, per una casualità di circostanze, possono convergere. Per questo mio atteggiamento tollerante verso me e verso gli altri, a livello privato, sono totalmente estraneo e refrattario al moralismo, al perbenismo, al giustizialismo, fedele all’aforisma di B. Russel che “i moralisti sono persone che rinunciano ad ogni piacere eccetto quello di immischiarsi nei piaceri altrui”.
Per quanto riguarda la tua ultima battuta trascuri un aspetto essenziale: è vero che il comunismo non c’è più ma i comunisti sono ancora molti. Ma questa è una frase da spiegare in altra sede.

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9 marzo 2011

PERCHE' ESISTONO I TIPI (tratto da Caniggia-Maffei)

Il dibattito su Archiwatch prima e su questo blog, qui e qui, poi intorno ai progetti per la ricostruzione di parte di un isolato in Via Giulia a Roma, mi ha spinto a rileggere alcune parti di Lettura dell'edilizia di base, 1979, di G. Caniggia e G.L. Maffei.
Ne riporto qui un estratto che ha attinenza con il tema, soprattutto in relazione ad alcuni commenti lasciati.

Lettura dell'edilizia di base (1979)
di G. Caniggia e G.L. Maffei
Cap. 1.3 Specificazioni della terminologia e delle definizioni di base.
........Vediamo ora cosa succede quando mi chiedo il perché dell'esistenza dei tipi, ovvero, in altri termini, quando mi pongo il problema dell'esistenza logica, concettuale, fabbricata solo nella mia mente, oppure dell'esistenza autentica, in sé fisica, indipendentemente dalla mia presenza di osservatore, di classificatore, di tali « tipi edilizi ». Cercheremo di risolvere tale problema avvalendoci di strumenti logico-deduttivi, particolarmente propri dei momenti di crisi: ad esempio ci chiederemo se più case sono simili perché hanno utilizzato lo stesso progetto, o perché sono dello stesso autore o di più autori di una stessa scuola; oppure se le case risultano uguali per qualche imposizione a monte, un regolamento edilizio, una legge o un editto. Tutte ragioni inefficaci ai fini di capire quel « perché », nel senso che possono opporre a ciascuna notizie, osservazioni, documenti tali da smentirle — quelle case simili non sono fatte con un progetto unico, non sono dello stesso autore, ecc. -La nostra logica si arena di fronte all'evidenza che le case analoghe, dalle quali abbiamo ricavato « statisticamente » un tipo edilizio « casa a schiera » sono così fatte perché gli autori non sarebbero stati capaci di farle differentemente.

In effetti, corrispondendo ciascuna casa al concetto di casa vigente nel momento in cui ciascuna è stata fatta, ne consegue che la casa di Tizio, quella di Caio, l'altra di Sempronio, per il fatto stesso di essere state fabbricate in luoghi non lontani, e in tempi ravvicinati, hanno un identico corredo culturale alle spalle, finalizzato all'azione del « farsi la casa »: hanno, in breve, utilizzato lo stesso concetto di casa formatosi similmente nelle loro tre menti, sintetico di tutti gli aspetti che le case realmente edificate hanno poi assunto, e necessariamente precedente alla stessa presenza fisica delle tre case stesse. Ciò perché la predominante coscienza spontanea ha guidato quel « concetto di casa » a corrispondere in quell'epoca e in quell'area culturale, a un preciso progetto mentale che è responsabile di quella somiglianza tra i prodotti finiti che ora, avvalendoci della nostra coscienza critica, possiamo riscontrare ed etichettare in un tipo edilizio.
Diversamente, ma solo in parte, accade quando predomina la « coscienza critica »; analogia tra i prodotti e costanza di comportamento in tal caso sembrano ignorate.

Se al posto di S. Frediano o Santa Croce prendiamo in esame un qualsiasi aggregato alla periferia di Firenze, recentemente costruito, e andiamo a Novoli o a Sesto, o a Rifredi, è facile verificare che tre case attigue, almeno apparentemente, sono dissimili. Una ha le finestre « a nastro », correnti orizzontalmente per tutta la facciata; l'altra le ha strette e alte, da soffitto a pavimento; nell'altra ancora sono di varie misure e collocazione, frammiste a balconi in aggetto o logge rientranti. La prima sembra fatta di sole travi, che i pilastri (che pur ci saranno se la casa si regge) sono arretrati dal filo dell'involucro; la seconda di soli pilastri, portati in aggetto rispetto all'involucro stesso, mentre di travi non ne compaiono. La terza ha una parete continua, o che almeno si mostra tale; una quarta potrebbe essere di courtain wall e apparire come fosse una finestra sola, non esplicitando affatto il modo di reggersi. Il bello è che ciascuna di queste case seguita a essere « casa », fruita, abitata e perciò stesso legittima, dato che a suo modo si regge ed è utile a qualcuno; e che tali case sono tutte pertinenti allo stesso momento storico, alla stessa area culturale. Allora non c'è che da richiamarsi a quanto già detto in precedenza: quel che appare di tali case è frutto della personalizzazione del prodotto dovuta a scelte individuali nell'ambito di un repertorio di possibilità vastissimo; scelte che tuttavia incidono solo relativamente sulla fruibilità del prodotto, garantita non da quelle scelte, ma da ciò che i vari autori non hanno scelto, da ciò che è rimasto, in quel loro operare, di predeterminato a monte delle scelte stesse, da ciò che seguita a essere residuo di « coscienza spontanea », di « concetto di casa » e quindi, intrinsecamente, di « tipo edilizio » attuale. Ma, intendiamoci bene, non è che quelle scelte siano legittime, tanto che sarebbe facile confrontare il « tipo edilizio » e le scelte secondo le reciproche capacità di associarsi per il miglior rendimento; sarà facile constatare, e lo faremo, che tali scelte, e proprio in quanto tali, sono solo una forzatura espressionistica di componenti legittime del tipo, che a sua volta non le accetta ma le subisce, scapitandone, appunto, il rendimento globale. Facciamo una controprova: guardiamo queste case dal vero, in situ\ confrontiamo poi una rappresentazione planimetrica di quel quartiere con l'immagine che ce ne siamo fatti — un catastale, ma meglio un rilievo murario, come quelli che abbiamo ormai a iosa per gli aggregati antichi e che raramente sono stati fatti per i quartieri di periferia. Quelle diversità tenderanno a ridursi, se non a sparire; quelle case appariranno secondo quello che sono (e saranno certamente case in linea, che è il tipo attualmente vigente, pur con molteplici varianti) e soprattutto si vedrà quanto illusoria, parassitaria e velleitaria sia un’immagine imposta da scelte incidenti a livello estetizzante e non sulla sostanza, che resta fedele all’insaputa dell’architetto al tipo edilizio generalizzato.


