Lo scritto che segue mi è stato gentilmente inviato da Ettore Maria Mazzola, docente all'Università Notre Dame di Roma. Poiché scardina molti luoghi comuni e non si perita di criticare alcune icone del "modernismo" immagino che susciterà qualche discussione.
Considerato il proliferare dei commenti che accennano al concetto “Falso Storico”, riporto qualche chiarimento per porre fine all’abuso del termine.
Per evitare fraintendimenti userò le stesse parole di Cesare Brandi – Teoria del Restauro (Giulio Einaudi Edizioni – Torino 1963) e, in particolar modo, del capitolo “Falsificazione”.
“[...] Pertanto la falsità si fonda nel giudizio. Ora il giudizio di falso si pone come quello in cui viene attribuito ad un particolare soggetto un predicato, il cui contenuto consiste nella relazione del soggetto al concetto. Si riconosce così nel giudizio di falsità un giudizio problematico, col quale ci si riferisce alle determinazioni essenziali che il soggetto dovrebbe possedere e non possiede, ma che invece si pretenderebbe possedesse, onde nel giudizio di falsità si stabilisce la non congruenza del soggetto al suo concetto, e l’oggetto stesso è dichiarato falso”.
Non occorrono ulteriori spiegazioni sull’argomento, poiché è sufficientemente chiaro dalle parole del Brandi che il problema della presunta falsità consista nel “giudizio” che si dà di un oggetto, e dunque che il giudizio, in quanto tale, sia un problema soggettivo! ...
Un ulteriore importantissimo passaggio è il discorso sull’intenzionalità di chi produce o mette in circolazione il falso: ancora una volta Brandi chiarisce inequivocabilmente come, a seconda di questa intenzionalità, possa operarsi una netta differenziazione tra copia, imitazione e falsificazione.
Egli individua tre casi:
1) produzione di un oggetto a somiglianza o a riproduzione di un altro oggetto, oppure nei modi o nello stile di un determinato periodo storico o di determinata personalità artistica, per nessun altro fine che una documentazione dell’oggetto o il diletto che s’intende ricavarne;
2) produzione di un oggetto come sopra, ma con l’intento specifico di trarre altrui in inganno circa l’epoca, la consistenza materiale, o l’autore;
3) immissione nel commercio, o comunque diffusione dell’oggetto, anche se non sia stato prodotto con l’intenzione di trarre in inganno, come di un’opera autentica, di epoca, o di materia, o di fabbrica, o di autori, diversi da quelli che competono all’oggetto in se.
Il primo dei tre casi rientra nella sfera della copia o imitazione, gli altri due individuano le due accezioni fondamentali del falso: “solo nella fattispecie potrà allora distinguersi il falso storico dal falso artistico, che del falso storico finisce per presentarsi come una sottospecie, dato che ogni opera d’arte è anche monumento storico, e dato che l’intenzione di trarre in inganno è identica nei due casi”.
La Storia dell’Arte è ricca di esempi di “artisti” e dei loro “allievi”; questi ultimi si ispirarono ai loro maestri raggiungendo livelli artistici notevoli, pur fondando la loro produzione sulla personalità altrui: mai nessuno di questi “allievi” venne denunciato per plagio, per amoralità o per reato estetico, tanto che oggi abbiamo la possibilità di studiare le loro opere su tutti i libri di Storia dell’Arte: Quello del falso è un problema creato da noi “moderni”.
Del resto, se il recupero della tradizione e dei canoni classici fosse stato considerato un atto di falsità, né il Rinascimento, né il Neoclassicismo sarebbero mai potuti esistere: ad eccezione del Movimento Modernista, ogni periodo della Storia dell’Architettura ha fatto tesoro della tradizione precedente ed è stato in grado di aggiungere qualcosa di nuovo. Diversamente il movimento modernista, basando la sua forza espressiva sull’azzeramento della storia, non avrebbe mai potuto convivere con una tradizione in grado di far riflettere, così l’ha rinnegata!
