Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


21 agosto 2011

L'ISOLATO APERTO DELLA RIVE GAUCHE

Nella cassetta della posta ho trovato un giornale dal titolo Architetti, sotto titolo Idee, Cultura e Progetto. Ho pensato a materiale pubblicitario che fa sempre la solita fine, dopo la separazione della plastica che lo avvolge dalla carta. Poi ho visto la casa editrice, Maggioli, e l’ho sfogliata. Formato tabloid, fogli staccati tipo quotidiano, carta pesante, veste grafica studiata per una buona leggibilità. E’ già un pregio.
Sostenibilità a piene mani, ovviamente, qualche premio (alla sostenibilità), immancabile l’IPad, applicato all’architettura in questo caso.
Un titolo verso la fine attrae la mia attenzione: Sì alla rue, no al corridor. E sotto: Il quartiere Masséna, Paris, Rive Gauche. Sono costretto a leggere l’articolo. Che vorrà dire? Le Corbusier rivisitato? Oppure una sua mezza negazione? Insomma, il bicchiere sarà mezzo vuoto o mezzo pieno?


La faccio breve: si tratta di un nuovo quartiere in costruzione il cui piano urbanistico è di Christian de Portzamparc. Io ero rimasto alla Villette, quando ancora mi interessavano i nomi dei progettisti, anche se la Citè de la Musique non mi era piaciuta proprio. Cosa ha di speciale questo piano di Masséna? Ha che de Portzamparc pare essere famoso per l’isolato aperto, o open block o ilot ouverte - dico pare perché io non lo sapevo e quindi per me è una novità – e in questo quartiere c’è l’applicazione di questa novità.

Quale sarebbe la caratteristica di questo ilot ouvert? Sarebbe che le strade formano un tessuto analogo a quelle della città tradizionale, nella fattispecie credo che rimanga più o meno la trama attuale, ma gli isolati non sono costituiti da fronti continui lungo strada, bensì vengono lasciate aperture, varchi, distacchi tra gli edifici, essendo però costruiti gli incroci, cioè i punti più interessanti e singolari di un isolato. Ma qual è lo scopo di questa scelta o trovata che dir si voglia? Quella di permettere la costruzione di tanti edifici staccati l’uno dall’altro, ma abbastanza vicini l’uno all’altro, in modo tale che ogni progetto possa essere diverso dall’altro ma, è specificato nell’articolo, nel rispetto di certe sagome o profili.

Cito il brano specifico dell’articolo di Carlo Teodoli: “Dov’è l’idea chiave di de Porzamparc nel quartiere Masséna? E’ nel suo concetto di Ilot-Ouvert; un solo concetto semplice, ma che vale tutto il quartiere, e che apre a un vasto scenario, anche infinito, di “variabili” dell’architettura senza rinunciare alle “costanti” di buon funzionamento urbanistico e viabilistico del quartiere; parafrasando Le Corbusier (no alla rue corridor) de Porzamparc afferma invece: sì alla rue ma no al corridor”.
Chiaro no? Lo scopo è quello di consentire la massima libertà progettuale inserita in un tessuto apparentemente simile a quello proprio della città.

Nell’articolo vi sono una serie di foto di edifici ma non c’è alcuna planimetria. Gli edifici sono molto fantasiosi, nel senso che sono tutti diversi, come da concetto-guida, di varie altezze da quattro fino a circa 12 (almeno nelle foto del giornale; nel sito se ne vedono di molto più alti) e sono molto vicini tra loro. Non si capisce bene, o meglio, a giudicare dalle foto non vedo nessuna novità rispetto ad una città fatta di grattacieli, ma molto più bassi, cioè non sono grattacieli. Cerco su internet e trovo di più qui, su www.arthitectural.com (ma che nome impronunciabile che ha questo sito!).
Le immagini sono accattivanti e mi è impossibile capire se siano foto o rendering di altissima qualità. Per essere realtà è troppo ordinata, per essere rendering ci sono particolari troppo realistici (oggetti di uso comune che si intravedono dai parapetti traslucidi delle terrazze). Ma non ha troppa importanza, qui si capisce abbastanza bene ciò che è o dovrà essere.
Ci sono poi anche alcuni grafici che sintetizzano l’idea che sta dietro al quartiere.