Quindi, il tipo c'è e non è una finzione logica; il tipo c'è ed è prodotto di coscienza spontanea, allora e ora. Ma è vero anche che parlare di tipo, rinvenire il tipo, è frutto di coscienza critica; il fatto stesso di applicare definizioni, di incasellare la realtà, di classificare è esigenza critica, derivata da un momento di crisi. Se per assurdo potessimo domandare oggi a un muratore del Quattrocento che stesse costruendo allora, se sta facendo una casa a schiera» a tre piani, con due finestre per piano, larga cinque metri e profonda dodici, egli non capirebbe assolutamente di cosa parliamo, perché la sua operazione, nella sua mente, è unicamente e semplicemente « costruire una casa » e non un « tipo edilizio » da noi distinto per contrapposizione ad altri tipi.


Questo significa che se è vero che il « tipo » è un derivato .genuino della coscienza spontanea, è anche vero che la nozione di tipo è altrettanto genuino derivato della coscienza critica, ossia una diretta conseguenza del porsi di fronte alla realtà, e di cercare di capirla: operazione identica a quella che fa il botanico quando classifica le piante scalarmente secondo analogie di aspetti e qualità, o a quella che fa il linguista quando individua le strutture di una lingua, la grammatica o la sintassi ad esempio: queste ultime sono strutture ceno ignorate, nel senso di non averne nozione critica, da chi le ha fatte nel corso di secoli e millenni per il semplice fatto di aver parlato; e tuttavia proprie e note a livello inconscio a chiunque, oggi come ieri, parli usando una qualsiasi lingua, e che userebbe quelle strutture sintattiche e grammaticali anche se nessun linguista le avesse ricercate e sistematizzate a livello critico.

Da quanto detto, deriva che il tipo può avere una formulazione critica, desunta mediante un'analisi a posteriori: ma deve ineluttabilmente la sua esistenza all'essere « sintesi a priori », « concetto ». Ossia esiste nella mente dell'artefice prima di realizzare una casa, e non è una prefigurazione di uno o pochi aspetti che saranno assunti dal prodotto costruito, ma di tutti insieme: è un vero e proprio organismo, inverante l'intera realtà della casa prima che questa esista fisicamente. Se la situazione dello studioso di tipologia edilizia è assimilabile a quella di un linguista, la situa-zione dell'artefice è identica a quella di chiunque parli: ossia di formulare, mediante la lingua, concetti necessariamente anteriori al momento del parlare e necessariamente sintetici di ogni carattere strutturale che il linguista potrà isolare e poi classificare.


Attraverso la nostra opera critica, che ci porta al riconoscimento di un tipo edilizio, in sostanza, ripercorriamo la via della formazione dell'oggetto edilizio fino al momento in cui questo oggetto, un istante prima di esserci (esserci nella sua fisicità di oggetto costruito) ancora non esiste se non nella sua concettualità, che è presente come programma nella mente di chi lo sta per fare, con tutta la sua storicità, ossia la sua appartenenza a un momento temporale e a un luogo determinato.


Tipo è, allora, la concettualità dell'oggetto realizzato: come tale, dunque, non è concettualità di parte dell'oggetto, non è schema funzionale-distributivo, non è struttura, non è una facciata, e basta. È tutto questo insieme, e tutte le aggettivazioni che potremo poi applicare all'oggetto stesso: tipo è l'insieme unitario delle definizioni che concorrono mutuamente a formare l'oggetto stesso, integrate organicamente; è proiezione totale, prima concettuale, quando nasce, poi logica, quando lo esaminiamo, dell'oggetto esistente, conformata secondo il «concetto di casa» presente nella mente dell'artefice a livello di coscienza spontanea, vigente in un determinato momento storico, frutto del progressivo succedersi dei « concetti di casa » evoluti anteriormente a quel momento storico. La globalità delle componenti del « tipo » è riassumibile nei tre caratteri dell'edilizia, nella nota triade vitruviana firmitas, utilitas, venustas o meglio, come sottolinea molto giustamente L. Vagnetti, ratio firmitatis, ratio utilitatis, ratio venustatis: precisazione importante perché rafforza più chiaramente il senso della distinzione, riaffermandone la fondamentale unità. È un'unica ratio, un'unica ragione globale in tre aspetti concorrenti. In linguaggio odierno potremmo dire: la globale razionalità della struttura (cioè del modo di « star su » di una casa), inscindibile con l'esigenza che questa sia utilizzata secondo un'integrata globale razionalità della distribuzione (cioè dell'uso che si fa di una casa); ambedue inscindibili con una globale razionalità della leggibilità (cioè di come questa casa riesce a essere capita da chi la guarda o ne fruisce, riesce a trasmettere le sue modalità di star in piedi e di funzionare); come questa casa riesce a esprimere unitariamente tutto questo attraverso un linguaggio, un codice collettivo caratterizzante un'area e un momento civili, tanto da risultare leggibile quale proiezione totale del suo essere oggetto fatto dall'uomo.


La cognizione di tipo richiama indispensabilmente un'ulteriore definizione, quella di processo tipologico. Se esaminiamo più tipi edilizi non contemporanei, in una stessa area culturale, ci accor-giamo di una progressiva differenziazione tra questi, più sensibile tra tipi distanti nel tempo, meno vistosa se letti in intervalli ravvicinati.


L'operatore del Trecento che si fa la casa la costruisce secondo il tipo, il concetto di casa, di quel momento; l'operatore del Quattrocento agisce similmente, facendosi la casa secondo il concetto, il tipo, vigente alla sua epoca. È facile riscontrare, quindi, una scalare mutazione del tipo edilizio a seconda dell'epoca: anche se all'interno di una stessa definizione, la « casa a schiera », varia a seconda della data di edificazione; non solo, ma è facile anche notare che la casa a schiera costruita nel Trecento, soltanto per essere ancora utilizzata nel Quattrocento, tenderà a modificarsi secondo il tipo del momento. Il che vuoi dire che per ogni epoca si è raggiunta un'accezione differenziata del « concetto di casa » che ha prodotto case diverse: non solo limitatamente al tipo della casa (che chiameremo, come meglio vedremo, « tipo di base »), ma anche per qualsiasi altro oggetto edilizio, e diciamo pure per qualsiasi oggetto antropico in generale, vediamo prodursi in una stessa area similari mutazioni al variare del tempo. Tuttavia, al di là delle differenze, vediamo un vistoso fenomeno di continuità, altrettanto facilmente leggibile delle differenze, tra prodotti analoghi: cosicché la casa a schiera del Trecento avrà certi caratteri che seguiteranno ad accomunarla a quella del Quattrocento come a quella del Duecento, attestando una mutazione graduale dei prodotti attuati prima e dopo rispetto a quello pertinente ad un certo intorno temporale. Se poi confronto le mutazioni del « tipo » a più minuti intervalli temporali intermedi, mi accorgo che nel corso di un secolo il tipo è variato attraverso una serie di mutazioni intermedie, alcune caduche, nel senso che non hanno sensibilmente inciso sulla nuova formulazione del tipo, altre permanenti, che ritrovo appunto nel tipo rinnovato: ciò anche indipendentemente dalla progressiva e scalare edificazione, nel senso che quasi sempre l'attività edilizia in un luogo non è continua, ma si realizza per alterni momenti di « boom » edilizio e di stasi.