Chi sarebbe mai un certo Winckelmann senza i falsi realizzati dagli antichi romani? Quelli sì che vennero realizzati a scopo di lucro! Molte botteghe di scultori – facendosi pagare profumatamente – eseguivano copie delle opere dei più grandi artisti greci per abbellire le case dei ricchi romani: solo grazie all’opera di questi falsari oggi possiamo apprezzare opere come il Laooconte, il Toro Farnese, il Discobolo di Mirone, ecc. ... queste sono opere mirabili, benché copie, la gente le apprezza, e le apprezzava, indipendentemente dalle considerazioni intellettualoidi dei critici e degli storici dell’arte.
Quando in antichità un edificio cadeva in rovina, esso veniva ricostruito. Templi arcaici vennero ricostruiti secondo il gusto ellenista operando dunque, secondo quello che è il pensiero contemporaneo, un crimine di falsità, ma nessuno – tranne qualche faziosa teoria ottocentesca, mai peraltro dimostrata – ha mai posto l’interrogativo se i romani furono dei grandi artisti o semplicemente degli squallidi copisti. È ovvio che essi furono dei grandi artisti, ed è altrettanto ovvio che il problema non va ricercato nel metodo dell’artista ma nel giudizio, spesso ipocrita, del giudicante.
Cosa potremmo dire delle splendide opere di integrazione, ricostruzione e completamento, eseguite dalla bottega di Bartolomeo Cavaceppi su gran parte della statuaria romana (oggi nei più importanti musei del mondo): quello suo, per i benpensanti della sua epoca, fu un gesto criminale che li offese a morte, o diversamente egli fu considerato un grande cui commissionare opere del genere?
Tornando al concetto di falso storico in architettura, Brandi (che non parla di architettura ma di arti figurative) ci ha chiarito come il problema principale sia dato dal comportamento ingannevole che l’autore dell’oggetto assume nei confronti di chi lo osserva.
Estensione del “falso” all’architettura
Per chi l’avesse dimenticato, o non lo conoscesse, questo è ciò che Antonio Sant’Elia scrisse nel Manifesto dell’Architettura Futurista dell’11.07.1914:
«... IO COMBATTO E DISPREZZO: 1° tutta la pseudo-Architettura d’avanguardia, austriaca, ungherese, tedesca e americana. 2° Tutta l’Architettura classica, solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale, leggiadra, piacevole. 3° L’imbalsamazione, la ricostruzione, la riproduzione dei monumenti e palazzi antichi. 4° Le linee perpendicolari e orizzontali, le forme cubiche e piramidali che sono statiche, gravi, opprimenti e assolutamente fuori dalla nostra nuovissima sensibilità»
«E PROCLAMO: 1° che l’Architettura Futurista è l’Architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’Architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone che permettono di ottenere il massimo dell’elasticità e della leggerezza»
«2° Che l’Architettura non è per questo arida combinazione di praticità e utilità, ma rimane arte, cioè sintesi, espressione»
«3° che le linee oblique e quelle ellittiche sono dinamiche per la loro stessa natura e hanno una potenza emotiva mille volte superiore a quella delle perpendicolari e delle orizzontali, che non vi può essere un’Architettura dinamicamente integratrice all’infuori di esse»
«4° che la decorazione, come qualche cosa di sovrapposto all’Architettura, è un assurdo, e che soltanto dall’uso e dalla disposizione originale del materiale greggio o nudo o violentemente colorato, dipende il valore decorativo dell’Architettura Futurista»
«5° che, come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi – materialmente e spiritualmente artificiali – dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’Architettura deve essere la più bella espressione, la sintesi più completa, l’integrazione artistica più efficace»
«6° l’Architettura come arte di disporre le forme degli edifici secondo criteri prestabiliti è finita».
«7° per l’Architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito»
«8° da un’Architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, che già si afferma con le “Parole in libertà”, il “Dinamismo plastico”, la “Musica senza quadratura” e l’”Arte dei rumori”, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista».
La conseguenza di questa visione folle è che, a causa di una formazione studentesca distorta in nome del modernismo, nella realtà di oggi si registra tra gli architetti una diffusa incapacità di relazionarsi con certi temi, e chi prova a rispolverare i canoni della progettazione tradizionale viene attaccato come anacronistico, passatista, ecc. … come ricordava Viollet-Le-Duc: «amiamo vendicarci delle conoscenze che ci mancano con il disprezzo ... ma sdegnare non significa provare!(1)».
