Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


19 luglio 2009

DIETRO IL MODERNISMO: ALCUNE VERITA' NASCOSTE

di Ettore Maria Mazzola
The University of Notre Dame
School of Architecture
Rome Studies Program


INTRODUZIONE
Unanimemente, la nascita dell’Architettura e dell’urbanistica modernista è fatta risalire al IV CIAM tenutosi ad Atene nell’agosto del 1933, in realtà a bordo del Piroscafo Patris I partito da Marsiglia, e lì tornato dopo aver fatto scalo in Grecia per redigere “La Carta”.
Quella Carta, per volontà dei suoi autori, specie di Le Corbusier, divenne una sorta di “Bibbia” per gli architetti e i legislatori, portando così le città di tutto il mondo a perdere ogni possibile relazione con la sana tradizione che aveva sovrinteso al loro sviluppo millenario. Quella tradizione, fatta di architettura monumentale e “minore”, nobile e vernacolare, a seconda delle condizioni climatiche, orografiche, culturali, religiose, ecc. aveva fatto sì che ogni popolazione sviluppasse una sorta di “dialetto” architettonico-urbanistico che, nel tempo, è stato in grado di affinarsi e di definire l’identità dei luoghi e la capacità degli individui – e dell’intera collettività – di riconoscersi come appartenenti a quei luoghi. L’imposizione di un linguaggio unico, e quindi spersonalizzante, di forme, proporzioni basate su ipotetici modelli matematici lontani dalle reali esigenze umane, ha fatto sì che le città del XX secolo, e le singole architetture, abbiano perduto ogni possibile relazione con l’uomo, cercando di celebrare, in maniera sempre più astrusa, la presunta civiltà tecnologica.


Oggi, il risultato dell’imposizione di questa visione modernista della città, ci deve far riflettere sul fatto che l’utopia della “città funzionale” ha fallito in toto. Le ripercussioni socio-economiche ed ecologiche di quella visione ci dimostrano che il sogno di rendere funzionale e ordinata la città era viziato da una ideologia fuori da ogni logica.

Del resto è difficile poter pensare che delle città, ritenute “funzionanti” per più di duemila anni, non potessero essere ancora valide. Probabilmente si sarebbe dovuto ragionare in maniera meno radicale, per poter consentire un uso dell’automobile al loro interno, ma non di certo si doveva pensare tutto in funzione dell’autotrazione.

Né tantomeno si può accettare che delle città, cresciute su sé stesse per duemila anni nel rispetto del delicato rapporto città-campagna, nonché l’esigenza di avere tutto a portata di mano, si siano dovute ripensare in nome della zonizzazione: aver separato le funzioni, aver aumentato le distanze, aver ragionato per griglie urbane e regole assolute, aver dimensionato il tutto su degli standard numerici piuttosto che sulle dimensioni a scala umana, ha portato le città a raggiungere dimensioni, costi e mancanza di sicurezza che mai in passato si erano raggiunti.

Oggi diviene sempre più difficile poter pensare di restaurare il rapporto città-campagna, e all’interno delle città quello tra l’edificato e gli esseri umani, questo perché tutta la normativa che è venuta dopo il 1933 si è fondata su quelle certezze assolute.
In Italia le varie leggi urbanistiche si sono basate su quelle teorie e, ancora oggi, la 1150/42, la 167/62 e i DPR 1404 e 1444/68 la fanno da padrone. È difficile pensare di poter cambiare le cose se chi legifera continua a ragionare in funzione di quelle norme, ma soprattutto di quell’ideologia. Probabilmente bisognerebbe iniziare a riscoprire una serie di norme, codici, regolamenti e statuti precedenti quello sciagurato 1933, studiarle opportunamente e comprendere come possano adattarsi al vivere contemporaneo e ad alcune norme recenti degne di essere prese in considerazione, poiché, come diceva Edmund Burke,
«Una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta».

Tornando al IV Ciam, e al fatto che esso è unanimemente riconosciuto come il principio del Modernismo, ciò che non si sa, o che è pochissimo conosciuto, è come andarono le cose, e quando, da chi e come venne redatta “la Carta” da cui oggi tutta la disciplina architettonica dipende.
La conoscenza di quegli eventi, penso, potrebbe aiutarci a capire chi ci ha portati alla situazione odierna e perché, e soprattutto se è giusto continuare su questa strada. Tutti, modernisti ed amanti della tradizione, si lamentano della situazione contemporanea; tanti criticano, più sulla base del proprio sentimento, ciò che non funziona della città funzionalista, ma nessuno ha il coraggio di documentare storicamente il problema e gli eventuali responsabili, forse a causa del timore di essere messo alla berlina, oppure condannato per aver osato mettere in discussione i mostri sacri della nostra professione. Così mi permetto di fare un po’ di chiarezza, nella speranza che ci si unisca al fine di rivedere tutta la normativa urbanistica che è stata prodotta a seguito di quel malaugurato “viaggio” del ’33!

GLI ASPETTI POCO NOTI IV C.I.A.M.
Il 29 luglio del 1933 dal porto di Marsiglia partiva il Piroscafo Patris I con direzione Pireo. Non si trattava di un semplice viaggio, ma di una “charrette”(1) galleggiante che doveva compiere un “duplice” viaggio, reale e metaforico: il primo, Marsiglia-Atene-Marsiglia, il secondo era invece il viaggio alla ricerca di una città più abitabile, “funzionale e radiosa”.
Il “viaggio” del IV Congresso Internazionale di Architettura Moderna, “traghettò” i partecipanti sulle coste Greche, ma anche verso una città funzionale, ovvero l’oggetto delle loro discussioni e del testo conclusivo del Congresso: la Carta.

Che le cose fossero in parte decise a priori, c’era da aspettarselo se, già nel 1931, nelle Direttive Preparatorie del Congresso si poteva leggere: “Il Congresso ha preferito il metodo materialistico-deduttivo a quello idealistico-induttivo, come unica base possibile di un’attività collettiva e di conseguenza per lo svolgimento di Congressi di lavoro”(2). In aggiunta a ciò, è bene sapere che, una volta a bordo, i partecipanti si trovarono a dover discutere di 33 diverse città, i cui pannelli esplicativi erano tutti stati preparati in base ad un’unica chiave ideologica di lettura fondata sul metodo imposto a priori. Va da sé che quella chiave di lettura, e quindi il pesante giudizio critico sulla città storica, fosse semplicemente un dato da ratificare. Tant’è che, in aggiunta alle 33 città “non funzionanti”, ce n’era una trentaquattresima città nuova prefigurata: la città funzionale(3)!
Il Punto 71 della Carta infatti confermerà che «Le città studiate per il IV CIAM hanno tutte lo stesso carattere di disordine e non soddisfano i bisogni psicologici e biologici dell'uomo».
In poche parole, si vedrà, si voleva dimostrare la validità delle teorie Le Corbusieriane della La Ville Contemporaine pour 3 Millions d'Habitants, e del Plan Voisine (che una volta rafforzate dal IV CIAM dovevano essere, da Le Corbusier stesso, tradotte nella Ville Radieuse del ‘35), che in quei giorni venivano ad essere applicate ai piani di Amsterdam e Barcellona: l’obiettivo era di trasformarle in regole universali, regole cioè da adottare a tutta l’urbanistica futura. … con grande piacere dell’industria automobilistica (p. es. Voisine) che già aveva sponsorizzato quelle idee … ma questo non verrà mai suggerito, né tantomeno ipotizzato da nessuno storico dell’architettura.