Nella meccanica di mutazioni incidono soprattutto le variazioni progressive degli edifici già esistenti, gli adattamenti capillari di quel che già c'è per renderlo atto, a volte con limitati aggiorna-menti, a un continuo rincorrersi tra processualità degli edifici e parallela mutazione processuale dei bisogni. In realtà il contributo delle mutazioni capillari risulta leggibile solo ad intervalli prolungati, confrontando un nuovo assetto raggiunto con la stesura anteriore: chiameremo fase l'intervallo cronologico di sufficiente ampiezza a che tali mutazioni siano riscontrabili con una sufficiente chiarezza. Se, dunque, esamino i tipi nella loro progressiva mutazione, nel susseguirsi di una successione di fasi, ottengo quel che chiamiamo « processo tipologico ». Il quale può anche leggersi in un delimitato intorno storico, ma tenendo ben presente che vi è di necessità un certo margine di riduttività, in tal modo, poiché per definizione il susseguirsi di tipi non può aver inizio se non dal momento in cui nella mente dell'uomo si è formato il concetto generale di « casa »; e non può aver fine se non quella, del tutto provvisoria, corrispondente al momento attuale. Diciamo ancora che, esaminando i prodotti edilizi di un'area culturale, noto che questi mostrano diversità dagli analoghi prodotti di qualsiasi altra area: e che tali diversità sono scalarmente crescenti a seconda sia del crescere della distanza puramente metrica, sia anche delle delimitazioni spaziali imposte, fase per fase, a ciascuna cultura.


Ossia in una stessa fase storica sono diversi gli edifici prodotti, mettiamo, nel Lazio o in Toscana; ma ancor più lo sono quelli della Toscana rispetto agli analoghi in Francia; e presenteranno ancora maggiori diversità, al confronto, gli edifici della Toscana e quelli della Cina, al punto che diventano quasi simili quelli tra Toscana e Lazio che a prima vista avevo qualificato come diversi. Tutto ciò sempre relativamente alla precisazione di un intorno temporale, poiché, ad esempio, sono maggiormente differenziate due case, una toscana e l'altra emiliana, nel Duecento, di quanto non lo siano due esempi analoghi nel Quattrocento.


Questo sta a significare che la stessa scalarità che leggo nel tempo in una stessa area culturale la leggo anche nello spazio, al confronto tra più aree culturali; cioè vedo che nello spazio v'è una continuità di differenziazioni dei prodotti edilizi al punto che posso parlare di un processo tipologico anche nella progressiva dislocazione differenziata di aree a contatto. Mi approssimo alla realtà processuale solo se associo ambedue le varianti, e leggo unitariamente il processo tipologico come un susseguirsi di mutazioni temporali e di distinzioni, e relative mutue influenze, spaziali: in breve, devo parlare di processualità storica. La storicità, che è condizione di esistenza sia di ciascun uomo, sia di ciascun oggetto che produce, sia di ciascun avvenimento che lo riguarda, è inscin-dibile da una duplice relazione spazio-temporale. Un uomo, un oggetto, un avvenimento esiste in quanto collocato in un tempo e in uno spazio determinato. La storia è un sistema di individuazioni spazio-temporali leggibili attraverso la loro processualità, prodotta dalla unità-distinzione che deriva dall'essere, ciascuna individuazione, collocata in un reciproco legame, che è anche reciproca contrapposizione. Nulla esiste che non sia, o non sia stato nello spazio e nel tempo: condizione di esistenza è di essere in un determinato tempo e luogo.....

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6 marzo 2011

UN COMMENTO IN CHIAVE ANTROPOLOGICA DI MEMMO54

memmo54 ha lasciato questo lungo commento al post PASSATISMO CONTRO MODERNO-NON-MODERNO.
Mi è sembrato che valesse la pena evidenziarlo.


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Anche in Architettura il pensiero, qualcuno l’avrà sospettato, si articola solamente in presenza di un linguaggio. In sua assenza è difficile parlare di pensiero, tantomeno di pensiero unico.
Caratteristica è la sostanziale identità nella storia. La lentissima, a volte impercettibile, evoluzione permette comunque di mantenere un rapporto costante e ricucire un’epoca con l’altra. La Maison Carrè parla ancora alle casine basse e modeste d’intorno; dialogava con il teatro antistante, inferiore ma non indegno. L’edificio di Foster, per altri versi ben fatto, ben costruito, ben realizzato, bello in fine, non dialoga affatto: è un estraneo e muto, quanto indecifrabile, segnale giunto per caso.

Eppure gli uomini che hanno frequentato i due edifici, così lontani nel tempo, sono assolutamente gli stessi; si nutrono alla stessa maniera, si vestono di cotone e lana, si organizzano in comunità ecc. ecc. Lasciare intendere che vi sono dietro due tipi diversi di umanità è come postulare che Virgilio, Dante, Shakespeare, nel suo piccolo Manzoni, appartengano ad un'altra razza; ad un altro genere umano.
Giudicare quest’uomo estinto dall’evidente diversità con cui l’attuale si sposta nello spazio, o dall’uso che fa di qualche altro brillante ausilio tecnico, è la più imperdonabile delle leggerezze.

Ancor’oggi quando citiamo un verso di Dante, noi “siamo” Dante: quando parliamo la lingua della tradizione siamo quegli architetti che ci hanno preceduto e quelli che ci succederanno: siamo nella storia e non “la Storia”.

La modestia non nasconde il valore: lo percepiamo ogniqualvolta scopriamo quanti “ordinari incanti” siano nascosti tra le pieghe del territorio e della città.
Al contrario, nel nostro mestiere, i più si affaticano ancora ad organizzare e riscrivere un linguaggio ed un universo nuovo, affidandosi alla “scientifica” permutazione di tutte le infinite variabili nella esilissima speranza di trovarne, per un benigno quanto improbabile dono del caso, la chiave. I più indulgenti ne potrebbero dedurre, con la stessa logica, che il ripetersi disordinato di tali linguaggi costituirà, esso stesso, l’Ordine; ma questa graziosa e raffinata speranza non credo possa rallegrare l’attesa di alcuno….

