Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


25 marzo 2010

IMITAZIONE

1.Gli uomini anticamente nascevano come le fiere nelle selve e nelle caverne e nei boschi e nutrendosi di cibo agreste trascorrevan la vita. Intanto in qualche luogo dove gli alberi erano più densi, sotto l’azione delle tempeste e dei venti, dallo sfregamento dei rami coi rami nacque il fuoco; e gli uomini che si trovavan vicini, spaventati, fuggirono. Riaccostatisi poi a cose calme, constatando qual grande comodità per il corpo fosse stare al calore del fuoco, gettando su nuove legna e così alimentando e conservando quella cosa, condussero altri uomini e mostravan coi cenni l’utilità che dal fuoco poteva trarsi. Intanto in quelle riunioni si emettevano vari suoni dalla bocca; e così, giorno per giorno ripetendoli secondo il bisogno, giunsero a costituire i vocaboli; in un secondo tempo poi, significando più spesso le varie cose via via che si verificavano, cominciaron per avventura a parlare e intrecciaron discorsi tra loro.


2. La scoperta del fuoco è stata quindi la causa onde nacque la convivenza umana; e così si radurono più uomini in un sol luogo, avendo la natura come privilegio sugli altri animali di camminar eretti e non a testa in giù, di contemplare la magnificenza del mondo e del cielo, di maneggiare facilmente ogni oggetto che volessero colle articolazioni delle mani. Così in quella società gli uni cominciarono a fare il tetto di frondi, altri a scavar caverne sotto i monti, altri, imitando la costruzione dei nidi di rondini, a costruir con fango e stecchi ripari per rifugiarsi. Osservando poi le capanne altrui e utilizzandone i perfezionamenti o creandone col proprio spirito inventivo, fabbricavano abitazioni via via migliori.

3. Ed essendo gli uomini atti per natura ad imitare e imparare, gloriandosi ogni dì delle proprie invenzioni, mostravan l’uno all’altro le loro costruzioni, e così, esercitando l’intelligenza dell’emulazione, di giorno in giorno miglioravano nei loro criteri. E per prima cosa, alzate le forche e interposti dei rami, fabbricaron le pareti col fango. Altri, facendo seccare l’argilla, costruivano muri che legavano con legname e ricoprivano con canne e frondi contro le piogge e i calori. Avendo poi constatato che nelle tempeste invernali i tetti non potevano reggere alla pioggia, costruiti dei tetti a punta, spalmati di fango, coll’inclinazione del tetto determinarono lo scolo delle acque.

4. Che queste cose si siano svolte così all’origine, possiamo dedurlo dal fatto che tutt’oggi i barbari costruiscono le loro abitazioni con questi sitemi, come in Gallia, Spagna, Lusitania, Aquitania, con assicelle di rovere e con paglia. (Omissis)

Vitruvio Pollione, De Architectuar, Libro Secondo.

Si osserverà che il Vitruvio antropologo è ricco di fantasia e poco scientifico. E’ possibile che sia vero. Mi domando però quanto sia importante la veridicità del suo racconto rispetto alle “ipotesi” altrettanto fantasiose che vengono fatte anche ai nostri tempi dagli archeologi su mille argomenti: le Piramidi, la loro costruzione, Troia, Omero, Stonehage, ecc. La differenza sta nel fatto che Vitruvio le dà per buone mentre oggi si ha la consapevolezza del fatto che si tratta di ipotesi ma, una volta confrontate le più attendibili, si arriva infine alla tesi più accreditata. Che ovviamente non vuol dire essere quella vera. E’ un metodo, non un riscontro di fatti; è importante, dunque, non per i risultati ottenuti, che non hanno possibilità di verifica, se non indiretta, ma per rappresentare il modo di pensare di una società in una determinata epoca.
Anche il racconto di Vitruvio è importante per questo, perché ci racconta come una società rappresenta se stessa e le sue origini. In parte suffragate dall'osservazione di certi metodi costruttivi utilizzati da altri popoli coevi.
In più ci dice alcune cose importanti: l’imitazione come metodo di conoscenza e della sua diffusione: 1) imitazione della natura e imitazione delle altrui osservazioni e scoperte. 2)applicazione dell’ingegno per migliorare ciò che altri hanno scoperto.