Dai lavori scaturirono delle “Risoluzioni Finali” che portarono alla stesura della “Carta”. I capitoli dedicati alle Osservazioni, sintetizzavano il lavoro analitico svolto e, come ovvio, denunciavano i “mali della città contemporanea da affrontare e risolvere”; invece, i successivi paragrafi affrontavano i modi per “Il faut exiger” (“bisogna esigere”), enunciando i principi da seguire per raggiungere una città funzionale: dei dogmi inconfutabili che, già nel titolo, si presentavano come l’imposizione dittatoriale di una presunta élite di pensatori esperti.
A conferma del fatto che si stessero cercando delle giustificazioni a dei giudizi e dei criteri decisi a priori, c’è uno scritto degli Spagnoli del G.A.T.E.P.A.C.(4) su “AC”:
«È straordinaria l’importanza dei documenti riuniti, forse ancor maggiore del materiale di base dei Congressi di Francoforte (Residenz Minimum) e di Bruxelles (Lottizzazione Razionale). Per la prima volta si può fare uno studio comparato dell’evoluzione storica e dello stato attuale delle principali città del mondo […] Il fenomeno urbano appare perfettamente chiaro in questi piani di città. Queste non vi figurano solo come macchie di colore e il loro tracciato non risulta solo come un arabesco più o meno gradevole; questi piani sono qualcosa di espressivo, di organico, in grado di spiegarci il fenomeno vitale di ogni città. L’analisi di questi piani, una volta completata, potrà dar luogo alla conferma delle teorie urbanistiche di questi ultimi anni(5)».

Guarda caso, tra gli elaborati al Congresso, i piani per Barcellona presentati dal GATEPAC vennero considerati una sorta di rivelazione, una vera anticipazione dei principi discussi e codificati ad Atene. Il Piano per la “Barcellona Futura” venne visto da Le Corbusier come una “città funzionale magnifica”, “una città radiosa e contemporanea, coerentemente inserita nel sito al quale appartiene, tra mare e colline”.

Ebbene, non tutto durante il Congresso pare sia andato come si pensava: una parte dell’organizzazione del soggiorno ateniese subì infatti delle modifiche: per esempio, secondo il programma, i congressisti avrebbero dovuto per tre giorni attraversare tutti insieme il Mare Egeo … ma per qualche ragione essi finirono per viaggiare separati in tre gruppi diversi, uno verso le isole Cicladi, un altro verso le isole dell’Argosaronicco e al Peloponneso, un terzo si diresse a Delfi. Alcuni critici hanno evidenziato come questa “separazione” di viaggio sia rappresentativa della diversità di punti di vista e dei disaccordi interni al IV CIAM (6) .
Inoltre, durante il viaggio di ritorno verso Marsiglia, i congressisti avrebbero dovuto redigere un documento unitario sulla CITTÀ FUNZIONALE che riassumesse i lavori preliminari e l’esito del dibattito svolto fin lì. Nel rispetto dell’obiettivo dei primi CIAM, l’idea era quella di stendere il documento in forma prescrittiva, con l’obiettivo di codificare e diffondere i principi dell’urbanistica e dell’architettura moderna, affermando l’autorevolezza del punto di vista modernista … anche questa cosa non andò come da previsione, e questo proprio a causa della difficoltà di “rappacificare” gli animi che si erano accesi per le divergenze evidenziatesi durante il Congresso. Questo venne confermato dallo stesso segretario Giedion, che al Congresso successivo segnalò:

«Esistono nel CIAM due indirizzi tra loro antitetici [...]. Un indirizzo sceglie come punto di partenza una prudente analisi dei fatti e sulla base di essa cerca di arrivare per gradi ad una nuova realtà. [...] Il secondo indirizzo tende a cogliere i problemi in modo globale, come a volo d'uccello, e si esprime con ampie concezioni che si slanciano in avanti. [...] (7)».

Inoltre, è cosa nota, già all’inizio del viaggio di ritorno, a bordo del Patris, davanti alle prime scaramucce il presidente del CIAM, l’olandese Cornelis van Eesteren cercò di riportare ordine e procedere sollecitamente alla redazione del testo conclusivo:
«Senza deliberazioni i nostri lavori non hanno senso. Deliberazione è uguale a resoconto [...] I nostri resoconti sono la cosa più importante. Sarebbe meglio che il Congresso rischiasse delle deliberazioni sbagliate, piuttosto che si perdesse in analisi senza fine (8)».
A cosa si riferiva? Dalle parole di richiamo all’ordine risulta chiaro che non si riusciva a raggiungere un accordo.
Ebbene, durante il viaggio di andata era stata eletta una commissione per la stesura delle risoluzioni finali, e ad Atene era stato distribuito un questionario, articolato secondo le quattro funzioni (abitazione, tempo libero, lavoro, circolazione) con l’aggiunta di una parte sulla città storica. Alla ripartenza per Marsiglia i diversi gruppi nazionali riconsegnarono il questionario. Immediatamente si evidenziò l’assenza di una posizione unitaria, per cui il penultimo giorno di viaggio vennero presentate ai congressisti addirittura tre diverse versioni di un testo conclusivo … Si noti la “strana” coincidenza del numero di versioni con quella dei tre gruppi di viaggiatori nel Mare Egeo di cui si è detto in precedenza! Motivi di disaccordo erano principalmente le questioni della proprietà del suolo, della trama fondiaria(9), (ovvero quelle che premono a chi fa speculazione) e del patrimonio storico. Il 14 agosto, concluso il Congresso, all’arrivo al porto di Marsiglia quasi tutti i componenti della Commissione per le risoluzioni si soffermarono nella città francese, tranne Le Corbusier che lasciò il gruppo. Raggiunto un compromesso, venne redatto un documento titolato Communiqué du Congrès divisé en trois parties(10).

A conferma delle divergenze e difficoltà, c’è la successiva fitta corrispondenza(11), intercorsa tra agosto e dicembre del ‘33, principalmente tra Le Corbusier e Giedion, in cui si discuteva prevalentemente della dimensione politica del lavoro degli architetti e del loro rapporto con le autorità politiche (la necessità di dover esigere!).