Sembra, al contrario, che proprio tutti riconoscano quanto, in questi ultimi 80 anni, quanto gli architetti abbiano contribuito alla confusione con la propria attività mentale: continua appassionata, versatile, coinvolgente e del tutto insignificante; quanto i più scaltri fra loro vi abbiano profuso l’autorevolezza che danno la superbia, il denaro, la “freschezza” di pensiero, la coscienza di coronare una gerarchia culturale, la mancanza d’immaginazione, i limiti, la stolidità. Partecipare a tale forma di decadimento comunicativo è la più pesante responsabilità assunta dal vagheggiato “bravo architetto” (…che vi sia ognun lo dice; dove sia nessun lo sa…) e lo rende creditore imperituro della perplessità degli uomini.
Abbiamo avuto il palazzo d’amianto, quello di cemento armato, il palazzo di vetro, i gusci di coleotteri, mitili, nematodi, zanne d’elefante, “girevoli” per di più… Ne abbiamo contati a decine forse centinaia, migliaia.

Tutti acclamati: tutti dimenticati in fretta.

Nel brevissimo volgere della vita, egli li cambia più volte, li manipola, li rinchiude infine, come un bambino stanco, nel polveroso ripostiglio dove, ogni tanto, getta un’occhiata affettuosa convinto che possano tornar utili.

L’architetto, s’è perso: credendo di operare in modo sociale e civile, aderente al contesto, in realtà non faceva che confermare l’esatto contrario.
Ovvio quindi, persino banale, riportare tutto il ragionamento al punto di biforcazione per ricostruire, a partire da premesse fondate, il cammino logico ed espressivo. Stupirsi che qualcuno possa essersi stancato del gioco e che aspiri a cose più solide da lasciare, senza farsi ridere appresso, a figli e nipoti ed ai nipoti dei nipoti, è, nella migliore delle ipotesi, ingenuo.
Saluto
memmo54

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1 marzo 2011

SCAMPIA, ULTIMA FERMATA

Salvare le vele di Scampia, perché un’opera di Franz Di Salvo non può essere liquidata in questo modo! Certo, salvarla perché l'architetto da solo (con tutto il rispetto per la persona) vale più di tutti coloro che abitano a Scampia.
Un bel convegno, una campagna stampa e una rimpatriata tra compari di una compagnia di giro riuniti sotto la sigla “kultura italiana”, benedetta pure dal Sovrintendente, e chissenefrega degli abitanti.
Che vogliono di più dopo che ci hanno girato perfino il film Gomorra! Sono comparse nella storia del cinema! Anzi, allo Zen giriamoci un bel film sulla mafia, a Corviale un altro sulla banda della Magliana e la trilogia è completa. Un regista impegnato per un bello sceneggiato TV pagato con il canone si trova sempre e l’anno prossimo a Sanremo una comparsata è assicurata.
Qualche intervista, una trasmissione di Annozero con la gente che grida quanto si vive bene in quelle utopie realizzate, tanto per attualizzare l’opera e contestualizzarla nel dibattito politico.
E c'è chi dice che non esiste l'egemonia kulturale!
Maria Stella, non sarai stata troppo generosa?

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28 febbraio 2011

GREGOTTI E LE VERDI ARCHISTAR

E’ una piacevole sorpresa l’ultimo articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della Sera, Le ipocrisie verdi delle archistar.
Prima di tutto per lo stile con cui è scritto, ironico, direi beffardo, molto chiaro e diretto, contrariamente al suo modo consueto di scrivere piuttosto involuto e criptico. Ha tenuto, sì, a far sapere di conoscere Heidegger, ma per fortuna ha avuto il buon gusto di risparmiarcelo. Si vede proprio che questa volta aveva da dire qualcosa di veramente importante che gli usciva dai denti.
Intanto prendiamo atto che oggi dare dell’archistar ad un architetto è diventata quasi un’offesa. Se fosse vero anche in piccola parte, e probabilmente è vero, non sarebbe tanto importante lo svilimento dell’appellativo in sé quanto dei suoi presupposti, cioè del fatto che l’atteggiamento da profeti non solo dell’architettura ma anche della società, dei suoi costumi e perfino della sua economia (vedi il falso “effetto Bilbao”) vacillerebbe non poco. E sarebbe l’ora che gli architetti tornassero a fare gli architetti, almeno quelli che possono, e non i falsi profeti e/o i portavoce dei grandi gruppi editoriali, finanziari e di potere. E sarebbe anche l’ora che tornassero a farlo meglio il loro mestiere, progettando per la città e per se stessi e non per se stessi e basta.

Gregotti, in fondo, nel suo articolo dice esattamente questo, ironizzando sul lato modaiolo eco-bio-compatibile-sostenibile dell’architettura spettacolo ma anche di quella più comune, cui quella spettacolo fa ovviamente da trailer e da spot pubblicitario.
Che dire, ad esempio, delle case prefabbricate in legno, di chiara origine nordica e trentina, che adesso sembra vadano bene per il caldo, per il freddo, per il terremoto e perfino per il paesaggio italiano? Non è forse un sistema smaccatamente lobbistico di far passare un prodotto che andrà bene in Trentino ma che per certo nel 95% del territorio antropizzato italiano è roba da baracche provvisorie o da giardino?

Gregotti colpisce la punta dell’iceberg, quella visibile. Colpisce la banalità del bosco verticale con la parabola della sua vecchia zia (davvero un Gregotti così spiritoso e familiare è sorprendente), o dell’EXPO 2015 che salverà il mondo dalla fame probabilmente con una bella operazione edilizia a fine esposizione.
I suoi strali si appuntano sull’architetto Boeri, per concludere con una puntatina su Rem Koolhaas, ma molti altri, noti e meno noti, potrebbero essere al centro della sua attenzione. Non c’è infatti progetto che non venga veicolato e decantato per le sue qualità di sostenibilità ambientale; per i grattacieli in specie - la tipologia più anti-ecologica, consumistica, energivora (oltre che anti-urbana) che l’uomo abbia mai inventato – la prima cosa che viene detta, quasi a mettere le mani avanti, è che sarebbero sostenibili, autosufficienti, addirittura, e amenità del genere.

Capisco che è un articolo di giornale, per cui Gregotti ha dovuto sintetizzare alcuni concetti, e l’ha fatto egregiamente, però non sarebbe male che, magari in un futuro, appuntasse la sua attenzione sulla vera e unica sostenibilità dell’architettura e dell’urbanistica, e cioè quella che si ottiene con un progetto che non sprechi territorio libero, che non tema la densità edilizia e non chieda come in un mantra “il verde” per giudicare la qualità di un insediamento, che densifichi gli insediamenti esistenti realizzati nella logica dei lotti senza relazione tra loro e con la strada, anzi senza strada, che utilizzi materiali tradizionali e il più possibile locali, con il doppio vantaggio di risparmiare nei trasporti e di costruire in armonia con la tradizione dei luoghi.