18 commenti:

enrico d. ha detto...

chi ha una certa età, ricorderà il mitico diario scolastico di B.C., con le fantastiche strisce sulla vita dei cavernicoli.
In particolare io sono affezionato al racconto dell'invenzione della ruota, nelle sue varianti.
In un episodio, una volta costruito un disco di pietra, con regolare foro centrale porta-mozzo, il simpatico cavernicolo, decide che la sua invenzione non vale nientem, perchè....non sta ferma !
In una seconda versione, il manufatto viene costruito di forma quadrata; così sta ferma, ma ci sono molto sobbalzi !... la soluzione al problema, la scopriamo nella striscia successiva: una ruota triangolare. "così si riduce il numero dei sobbalzi !".
Lo so, ha poco a che vedere con la storia e l'antropologia, ma una risata fa sempre bene.

Pietro Pagliardini ha detto...

può darsi benissimo che il mio riferimento alla ruota quadrata fatta nel precedente post sia figlio del ricordo inconscio di questa striscia, anche se è un classico di Topolino e di molti altri cartoni.
Certo che la ruota triangolare per fare meno sobbalzi è davvero straordinaria, solo a pensarla.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Pietro,una precisazione: l'anonimo scrivente vuole, con questo post, spezzare una lancia a favore del tradizionalismo e della continuità culturale della storia dell'uomo? Il confronto con "ciò che altri hanno scoperto" deve necessariamente comportare un'operazione imitativa, di adeguamento e di conformità?

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Vilma, l'anonimo scrivente, che è solo involontariamente anonimo, perchè è enrico delfini, credo volesse solo fare una battuta.
Il sottoscritto non anonimo non vuole certo dire che bisogna continuare ad imitare pedissequamente, anche perchè, se così fosse, ancora saremmo alle caverne, ma certamente non ergersi a creatori ex novo dato che è bene sapere che il meccanismo dell'imitazione è insito nel processo creativo.
Inoltre rinnegare per scelta ideologica il passato non porta bene, come non ha portato bene alla città e all'architettura. Anche ad altro, ma inutile parlare di argomenti che non appartengono a questo blog.
Ciao
Pietro

ettore maria ha detto...

Che dire dei musei, e del loro ruolo di studio ove i più grandi artisti si sono formati copiando/imitando le opere esposte? Che dire degli allievi che hanno superato i maestri?
Se in passato si fosse creduto che copiare, o imitare, fosse stato errato, non solo non avremmo avuto molti artisti, ma soprattutto non avremmo mai avuto un'idea della statuaria greca, poiché molto ci viene dalle copie romane.
Il problema maggiore (da Boito ad oggi) è quello del pregiudizio, spesso viziato dall'incapacità di confrontarsi con il "passato", così pensiamo che si debba sempre reinventare tutto. Oggi l'unica cosa che non condanniamo, (anzi che le facoltà di architettura arrivano ad istigare), è l'imitazione/copia dei "maestri" contemporanei. La nostra memoria rispetto ai fallimenti è così corta da farci dimenticare che il tentativo di copiare l'unità di abitazione di Le Corbusier (già discutibile) è stata il Corviale, e quando ce lo ricordiamo, amiamo scaricare le colpe non su chi, intenzionalmente, ha tentato di testare su 8500 cavie umane un'idea folle, ma sull'Italia in generale perché vi risiedono gli italiani che fanno le italianate. La lezione di ogni tradizione
è quella di ripetere, ed aggiornare, un qualcosa che il tempo ha dimostrato aver funzionato, e di abbandonare ciò che non si è mostrato valido. Questo giudizio sulla validità o meno, non è mai stato, prima del XX secolo, basato sull'ideologia, ma sull'esperienza, sicchè siamo stati in grado di produrre città coerenti, simili ma diverse tra loro, perché intimamente collegate al territorio in cui sorgono. Il "tipo", che è stato ripetuto ovunque con le influenze dialettali locali, è sempre stato riconoscibile e definibile, oggi si fa arduo dover capire se un edificio è un bunker o una chiesa, se è una palazzina o un municipio, addirittura se si sta entrando in un ingresso principale o una porta di servizio. Non sarebbe il caso di riappropriarci di quell'inclinazione naturale che fa dell'uomo una specie votata all'imitazione per poter progredire?