La trovata è, dal punto di vista del marketing, assolutamente geniale. Lo slogan è azzeccato. Insomma, la confezione è ottima. Il risultato molto meno. Gli spazi tra gli edifici sono privi del minimo senso. Non sono strade, non hanno altro scopo che mantenere i distacchi in funzione dell’esaltazione degli edifici, sono vuoti lasciati per la vuota vanità dell’architetto e sono inevitabilmente destinati all’abbandono.

Il principio dell'ilot ouvert non è urbanistico, è architettonico. Nell’articolo della rivista c’è scritto: “…i risultati sono molto interessanti: rinuncia (de Portzamparc) a firmare l’architettura di edifici ma firma l’urbanistica del planivolumetrico come se fosse un immenso e articolato edificio, per affermare, magari senza volerlo, il ruolo del progettista “dal cucchiaio alla città” o, più semplicemente, il primato dell’architettura come disciplina globale nel design della città dove l’urbanistica (come l’ingegneria del resto) è insomma un suo autorevole affluente, ma non il contrario”.
Ecco, io credo sia vero proprio quel contrario, anche se, idealmente, le due discipline dovrebbero essere intimamente unite, come lo sono state nel passato. Penso però che questo non sia più pienamente possibile, non nel linguaggio architettonico almeno. E’ possibile invece negli aspetti tipologici e morfologici, nella indicazione planivolumetrica (come nel caso in oggetto, in fondo), nel controllo delle altezze, nella continuità della cortina stradale, che è un aspetto urbanistico e architettonico allo stesso tempo.
Insomma, il bicchiere è mezzo vuoto, la rue o è corridor o non è. Inutile tentare mediazioni tra l’isolato (sostantivo) e l’edificio isolato (aggettivo) nel lotto. Il risultato resta quello di una città priva di sequenze, una somma di oggetti cui la presenza della strada non riesce comunque a garantire una continuità.

Ma voglio finire con una nota di ottimismo estivo: prendiamola come una manovra di avvicinamento al punto di...inizio.

10 commenti:

enrico d. ha detto...

Lascio subito il mio commento profano, ampiamente condizionato da decenni di "urbanistica" interpretata alla bolognese.
L'idea che il progettista di un quartiere, come sembra nell'esempio parigino, definisca linee-guida, stabilendo la tipologia dei singoli edifici solamente in modo "grossolano"; l'idea che chi costruisce (e paga) debba tener conto di alcuni (pochi)limiti e poi possa , entro tali limiti, avere ampia libertà, tutto ciò dovrebbe essere l'ABC. Dalle mie parti, se il piano regolatore dice "villette", che siano 5, 15, o 50, saranno tutte uguali! Anche quelle di testa dovranno rinunciare alle possibili finestre sul lato aperto (altrimenti sarebbero diverse da quelle intermedie!).
E se il comune limitrofo decide per altre villette, dato che il 90% delle imprese sono le stesse cooperative, si ripete lo stesso progetto. Esagero: qualche volta le persiane sono verdi, altre volte marroni. Ma sempre uguali nella stessa "stecca", mi raccomando.
Lo stesso se invece che villette, si decide per palazzi o palazzine: mai meno di dieci o dodici !
Tanto per fare dell'esterofilia, e restando nel tema "villette a schiera", in Olanda ho visto estesi quartieri in cui è evidente l'esistenza di un "piano regolatore", d una "filosofia condivisa". Mia sorella abita a RjisWjik (L'Aja) in un quartiere in cui si alternano villette a schiera, singole e binate. Le regole, anche se non ho letto il testo, sono chiaramente queste, poche e semplici: Per le villette a schiera, 1:il lotto è 8x30. 2: il fronte strada deve essere allineato. 3: altezza due o tre piani. 4:Colore delle murature: toni del bruno-mattone o grigio. 5:Colore degli infissi bianco o legno.
Fine.
Se chi abita una casa a due piani vuole sopraelevare, deve chiedere il permesso ai confinanti. Fine
L'effetto globale è decisamente gradevole. Accade che una soluzione sia piaciuta? la si vede replicata, talvolta fianco a fianco, talvolta tre porte o due strade più in là.