Chiunque abbia un po’ di sale in zucca potrà comprendere che le parole di Sant’Elia, giovanissimo ribelle all’epoca delle avanguardie artistiche internazionali – epoca in cui l’Italia cercava il modo per riappropriarsi del ruolo di centro artistico e culturale del mondo – possono giustificarsi in quel contesto, ma non necessariamente che esse si debbano prendere come una “Bibbia” per tutta l’architettura che è venuta dopo.
Purtroppo però, gli interessi economici, le teorie di Le Corbusier a favore dell’industria automobilistica (2), e soprattutto il complesso di inferiorità culturale degli italiani fecero sì che le cose andassero via via peggiorando; così, di lì a poco, si ebbero degli eventi che segnarono definitivamente il modo di costruire nel nostro Paese.
Nel 1931, a Roma, Pier Maria Bardi organizzò una mostra che aveva come unico scopo la messa al bando dell’architettura “vigliacca e passatista”. In occasione della Esposizione Italiana di Architettura Razionale, una stanza venne dedicata ad un pannello realizzato con la tecnica del collage, in cui foto e disegni delle architetture tradizionali realizzate nel primo novecento in Italia venivano ribattezzate la “Tavola degli Orrori”.
Per comprendere il peso di questo evento, e le conseguenze su ciò che avvenne di lì a breve, è necessario ricordare quella che fu l’influenza che esso ebbe nella mente di Benito Mussolini e dell’Intellighenzia italiana dell’epoca. Eccovi un sunto.
Nel 1929 Armando Brasini aveva ricevuto l’incarico per costruire a Roma, in via IV Novembre, un edificio che rimpiazzasse il demolito Teatro Nazionale di Francesco Azzurri. Il Teatro era stato demolito, nonostante la notorietà dell’autore e l’importanza funzionale dell’edificio, perché ritenuto inadeguato al carattere architettonico di Roma. D’Annunzio accusò la facciata di «essere pretenziosa e volgare e la tettoia in vetri orribile perché è una cosa industriale, brutta, meschina, comprata un tanto al metro, appiccicata là a far da testimonianza alla taccagneria che ha presieduto al compimento di tutta la parte ornamentale!» Mussolini ritenne Brasini l’unico architetto degno di poter mettere le mani su quel delicatissimo punto di Roma, tra l’altro allineato frontalmente a Palazzo Venezia, e si compiacque del progetto che dimostrava la validità della scelta dell’architetto.
Roma, Armando Brasini, Palazzo dell’I.N.A.I.L. (1929-’32)
All’indomani della mostra di Bardi, in occasione dell’inaugurazione di quel Palazzo (28 marzo 1932), l’opinione del Duce era totalmente cambiata: nel suo discorso alla Camera dei Senatori disse: «il palazzo è un autentico infortunio capitato proprio alle Assicurazioni agli Infortuni». Questa frase fece sì che l’INAIL decidesse di non utilizzare più quell’edificio come sua sede, perché ritenuto una “vergogna”, e lo cedette in affitto all’Aviazione Italiana.
Già nel ’31 la pubblicazione della splendida rivista Architettura e Arti Decorative era stata sospesa e rimpiazzata da quella di riviste schierate in nome del Modernismo, nel ’32 lo stesso Bardi – che dopo aver ripetuto per tre volte la terza elementare, era stato costretto per legge ad abbandonare gli studi (3) – fondò la rivista Quadrante di cui dirò presto.
Tra il ’32 e il ’36 un’altra battaglia venne combattuta in quel di Como, tra “tradizionalisti” e “modernisti”, i primi facenti capo in Federico Frigerio, i secondi in Terragni, Pagano, Cattaneo, ecc. La causa scatenante era stata l’edificazione, nel 1927, del Novocumum da parte di Terragni, edificio inaccettabile per i comaschi dell’epoca. Ciò che aveva disturbato era stato il trucco di presentare un progetto per poi realizzarne un altro.