Ettore

Anonimo ha detto...

Pietro, per puro spirito dialettico, dato che ognuno di noi già conosce perfettamete le posizioni dell'altro:
"[…] Tradimento e tradizione hanno la stessa origine etimologica, vengono dallo stesso ceppo, esprimono varianti di uno stesso segno. Tradere, verbo latino che sta per "consegnare". Gesù fu tradito da Giuda, che lo consegnò ai suoi giudici. Ma l'intera verità del nostro mondo giudaico-cristiano ci è stata consegnata fra mille tradimenti, e riposa (si fa per dire) nel corpo della tradizione. La morale della fedeltà, quella che prescrive non già di cercare e capire ma di vivere in obbedienza e amore a quanto è stato rivelato, a quanto si crede da generazioni, ha un senso nell'ortodossia religiosa e si innalza su un fondamento biblico. Trasportata nella storia è puro nonsense, rassegnazione intellettuale, animalità meno che canina, diabolica perseveranza. Se scavate dentro la parola, se non vi accontentate della morale della fedeltà, vi accorgerete che il peggiore tradimento, e forse l'unico, è quello che si commette contro la propria libertà."(Giuliano Ferrara, "Ai comunisti. Lettere da un traditore", Laterza, 1991).

Non esiste "una logica tradizionale di continuità e di cauta perturbazione", se non nell'ambito non già della "tradizione", ma della "traduzione" (il latino "trans-ducere", trasportare, "trans loca et tempora ducere"), che in campo culturale rischia sempre di essere un'operazione di pericolosa dietrologia (scusa l'autocitazione, sono frasi che ho trovato molto copiate in internet, il che mi fa credere che siano ampiamente condivise).

Voglio dire che la difficoltà non sta nel seguire la tradizione, ma nel tradirla, nell'uccidere il padre. Come scrive Ada Cortese: "quando la nuova regola o configurazione si afferma, il tradimento si trasforma in tradizione [……] Proprio questo è il significato etimologico della tradizione: essa è la storia dei tradimenti passati".
Da questi ripetuti tradimenti scaturiscono i nuovi linguaggi.

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Ahi, ahi, ahi, Vilma, mi prendi alle spalle citando il da me prediletto Giuliano Ferrara, per cui occorre uno sforzo superiore al normale per rispondere senza "tradire" l'elefantino.
Intanto quel testo si riferisce al suo tradimento di un'idea, quella dell'ortodossia comunista, e Ferrara, ed io, più modestamente, con lui, rivendica il diritto e quasi la necessità di cambiare idea, specialmente se ci si rende conto che era idea sbagliata.
Mi sembra un pò come un'intercettazione telefonica i cui brani, avulsi dal contesto, possono acquistare significati completamente diversi.
Quel brano parte da una situazione del tutto diversa: constatazione che un'idea politica, non una "tradizione storica", ha creato danni incalcolabili, era sbagliata e si cambia rotta. Ai comunisti questa storia non è mai andata giù, tuttora non va giù perchè molti sono rimasti legati alla "loro" tradizione che, fortunatamente però, non è patrimonio comune come la città, o l'arte, o la letteratura, Se Dio vuole.
Ma proverò a stare al gioco e farò finta che quello che dice Ferrara sia estendibile anche al nostro argomento.
Ebbene quello che dice è del tutto compatibile con la tradizione cristiana, direi anzi che è parte integrante ed anche affascinante di questa tradizione: rigida affermazione di principi incrollabili ma trasgressione degli stessi come fatto isolato e costituente parte essenziale della debolezza della natura umana. Quello che ai critici del cristianesimo appare ipocrisia è invece la bellezza di una religione che conosce l'uomo peccatore e che lo salva tramite il perdono.
Venendo a noi direi che un conto è "tradire" la tradizione per migliorarla, per rifiuto anche, per opportunità, altro conto è teorizzare di tradire come sistema. C'è una gran bella differenza.
Ora è tutto da dimostrare che la "tradizione" urbana abbia creato guasti, anzi, a me sembra esattamente il contrario, cioè che il tradimento di quella tradizione è in discussione, e non solo da parte mia o dei tradizionalisti in genere, ma anche da parte di chi pratica la modernità. Non vi è chi non si renda conto dei problemi immensi e non risolti delle nostre città contemporanee.
Comunque converrai che il tradimento continuo, in qualunque campo, non è auspicabile e non porta lontano.
ciao
Pietro

memmo54 ha detto...

