Pietro Pagliardini
Ecco un esempio di pratica pre-moderna dell'urbanistica moderna: nel sito Eddyburg, curato dal Prof. Edoardo Salzano, ho trovato questo articolo “Edificabilità. Il Consiglio di Stato ribadisce: il piano la dà, il piano puo’ toglierla” scritto dallo stesso Edoardo Salzano a commento di una sentenza del Consiglio di Stato che rigettava il ricorso contro una scelta del PRG di classificare come agricola un’area individuata nel precedente PRG come edificabile.
Per la precisa lettura dei fatti e della sentenza rimando all’articolo stesso che è completo di ogni informazione.
Perché mi occupo di una sentenza, dato che non sembra questo il luogo adatto? Me ne occupo perché mostra quali siano le preoccupazioni principali di una parte importante della cultura urbanistica italiana.
Ormai da molti decenni l’urbanistica è soffocata da leggi, procedure, interpretazioni giuridiche; su queste si fanno convegni, la legislazione urbanistica è cresciuta a dismisura tanto da far perdere quasi il rapporto con la realtà e i piani regolatori vengono costruiti sulle leggi regionali non solo per dare ai piani la loro necessaria legittimazione giuridica, che sarebbe la regola, ma in base ai dettati delle leggi stesse piuttosto che sui dati reali delle città e del territorio.
Il metodo ha preso quasi il totale sopravvento sul merito e questa sentenza, e ancor di più il tono di Salzano, lo fa capire bene.
Nutro il massimo rispetto per il prof.Edoardo Salzano, per la sua storia, per la sua infaticabile attività a favore di quella che lui ritiene essere, ed in parte lo è, la strada giusta per l’urbanistica, ma questo non mi impedisce di dissentire da lui.
Dunque, dice Salzano non nascondendo una grande soddisfazione alla conferma della sua concezione del rapporto stato-cittadino, il PRG non crea diritti edificatori e il diritto gli dà ragione. Su questo niente da obiettare. Ma il fatto che ad una sentenza del Consiglio di Stato, organo di rilievo Costituzionale, ci si debba piegare, non vuol dire perdere il diritto di criticarla e di pensare che non vi sia aderenza alla realtà. Ciò alla luce del diritto positivo, dato che questo è un diritto “in itinere”, cioè è soggetto ai cambiamenti che si manifestano nella società; questa fatto determina la possibilità che ciò che non è ammesso in un determinato momento storico possa diventarlo in un momento successivo, per un cambiamento del costume, dei rapporti economici, del comune sentire di una società.
Dunque, proprio in questa logica, guai a sedersi sulla conservazione dello status quo perché il diritto segue necessariamente l’evoluzione della società, con alcuni punti sacri e inviolabili che sono assolutamente non negoziabili.
Edoardo Salzano introduce l’articolo con la seguente battuta:
"Con buona pace di quanti cianciano di “diritti edificatori” attribuiti dai piani urbanistici e non revocabili senza pagare. Una nota, e il testo della sentenza 2418/2009".
La sentenza afferma dunque il principio che i piani urbanistici non attribuiscono diritti edificatori non revocabili e Salzano sembra attribuire alla legge un potere ed una forza definitiva e quasi di verità assoluta, quasi fosse la legge a determinare la realtà e non l’inverso. Io vorrei mostrare che vi sono in quella sentenza parti assolutamente logiche che derivano dalla funzione stessa del diritto e parti che non trovano fondamento nella realtà ma, al massimo, la trovano solo in quella specifica e particolare situazione e in base a concetti urbanistici assolutamente aleatori se non inesistenti nella sostanza. Non che la sentenza sia sbagliata, non lo penso proprio, ma quella sentenza si basa, come tutte le sentenze, su una "verità giuridica", che non è detto sia una "verità fattuale" e ciò che è sintomatico è proprio il fatto che un urbanista mostri tanta soddisfazione di fronte ad una sentenza che, per sua natura, potrebbe non corrispondere alla reale situazione urbanistica.