Pietro Pagliardini ha detto...

Caro enrico
il problema non è il metodo, il problema è il merito di questo progetto. Il metodo è infatti corretto perché, tutto sommato, è un esempio di piano urbanistico che si affida al disegno urbano.
Certo, sarebbe troppo facile se l'intervento immobiliare ha un solo proprietario. Se invece fosse un piano che lascia spazio a più proprietà allora sarebbe interessante e mi piacerebbe assai che venisse adottato anche da noi; ma nel metodo, ripeto, non nei risultati. E anche del metodo devo dire che non ne so molto di più di quello che c'è in quel sito dal nome strampalato.
In Olanda, oggettivamente, i risultati dei piani di cui parli te, sono migliori di questo
Ciao
Pietro

LdS ha detto...

pietro, se quegli edifici fossero agghindati come piace a te... saresti qui a tesserne alla grande le lodi.

robert

Pietro Pagliardini ha detto...

Ti sbagli robert, perché ho criticato anche gli isolati del piano di Tor Bella Monaca di Léon Krier, tutti costituiti da palazzine staccate le une dalle altre dove gli spazi residui sono scarsamente utilizzabili.
E comunque non sarebbe un problema di agghindamento, cioè di decorazione, quanto di volumi: i soliti edifici strampalati, sbalzi, altezze esagerate rispetto ai vuoti laterali, rottura continua e pure disordinata del fronte stradale.
Una bella trovata, niente di più, ma credo sia pur sempre un lieve sintomo di cambiamento di strategia, questo sì.
Il fatto stesso che una (quasi) archistar si sia stato posto il problema dell'isolato e abbia messo una croce sulla II epoca è positivo
Ciao
Pietro

enrico d. ha detto...

Woody Allen, nel delizioso "Provaci ancora Sam", nel mostrare ad una donna il suo alloggio da scapolo (anzi, da marito abbandonato), decisamente disordinato, forse anche toppo "vissuto", se ne esce con un memorabile "L'importante è non far capire che si è chiamato l'architetto!".
Ci deve essere qualcosa di vero, di profondo, se certi quartieri, certe strade, certi borghi, anche non famosi e celebrati, ci danno una sensazione di benessere, di pace, di armonia. Anche se armonia, in senso letterale, forse non c'è.Per converso, spesso, in quartieri "artificiali, in rioni, frazioni, città pensate e costruite "in blocco", spesso ci troviamo a disagio. Talvolta senza riuscire nemmeno a spiegare a noi stessi il perchè. Le eccezioni non fanno che confermare la regola: Pienza fu pensata "in blocco, ma costruita lasciando autonomia. L'armonia è stata una conseguenza, non l'origine.
Resto su Bologna e sui suoi portici. Quanto sono veri, vivi, autentici quelli storici, tanto sanno di finto e artificiale gli esempi moderni, di architetti che hanno, in buona fede, cercato di "mantenere lo stile e l'idea". Il fatto è che quelli originali sono il frutto di annessioni, rimaneggiamenti, crolli e ricostruzioni, e noi li vediamo e li godiamo dopo tre o quattro secoli di storia. Quelli nuovi, con tutta la loro buona volontà, restano freddi e anonimi. Anche il settecentesco portico di S.Luca-il più lungo del mondo con i suoi 666 archi, è tutto fuorchè ripetitivo. Una porticina; un arco raddoppiato, una immagine sacra, un cancello, tre gradini, una rampa, uno scivolo....danno un'anima ad ognuno dei tremila e passa metri della costruzione.
Sarà un caso, ma nessuno lo conosce come "il portico di G.G.Monti", ma in tutto il mondo è noto come portico di San Luca.

ettore maria ha detto...