Dobbiamo questa infinta incredibile varietà ed armonia di borghi, cittadine, grandi centri e via discorrendo ad una istituzione che gli architetti moderni ignorano: l’imitazione del linguaggio della tradizione (.. intesa qui con il significato originale e positivo di consegna di un bene…).
Se ogni artefice, nella patetica e molesta antichità, avesse fatto di testa sua, avesse preferito l’indagine della propria inarrestabile individualità invece di raccogliere e tramandare umilmente le pacate parole profferite da altri, le nostre città sarebbero costituite da qualche edificio - oggi considerato “monumento notevole”- afflitto da un’infinità multiforme di strane capanne asserragliate intorno e forse, più probabilmente, non sarebbe nemmeno giunto a noi, bollato come una inutile bizzarria e demolito in fretta.
Lo scambio, l’imitazione, la consegna non è stato a senso unico: i grandi geni hanno appreso ciò che i proti, piccoli mastri, gli umili contadini, avevano sgorbiato sulla pietra.
Tutti hanno avuto il buon gusto, la saggezza, la civiltà in fine, di ripetere, riscrivere, tradurre, sempre la stessa storia; ben consapevoli che essa appare identica solo a chi la osserva frettolosamente ed invece
non è mai la copia pedissequa, implicando sempre una qualche novità, recando sempre qualcosa di nuovo.
Questa è la processualità, la tradizione.
Un fenomeno “spontaneo”, evidente, semplice, che ha apportato e continua ad apportare modifiche ; ha condotto l’uomo fuori dalle caverne, e forse un giorno (… lontano…. ho l’impressione…) lo porterà ad alloggiare sulle nuvole.
Perfettamente inteso anche dai sostenitori della modernità: tantochè non è infrequente tra costoro l’imitazione di nuovi “maestri”; la tendenza a costruire nuove tradizioni.
Il nodo, però, è qui : perché costruire nuove tradizioni ed altri linguaggi ?
Scartando il tedio esistenziale che non s’addice a fatti così impegnativi e costosi, cosa è successo di così necessario da richiedere nuove processualità ?
Forse è cambiata la vita dell’uomo ?
Il ciclo del silicio ha sostituito quello del carbonio ?
Non dipendiamo ancora dall’ambiente fisico che ci circonda, dalle campagne e dal mondo vegetale ?
Abbiamo forse sconfitto la gravità ?
In vero qualche piccolo ( inteso in senso storico ) cambiamento c’è stato; ma l’affollamento dei landò sui boulevard è estremamente simile agli ingorghi cittadini . La folla di carretti che attraversava l’Urbe nottetempo rassomiglia, per confusione ed inquinamento, alla lunga teoria di camions sulle autostrade. I veicoli hanno più o meno le stesse dimensioni di sempre. Gli abiti vanno e vengono continuamente, le rockstars vestono allegramente con le crinoline delle nonne. Le forme d’aggregazione sociale sono le stesse; ripetute ciclicamente da diverse migliaia di anni, repubblica, dittatura, principato, monarchia, repubblica: gli stati si formano, s’ingrandiscono, poi si dissolvono di nuovo. Si ritorna allegramente all’Europa di Metternich, si ripropongono le autonomie locali disegnate dal territorio fisico. Società di massa e mobilità sociale sono tali e quali a quelle dei tempi di Petronio e forse anche addietro. La poesia più amata è ancora quella di Tibullo. Gli edifici necessitano ancora di muri perimetrali e di tetti; si adattano ancora al passo degli uomini, si integrano alle loro necessità, li riparano dagli eventi fisici .
Queste ovvie , elementari, persino banali osservazioni, sono patrimonio di tutti, tranne degli architetti che invece si trastullano inseguendo le mutevoli, estenuanti, divagazioni indotte dai potentati economici-politici di turno e che riescono egregiamente a materializzare nell’ architettura febbrile: i cui casuali edifici corrono il rischio incessante di mutarsi in altri, e tutto affermano, negano e confondono come una divinità in delirio

memmo54 ha detto...