La motivazione al primo quesito afferma che “mentre la variante di PRG assume immediata efficacia, per contro non sussiste alcuna approvazione di atto giuridico che sia perciò assurto al rango di uno strumento urbanistico efficace (nella specie attuativo, ad iniziativa di parte privata, quale il piano di lottizzazione) e del quale debba in qualche modo tenersi conto”. Questa è assolutamente corretta perché è il diritto stesso che stabilisce quelle regole che servono a garantire i rapporti e le gerarchie tra i piani, le procedure di approvazione e quant’altro, in modo tale che vi sia certezza del diritto, e in questo caso l’adozione del PRG è intervenuta prima dell’approvazione del piano attuativo, dunque nulla da eccepire sulla prevalenza dello strumento generale sul piano attuativo.
Ma che dire della motivazione su cui si basa il diritto del pubblico di variare il regime delle aree?:
“…tale correlazione non può fondare alcun vizio di illegittimità, rappresentando il contenuto stesso del legittimo esercizio dello “jus variandi” in sede pianificatoria e comporta proprio il potere di mutare il regime giuridico-urbanistico dell’area, che vede quindi cambiare la sua “vocazione” in senso giuridico (nella specie da edificatoria ad agricola). Altra nozione è invece rappresentata dalla “vocazione” intesa come la situazione dell’area nelle caratteristiche geomorfologiche del contesto in cui essa si trova al momento dell’esercizio del potere pianificatorio e quindi indipendentemente dalla destinazione giuridica sino a quel momento impressa ma che può avere o meno avuto esplicazione mediante un effettiva trasformazione del territorio. Ed è tale situazione che viene in rilievo rispetto alla nuova destinazione giuridico-urbanistica che all’area si intende conferire e che, come correttamente confermato dal TAR, il Comune risulta aver nella specie preso in considerazione ove ha evidenziato (nello studio preliminare e carta d’uso del suolo) che l’area ha oggettivamente caratteristiche agricole essendo di natura “seminativo-irrigua”. Rispetto a tale valutazione tecnica, quindi, la scelta del nuovo PRG di imprimere destinazione agricola è del tutto coerente […]”.
Cosa significa questa motivazione? Significa che il Comune ha la potestà di variare il regime giuridico-urbanistico dell’area, e anche qui nulla da obiettare, ma questa variazione si basa su una diversa “vocazione” dell’area stessa, e qui c'è il punto debole. Si noti bene che nella sentenza si scrive, correttamente, “vocazione” giuridica.
Non voglio essere equivocato, non contesto la sentenza, contesto il fatto che Edoardo Salzano creda, o mostri di credere, che la sentenza affermi “una verità assoluta”, quando è palese che non è così. Se un’area aveva precedentemente una “vocazione” edificatoria come fa a cambiare tale “vocazione” in agricola? La vocazione dei terreni è evidentemente a geometria variabile e comunque è ben difficile che la trasformazione passi dall’edificabile all’agricolo, a meno che quella precedente destinazione non fosse frutto di qualche strano marchingegno per cui fosse stata resa edificabile una zona in mezzo alla campagna. Ma anche in questo caso si dimostra la assoluta mancanza di “verità” della sentenza, rispetto a quanto ne sa Salzano e anche noi, perché, come minimo, bisognerebbe conoscere le reali condizioni dei fatti e delle situazioni.
Invece Salzano prende per buono tutto perché la sentenza soddisfa un suo desiderio e una sua convinzione legittima ma su cui è facile constatare la assoluta mancanza di aderenza alla realtà. Inoltre la verifica della “vocazione” dal punto di vista geo-morfologico si basa sulla carta dell’uso del suolo in cui quell’area è indicata come “seminativo-irriguo”; ma è evidente che queste caratteristiche agricole le aveva certamente anche quando venne inserita nel precedente PRG come “edificatoria”!
Può essere questa, per un urbanista, una giustificazione soddisfacente? Per un giurista certamente sì, e io non contesto la sentenza, io contesto Salzano a cui interessa stabilire un principio di tipo ideologico e poco conta se quel principio passa con motivazioni che ad un urbanista dovrebbero apparire, come minimo, deboli, ma meglio sarebbe dire risibili. Se, ragionando per assurdo e per ipotesi, in quell'area fossero state presenti due case e in base a questo "fatto" il CdS ne avesse stabilito la "vocazione" edificatoria, Salzano avrebbe potuto giustamente contestarla perché due case in campagna non costituiscono un inizio di insediamento urbano: ugualmente, l'edificabilità di un'area deriva da ben più complessi rapporti territoriali che non l'essere classificata con la definizione catastale di "seminativo-irrigua".