Il tempo scorreva, e Le Corbusier voleva a tutti i costi che le risoluzioni venissero presentate, la lettera che egli scrisse a Giedion il 29 agosto è la dimostrazione più evidente dei dissensi, la dimostrazione che tutto quanto fatto non fosse nient’altro che il tentativo di mascherare le teorie personali di Le Corbusier in un qualcosa che dovesse sembrare all’opinione pubblica il risultato “consensuale” di un gruppo e, per estensione, la traduzione in regole urbanistiche del “desiderio comune” dell’uomo moderno! Questa lettera, irriverente, mostra la faccia dispotica di Le Corbusier, ma soprattutto dimostra come egli volesse (forse a causa dei suoi rapporti con la lobby dell’industria automobilistica), far breccia negli ambienti politici in cui si prendono delle decisioni che si tramutano in leggi e codici urbanistici:

«Ascolti Giedion: sono dieci anni che sto di fronte alla realtà. Io so qual è il problema, dove sono le inquietudini, dove sono i freni, dove sono le debolezze, dove sono le buone intenzioni. Io so dove bisogna mirare […] a chi bisogna rivolgersi. Il nostro IV Congresso è un evento. Semplicemente! […] L’ultimo giorno sono state prese delle decisioni accettate da tutti. Esse sono oggettive. Ecco il fatto sensazionale: accordo su delle idee oggettive(12). Sono idee quelle che devono essere poste di fronte all’opinione pubblica. È per questo che il nostro Congresso vive. Se no crepa! Queste idee oggettive saranno una verità del 1933 per tutti, in tutti i paesi. … Non dobbiamo sottrarci. Abbiamo dei doveri: degli architetti ci attendono, dei sindaci, dei ministri: in una parola persone che hanno delle responsabilità. Non si fa un Congresso per affermare delle cose vuote, ma per costruire […] È giunto il momento. Giedion, il mondo brucia. C’è bisogno di certezze. Noi siamo i tecnici dell’architettura moderna […] io chiedo che le risoluzioni siano pubblicate. La forma mi importa poco(13)».

Nonostante tutto, solo a dieci anni dallo svolgimento del congresso, nel 1943 (o forse nel 1941 o ’42 secondo alcuni storici) Le Corbusier, a nome del Gruppo CIAM Francia, pubblicò il volume Urbanisme des CIAM. La Charte d’Aténes(14). In questo modo egli faceva “sue” le constatazioni del IV CIAM, revisionandole e articolandole in 95 punti, ognuno dei quali da lui opportunamente commentato: ciò che era partito da lui, e per il quale si era ardentemente battuto sin dal Città Contemporanea del ‘21, non poteva che essere rielaborato e codificato da lui stesso.
La conoscenza di questa “conclusione dei fatti” non può non gettare ombra sulla ipotizzata comunione di pensiero che si era tentata di sostenere. Infatti, nel 1957, seguì una nuova pubblicazione, La Charte d’Aténes, il cui unico autore era Le Corbusier ... Come ha acutamente sottolineato Pier Giorgio GerosaL'attrazione di un testo collettivo nell'orbita mitologica di una star è diventata opera compiuta(15)”.

Purtroppo era troppo tardi per rimettere in discussione l’idea di quel documento come la sintesi del pensiero e desiderio comune: alla luce di quella che è stata la legislazione mondiale successiva al IV CIAM, e conseguentemente del modo in cui l’architettura e l’urbanistica sono state insegnate nelle università – e messe in pratica dai professionisti di tutto il mondo – dovremmo riconoscere in Le Corbusier la figura di un vero monarca assoluto, un nuovo “Re Sole”, che è stato in grado (nonostante non abbia mai preso una laurea in architettura) di sottomettere l’intera popolazione mondiale al suo ideale di città e di architettura: l’Impero del Modernismo, non avendo confini territoriali riconoscibili, è da ritenersi il più grande impero che sia mai esistito a memoria umana, e il suo leader, Le Corbusier, è l’uomo che ha saputo imporre, incruentamente (se si eccettuano i danni psico-sociali della sua “città funzionale”) la sua egemonia a livello planetario.
È interessante far notare che sia stato lo stesso Le Corbusier a volersi premurare di sottolineare come
«la Carta non fosse l'opera di un individuo ma la conclusione di un'élite di costruttori appassionatamente dedita alla nuova arte di costruire, armata cioè della certezza che la casa degli uomini [...] deve essere riconsiderata [...](16)».

Allargare la “proprietà intellettuale” della Carta, serviva a darle l’immagine di un armonioso pensiero collettivo e condiviso … sebbene limitato ad “un'élite di costruttori” che prescindeva dalle volontà degli “ignorantissimi” comuni mortali che poi avrebbero dovuto vivere in quelle realtà urbane.
A conferma delle gravi ripercussioni che la Carta ha avuto sull’urbanistica planetaria, c’è il discorso di Sigfried Giedion al VI CIAM tenutosi a Bridgwater nel 1947:
«Noi oggi sappiamo che la Carta d'Atene, che nel 1933 ha gettato le basi dell'urbanistica moderna, ha avuto una grande influenza sulle autorità(17)».
Mentre, sulla faziosità che aveva sovrainteso ai lavori del ’33, c’è questa frase di Le Corbusier a far luce:
«La Carta d'Atene apre tutte le porte all'urbanistica dei tempi moderni. È una risposta all'attuale caos delle città (18)».

Questa affermazione la dice lunga anche sulla retorica delle parole di Le Corbusier(19), quando si decise di svolgere i lavori del IV C.I.A.M. in Grecia (inizialmente si era deciso per Mosca): svolgere il congresso ad Atene non significava affatto relazionarsi con la città storica poiché, “per statuto”, il CIAM non intendeva tornare al passato e orientare lo sguardo e il progetto verso una città e un'architettura che non fossero “contemporanee”, eventualmente voleva proprio negare quel “passato” in quanto tale.

La visione terribilmente critica dell’impianto storico delle città discusse dal Congresso, a partire dalla tavola presentata dal GATEPAC riguardo al Piano Cerdà per Barcellona, è la dimostrazione che la maglia urbana storica fosse considerata, a priori, quanto di più insano, confuso e dannoso per la città futura. Infatti, il capitolo conclusivo del Congresso di Fondazione dei CIAM a La Sarraz, e quello della Carta di Atene, ambedue dedicati al “patrimonio storico” erano stati espliciti nel dichiarare il rifiuto dei CIAM a «trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato(20)». Del resto, i teorici del Modernismo si batterono per la necessità di “Azzerare la storia!” e per lo “Zeitgeist” (lo Spirito del Tempo).