Quanto alla opportunità di “uccidere il padre” non è inutile accennare il dramma psicologico che si rappresenta nel cuore dell’architetto: quello di appartenere ad un contesto civile che dimora saldamente dentro di lui, ma essere (… o voler essere… o dover essere ) al contempo in forte dissenso nelle premesse e nelle finalità.
Il dissenso, alla fine del percorso si comprende chiaramente, è solo apparente ed anche il soggetto più individualista, avanzando negli anni, si rende conto di quanto le sue abitudini, i suoi pensieri, le sue aspirazioni, siano irrimediabilmente “sociali” : “comuni” a tutti gli altri uomini.
Il problema comincia a prendere una delle soluzioni possibili quando lo si vede come l’ affrancazione dal padre-padrone, rappresentato inconsciamente della società, che per “l’adolescente” (…l’architetto moderno non riesce mai a superare questa età mentale, nemmeno verso gli ottant’anni… ) è il passo necessario all’affermazione della propria personalità.
Normalmente, quando la società-padre ( come nel nostro caso ) non reagisce o reagisce blandamente, sopravviene la riconciliazione con la conseguente maturazione dell’individuo-figlio che diviene un individuo completo a tutto tondo e membro a pieno titolo della società.
Ciò, purtroppo, nella psicologia dell’architetto moderno accade rarissimamente: più spesso si trastulla in una serie infinita di capricci e ripulsioni in muratura dei quali spesso disconosce, ad anni di distanza, necessità e validità: con quel nostalgico imbarazzo con cui si rammentano bizze e ripicche infantili o gli amori giovanili.
L’individuo-figlio non cresce ma si acconcia nella sua scomoda/comoda posizione da cui tenta seriamente di ricostruire da zero il proprio quadro culturale e logico mediante l’invenzione di un linguaggio nuovo ( per quanto gli è possibile) o “seminuovo” ricorrendo ad altri “precursori preferiti” di cui valuta ed apprezza soprattutto l’atteggiamento verso la società.
Lo sforzo è titanico e destinato alla sconfitta.
La società che, benigna o distratta, li ha accolti e nutriti paga, senza entusiasmo, le rovinose conseguenze sparse per il territorio.

Pietro Pagliardini ha detto...

memmo54, avrei voluto descrivere io il ripetersi nel tempo e nello spazio degli eventi umani come li hai descritti te.
Quindi non c'è risposta possibile da parte mia.
Ciao
Piero

Linea che Rem e Vitruvio eran fratelli se non ve ne siete accorti... ha detto...

Sì, in effetti la cultura a cui appartiene il Vitruvio era rispettosissima delle tradizioni, dei contesti. Che dico, contesti? Genius loci! Talmente rispettosa che appena arrivavano di fronte a ‘na landa da dominà pigliavano i loro bei quadrati e ne piazzavano la diagonale rispetto la massima pendenza e vai! Finchè non trovi il mare o un fiume: quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati- quadrati-quadrati-quadrati-quadrati- quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati-quadrati... Tradotto: vaffanculo in contesto! Uhm… ‘petta… ma il contesto esisteva? Macchè, il contesto è ‘na roba inventata più o meno cinquant’anni fa… prima è mai esistito il contesto. Cazzarola bisognerebbe dirlo al Rem, lui, poveraccio, pensa d’aver detto ‘na genialata e invece ha mandato a fanculo sì e no 50anni di burocratica-democrazia-contestuale. Però, cavolo, bisognerebbe dirlo pure agli amanti del Genius Loci che il genius l’è minuscolo e pure relativista (embè, moderno è).
Ma… domanda, perché le città e il modo di insediarsi medievale e quello... e quello... e quello... niente... solo quello medievale pare in equilibrio col paesaggio. Dal Rinascimento in poi è ripartita la dominazione della natura, interrotta dalla breve parentesi medievale (e a ‘sto punto il medioevo va visto per quello che è: ‘na semplice eccezione al destino dominatorio dell’Occidente) per arrivare sino ai giorni nostri in cui l’uomo decide che far più o meno quello che gli pare, tanto la tecnica è talmente potente che glielo permette (e pure il gusto). Senonchè… ci sta il surriscaldamento globale, ci stanno sette miliardi di individui che diverranno dieci a metà del secolo, ci sta la voglia di continuare a produrre perché io mica voglio morire più povero di mio padre. E quindi? Vadano pure a fanculo le tradizioni, il gusto unico, gli spazi aperti dilatati e mai progettati dal modernismo, i muri che vorrebbero star in piedi cent’anni e vada pure a fanculo Vitruvio che di contesto non ne capiva ‘na mazza e vadano pure a fanculo le sue venustas-bla-bla-bla…. Io muri e gli edifici li voglio più vicini tra loro ma dopo diec’anni che siano fuori moda! e dopo trenta, da tirar giù! (Ovviamente tutti progettati secondo la burocratica-democrazia-contestuale-con-numerose-eccezioni sennò chi glielo spiega a Bepi-leghista-tradizionalista che la casa non va colorata di verde?).