La storia si ripeté con la “Casa del Fascio”, e questa volta la reazione dei comaschi indignati fu più forte.
L’intera città si era indignata per la costruzione di Giuseppe Terragni: il progetto presentato ed approvato era totalmente diverso da quello realizzato, e tutto era avvenuto sotto l’egida del Podestà locale, il fratello del Terragni: ecco il “trucco” – come lo definisce Alberto Artioli (4) – per aggirare l’ostacolo alla costruzione. In una lettera inviata dal Podestà a Giuseppe si suggeriva: «presenta un “progetto in stile”, poi quando tiri su i ponteggi fai quello che vuoi!».
L’indignazione fu talmente forte che la popolazione si rifiutò di assistere all’inaugurazione dell’edificio e si dovette ricorrere astutamente ad una cerimonia di commemorazione dei caduti della Prima Guerra Mondiale per far confluire il popolo nella “piazza” antistante la Casa.
Lo stesso Mussolini era rimasto profondamente turbato dall’edificio ma poi, la furbizia lessicale di Terragni e Marinetti (il teorico del Futurismo), coniarono la giustificazione plausibile all’edificio: esso trasformava in Architettura ciò che il Duce aveva detto, «il Fascismo è una casa di vetro dove tutti possono guardare!». Fu così che il Duce fece sua l’idea dell’edificio.
Forte di questo successo politico Carlo Belli, sul numero 35 della rivista Quadrante del 1936, nel paragrafo intitolato “Dopo la polemica” – per celebrare la vittoria del Modernismo conseguente la costruzione della Casa del Fascio di Como – diceva: «Non so quanti, in Italia, potranno capire oggi la nostra gioia per il compimento della Casa del Fascio di Como. Quando, tra qualche anno, un’adesione universale conforterà quest’opera di Terragni, allora sì, molti si arrenderanno, per riconoscere onestamente che avevamo ragione. […] Ma, ora, possiamo rispondere che vogliamo la Casa del Fascio di Como, intanto, come modello-base per tutti gli edifici d’Italia (compresi i ministeri). […] L’idea di un “Nuovo Vignola” dell’architettura italiana, idea ventilata in questi giorni, più che originale, assai più che brillante, è una proposta veramente saggia da attuarsi subito per l’onore e la salvezza del nostro prestigio in fatto di architettura. In questo manuale la Casa del Fascio di Como sarà la tavola logaritmica delle costruzioni del genere, il vocabolario in cui sono espresse nella loro forma migliore, tutte le soluzioni più esatte dei più complicati problemi. Un prontuario di bellezza, un paradigma di saggezza: un’opera completa sotto tutti i punti di vista».
Davanti a cotanta fermezza e furbizia non c’è da meravigliarsi se il Regime, per la prima volta, arrivò ad imporre il nuovo modo di concepire l’Architettura: Un regime totalitario che racconta di dare delle case moderne, simbolo di libertà e di progresso, non può che essere apprezzato ... peccato però che gli abitanti degli edifici nati seguendo questi dettami non abbiano mai ritenuto di vivere negli spazi che avrebbero sognato, e anzi, molto spesso, ci abbiano lasciato di loro definizioni come quartieri ghetto, edifici lager, eccetera.
Sebbene possa sembrare impossibile che questo piccolo evento comasco possa aver avuto una risonanza così drammatica sul nostro Paese, la lettura di un testo di legge emanato due anni dopo ci dimostra che la delirante richiesta modernista di Belli, Pagano, Terragni, Cattaneo, ecc., ben presto venne tramutata in realtà.
Nel 1938 – nell’interesse dei soli “palazzinari” – affinché non si osasse più costruire in modo tradizionale, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione Italiano venivano promulgate le “Istruzioni per il Restauro dei Monumenti” il cui punto 8 così recitava: «per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in “stili” antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte» (5).
La strenua resistenza dei membri della Associazione Artistica fra i Cultori dell’Architettura agli attacchi delle riviste monodirezionali, come la tedesca Moderne Bauformen o le italiane Casabella, Quadrante, ecc., ormai non aveva più campo d’azione: gli architetti tradizionali erano stati banditi per legge!