Oggi, il risultato dell’imposizione di questa visione modernista della città, ci deve far riflettere sul fatto che l’utopia della “città funzionale” ha fallito in toto. Le ripercussioni socio-economiche ed ecologiche di quella visione ci dimostrano che il sogno di rendere funzionale e ordinata la città era viziato da una ideologia sballata. Del resto è difficile poter pensare che delle città ritenute “funzionanti” per più di duemila anni non potessero essere ancora valide. Probabilmente si sarebbe dovuto ragionare in maniera meno radicale, per poter consentire un uso dell’automobile al loro interno, ma non di certo si doveva pensare tutto in funzione dell’autotrazione. Né tantomeno si può accettare che le città, cresciute su sé stesse per duemila anni rispettando il delicato rapporto città-campagna, nonché l’esigenza di avere tutto a portata di mano, si siano dovute ripensare in nome della zonizzazione. Aver separato le funzioni, aver aumentato le distanze, aver ragionato per griglie urbane e regole assolute, aver dimensionato il tutto su degli standard numerici piuttosto che sulle dimensioni a scala umana, ha portato le città a raggiungere dimensioni, costi e mancanza di sicurezza che mai in passato si erano raggiunti. Oggi diviene sempre più difficile poter pensare di restaurare il rapporto città-campagna, e all’interno delle città, quello tra l’edificato e gli esseri umani, questo perché tutta la normativa che è venuta dopo il 1933 si è fondata su quelle certezze assolute. In Italia le varie leggi urbanistiche si sono basate su quelle teorie, e ancora oggi la 1150/42, la 167/62 e i DPR 1404 e 1444/68 la fanno da padrone. È difficile pensare di poter cambiare le cose se chi legifera continua a ragionare in funzione di quelle norme, ma soprattutto di quell’ideologia. Probabilmente bisognerebbe iniziare a riscoprire una serie di norme, codici, regolamenti e statuti precedenti quello sciagurato 1933, studiarle opportunamente e comprendere come possano adattarsi al vivere contemporaneo e ad alcune norme recenti degne di essere prese in considerazione, poiché, come diceva Edmund Burke,
«Una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta».

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI
La mia critica, in realtà, non è cosa nuova, sin dal Congresso del ’33 qualcuno, molto vicino a Le Corbusier si accorse che ci si stava indirizzando verso un vicolo cieco. Infatti, se proprio i membri del CIAM non avevano alcun interesse ad ascoltare gli architetti che, in quegli stessi anni, stavano lavorando su una modernità rispettosa della tradizione, almeno avrebbero potuto prendere in considerazione le parole contenute nel discorso agli architetti, tenuto ad Atene in quell’agosto del ’33, dal pittore francese, amico di Le Corbusier e membro degli amici dei CIAM, Fernand Léger:
«penso che la vostra epoca eroica sia conclusa […] Lo sforzo di pulizia è terminato. Fermatevi perché state superando il limite [...] Un’élite ha seguito la vostra epoca eroica. È normale. Avete costruito delle case per gente che era all’avanguardia [...] Voi volete invece che le vostre idee si estendano .. che la parola “urbanistica” domini il problema estetico”. [...] “L’urbanistica è sociale. Siete entrati in un campo del tutto nuovo, un campo nel quale le vostre soluzioni pure e radicali dovranno combattere [...] Abbandonate questa minoranza elegante e accondiscendente [...] Il piccolo uomo medio, l’“urbano”, per chiamarlo col suo nome, è preso da vertigini [...] Voi avete creato un fatto architettonico assolutamente nuovo. Ma da un punto di vista urbano-sociale avete esagerato per eccesso di velocità. Se volete fare urbanistica credo dobbiate dimenticare di essere degli artisti. Diventate dei “sociali” [...] tra la vostra concezione estetica, accettata da una minoranza, e la vostra visione urbana, che si trova ovunque in difficoltà per l’incomprensione delle “masse”, c’é una rottura [...] avreste dovuto guardare all’indietro: avreste visto di non avere seguito [...] C’è bisogno che uomini come voi osservino più attentamente uomini che stanno dietro e a fianco di loro e che si attendono qualcosa, [...]. Rimettetevi i vostri piani nelle tasche, scendete nella strada, ascoltate il loro respiro, prendete contatto, confondetevi con la materia prima, camminate nel loro stesso fango e nella stessa polvere(21)»

Purtroppo queste restarono parole al vento, da quel momento in avanti il modo di pensare all’architettura e all’urbanistica era definitivamente cambiato in nome del faut exiger!

NOTE:
(1)Termine originato dalle École des Beaux-Arts di Parigi nel XIX secolo. Il termine charrette è quello usato in francese per "carretto" o "carro": Era ben nota, agli studenti di Architettura della École des Beaux-Arts, la necessità di lavorare intensamente, fino all'ultimo minuto, sulle immagini dei loro progetti … persino mentre si recavano a scuola, con il carretto tirato dal cavallo ("en charrette "), per mostrare i progetti ai loro professori. Da qui il termine ha subito una metamorfosi fino all'uso corrente – in voga specie tra gli architetti “tradizionali” – riferito alla full-immersion che si fa nelle fasi iniziali di una progettazione collettiva.
Il termine charrette è stato applicato storicamente, anche al carro o carretta per il trasporto dei condannati alla ghigliottina. Per esempio: «Une charrette (...) traînait lentement à la guillotine un homme dont personne ne savait le nom» (Anatole France, Les Dieux ont soif, 1912, p. 44). [tr. «un carretto portò lentamente alla ghigliottina un uomo di cui nessuno conosceva il nome»].
Nei secoli XVI, XVII, e XVIII, quando il viaggiare prendeva tempi lunghi, la Charette si riferiva alle lunghe cavalcate in carrozza durante le quali, gruppi di statisti e politici si appartavano al fine di collaborare a trovare una soluzione ad una serie di problematiche prefissate prima del viaggio. Questa interpretazione del termine è quella più simile all'uso corrente applicato al mondo dell’architettura.

(2)IV Congresso internazionale di architettura moderna, Mosca 1932. Direttive per l’esposizione e la pubblicazione: “la città funzionale”, in P. Di Biagi (cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, Officina, Roma 1998, p. 407.

(3)Le tavole per le 33 città sono state tutte elaborate con uguali criteri analitici, le stesse scale, le medesime tecniche di rappresentazione. Il nuovo piano di Amsterdam, (la redazione del quale era oramai giunta alla sua fase conclusiva), era stato il loro modello (a sua volta incentrato sulle precedenti teorie di Le Corbusier): Dall’esperienza olandese erano state messe a punto le istruzioni per i diversi gruppi nazionali per rendere i materiali “facilmente comparabili fra loro e perciò rappresentati in maniera unitaria”. Le direttive per l’esposizione La città funzionale, dicembre 1931, in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, p. 409.

(4)Grupo de Artistas y Técnicos Españoles para el Progreso de la Arquitectura Contemporánea

(5)“AC” (Documentos de Actividad Contemporánea, Publicación del G.A.T.E.P.A.C.) n°11, ora in A.C.: Documentos de Actividad Contemporánea 1931-1937, pp. 146 e 147.
(6)Si veda Yorgos Simeoforidis, I giorni del IV CIAM ad Atene: figure, vicende, ripercussioni.

(7)S. Giedion, Habitations et loisires, “Neue Zürcher Zeitung”, 3.8.1937, citato in H. Syrkus, 1928-1934 La Sarraz e la Varsavia funzionale, in “Parametro” n. 70, 1978, p. 24.

(8)Dal verbale della seduta del 12.8.’33, ora in “Parametro”, n. 52, cit., p. 44.

(9)Cfr. Ugo Ischia, “Si deve poter disporre del suolo quando si tratta dell'interesse generale”, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna.

(10)I CIAM verso Atene: spazio abitabile e città funzionale, Paola Di Biagi, Intervento presentato in occasione del convegno: EL GATCPAC Y SU TIEMPO, política, cultura y arquitectura en los años treinta V Congreso Internacional DOCOMOMO Ibérico, Barcellona, 26 - 29 ottobre 2005.