La sentenza sembra essere, per Salzano, strumentale al fatto di confermare la prevalenza indiscutibile del pubblico sul privato, ma direi la sottomissione del privato al pubblico.
Questo tipo di urbanistica è proprio quella su cui da decenni si dibattono autorevoli esponenti del mondo della cultura; è una cultura urbanistica politicizzata, ideologizzata, che lotta sulle procedure che sono diventate fine invece che mezzo per raggiungere l’obiettivo di progettare un ambiente urbano migliore di quanto non sia stato fatto fino ad ora con tutte queste leggi e sentenze.
Molto bene, professor Salzano, c’è la sentenza giusta e non sarà realizzata quella lottizzazione, ma adesso cosa facciamo: aspettiamo un’altra sentenza, magari contraria, e così il processo può continuare all’infinito e dare voce ad altri autorevoli esponenti dell’urbanistica per condurre la loro guerra?
Nel frattempo la città va avanti e senza alcuna relazione tra quella sentenza e il fatto che vada avanti nel verso giusto, non fosse altro per il fatto che nulla si sa di quella situazione. Ma questo non è significativo perché quello che conta è il risultato politico.
31 maggio 2009
UN COMMENTO A EDDYBURG
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6 commenti:
Gent.mo architetto Pagliardini, provo a commentare da quel modestissimo tecnico della pianificazione territoriale che mi sono ritrovato ad essere. Salzano, da sempre, si sgola per sfatare un mito, quello dei "diritti edificatori", incardinato su una leggenda (urbana, vien da ironizzare), la "vocazione edificatoria". Orbene, la seconda non esiste. Non v'è sul pianeta alcuna area che sia naturalmente vocata ad essere edificata. La possibilità (si badi, possibilità, non vocazione e tanto meno diritto) per un'area di essere edificata veniva un tempo da una decisione estemporanea, conseguente al soddisfacimento di un bisogno, viene oggi da una decisione pubblica, stop. L'unica vera, naturale, vocazione di un terreno è quella di vedersi coperto da erba e piante se è fertile, da sabbia e pietre se è sterile, secondo stop.
L'uomo ha, di volta in volta, secondo le esigenze, sempre meno spesso primarie, deciso che si dovesse costruire qualcosa in un punto qualcosa d'altro in un altro punto.
Veniamo ad oggi. Il Consiglio di Stato, nella sentenza citata, non fa altro che restituire alla ragionevolezza il destino dei suoli, facendo, si spera per sempre (ma occorrerebbe una pronuncia dell'Adunanza Plenaria) giustizia di affermazioni becere e fantasiose, coniate da avvocati scaltri ed avvallate da giudici poco attenti.
La leggenda del "diritto edificatorio" in realtà fa comodo a molti, ai proprietari certo, ma ai Comuni altrettanto. Per i primi è la clava con cui difendersi dai tentativi, sempre più sparuti (e spauriti) di mettere ordine in quel disastro che sono molti piani regolatori, perlatro falcidiati da programmi integrati, accordi di programma, ed altri istituti demoniaci; per i secondi è una coperta di Linus dentro la quale nascondersi e decidere che non si può decidere nulla di diverso da ciò che fu deciso da altri (scusa 1: ma poverini, pagano l'ICI da anni, vorrai mica cambiargli la destinazione del terreno; scusa 2: oh, ragazzi, mica vorremo fiondarci in un ricorso al TAR vero? E se poi ci chiedono i danni?).
Insomma, la leggenda ha creato il mito e il risultato è che se nel lontano 1975, 85, 95, 2000, un PRG aveva ipotizzato che in dato luogo si dovesse costruire, quella previsione sembra dover essere eterna, inscalfibile, immutabile. Alla faccia delle ragioni dell'interesse generale o dello stesso mercato (mai nessuno che si chieda perché un PL mai decollato in trent'anni dovrebbe decollare ora o tra uno, cinque o dieci anni, mai che si accetti l'idea che forse le condizioni non ci sono).