L’Architettura era morta in nome del Modernismo di Stato ... ma da noi continuano a farci credere il contrario, bollando come fascista chi si interessa di architettura neo-tradizionale!
Questi aneddoti cambiarono radicalmente il modo di insegnare, costruire e concepire l’Architettura in Italia.
Chi inganna chi?
L’altra faccia del falso storico è rappresentata da quelle città italiane le quali, per il fatto di aver dato i natali ad architetti “moderni” o ad architetture razionaliste, hanno dimenticato tutto quanto successo prima del XX secolo, in questo modo, architetti, critici, e politici locali chiedono, o addirittura impongono, che l’edilizia prodotta dal movimento modernista venga presa come modello da seguire: così sono nati, e continuano a nascere, interventi neo-razionalisti, neo-funzionalisti, neo-Terragniani, neo-LeCorbusierani, ecc., mentre vengono ridicolizzati, o peggio criminalizzati, gli interventi di chi si sforza di riappropriarsi dei canoni tradizionali.
Perché il cercare di dare una casa ed un ambiente urbano dignitoso e piacevole, ispirandosi al Passato più nobile, è da considerarsi un atto criminale, mentre il copiare i presunti “grandi modernisti” è invece un comportamento da perseguire?
Se il problema è solo quello dell’inganno, nessun “architetto tradizionalista” intende ingannare nessuno con il suo modo di operare, egli semmai è mosso dal rispetto dei monumenti, dei centri storici, del paesaggio e, soprattutto, degli abitanti; egli non ha nessuna intenzione di far credere che la sua opera sia stata realizzata in un’altra epoca, o da un grande del passato: egli non vuole offendere nessuno, piuttosto è interessato a cancellare le offese che la “povera gente incolta” è stata costretta a subire da chi, con la “presunzione della cultura”, l’ha ingannata facendogli credere che gli stava creando intorno una città figlia della “civiltà moderna”, “espressione del nostro tempo”.
Inganno letteralmente significa presentazione falsata della verità.
La realtà dei fatti urbanistici di oggi ci dimostra come l’unico vero inganno, sia stato proprio quello compiuto dai cosiddetti esperti i quali, con il loro modo di sentenziare, ci hanno voluto far credere che la zonizzazione, le moderne periferie, le grandi arterie di traffico nel bel mezzo dei centri abitati, le unità di abitazione, la rimozione di ogni aggiunta decorativa, ecc. corrispondessero alla vera espressione di civiltà moderna, ai veri ideali di vita, di urbanistica e di architettura.
Credo senza alcun dubbio che gli unici falsari siano i teorici del falso storico, coloro i quali, con la loro “colta saccenteria”, hanno convinto, o cercato di convincere, la “massa incolta”, che il loro “sapere” li avrebbe guidati ad un futuro migliore. Questa massa, ammalata di un certo complesso di inferiorità culturale nei confronti degli esperti, ha passivamente accettato questi teoremi perché “detti da chi capisce” … anche se poi, nel proprio intimo, ha sempre covato un senso di disgusto e di rifiuto, puntualmente tirato fuori quando era troppo tardi, oppure sottovoce in qualche discorso tra amici con i quali non c’era da vergognarsi di “non capire” l’architettura e l’urbanistica contemporanea.
Ettore Maria Mazzola
Note:
1) Conversazioni sull’Architettura – Edizioni Jaca Book S.p.A. – Milano 1990
2) Prima il Plan Voisine (Voisine era un costruttore d’auto) e poi la Ville Radieuse secondo cui «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro ... sufficiente per tutti.»
3) R. Mariani, Razionalismo e architettura moderna, Milano 1989
4) Alberto Artioli, “La Casa del Fascio di Como”, BetaGamma Editrice, Roma 1990, pag. 20; confrontare anche Ada Francesca Marcianò, “Giuseppe Terragni. Opera completa 1925-1943”, Officina Edizioni, Roma 1987, pag. 306
5) In materia di “Falso Storico” rimando al mio saggio “Falso storico? … Tutto falso!” in Como, la Modernità della tradizione, di Samir Younés ed Ettore Maria Mazzola, Gangemi Edizioni, Roma 2003, pagg. 33 - 47
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