Non basta ironizzare sull’ambientalismo lobbistico e bugiardo, ma un architetto del calibro di Gregotti dovrebbe inquadrare il problema con una visione più ampia e proporre una alternativa ad un problema reale, quello dei consumi e dei costi energetici, proprio in questi giorni tornati di grande attualità.
Una città compatta e fortemente costruita, dove il pieno prevalga sul vuoto, con tutte le funzioni presenti e mescolate, gerarchizzate in senso verticale e non separate in senso orizzontale, riduce fortemente la necessità di trasporti meccanici, non solo, e forse non tanto, per gli spostamenti casa-lavoro, quanto per tutte le altre innumerevoli quotidiane attività urbane che, viceversa, in una città diffusa e divisa in aree funzionalmente omogenee costringono all’uso continuo dell’auto: accompagnare i figli a scuola, fare la spesa, spostarsi da un ufficio all’altro, andare dal dentista, pagare l’assicurazione, andare in banca o alla posta o in palestra, perfino a fare due passi per incontrare qualcuno.

Certamente in una grande città metropolitana i problemi si pongono in maniera più problematica e perfino drammatica, e il sistema della mobilità è più complesso e richiede un forte intervento di infrastrutture pubbliche, ma è assurdo ed insensato, una vera vergogna dell’urbanistica ortodossa, come la chiama Jane Jacobs, che nella stragrande maggioranza dei piccoli e medi centri urbani di cui è composta l’Italia ci si debba trovare nelle medesime condizioni delle aree metropolitane.
In queste realtà è possibile e indispensabile proporre e agire di conseguenza. Ritornare alla città, una bella frase, un concetto tutto sommato semplice da comprendere, è l’unica soluzione possibile. Ma è così semplice, almeno concettualmente, che evidentemente viene ritenuto non adatto alla complessità delle soluzioni che deve proporre un architetto, visto che tutto continua ad andare nella direzione opposta. Tutto continua come prima, con rigide zonizzazioni e classificazioni di aree, addirittura di edifici, per funzioni, l’attenzione è puntata sempre sulla funzione, sul “cosa collocare in quel luogo”, con una occhiuta, illiberale e dirigistica velleità di decidere non solo "ciò che" ma anche "dove" serve alla società. Se lasciassero decidere alla legge del mercato, alla libera iniziativa, questa saprebbe esattamente ciò che serve, e quindi rende, e ciò che è superfluo, e quindi è improduttivo.

Eppure la risposta dovrebbe essere una sola: un pezzo di città!
Invece si producono rigide classificazioni, norme sulle distanze che impediscono ogni intasamento dei lotti e ogni ristrutturazione urbanistica che ridisegni intere aree delle periferie, l’attenzione "eco" puntata sempre e comunque sul singolo manufatto, sull’oggetto, sulle soluzioni tecnologiche, senza uno sguardo all’insieme, al disegno della città, l’unico che può garantire soluzioni di lunga durata e una vita urbana a misura del pedone.
C’è una straordinaria relazione tra riduzione dei consumi energetici e miglioramento della qualità della nostra vita urbana: per soddisfare la prima occorre lavorare sulla seconda.
Ecco, nei prossimo articoli di Gregotti ci aspettiamo una indicazione in tal senso: meno attenzione agli oggetti e all’architettura e più all’insieme e alla città, la vera emergenza per la cultura degli architetti.

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24 febbraio 2011

PASSATISMO CONTRO MODERNO-NON-MODERNO

Questo post è in stretta relazione con il suo omonimo nel blog Archiwatch di Giorgio Muratore, scritto da Giancarlo Galassi, allievo di Gianfranco Caniggia, e alla sua lettura rimanda per una comprensione dell'argomento. Avverto che per leggere l'originario post è necessario scaricare un file di word.
Quello che segue è il commento, che io ritengo conclusivo dell'argomento, non una volta per tutte ma certamente in ordine alle argomentazioni oggetto del post stesso e di alcuni suoi commenti, scritto da memmo54 che mi ha autorizzato a pubblicarlo. Ringrazio anche Giorgio Muratore, a cui non ho chiesto il permesso, ma ho presunto che me lo avrebbe dato e comunque sono certo che non mi denuncerà per questo.
L'argomento è la proposta di ricostruzione di parte di un isolato in Via Giulia, a Roma, e nasce da un numero speciale de Il Covile a questo dedicato e che invito a scaricare e leggere.
Le premesse sono sinteticamente queste:
-il prof. Paolo Marconi viene invitato dal Comune di Roma a presentare una proposta metodologica di ricostruzione per l'area di Via Giulia;
- Marconi risponde con una ricostruzione filologica;
- il progetto non è condiviso dall'ufficio del centro storico e Alemanno invita sette architetti più o meno famosi a presentare altre proposte;
- tutti e sette gli architetti rifiutano il restauro filologico e presentano progetti "contemporanei";
- nel frattempo, però, gli studenti dell'Università di Notre Dame, guidati dal prof. Ettore Maria Mazzola avevano da tempo studiato l'area, producendo alcune soluzioni redatte da gruppi di studenti;
- il Sindaco decide di far scegliere i cittadini, limitando però la scelta solo ai progetti dei sette architetti "moderni" e non quello del prof. Marconi, tanto meno quello della Notre Dame.
Da questa palese manifestazione di pensiero unico nasce il numero de Il Covile e il conseguente post di Giancarlo Galassi su Archwtach.
Non voglio ripetere la mia ammirazione per il testo di memmo54, già espressa su Archiwatch, per non farla troppo lunga.

Il commento di memmo54:

Del sito conosciamo benissimo quanto demolito; meno bene le case romane che v’erano sotto. Non sappiamo se fossero domus, insulae o cos’altro. Lanciani non me ne da notizia: riporta solo alcuni tratti di strada romana su vicolo del Malpasso.
Dovendo procedere ad un progetto e/o restauro, sinonimi anche nel nostro caso, e nell’incertezza forse è più utile raccogliere le indicazioni, attendibili, più recenti : potrebbe anche essere una rifusione matura di celle primitive.