In sintesi, io credo che Salzano, di cui non apprezzo esattamente tutto, stavolta abbia ragione da vendere, e con lui il Consiglio di Stato. Lei parla di cultura urbanistica politicizzata, schiava delle procedure. Io le rispondo che, checché se ne dica, quella cultura, in Italia è l'unica esistente e degna (forse) di avere il termine cultura in attributo. Altre, non ce ne sono, o sono finte. La "città del liberalismo attivo" (Moroni) o i piccolissimi comuni "privati" da Lei citati in un recente post, non fanno testo: la prima è già stata, in modo assai argomentato e non contraddetto, smontata (Camagni), i secondi, non me ne voglia, mi sembrano sì degni di nota, ma come curiosità statistica e didattica.
Quanto agli esempi USA, proprio quell'IBL da Lei citato (Boccalatte in primis, ma Lottieri segue a ruota), propaganda convinzioni per verità, il caso di Houston è illuminante, spacciata per città non pianificata, è solo una città senza piano regolatore, ma, in compenso, ultraregolata da una miriade di altri piani, che in Italia ce li scordiamo (vedasi il sito della municipalità di Houston per verificare). Cordialità.
Paolo, sono costretto a risponderle in due parti perché c'è un limite per ogni commento. L'avverto anche che ho introdotto alcune modifiche rispetto al testo che le ho inviato per e-mail.
1° Parte
Paolo, la ringrazio per la sua puntuale, documentata e convinta obiezione al post.
1-Io non contesto la legittimità della sentenza. L’ho già scritto ma voglio ripeterlo per evitare di essere accusato di essere un sovversivo, cosa che lei in verità non fa.
2-Il punto interessante è il fatto che lei sostenga non esistere terreno che naturalmente abbia vocazione edificatoria. Se lei intende la maturazione di un diritto ha ragione e io sono d'accordo; se lo riferisce all’area in senso assoluto, sono in totale disaccordo. Lei mi sembra che sia orientato a considerare la costruzione di nuovi edifici il male assoluto e ha una visione dell'abitare strettamente legato alla necessità e, dato che, statisticamente, il numero delle abitazioni è largamente superiore a quelle strettamente necessarie in rapporto agli abitanti, non serve costruire altro e dunque non esiste nessuna vocazione edificatoria. Sto estremizzando il suo pensiero ma credo che il senso generale possa corrispondere a quanto lei dice. In base a quanto sopra detto, chi decide quante costruzioni occorrono? Lo decide la politica, con la copertura della tecnica che stabilisce il fabbisogno e quindi il dimensionamento del piano. Sono decenni che veniamo presi in giro con il dimensionamento, che ci vengono propinate tabelle statistiche di crescita o di decrescita quando sia lei che io sappiamo bene che queste varrebbero poco, se fossero roba seria, valgono niente per come sono fatte. Di fatto questo sistema ottiene il risultato di favorire qualcuno a svantaggio dei più. I vari marchingegni procedurali che lei cita: accordi di programma, programmi integrati ecc., sono uno strumento per i forti e non per i deboli. Qui credo sia la grande differenza tra noi: lo Stato pianifica e il cittadino decide; io non credo alla pianificazione e ancor meno allo Stato virtuoso e capace, e credo che la responsabilità dei cittadini non crescerà mai finché ci sarà lo stato-padre che vuol decidere per tutti. E' il dibattito in corso a livello mondiale con la crisi globale. Ma da un punto di vista più strettamente disciplinare lei crede davvero che ogni area sia indifferente al fatto che vi si preveda o meno un insediamento? Non crede che non sia esattamente la stessa cosa, per esempio, andare a collocare un insediamento in aperta campagna piuttosto che in uno delle tante aree di bordo che certamente hanno perso la loro vocazione agricola? Lei dirà che è meglio farci un parco e in qualche caso è sicuramente così, ma io credo che una città densa sia meglio di una città slabbrata, proprio per conservare integrità all'ambiente rurale. In questo senso quelle aree hanno una vocazione edificatoria da un punto di vista urbanistico (ma nessun diritto giuridico). Questo contesto a Salzano, il fatto che un urbanista debba valutare caso per caso e non affidarsi alla generalizzazione della Legge, che ha un altro compito.