Caro Enrico,
credo che il portico di San Luca sia opera di Carlo Francesco Dotti.
Detto ciò volevo complimentarmi con te per la perfetta disamina della situazione sui portici moderni. Infatti il problema sta nella freddezza e nella ripetitività, ambedue derivate dalla "scuola di pensiero modernista", figlia anche della cattiva interpretazione delle ricerche muratoriane e caniggiane, in base alle quali molti docenti universitari hanno insegnato (me compreso) che, nel rispetto del contesto, fosse possibile tramutare in architettura l'astrazione tipica della forma. Il risultato è che, pur restando la "memoria" (come amano dire) del portico, nella sostanza quel portico resterà freddo e ripetitivo ... astratto. Diversamente, quando porto i miei studenti a Bologna, mi piace fargli studiare i portici più antichi, per il calore e la verità che emanano, Bologna è per me una delle migliori "piazze" per una lezione sulla differenza tra "unità" e "uniformità", l'incredibile teoria di portici che dalla Loggia della Mercanzia si sussegue fino a Santo Stefano mostra uno degli esempi più belli da disegnare per comprendere che, nel rispetto dell'interesse comune (obbligo di mantenere un passaggio pubblico coperto) ogni edificio addossato all'altro mantiene il suo "carattere": c'è quello con l'arco a tutto sesto, quello ogivale, quello piatto, quello con semplici stampelle di legno, quello che usa capitelli ricchissimi, quello con le colonne decorate, ecc. La freddezza dell'approccio modernista che crede di poter limitare tutto al segno e all'astrazione è all'origine dell'indifferenza che si prova passeggiando per i luoghi così concepiti.
(continua)

ettore maria ha detto...

(seconda parte)
Ora, volendo fare il punto sul progetto di de-Portzamparc, devo dire che a me sembra che si sia limitato ad inventare l'acqua calda. Sinceramente non vedo alcuna novità in questo progetto .. forse sarà una novità nella sua produzione ma chissenefrega! Il criterio adottato dal'architetto francese è, in qualche modo, quello che venne sviluppato sin dai primi nuclei di Garbatella e Città Giardino Aniene, criterio che non mirava solo a variare i profili e i prospetti, ma anche a frazionare il lavoro tra più architetti e più imprese e artigiani, al fine di velocizzare il lavoro, sviluppare l'economia locale e ridurre il problema della disoccupazione (le cose di cui ho parlato per i miei progetti di Corviale e ZEN). Questo criterio, in qualche modo, è quello adoperato nel progetto di Rob Krier a Brandevooort (Olanda), dove ho avuto il piacere di lavorare con 15 miei studenti progettando i lotti 18 e 24. Lì l'urbanista (Krier-Kohl) ha dato un planivolumetrico con rigide indicazioni sulla forma degli isolati e dei singoli lotti, tra l'altro nel rispetto del regolamento edilizio locale. Avendo nel piano "standardizzato" le dimensioni dei lotti (non tutti uguali comunque), onde poter risparmiare, è stato stabilito che una casa potesse essere ripetuta, ma non una di seguito all'altra, ma in un'altra parte del quartiere (stessa cosa della Garbatella, del Quartiere Matteotti di Palermo, ecc.). Poi, tutte le imprese e gli architetti interessati ad accaparrarsi la costruzione degli isolati, hanno concorso all'appalto, e il risultato è stato quello di una grande "unità" senza "uniformità". Certo molti progetti sviluppati da una serie di architetti impreparati al "dialogo" con l'architettura tradizionale che suggerivano gli urbanisti (su espressa richiesta di chi gli aveva commissionato il progetto) sono stati pesantemente criticati, a causa dell'estrema libertà iniziale lasciata ai singoli progettisti, molti dei quali, pensando alle "astrazioni tipiche", hanno fatto edifici che hanno suscitato il disappunto dei residenti e la frustrazione di Krier-Kohl: Questa è essenzialmente la ragione per cui, d'accordo con l'impresa appaltatrice Kalliste, Krier e Kohl mi chiesero di fare, con i miei studenti, un progetto pilota che mostrasse la metodologia da seguire. Ci limitammo a studiare la Regione del Brabant e a fornire un "abaco linguistico" delle forme e soluzioni tipiche che potevano fungere da "dizionario" (soluzioni di coronamento, abbaini, grondaie, cornici, finestre, comignoli, pulegge di sollevamento, porte, apparecchiatura dei mattoni per le soluzioni angolari, ecc.). La cosa interessante fu che l'impresa e i tecnici comunali (e ovviamente Krier e Kohl) apprezzarono talmente tanto quel lavoro da realizzare i progetti degli studenti come modello per i futuri blocchi. Morale: è possibile dare delle regole progettuali pur mantenendo una certa libertà per i progettisti. Del resto, se non si progetta lo spazio, ma ci si limita al disegno dell'edificio, non si potrà mai uscire dall'anonimia e dal senso di spaesamento della città che abbiamo ereditato da un'urbanistica pensata per le auto piuttosto che per gli esseri umani.
Ciao Ettore