Robert

Salvatore D'Agostino ha detto...

Robert,
non dirlo a Pietro.
Io ho sempre trovato una pazzia semantica il nome di questo blog con le teorie incerte ‘tradizionaliste’.
Incerte perché:
ama citare il new urbanism relazionadolo con la Poundbury di Leon Krier, come dire il diavolo e l’acqua santa;
mischiando i pattern di Christopher Alexander con gli ideogrammi di Saverio Muratori, anche qui come dire ‘tutto il mondo è paese’;
appoggiando in modo incondizionato Nikos Salingaros e la sua teoria dei frattali aiutandosi con i sermoni di Camillo Langone ambedue non architetti con una critica analogica infantile dell’architettura ‘mamma guarda un ufo, un cubo, un palazzetto dello sport’;
con qualche eccitante post di Giulio Rupi e Ettore Maria Mazzola il primo sembra scoprire ogni volta l’acqua calda il secondo, ti confesso, è molto acuto ma lobotomizzato dalla cultura ‘antichista’.
Non solo il nostro Vitruvio è stato il primo a teorizzare la ‘Tabula rasa’ ma anche il primo a costruire il manuale del bravo tecnico e tu sai bene che danno fanno i manuali negli studi dei nostri geometri-ingegneri-architetti italiani.
Soprattutto non dire a Pietro l’influenza dell’architettura romana nell’architettura di Le Corbuiser.
«Vitruvio non fu un genio, né ebbe particolari doti di letterato o, per meglio dire, a quanto ne sappiamo, di architetto. L’importanza del suo trattato consiste nel fatto che esso compendia e trasmette ai posteri un’immensa quantità di dati sull’edilizia tradizionale dell’antichità, codificando la tecnica con esempi e note di carattere storico»
John Summerson, Il linguaggio classico dell’architettura, Einaudi, p.7
Saluti,
Salvatore D’Agostino

Pietro Pagliardini ha detto...

robert, che l'urbanistica romana sia di tipo imperiale e imperialista non v'è dubbio. E ti dico anche che, personalmente, sono convinto che l'appropriazione della natura da parte dell'uomo sia elemento fondamentale della storia dell'occidente. Sai, l'occidente non era relativista, aveva idee molto chiare sul da farsi.
Che sulla città romana, su tutte le città romane, si sia sovrapposta la città che noi oggi conosciamo è altrettanto vero e sono queste le stratificazioni di cui parlo.
Ma appropriarsi della natura non significa ignorarla, significa piegarla a quelle che sono ritenute le proprie necessità: non sono stati spianati i colli, se non necessario, sono stati deviati i corsi d'acqua, se necessario, ma non si è mai fatto finta che non esistesse l'orografia, non sarebbe stato possibile.
Tu immagini:
che la città medioevale sia un incidente di percorso, forse perché ancora pensi ai secoli bui; ma quella città è la città europea, volenti o nolenti;
che le epoche successive abbiano non tenuto conto di ciò che esisteva, e commetti un altro sbaglio, perché l'hanno tenuto in assoluto conto, magari superandolo e adattandolo alla propria cultura.
Ma qui si parla di IGNORARE TUTTO QUANTO C'E', di fare finta che non esista niente, non c'è nessuna idea imperiale dietro, perché non c'è l'impero.
Qui siamo di fronte ad un niente che ignora il tanto che c'è.
Lascia perdere Rem Koolhaas, non ti fare incantare dai suoi discorsi di marketing. Rem Koolhaas sa benissimo, perché l'ha scritto, della superiorità del passato rispetto al presente in campo urbano, solo che se ne frega perché quello è il suo lavoro e il suo successo.
Non è Koolhaas l'alternativa al niente.
Ciao
Pietro

Linea del Portafoglio... ha detto...

io incantato da koolhaas? ma va! :-))))))

ettore maria ha detto...