Comunque quanto demolito aveva senso compiuto ed era in sintonia con tutto il costruito dei pochi millenni trascorsi. Credo, sinceramente, che tutti l’abbiano ben presente.
Lo era per tipologia o derivazione tipologica; per tecniche, per materiali e per quel linguaggio epidermico, con cui confrontarsi inevitabilmente, che turba i sonni, lo sospetto, a più di un addetto ai lavori.
La tipologia, nel senso più esteso, è sicuramente una chiave di lettura ineludibile. Ma pur sempre “una” lettura e sarebbe riduttivo ed ingenuo derivarne tutto il progetto, a meno che una schiera di scatoloni di vetro o cls posti a schiera possano essere gabellati per romani purchè abbiano volumi e bucature al posto giusto.
La tradizione, nel suo fenomeno più radicale qui denominato passatismo, è comunque cosa complessa.
Così come complessi sono anche i materiali, le tecniche, il linguaggio: presi da soli non risolvono alcunchè non mettono al riparo da nulla.
Però quelle mostre quelle cornici quel bugnato, quei tetti, quei colori che tanto disturbano, sono parte integrante, dell’architettura e dell’universo; forse la più significativa ed immediata, la più leggibile, anche se non sempre calata nella situazione opportuna. Rimangono strumento insostituibile di comunicazione tra uomini ed architetture che sembrano, a prima vista, ignorarci ed ignorarsi.

Lo sono anche a dispetto della rigorosità e della coerenza con quanto “preordinato” strutturalmente o tipologicamente; così che in molte espressioni “genuine”, l’apparato linguistico di superficie travalica la semplicità insita, ponendosi come “sostanza” esso stesso.
Tutti concetti ovvi, banalissimi che sembra pleonastico rimarcare…ma tant’è …repetita juvant.

D’altronde il linguaggio, di qualsiasi genere lo si intenda, è “comunque” un copia ed incolla (…come si dice ora…): è, inevitabilmente, una ripetizione di esperienze passate, attimi di vita trascorsi, sedimento di generazioni e generazioni di architetti invisibili, scomparsi, sepolti: da cui dedurre, senza allontanarsi molto dal vero, che il tempo è il peggiore degli inganni; non è mai passato veramente.

Però 80 anni di civiltà industriale, ora in declino e prossima allontanarsi da questi lidi, hanno creato il deserto, nel cuore degli architetti, strappandoli dal naturale contesto, dalla vita, per consegnarli indifesi e soli a sbrigarsela ognuno col suo peccato, ad affaticarsi su indimostrabili miti, su approcci tecnico-scientifici volubili ed evanescenti, “insostenibili” sotto tutti i punti di vista.
Saremo costretti – malgrado noi, par di capire – a risperimentare il nostro passato dopo averlo superficialmente superato e dimenticato in questa febbre e frenetica incoscienza da divinità in delirio.

Il recupero potrebbe essere per molto tempo un aborto, una mescolanza infelice tra nuove comodità ed antiche miserie.
Ma ben venga anche questo modo confuso e caotico questo “passatismo”.
Tutto è meglio del tipo di architettura e di vita che la modernità impone.

Saluto
memmo54

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13 febbraio 2011

LETTERA A MASSIMILIANO FUKSAS

Quella che segue è una lettera aperta a Massimiliano Fuksas, quasi lo conoscessi, anzi, quasi fossimo amici. La forma epistolare è solo un espediente retorico che dovrebbe rendere più immediata e digeribile l’esposizione di qualche pensiero. Non lo conosco invece, e dunque non posso essere suo amico, né potrei esserlo, credo, anche se lo conoscessi. Non certo per la diversa collocazione politica, che questa non mi è affatto di ostacolo con altri amici reali, e neppure per l’oggettivo abisso professionale che ci separa, che anzi io sono sempre affascinato da chi è riuscito a raggiungere il successo, essendo convinto che questo è il frutto di una forte componente di merito individuale, in dosi variabili da caso a caso, naturalmente, ma per aspetti squisitamente caratteriali, almeno da quel poco che ho potuto intuire dai suoi interventi televisivi e giornalistici.
Diciamo che certi suoi atteggiamenti un po' ribaldi, pur risultando talora anche divertenti nella loro estemporaneità e (apparente?) genuinità, quella sua ingenua sicurezza di rappresentare sempre la parte giusta, l’unica naturalmente, confliggono con la mia timidezza nei rapporti personali che mi impedirebbe di mettermi al centro del mondo. Forse è anche la sua imponente figura da austero busto di antico romano ad accentuare una sua certa (apparente?) prosopopea, stemperata, per fortuna, dal forte contrasto con non rare sue iperboliche e improbabili affermazioni apodittiche (famosa quella su Cicerone, cui indubbiamente assomiglia), che contribuisce ad umanizzarlo e a renderlo simpatico.


Avrei potuto recentemente confermare queste mie impressioni andandolo ad ascoltare, e vedere, di persona ad Arezzo, essendo egli intervenuto alla presentazione di un suo libro, che ahimè non ho letto, ma si sarebbe svolta di sabato alle 21,00 e non me la sono sentita di rinunciare ad una tranquilla cena tra amici e di costringermi ad ingoiare qualcosa di corsa, come si fosse trattato di un giorno di lavoro qualsiasi. Alla prossima occasione.

*****
Caro Max
Ho letto su L’Espresso di questa settimana un tuo articolo dal titolo: “Dimenticare Bilbao”. Già dal titolo ho istintivamente peccato di vanità, lo ammetto, masticando tra me e me: “Mi hai fregato l’idea. Hai letto il mio post e te ne sei appropriato. Almeno, da amico, avresti potuto citarmi. Una citazione fatta da te mi avrebbe lusingato assai. Avresti potuto fare un piccolo accenno al fatto che ne abbiamo parlato insieme più volte, se proprio non volevi nominare il blog che, effettivamente, non è proprio schierato dalla tua parte”. E’ seguita una espressione a denti stretti che tralascio di scrivere per educazione.

Leggendolo per intero, poi, quella prima impressione si è anche irrobustita, perché l’articolo parlava anche d’altro e l’effetto Bilbao non è che ci azzeccasse molto, espressione questa cara ad un tuo amico che però non ci è comune, e della quale amicizia io non sono mai stato geloso.
Forse non è proprio esatto dire che non ci azzeccasse, direi che non mi è risultato chiaro se volevi parlare della fine dell’effetto Bilbao, e hai colto l’occasione di farlo con un progetto di Gehry che io non conosco, e del quale tu sembri apprezzare una certa, nuova e insolita sobrietà, oppure se volevi solo parlare del progetto di Gehry e ci hai infilato en passant la fine dell’effetto Bilbao perché l’avevi appena letto sul blog e non volevi perdere l’occasione per andare in testa al gruppo, come si conviene ad un campione.