(11)In Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P.G. Gerosa, p. 440.

(12)Da quanto ho raccontato alla pagine precedente sappiamo bene che non è vero!

(13)in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, pp. 433-434.

(14)Le groupe CIAM-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d’Athènes, Plon, Paris 1943.

(15)P. G. Gerosa, I testi della città funzionale, dai CIAM alla Carta d’Atene (1928-1943). Esplorazioni ermeneutiche ed epistemologiche, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, p. 91.

(16)Le Corbusier, La maison des hommes, in Le groupe Ciam-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d'Athènes, pp. 48-49.

(17)S. Giedion, Des architectes se forment eux-mêmes, in S. Giedion (Hrsg), Dix ans d'architecture contemporaine, Éditions Girsberger, Zürich 1951, Kraus reprint, Nendeln 1979, p. 12.

(18)Le Corbusier, La maison des hommes, p. 48.

(19)Parlando dello spostamento del congresso da Mosca ad Atene disse: «grembo della natura umana, [...] quella terra felice [...] del razionale dove si trovano le misure alla scala umana, alle radici classiche dell’architettura razionale». Le Corbusier, La maison des hommes, in Le Groupe CIAM-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d’Athènes, p. 47

(20)La dichiarazione conclusiva dell’incontro di fondazione dei CIAM a La Sarraz: «Il compito degli architetti è [...] quello di trovare l'accordo con i grandi fatti dell'epoca e con i grandi fini della società cui appartengono e di creare le loro opere in conformità di ciò. Essi rifiutano perciò di trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato». Dichiarazione ufficiale, 28 giugno 1928, in M. De Benedetti, A. Pracchi, Antologia dell'architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1988, p. 574.

(21)F. Léger, Discours aux architectes, “Technika Chronika/Annales Techniques”, n. 44-45-46, 1933, pp. 1160-1161.

25 commenti:

Pietro Pagliardini ha detto...

Ettore, per ora ho solo una domanda da farti, lasciando i commenti a più tardi: si sa o risulta da qualche parte se vi siano stati finanziatori della crociera? Un centinaio di persone per 16 giorni, con una nave a disposizione richiede qualche lira.
Tu accenni a Voisin ma c'è qualcosa di più preciso? Non è indifferente sapere, se c'è stato, chi fosse disposto ad investire.
Oppure ognuno ha pagato di tasca propria?
Saluti
Pietro

Master ha detto...

Ecco che torna di nuovo fuori il tema del complotto internazionale!

da wikipedia:

Il New Urbanism (Nuovo Urbanesimo) è un movimento di Riforma Urbana sviluppatosi negli Stati Uniti negli anni ’80 del XX secolo per opera di Andres Duany, Elizabeth Plater-Zyberk, Peter Calthorpe, Elizabeth Moule, Stefanos Polyzoides, Daniel Solomon, Peter Katz e, oggi, diffuso in tutto il mondo.

Nel 1993 il primo CNU stabilì le basi di questa nuova corrente di pensiero e da allora tutti i personaggi citati sopra hanno guadagnato molti dollari con il New Urbanism andando a costruire e progettare in mezzo mondo... è stato un'ottimo affare!

Biz ha detto...

Buono il pezzo Ettore, ricco ecc.
Però:
la mia impressione è che la critica a quella impostazione urbanistica (e sociale) oggi non sia sufficiente e rischi pure d'essere un "maramaldeggiamento", pertanto poco soddisfacente.
Sul piano teorico è una operazione già compiuta con successo negli anni '80, e pazienza se qualcuno non c'è ancora arrivato.

Il compito vero e difficile oggi mi appare un'altro: è proporre nel vivo una diversa architettura della città partendo dal reale.
Cioè partendo dalle nostre città, e dalla rete territoriale di esse così come sono oggi, e ripensare un riassetto.
In questo senso, serve a ben poco anche la proposizione di modelli di espansione e nuovi quartieri; serve a ben poco considerare pezzi di città come fossero autosufficienti, sistemi chiusi, ecc.
La ricerca, su questo piano, non è sufficientemente potente e precisata.
E' in gran parte un lavoro da fare.

ettore maria ha detto...

Caro Pietro,

ci sto lavorando su, anche se sono molto sospettoso. Preferirei parlare con dati inconfutabili in mano. Ovviamente verrai informato.
Intanto sto lavorando ad un programma di cui ti parlerò in privato.
Per il momento spero che questo articolo serva a chiarire le idee a tante persone. Ho scelto la via del blog perchè chi vi si affaccia è costretto a leggere, mentre gli architetti hanno il vizio di sfogliare i libri guardando le immagini e, al massimo, si limitano a leggere le didascalie delle foto. La conoscenza dei fatti, di qualsiasi genere, è assolutamente indispensabile per poter evitare raggiri.

Pietro Pagliardini ha detto...

biz, Mazzola ti risponderà come crede. Per parte mia dico che se qualcuno, ma direi molti, ma direi la maggioranza, non c'è arrivato non basta dire pazienza, bisogna battere e ribattere perché i piani si fanno tutti i giorni e si fanno ancora con quella filosofia progettuale. Ne ho la prova nella mia città: pilotis, strade a cul de sac, nessuna lettura della trama viaria nè gerarchizzazione stradale, ecc.
E questo avviene proprio nelle situazioni di trasformazione urbana; figuriamoci cosa accadrà nei nuovi insediamenti!
Io sono convinto che non dobbiamo commettere l'errore di aver paura di rimanere indietro, perché la cultura dominante è molto, ma molto più indietro ancora!
Ciao
Pietro

ettore maria ha detto...

Caro Master,

non capisco perché faccia certi riferimenti al New Urbanism e al complotto internazionale.
Nel mio articolo credo di aver dato dei dati inconfutabili che non sono il frutto di una mia lettura personale mirante a dimostrare un complotto internazionale, semmai servono a far capire che si stanno seguendo i dettami di un'unica persona mascherati da un presunto pubblico consenso. Mi sembra che quando si arrivi a dimostrare qualcosa ci siano persone che si divertano a confondere le acque per evitare di ammettere l'evidenza. Quanto al New Urbanism, il mio pezzo non ha nulla a che fare con esso.
A Biz dico che senz'altro bisognerebbe passare alla fase 2, cioè pianificare un sistema per "qualificare" o "riqualificare" le città, ne ho parlato in alcuni miei libri e lo faccio con i miei studenti. Sto per pubblicare un libro più dettagliato in materia, però prima sarebbe il caso di creare una sensibilizzazione al problema, e l'argomento storico è quello più adatto a far comprendere le cose reali.
Cordialmente
Ettore Maria Mazzola

Master ha detto...