Crao Salvatore,
ti ringrazio per l'"acuto", ma devo deluderti sul mio essere "troppo lobotomizzato dalla cultura antichista".
La mia formazione, come quella di tutti noi è modernista: il mio professore di composizione 1 è stato Vieri Quilici, il cui assistente Francesco Ghio (il compagno di merende e di università di Rutelli e Garofalo, ovvero il responsabile delle scelte discutibili in campo urbanistico della capitale), il quale mi IMPOSE di progettare ispirandomi alla Villa Savoye nel centro di Roma; l'esame di Composizione 2 l'ho fatto con Alessandro Orlandi, con cui progettai degli edifici residenziali ad Acilia, Progettazione Architettonica 1 lo feci con Gianfranco Moneta (Muratoriano-Caniggiano e soprattutto Zeviano), il quale è stato l'unico a darmi carta bianca perché apprezzava molto il mio lavoro di ricerca applicato alla progettazione (quando feci l'esame mi confessò che era la prima volta in vita sua che dava un 30 e lode, poi, nonostante fossi uno studente, mi chiese di fargli da assistente e perfino di revisionare i progetti dei suoi due figli), Progettazione 2 l'ho fatta con Carlo Aymonino, avendo come assistente Paolo Desideri prima e Mary Angelini poi (esperienza abominevole dove mi è stato dato un 29 punitivo perché mi ero rifiutato di piegarmi all'imposizione ideologica). Storia dell'Architettura 2 l'ho data con Carlo Severati, un personaggio il cui unico interesse è il modernismo, tant'è che nonostante il corso prevedesse di coprire la storia dal rinascimento al contemporaneo, lui faceva studiare solo ed esclusivamente l'architettura contemporanea da Zevi e Frampton ... fortunatamente avevo già dall'epoca dell'Istituto d'Arte una conoscenza della storia dell'architettura con la A maiuscola.
Pertanto, sapendo che la cosa non ti farà piacere, devo dirti che più che lobotomizzato dall'antichismo, mi sento un immunizzato dalla lobotomia modernista che mi è stata tentata in tutti i modi ... la profilassi non è stata di origine antichista, ma basata sul mio interesse per la Sociologia Urbana (mi sento un fortunato ad aver fatto l'esame fuori sede che poi è stato vietato). Nell'esperienza professionale mi piace confrontarmi con i luoghi in cui lavoro, rifiutando l'idea di un linguaggio universale e accettando la sfida di rinnovarmi costantemente nel confronto e la continuità nella tradizione locale che il tempo ha dimostrato valida. Se ti è capitato di leggere il mio articolo su "il Tempo" relativamente alla proposta di Salìngaros sull'arco di Libera all'Eur, dovresti aver capito il mio grado di apertura.
Lavoro anche nel campo del restauro, dell'antico come del moderno, ed ogni volta cerco di fare ciò che è meglio per l'edificio evitando di pensare al mio "ego". Per la cronaca, sono stato il primo ad utilizzare a Roma la tecnica dell'elettro osmosi attiva nel restauro del convento di Sant'Alessio all'Aventino (pubblicato su Costruire nel lontano '97)... quindi non credo di essere tanto obsoleto

Cordialmente
Ettore

Salvatore D'Agostino ha detto...