Ripensandoci, poi, ho capito che era solo la mia immodestia ad avermi fatto immaginare una cosa del genere, e che tu non hai certo il tempo di spippolare troppo in internet, tanto meno di perderlo con il mio blog del quale conosci l’esistenza, perché te l’ho detto qualche volta, ma non sono affatto sicuro che tu lo abbia mai aperto.
Certamente tu sei sempre in giro per il mondo a seguire i tuoi progetti e penso che durante i viaggi tu sia indaffarato a riguardare relazioni, preparare gli incontri, documentarti sugli stati di avanzamento, ecc. Al più, in aereo, puoi prendere ispirazioni dall’oblò per una nuova nuvola, o puoi schizzare qualcosa di nuovo su un libriccino di appunti, nei rari momenti di relax!
Quindi, capitolo chiuso e, trascurando improduttive e stucchevoli questioni di primazia, resta il fatto che tu accogli con soddisfazione la dichiarazione della fine di questo effetto, se mai c’è stato veramente, e, soprattutto, la proliferazione dei tanti piccoli “effetti Bilbao” su tutto il territorio nazionale. Vorrei farti osservare che ad alimentare questo stato di cose hai contribuito, e non poco, anche te, magari inconsapevolmente, che non vuol dire incolpevolmente!

Vi hai contribuito con la tua architettura, che non è che tenda proprio a mimetizzarsi e a non farsi notare, che, insomma, parla di nuvole, mica di fondazioni e di muri e di tetti, che racconta di grattacieli sul mare capaci di riqualificare tutta un’area di Savona, che disegna la città viola che mette al centro del programma non dico lo stadio, ma addirittura l’etica del calcio e l’indottrinamento, pardon, l’educazione di giovani ed adulti ad una sana visone sportiva. Magari questa forma di città etica, terribilmente autoritaria nella sua concezione, non è nelle tue intenzioni, magari è solo uno spot pubblicitario del Presidente onorario che tra l’altro ha detto: “Io mi aspetto uno stadio comodo, fresco d’estate, caldo d’inverno, dove le famiglie possano trascorrere giornate intere. Io purtroppo non ci sono spesso ma Andrea mi dice che in Europa ci sono impianti di grandissimo valore“.
T’immagini una città del calcio dove le famiglie possano trascorrere intere giornate! E’ questa la tua visione di società e di città e del modo di trascorrere il tempo dei suoi abitanti? Io credo di no, però il tuo marchio su questa idea di città-spettacolo ci sarebbe. Ma il Presidente onorario aggiunge anche dell’altro: “Non esiste niente del genere nel mondo- dice il patron viola- e ancora museo d’arte contemporanea sulla scia dello splendido Guggenheim di Bilbao, hotel delle maggiori catene alberghiere, una strada aperta ai negozianti di Firenze, aree verdi, parcheggi. Investimenti previsti: 150 milioni di euro per lo stadio, 250 per il resto”. Come vedi l’effetto Bilbao è evocato e utilizzato a piene mani.

Insomma, tu sei una riconosciuta archistar, direi anzi che sei la vera e unica archistar italiana, dato che Renzo ha, a questo punto, superato quella fase per passare direttamente e senza processo alla beatificazione per acclamazione.
Quello che fai e dici te si riverbera su una infinità di architetti che ti imitano, che assumono il tuo modo di pensare l’architettura e la città. Questa è la responsabilità che ti deriva dall’essere architetto di grande successo. Tu hai, oggettivamente, obblighi di coerenza maggiore degli altri, maggiori di tutti noi, perché sei un esempio, un modello.

Se dunque hai appreso con soddisfazione la fine dell’effetto Bilbao, della spettacolarizzazione dell’architettura e della città, dell’idea che una città possa crescere grazie ai grandi gesti dell’architetto-demiurgo e tuttologo, che si sostituisce non solo alla politica ma addirittura ai cittadini, se tutto questo è vero, come in verità io e tutti gli amici del Gruppo Salìngaros diciamo e scriviamo da tempo, abbastanza snobbati nella forma, ma piuttosto ascoltati, sembra, nella sostanza, se oltre a te molti altri si sono avvicinati, almeno nelle dichiarazioni, a concetti simili, dunque sarebbe bene che, senza snaturare o abiurare il tuo modo di fare l’architetto, anche tu ti accostassi ad una maggiore sobrietà, cioè ad una minore spettacolarità, cominciando ad allontanarti dalla filosofia dell’oggetto per avvicinarti a quella dell’insieme.

Nessuno può chiederti di rinnegare e di abbandonare l’architettura che ti ha reso famoso, nessuno può chiederti, come invece fai te quando ti occupi di politica, di esigere una moralità assoluta e una elitaria virtù da Catone il Censore, che richiederebbe una coerenza tra pensieri, parole ed opere professionalmente suicida. Io almeno, che conosco e tollero e anche apprezzo la fallibilità umana e quell’impasto di fango e spirito di cui tutti noi siamo fatti, non lo chiedo e tantomeno lo esigo da nessuno.

Solo un po’ più di quella che con abusato termine si chiama onestà intellettuale e di sobrietà sarebbe richiesta. Proprio come negli accadimenti che in questi giorni riempiono le pagine dei giornali e di cui non se ne può proprio più, naturalmente da punti di vista diversi.
Con questo auspicio, e direi incoraggiamento, ti saluto e ti invito, se trovi il tempo durante un week-end, a venirmi a trovare in rete, per scoprire magari che potresti trovarvi altri spunti di riflessione e di ripensamento.
Ciao
Pietro

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2 febbraio 2011

L'ERESIA DELLA TRADIZIONE

Pietro Pagliardini

Il termine, fuori dall'ambito religioso, viene utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli”. Questa è una definizione incollata da Wikipedia. E’ una delle tante possibili, essendo le più riferite all’ambito religioso. Avrei potuto anche utilizzare una di queste ultime, ma avrei corso di rischio di aprire la strada alla facile, ma fuorviante, obiezione di due “dottrine religiose" contrapposte. Ho preferito rimanere nel campo delle scienze umane perché in effetti l’eresia cui mi riferisco si inserisce in un contesto “filosofico,politico, scientifico e persino artistico” in cui sono, sì, presenti anche forme e ingredienti di tipo religioso, con i dogmi (modernità), gli integralismi (fuck the contest), i sacerdoti (Maestri e/o archistar, cioè i nuovi Maestri a livello di massa), gli adepti (praticamente tutti gli architetti) e i tribunali speciali, cioè l’Inquisizione (docenti, metre a penser, commissioni di concorso), ma la verità è più complicata e pervasiva e non è costituita da qualche conventicola segreta (come dimostra il numero degli adepti) ma da ampi settori della cultura ufficiale “generalmente accettata come autorevole” (docenti, metre a penser, commissioni di concorso).
Non c’è dubbio che l’urbanistica e l’architettura che riscopre il valore della tradizione sia trattata al pari di un’eresia. Lo si è visto bene nel caso del piano di Tor Bella Monaca di Léon Krier.