Dare a Le Corbusier la colpa di aver imposto il proprio punto di vista e la propria architettura è come ho già detto irrazionale e infantile, presuppone che tutti gli architetti che sono venuti dopo siano stati condizionati e non abbiano avuto un senso critico, cosa che invece la realtà dei fatti smentisce.
Un architetto che ha idee nuove e magari rivoluzionarie, che riesce imporre una moda o una tendenza normalmente ha un certo seguito e diventa anche ricco, cosa che è accaduta a Le Corbusier e anche allo studio DPZ per il New Urbanism. Le mode però passano e rimangono invece gli architetti intelligenti che progettano con la testa e non con le mode come tanti che oggi propongono un'architettura contemporanea (non modernista che è una moda finita 20 anni fa). Le Corbusier è stato indubbiamente uno dei più grandi architetti della storia ma ha anche lui cavalcato mode che sono oggi usate per screditarlo.

ettore maria ha detto...

Caro Master,
mi chiedo se tu leggi o ti limiti a sfogliare gli articoli.
Come puoi parlare di irrazionale ed infantile davanti a dati indiscutibili. Se hai notato, anche un amico del tuo "divino" Corbu aveva ammonito lui e i suoi amici. Che tu voglia o meno accettarlo, la teoria è partita da lui - ben foraggiata dall'industria automobilistica -e poi grazie agli interessi in gioco è stata gradatamente imposta come una volontà comune. Mi rendo conto che chiunque un giorno venisse a scoprire di essere figlio di Jack lo Squartatore non accetterebbe mai che ciò possa essere vero, tuttavia la realtà dei fatti è quella. Possiamo vivere con due fette di prosciutto sugli occhi, ma prima o poi le fette si seccheranno e cadranno in putrefazione. ... Hai mai provato ad applicare al tuo modo di vedere la teoria Platonica del Mito della Grotta?
Per quanto attiene DPZ, sappi che originariamente erano modernisti, lavoravano per Arquitectonica, poi hanno messo giudizio. In ogni modo non tutto ciò che viene da NU è buono secondo il mio modo di vedere. Può essere valido in USA, ma non certamente in Italia ed Europa

Biz ha detto...

Secondo me Master non ha tutti i torti, lo dico anche come ulteriore replica.
Perchè LC è stato leader di una concezione che aveva ampi riscontri, sia nella società, sia nel mondo culturale, che in quello dell'establishment. (riguardo quest'ultimo aspetto mi pare pure furviante alludere eccessivamente al presunto "bolscevismo" di LC, come pure taluni fanno).
E non è che, smentendo LC sul piano teorico, si rimuova il problema. LC era solo - in un certo momento storico - la punta di un immenso iceberg (per usare una frase fatta).
Parlare oggi di città e territorio ponendo la mobilità individuale automobilistica come variabile da ridurre, togliere alla circolazione automobilistica la centralità di importanza, è molto difficile.
Sia perchè tutti ci siamo abituati; sia perchè i fortissimi interessi economici legati a questo aspetto sono ancora vivi (a differenza di LC che è morto e sepolto).
Saluti

Pietro Pagliardini ha detto...

biz, il problema non è il "presunto bolscevismo" ma la "certezza antidemocratica" di LC. Questa non è un'affermazione mia generica ma documentata da diversi autori, tra cui Tentori, e, soprattutto, reperibile nei suoi scritti, dai suoi atteggiamenti e dalla sua ideologia urbanistica. E riguardo a questa, l'automobile è solo il punto di partenza ma l'arrivo è ben più complicato e distruttivo: è la rottura dell'integrità della città che non nasce da una realistica presa d'atto di una situazione sociale ed economica mutata, cui avrebbe potuto seguire una riflessione e la proposta di soluzioni, quanto la fede cieca nelle proprie convinzioni di parcellizzare la vita umana in "funzioni" diverse, staccate e separate l'una dall'altra (lavorare, abitare, ecc) assimilando l'uomo ad una macchina da cui segue, come in un teorema, il trattare la città come una fabbrica, a reparti di lavorazione diversi. E' una visione della vita dell'uomo, e quindi della città, che io contesto, che LC non ha interpretato ma ha sposato entusiasticamente, esaltato e teorizzato, divenendo il simbolo stesso della zonizzazione e della fine della città. LC non era bolscevico ma era pronto ad appoggiare qualsiasi governo autoritario che gli avesse permesso di attuare le sue idee. E questo è scritto nelle sue lettere, nei suoi libri, nei suoi progetti nella sua storia.
Tu che segui il blog avrai trovato diversi post con riportati brani di LC da cui si ricava la visione di una società governata dagli "esperti" e dove i cittadini devono solo seguire le loro indicazioni. La visione politica di Lc è di tipo platonico, del Platone de La Repubblica, l'esatto contrario della società aperta che è l'espressione vera della modernità. Purtroppo questa è la forma mentis anche di molti architetti, anche giovani, perché la visione banalmente elitaria ed autoreferenziale è insegnata nelle università da subito.
Che LC non fosse l'unico è certamente vero ma che sia quello che più ha informato di sè la cultura degli architetti è altrettanto vero.
Insisto nella mia idea che mettere in discussione LC è il primo passo per rivedere dalle fondamenta l'urbanistica moderna e contemporanea.
Ciao
Pietro

Biz ha detto...

Si Pietro, è giusto quello che dici.
Voglio solo far notare che anche oggi è vivissimo, magari senza troppo clamore, questa concezione sociale ... gli esperti, i grandi ... G8, Aspen institute, e via dicendo. Si dice: "siete liberi", ma si tace il resto della frase "siete liberi di circolare nel circuito che gli esperti hanno preordinato".
E si continua a organizzare il territorio attraverso una strutturazione sempre più rigida e dipendente da questa preordinazione: i grandi poli urbani, i grandi assi di comunicazione (tra i nuovi, il treno alta velocità).
E' come se ci fosse - secondo me c'è - una ben precisa e tacita volontà di rendere le persone pedine totalmente dipendente da meccanismi di cui pochi tengono le fila.
Il resto, è l'ordine del territorio del "mercato" : quartieri pluripiano disurbani nelle grandi città, quartieri disurbani a villette (per quelli un po' più ricchi), zone per l'elite (nel modello italiano, parte dei centri storici riadattate, o le zone collinari attorno alle grandi città).
In questo senso, mi pare che le questioni su cui occorra porre l'attenzione siano diverse; e forse, per chiarirle non è molto utile attaccare l'idolo, ormai caduto, un reperto del passato, l'idolo Le Corbusier.

Master ha detto...

Mi accorgo quando le persone vogliono imporre il proprio pensiero dal fatto che spesso mettono in bocca alla genete parole che non hanno detto.
Io non considero Le Corbusier "divino" come dice Ettore Maria, tanto più che nel mio ultimo commento ho detto che pur essendo un grande architetto ha cavalcato mode per farsi una fama. Probabilmente quindi non sono certo io ad avere "fette prosciutto sugli occhi" (espressione che non sentivo da quando andavo alle elementari).
Quanto a DPZ se fossero rimasti anonimi architetti contemporanei non avrebbero fatto tanti soldi come invece è successo creando la moda del New Urbanism. Oggi chi crea mode diventa ricco! Tanto di cappello quindi.

LineadiSenso ha detto...

posso fare una domanda ettore? ma cosa insegni alla notre dame?

robert

Pietro Pagliardini ha detto...