enrico d. ha detto...

Dotti ha progettato e costruito il santuario in cima al colle della Guardia; il portico è progetto del Monti, anche se Dotti intervenne nella fase finale, dopo la morte di M. per costruire il geniale arco del Meloncello che raccorda il tratto pianeggiante con le rampe che si inerpicano in salita.
Il Meloncello,a guardarlo e studiarlo bene, è un elemento architettonico importante e (viva il campanilismo petroniano!) innovativo.
Se Ettore avesse potuto portare in giro studenti per il centro di Bologna 3 o 4 decenni fa, avrebbe trovato i portoni dei palazzi patrizi aperti, e avrebbe potuto mostrare gli "scaloni monumentali" che adornano decine e decine di dimore.
Il più famoso è quello di palazzo Baciocchi (il Tribunale), ma ne esistono davvero tanti, quasi tutti oggi preclusi alla visita. (forse palazzo Montanari in via Galliera). Peculiarità degli scaloni bolognesi è l'esser stati pensati per "vedere la gente che sale e scende" con un fine cioè non solo pratico, ma preminentemente di "rappresentanza". Lo stesso è per il Meloncello che con la sua sinuosa curva e le ampie arcate, consente alla processione di "vedersi". Cosa non banale, ma difficile a comprendersi per noi posteri. Oggi è del tutto normale vedere, in foto o in televisione, gli eventi della quotidianità, e spesso gli stessi cui si è partecipato. ma con una processione del 1700 non era affatto così: se uno si metteva in coda 8ed erano tutti!) vedeva la schiena di chi lo precedeva, e poco più. La geniale trovata dell'arco a serpentina consentiva "di vedersi in TV"...
P.S. Quando torni a Bologna, se mi avisi, mi farebbe piacere incontrare te, i tuoi studenti (e le tue studentesse!)

ettore maria ha detto...

Caro Enrico,
l'Arco del Meloncello è stupendo, così come anche la Chiesa in cima al colle, ed è un peccato che Dotti sia così poco conosciuto. Adoro portarci gli studenti che, nonostante la scarpinata dal centro, sono estasiati dalla bellezza di quei luoghi.
Per gli scaloni, purtroppo, come dici tu siamo costretti a far vedere solo quello del Palazzo Comunale. Sicuramente ti farò sapere quando verremo a Bologna (penso a fine ottobre ma non ne sono ancora certo).
Un caro saluto
Ettore

enrico d. ha detto...

lo scalone del palazzo d'Accursio è bello, monumentale, ma non permette di vedere da una rampa all'altra. Così palazzo Lambertini (sede del mio Liceo), lo specifico degli scaloni "a vista" oggi bisogna andarselo a cercare.
Ti aspetto!

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