Questi viene chiamato dal Sindaco di Roma, suppongo, per studiare una proposta urbanistica capace di ridare dignità urbana ad un quartiere romano dei primi anni 80, un PEEP, uno dei tanti di quel periodo, sorti in Italia sulla spinta delle nuove leggi, la 865/71 soprattutto e la 457/78.
Due leggi dalla forte impronta ideologica nei confronti del rapporto Stato-cittadini, in cui la proprietà privata viene posta sotto tutela, assoggettata com’è ad una serie di vincoli assurdi e complicati quali convenzioni ventennali per la cessione del bene a prezzi imposti, proprietà indivisa, diritto di superficie ecc. che hanno prodotto, per districarvisi, situazioni di semi-illegalità, come sempre avviene quando le leggi sono assurde, burocratiche e liberticide, le quali tuttavia sono state utili per creare una dipendenza del cittadino-elettore nei confronti del proprio amministratore-eletto, il quale non solo favoriva l’accesso alla casa, con il contributo dello Stato, ma anche favoriva questa o quella cooperativa, questa o quella impresa, anzi, addirittura creava questa o quella impresa o “consorzi di imprese”, e trovava il modo di pilotare i così detti “bandi”, inserendovi criteri ad hoc per questa o quella cooperativa o impresa e perfino rari soggetti singoli, a garanzia formale di una legge liberale.

Il processo edilizio era quindi a circuito chiuso e copriva ogni fase del ciclo, da quello pianificatorio, a quello gestionale, a quello della produzione del bene, imperniato sulla “filosofia” della “industrializzazione edilizia”, a quello politico che ne costituiva la cornice che tutto comprendeva. Un meccanismo perfetto ed oleato, che indubbiamente è stato utile a dare una casa a molti cittadini i quali diversamente avrebbero trovato difficoltà ad averla (in molti casi è più corretto parlare “di un tetto”, in senso metaforico), ma la contropartita è stata la rinuncia ad una quota di libertà, molti compromessi con il diritto e, soprattutto, pessimi risultati per la città e il territorio.
Già, perché il sistema prevedeva anche l’offerta progettuale, la cui dottrina di riferimento accettata come autorevole era quella rigorosamente modernista caratterizzata dalla “industrializzazione edilizia”, esasperata da rigidi parametri dimensionali previsti dalla legge 457/78, il rispetto dei quali produceva automaticamente una tipologia da Existenzminimum, cui per fortuna alcuni comuni più ragionevoli ovviavano con norme interpretative più ampie che allentavano un po’ le rigide maglie ideologico-progettuali. Insomma la matematica, in questo caso la geometria, diventava fortunatamente un’opinione, come i risultati elettorali commentati a caldo; in questi casi l’italico buon senso utilizzava il bizantinismo leguleio, mettendo qualche pezza ai guasti dell’ideologia, perché le leggi basate sull’utopia non possono che produrre quella che viene chiamata illegalità.

Tor Bella Monaca è uno dei prodotti di questo mix cultural-politico: quartieri disegnati al tecnigrafo dove un ordine geometrico astratto regna sovrano, casermoni prefabbricati o semi-prefabbricati che rispettavano, con eccessi di zelo, la regola del calcolo dell’altezza virtuale (che non spiego per carità di patria e che non deve creare sensi di colpa a chi ne ignorasse l’esistenza), edifici senza nessuna relazione con le strade se non per l’ingresso ai parcheggi delle auto (dove si dimostra che l’auto è veramente nemica dell’uomo in periferia più che in centro), enormi spazi aperti secondo il dogma lecorbusieriano, ovviamente deserti in quanto ostili, pericolosi e destinati a rapido degrado e a luoghi del malaffare. Se si confronta questo insediamento con quello più “spontaneo” a ovest, oltre la strada, quest’ultimo appare come un capolavoro da libro di storia.

Ebbene questo quartiere non è recuperabile urbanisticamente per una normale vita sociale. Né giova gridare alla solita mancanza di servizi: i servizi, se ci fossero, darebbero solo un “servizio”, appunto: se in una zona come questa si costruisce una scuola significa che è stato garantito agli abitanti il loro diritto di cittadini e contribuenti di avere una scuola senza doversi sottomettere a lunghi viaggi giornalieri. Dal punto di vista urbanistico e dell’organizzazione dello spazio urbano si è semplicemente rispettato il criterio del Manuale dell’Architetto, CNR, ma la periferia è rimasta periferia e non per questo e diventata città.

Arriviamo dunque al piano di Léon Krier e alla sua eresia.
Il piano è eretico perché demolisce non solo fabbricati ma un’idea, o meglio, un’ideologia, costruita con sapienza nel corso dei decenni, secondo la logica precedentemente spiegata. Demolisce perché non può fare altro, perché quel quartiere non è recuperabile né urbanisticamente né architettonicamente. Demolisce e al suo posto sostituisce un’altra idea, ad essa opposta, la quale tuttavia, a differenza di quella attuale, non è un nuovo esperimento socio-urbanistico ma è presente, da sempre, nel DNA della città europea. Una città di strade e isolati, di piazze e non di spiazzi, di zonizzazione verticale e non orizzontale, di edifici di altezza massima di 3-4 piani e non di casermoni, con una forte densità come è denso il centro storico, e perciò eco-sostenibile, cioè moderna, in quanto, a parità di densità occupa meno territorio.
Non entro nel merito del progetto, cioè nella correttezza delle scelte fatte rispetto al luogo e alle relazioni con l’edificato esistente e con le infrastrutture, perché non conosco il luogo se non fotograficamente. Altri dovrebbero farlo. Purtroppo, salvo rari casi, tra cui un post abbastanza equilibrato sul blog amatelarchitettura, che pure lascia trasparire sotto traccia un certo snobismo per la scelta di Krier, si discute di quel progetto ideologicamente, si ritiene quel progetto un’eresia, una bestemmia gridata contro lo status quo.
Se ne critica, come con il progetto Corviale di Ettore Maria Mazzola, la scelta della demolizione, guarda caso.
Vorrei portare all’attenzione di costoro il seguente comma della legge 865/71, proprio quella di cui parlavo a inizio post:
Possono essere comprese nei piani anche le aree sulle quali insistono immobili la cui demolizione o trasformazione sia richiesta da ragioni igienico-sanitarie ovvero sia ritenuta necessaria per la realizzazione del piano”.
Ecco, qui esistono ragioni igienico-sanitarie.
Concludo con questo post tratto da Archiwatch, riferito proprio a Tor Bella Monaca:
Volete Voi una città bella pulita e seducente? …
Oppure una città di merda, piena di monnezza e fatta di oribbili casermoni? …
Inopinatamente … pare … che in molti …
abbiano optato per la prima soluzione …
La sinistra … incredula …
La destra … esulta …


Ognuno lo interpreti come vuole, ma c'è del vero.

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