---> Ettore Maria Mazzola,
No! Non sei obsoleto.
Il mio lobotomizzato era ironico.
Riconosco nei tuoi commenti una profondità storica e critica.
Non condivido il tuo punto di vista ‘antichista’ poiché un edificio non è solo una questione ‘tecnica’. Ogni manufatto deve saper dialogare con il suo avventore ‘temporaneo’ (poiché l’essere umano non dura in eterno).
Ogni edificio ha un ‘ego’ anche la casetta a schiera in muratura abitata umilmente racconta una storia.
Nel momento che l’edificio cambia ‘ego’ deve saper mutare in modo intelligente altrimenti si rischia di dimenticarsi la storia e la bellezza delle città italiane cioè la sua straordinaria stratificazione linguistica.
Non esiste un edificio storico ‘originale’ poiché abitandolo, si trasforma.
Ciò che trovo debole nel tuo pensiero è proprio questa falsa modestia o timidezza dell’architettura.
Io amo la parte michelangioloscesca, meno quella Berniniana, di San Pietro.
Adoro le superfetazioni sul ponte vasariano di Firenze (architettura abusiva).
Il tuo presunto antico non è assolutamente ‘umile’ che sia esso il colonnato di Bernini o il taglio di Vasari o il bottegaio abusivo.
Le più belle città italiane (quelle che antichizzi come norma) sono distopiche, costruite con il gusto dell’agone spesso politico/religioso.
Soprattutto non condivido l’idea di un’urbanistica italiana ‘modernista’ poiché credo che occorra ancora scrivere questo libro e la sua variante tutta italiana del ‘moderno’.
Anch’io sono molto critico sulle leggi urbanistiche e sul modernismo geometrizzato (costruito da geometri o da ingegneri/architetti geometri nell’anima) delle nostre città.
Le città italiane hanno bisogno d’intelligenza e coraggio ‘costruttivo’in questo senso ben venga la tua sapienza ‘antichista’ per le ricostruzione filologiche ma per il resto occorre costruire seguendo lo spirito del tempo come ci hanno insegnato Michelangelo, Bernini, Vasari, Palladio, Antonelli, Mollino, Scarpa, De Carlo altrimenti si rischia il postmoderno edulcorato di Aymonino/Rossi o nel tuo caso il postantico.
Che sia chiaro gli architetti citati conoscevano bene la storia ‘materica’ dell’architettura.
La mia è un’idea opinabile per questo ne possiamo discutere abbandonando le faziosità e la sacralità (da manuale del buon architetto) dell’architettura.
Non vorrei essere assertivo ma non credo nella verità in architettura.
Per me l’architettura si pratica non si teorizza.
Saluti,
Salvatore D’Agostino

P.S.: Questo è il tuo articolo sull’arco di Libera ---> http://iltempo.ilsole24ore.com/spettacoli/2010/02/21/1129496-arco_libera_illumini.shtml ?

Linea del Po ha detto...

ettore... io non sarei mica così tanto sicuro che qui dentro si sia studiato tutti da modernisti come te. oltretutto penso che più si va verso roma a e più lo si senta 'sto supposto contrasto tra le due "anime".
comunque, se avessi letto il tuo commento prima di domenica mi sa che avrei votato lega. ma cazzarola... con tutti i problemi che ha la capitale possibile che vi occupiate di teche di meier, di ascensori dietro all'altare, archi di libera e padiglioni mai costruiti?

robert

ettore maria ha detto...

Caro Robert,
e cosa ho detto di così grave da farti arrivare a pensare di votare Lega?

E poi che c'entra la politica in tutto ciò? Io da una decina di anni sono abbastanza allergico alla politica.

Penso sia giusto che a Roma ci si ponga il problema degli edifici che menzioni, poiché porsi dei problemi per il bene della città significa pensare alla collettività piuttosto che ai singoli. Per quanto riguarda l'arco di Libera, il mio parere mi è stato chiesto (diversamente non mi sarei mai posto il problema) perché Nikos Salìngaros aveva fatto una provocazione cui è seguito una sorta di referendum, così ho voluto chiarire quella che per me, e per molti "tradizionalisti", è la posizione di rispetto relativamente ad un contesto urbano coerente, che sia antico o che sia modernista, tant'è che l'articolo sull'arco riguarda solo la metà del pensiero, che è stato pubblicato a parte sempre da "il Tempo", e che riguarda una serie di edifici, soprattutto cupole mai realizzate, da Brasini, e che potrebbe tornare utile realizzare per vari motivi che spiego nel pezzo. Se provocazione deve essere, allora che sia costruttiva ... mi auguro che adesso to non vada far riconteggiare le schede elettorali!
Cordialmente
Ettore

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