x Paolo
2° Parte
4) Sulla cultura politicizzata, di cui lei onestamente non nega l'esistenza (e anche questo io apprezzo moltissimo, contro i piagnistei di coloro che invece la negano pensando che sia un discorso strumentale, con ciò non rendendole alcun merito) io registro che i risultati ottenuti sul piano della qualità urbana e di vita sia bassissimo e, tra l'altro, ha contribuito a forgiare una classe dirigente regionale e comunale il cui unico scopo è quello di aggrovigliare le norme per mantenere il proprio potere di casta. Non nego dignità a questo tipo di cultura che, qualche decennio fa, ha avuto il merito di mettere l'accento sugli standard, quando le città ne erano prive, ma forse è rimasta vittima di questa idea quantitativa e ha mollato del tutto rispetto alla qualità della città. Visto che con lei si può parlare di politica, mi consenta (mi è scappato) di paragonare l’isterilirsi di quelle idee culturali a quelle della sinistra politica.
5) Sul caso “comuni privati”, ma direi meglio comunità gestite dai cittadini, convengo con lei che l'esempio citato è poco più che simbolico e che nel nostro paese è addirittura impensabile, non solo dal punto di vista normativo ma anche dal punto di vista culturale. Mi sembra però un modo per mostrare che non esiste solo lo Stato ma che sul piano delle idee, almeno su quelle, esistono altre, se pur lontane, possibilità. Niente di più.
Concludendo io sintetizzerei le nostre differenze in una battuta:
Lei crede che le pratiche pre-moderne siano buone, io credo che siano un male necessario.
Con tutto quello che ne deriva.
Saluti
Pietro
Temo di essere molto ingenuo. Ma se ripenso a quando (qualche decennio fa, chiesi a mio padre che cosa fosse un piano regolatore, rimasi stupiyo : "come, uno sulla sua terra non può fare quello che vuole?". Le limitazioni e i vincoli, "di pre sè" non hanno nessuna ragione ragione di esistere. Non mi pare che sia il terreno ad evere "diritti e doveri" o , se vogliamo, "vocazioni e limiti".
I vincoli dovrebbero derivare dalla ragione e dal buon senso. E' più furbo scavare un pozzo dove c'è acqua; costruire il partenone in alto dove tutti lo possono ammirare, i palazzi allineati per facilitare il transito nelle strade, i grattacieli non in testata di pista all'aeroporto.
Mio padre, magistrato, mi spiegò che è lecito all'autorità porre limiti alla libertà per evitare l'arbitrio (che ai semafori si passi col verde è meglio che sia stabilito per legge !).
Enrico, più che ingenuo direi che sei candido. Ma il candore è disarmante perché ci mette davanti alla realtà e all'essenza delle cose, e l'essenza dell'urbanistica è quella che dici te.
Tuo padre magistrato ha detto bene ma anche tu non dici male perché sarebbe bene pensare di più a dove e come fare le cose piuttosto che a quali procedure seguire per farle. E' questo appunto l'oggetto della civile contesa tra me e Paolo.
Va riconosciuto però che ci sono buone ragioni anche nel discorso di Paolo, e quindi di Salzano, solo che è una visione dell'urbanistica che ha finito per essere totalizzante e onnivora e ha dimenticato del tutto dove e come fare le cose.
Ciao
Pietro
Candico va bene; ma parliamo di oltre quarant'anni fa.
Da allora un pochino mi sono smalliziato anche io; e sono arrivato a concepire qualche norma e qualche restrizione anche meno lampante delle luci dei semafori.
E poi in Italia il concetto di proprietà è sempre stato una "cocessione" (del re, di Dio, dello stato....non importa); come dimostra il fatto che il proprietario di un suolo non è proprietario di ciò che si trova nel "suo" sottosuolo. In America non è così.
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