Posso fare una domanda a robert: faresti la stessa domanda a Fuksas?

Lineacheilpostinosuonasempre2volte ha detto...

se mi dovesse incuriosire cosa insegna (sempre che insegni) fuksas, sì, ma ne dubito...

questa domanda era semplicemente legata al fatto che cercavo di capire se è uno storico o un progettista. in alcuni casi le due cose si sovrappongono ma si rischia di produrre cattiva storia e cattiva architettura. altre volte un approccio parzialmente storico può servire come "base" per corsi tecnico-teorici e allora diventa operativa e non è più autonoma... potevo dilungarmi nelle supposizioni e continuare ad incuriosirmi. ho semplicemente deciso di suonare il campanello e chiedere.

posso farti io una domanda, pietro?

1 secondo te c'erano delle escort (non le ford) nel viaggio del 33? e se sì, chi le ha pagate? e se sì, che vi siano tuttora delle registrazioni? e se sì, che si possa metterle su youtube?

robert

Pietro Pagliardini ha detto...

No robert, sul piroscafo per certo c'erano alcune mogli, quindi suppongo che vi sia stata prudenza. E poi, come puoi pensare che persone di così specchiata dirittura morale e intellettuale possano pensare a quelle cose? Questi avevano un'alta missione da compiere, mica storie!!!
La mia pruderie si ferma al fatto su chi abbia pagato il biglietto.
Ciao
Pietro

ettore maria ha detto...

Caro Robert,
mi dispiace che alcuni miei commenti non siano stati pubblicati, perché ci sarebbero state già delle risposte. In ogni modo, nel primo semestre insegno due corsi, Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica di Roma Antica e Progettazione Architettonica e Urbana, mentre nel secondo semestre Storia dell'Architettura e dell'Urbanistica di Roma Moderna e Progettazione Architettonica e Urbana. Penso che se le cose vengono fatte seriamente non c'è alcun rischio di fare cose cattive, semmai possono esserci solo risultati positivi. Purtroppo la netta separazione delle discipline e le gelosie professionali sono il vero male. Ricordo ancora il presidente della mia commissione di laurea che mi disse l'architetto faccia l'architetto, lo storico faccia lo storico e l'urbanista si limiti all'urbanistica ... fui costretto a ricordargli che proprio lui, nel suo corso di Storia della critica e della letteratura architettonica mi aveva portato a studiare Vitruvio ... ma penso che lui stesso non conoscesse il 1° libro.

Pietro Pagliardini ha detto...

Ettore, tu dici che alcuni tuoi commenti non sono stati pubblicati: è possibile che mi siano sfuggiti, mi è già successo altre volte, però è anche possibile, perchè è successo anche a me, che talvolta si crede di aver pubblicato e invece si è commesso qualche errore.
Ad esempio il commento è troppo lungo e allora esce un messaggio che avverte dell'errore, ma può facilmente sfuggire, oppure non si è digitata correttamente la parola anti-spam.
Cercherò meglio tuoi commenti ma ad una prima analisi non ne ho trovati di non pubblicati. Comunque mi scuso.
saluti
Pietro

nimbus ha detto...

una domanda per voi architetti filosofi...domanda terra terra...quindi mi scuserete se non sarà all'altezza dei vostri post...
Vi siete mai chiesti...visto che parliamo di complotti...come mai in Italia lavorano sempre le stesse persone....si...già immagino i primi commenti...ecco sempre le stesse parole...il complotto...la stessa cerchia di amici che lavora tanto...tutte cazz... perchè in Italia lavorano solo i più bravi e quindi meritevoli...
vi siete mai fatti un giro nelle nostre periferie...oramai progettate non a misura d'uomo, ma a misura di costruttore edile...avete dato un'occhiata a come si stà sviluppando la città del futuro...le città dei vostri figli....
Avranno sempre la macchina sotto casa...ma per comprare un pezzo di pane dovranno recarsi al più vicino Centro commerciale (costruito a suon di miliardi e parcelle dei soliti pochi architetti nel frattempo diventati milionari....Per carità i criteri di progettazione sono tutti moderni...e per questo quindi che sono tutti uguali?).
Ognuno prenderà le proprie macchine con evidenti problematiche di traffico..inquinamento...prescindendo dai problemi squisitamente sociali (violentatori esclusi).
Tutti gli edifici sono uguali sia a nord che a sud...forse perchè progettati da una sola persona e costruiti dal suo solito e unico amico costruttore.

Certo nessuno dei cosiddetti architetti si è mai posto il problema di chi poi sarebbe dovuto andare a vivere in quelle periferie, ma capirete bene di fronte al primo estratto conto della banca...chi se ne frega di chi abiterà nelle case progettate...chi se ne frega se avranno problemi di traffico...tanto io ho lo studio in centro con il box sotto casa...chi se ne frega se non avranno più alcuno spazio di aggregazione (tipo piazze e giardini dove giocare e ritrovarsi..non dove ammirare inimmaginabili sculture "alla moda") tanto io in centro trovo tutti gli spazi che voglio...certo il centro ....forse è più a misura d'uomo...strano...non sarà perchè non è stato pensato in toto a tavolino da un costruttore e un architetto?
Voi vi fate tutti delle strane domande su escort e finanziatori di convegni...o su star architettoniche decadute, ma vi siete mai chiesti perchè gli ottimi architetti usciti dalle università italiane infarciti dei "bellissimi" progetti di Le Corbousier e Gropius (e perchè no anche di Fuksas e Meier, che hanno per anni visto e studiato praticamente in assoluto), progettano splendidi oggetti di design moderno completamente snaturati dai problemi delle persone, ma finalizzati alla propria esaltazione professionale...Vi siete mai chiesti perchè i giovani abbiano ricevuto una educazione architettonica praticamente a senso unico? Forse l'appiattimento delle idee, teorizzato da molti negli anni 30, voleva aprire la strada all'esaltazione dei "pochi"!!!

nimbus

LineadiSenso ha detto...

Ettore, penso che il tuo presidente di commissione avesse ragione riguardo al rapporto storico-architetto, meno a quello urbanista-architetto. I primi due usano linguaggi, tecniche e strumenti non solo diversi ma appartenenti a sistemi formali quasi non comunicanti. L’architetto e l’urbanista sono per molti versi sullo stesso livello anche se usano scale, e in molti casi anche strumenti, diversi, lo storico e l’architetto no. Il linguaggio delle forme è quasi intraducibile… riuscire a tradurlo (come fanno gli storici) è impresa che porta ad utilizzare strumenti e tecniche che non c’entrano proprio nulla con la progettazione delle forme stesse…

Robert

Pietro Pagliardini ha detto...

nimbus, ma lei sembra me sotto falso nome!!! io sono totalmente d'accordo con lei. In questo blog non faccio altro che ripetere ossessivamente le cose che ha scritto lei. L'unica differenza sta nel complotto che è un modo di ragionare che non condivido.
Si tratta dell'architetto collettivo, quello che pensa come gli è stato insegnato fin dai primi giorni di università; qualcuno si ostina a dire che non è vero, ma esiste in giro una cultura dominante, egemone dicono alcuni, che oscura ogni altro pensiero e rende tutti i progetti e tutti i piani ugualmente assurdi e invivibili. Ma l'architetto collettivo appena può va a vivere in una bella casa del centro storico o in una splendida colonica in campagna. Non c'è complotto, c'è solo conformismo, interessi e, in qualche raro caso, convinzioni sincere ma, secondo me, sbagliate.
Saluti
Pietro

ettore maria ha detto...

Caro Pietro,
il fatto che abbia parlato dei miei commenti non pubblicati non voleva di certo essere una critica a te. Sono perfettamente cosciente del fatto che le cose possano o meno pubblicarsi, così come del fatto che possano accadere dei problemi informatici che ne impediscano l'arrivo, quindi ti prego di non volermene per la nota.
A Robert voglio dire che sbaglia grandemente con la sua convinzione su storici e progettisti. O meglio, è vero che ci possano essere persone in grado di fare solo una cosa delle due (e probabilmente male), ma è altrettanto vero che proprio la mancanza di conoscenza della storia (grazie ai vari Gropius e Zevi) fa sì che i progettisti facciano tante porcherie. Quando parlo di storia non mi riferisco al Partenone o a Pantheon, oppure alla città Barocca, mi riferisco anche e soprattutto alla storia più recente che è stata ignorata dai contemporanei di LeCorbusier. In quella storia ci sono tante risposte ai problemi della città contemporanea, ne ho parlato tanto nei miei libri, nei miei articoli, e in alcuni miei post e commenti. Vitruvio diceva che gli architetti, per poter essere riconosciuti come tali, dovrebbero dimostrare diverse conoscenze, tra cui la storia, certo non dovrebbero eccellere nelle altre discipline, ma dovrebbero conoscerle per poter argomentare i propri progetti ed evitare errori. I compartimenti stagni (uno zoning professionale) della visione modernista del mondo sono il più grande problema della nostra realtà.
A Nimbus rispondo in coro con Pietro, e suggerisco di leggere altri post o commenti in cui abbiamo detto esattamente ciò che lui dice
Cordialmente
Ettore

Fabrizio Giulietti ha detto...

Scopro solo oggi questo miliare articolo di Ettore Maria, da una parte pedagogico, dall'altra credo che difficilmente non possa essere condivisibile. Mi permetto però di muovere alcune critiche.

1) Innanzitutto non è il funzionalismo in sé il grande male, ma il funzionalismo predicato da Le Corbusier ad esserlo, perché l'urbanistica tutta è (o dovrebbe essere), di per sé, funzionalista, in quanto finalizzata a costruire città funzionali ai loro abitanti, o per dire meglio, lo sviluppo di una città dovrebbe avvenire in funzione delle necessità dei suoi abitanti. Modello funzionalista è, ad esempio, l'ABC olandese, politica che almeno parzialmente sposa una mobilità sostenibile, e che potremmo quindi contrapporre al vuoto modernismo sorto dalla famigerata Carta di Atene. Caso mai il grande male è il riduzionismo, che nega la realtà e la caccia in un cantuccio.

2) Che Le Corbusier non fosse architetto non significa che non potesse essere urbanista. La sovrapposizione tra architettura ed urbanistica è una idea tutta italiana. Certo, si può opinare che un architetto avrebbe potuto avere più sensibilità nei confronti delle proporzioni e dell'impatto visivo derivante da certe strategie urbane, ma quanto fatto negli ultimi ottant'anni dagli architetti (non di rado ben felici di replicare i dettami di Le Corbusier) fa ritenere l'ipotesi non molto fondata. Il problema più che altro è che Le Corbusier nei fatti ha dimostrato di avere una visione ingegneristica della città, basata sui principi tanto cari ai tecnici: atomizzazione della realtà, arbitraria scelta (in base all'obiettivo che già ci si è prefissati) di elementi primi che poi vengono ricomposti secondo procedure funzionali ai modelli prescelti (nel nostro caso zoning e mobilità automobilistica) per costruire una nuova realtà, e per sostituirsi alla realtà vera.

Fabrizio Giulietti ha detto...

3) Credo che il caso dell'Eixample (dell'allargamento) di Barcellona esuli un po' dal discorso. E' vero che Cerdà ha proceduto allo sviluppo di un piano ingegneristico essenzialmente fondato sull'analisi di flussi (idrici, persone, commercio), ma non bisogna dimenticare che il Piano non mirava a distruggere e ricostruire, ossia a sostituire quanto già esistente, bensì a collegare con una maglia viaria e con una rete edificata paesini e paesotti dell'area che avevano necessità di svilupparsi oltre le rispettive cinte murarie. I vari paesotti (oggi quartieri) di “Gracia”, “Poblenou”, ecc. come anche le tre aree della “Ciutat Vella” (“Poble Sec”, “Raval”, “Gotico”, “el Borne”) hanno conservato buona parte della loro struttura urbana ed identità, comprese le feste patronali. Cerdà all'interno delle sue “manzanas”, gli isolati, prevedeva di creare giardini, côrti, e soprattutto non aveva previsto di costruire palazzi a quadrilatero (che si sviluppassero lungo ogni lato dei quadrati formati dalla scacchiera viaria) bensì ad “L”, permettendo così (alle persone ed al sole) di penetrare all'interno delle strutture da entrambe i lati, di poter attraversare le côrti, e non come invece sono stati realizzati, autentiche fortezze che all'interno si affacciano solo su bui e maleodoranti cavedi. E' vero che Barcellona possa avere una struttura impregnata sulla divisione di funzioni, ma credo che questa sia da imputare alle preesistenze (porto, zona industriale) e non allo zoning ed al Piano di Cerdà. Sono sicuramente d’accordo sul fatto che per “l’allargamento” della città si poteva preferire una continuità “lessicale e grammaticale” (come dicono gli architetti) con quanto preesistente, magari attraverso la costruzione di una costellazione di borghi, però la necessità “funzionalista” di tessere una rete idraulica e di trasporto è realtà basilare quanto incontrovertibile. In ogni modo, ben peggio di Cerdà ha fatto invece Hausmann (cui il catalano si è comunque ispirato), che ha raso al suolo Parigi per trasformarla in una spianata di prospettive da parate militari. Disastro, questo, non imputabile a Le Corbusier ed alla sua cricca. Hausmann ha regalato come capitale hai francesi una Legoland che scimmiottava l'imperialismo dell'Antica Roma. Patetica quanto gli odierni centri commerciali cinesi! Altro che il post-fascista EUR a Roma sud!

ettore maria ha detto...

caro Fabrizio,
la ragione per cui qui si parla di "funzionalismo" è perché quello è il termine ufficiale utilizzato dai pionieri del Modernismo. Qui non si vuole sostenere che le città non debbano essere "funzionali" ma, come dici tu, si vuol criticare la visione parziale ed ideologica data a quel termine da certi personaggi che lo utilizzarono per prendere le distanze dalla città storica "malfunzionante". Infatti Tom Wolfe ha ironizzato sul fatto che la presuta "architettura funzionalista" non funzionasse affatto.

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