Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


11 febbraio 2009

URBANESIMO SOSTENIBILE: IL CASO DI POUNDBURY- 1° PARTE

di Angelo Gueli

L’ESEMPIO DI POUNDBURY
Venti anni fa, a Dorchester in Cornovaglia è iniziato uno dei più discussi interventi di pianificazione urbanistica dell’ultimo quarto del secolo scorso. La statura delle personalità politiche ed intellettuali che hanno voluto l’innovativo e nel contempo fortemente controverso esperimento di Poundbury di certo non ha stemperato le polemiche che accompagnano questo e gli altri interventi legati alle teorie del “Sustanaible Urbanism”(1).

Su diretto incarico del Principe di Galles, nel 1988 Léon Krier diede mano alla prima stesura del progetto per la realizzazione di Poundbury, nuovo quartiere di Dorchester.

Nel luglio del 2007 ho avuto la possibilità di soggiornare in Cornovaglia; ho così potuto verificare quanta poca attenzione sia stata posta in Italia nei confronti dei concetti di cui si fa portatrice questa sperimentazione urbana. A Poundbury, Krier ha messo in pratica le sue teorie urbanistiche tese alla riabilitazione della città tradizionale e all’uso degli elementi che la caratterizzano, sia dal punto di vista formale che spaziale. La città è pensata come un insieme di quartieri, ognuno con un suo centro dotato dei servizi primari legati al vivere quotidiano. Il principio qui applicato della policentricità delle aree metropolitane, enunciato da Krier nei primi anni ottanta dello scorso secolo, è uno dei fondamenti del “New Urbanism”(2), di cui questa è una delle realtà più significative.

Alla base della progettazione urbana stanno gli assunti che “gli spazi pubblici possono essere previsti soltanto sotto forma di strade e piazze”, che esistono precise ed esplicite gerarchie fra i vari spazi e che “la forma della città e dei suoi spazi pubblici non può essere oggetto di sperimentazioni personali”(3).

A Poundbury il centro commerciale e sociale è classicamente individuato in una piazza “mercatale”, nodo vitale degli scambi economici e sociali del quartiere. La costruzione, in gran parte già attuata, avverrà per fasi (adesso è in avanzato stato di realizzazione il terzo lotto), al termine di ognuna delle quali saranno individuabili altrettanti quartieri.
Ogni quartiere ha una sua identità e dei confini; su questi confini sono tracciate le direttrici viarie destinate ad assorbire grandi flussi veicolari. Le automobili non sono bandite dai centri cittadini, però grazie all’articolazione viaria e alla disposizione degli isolati, gli autoveicoli non sono più gli attori principali della città ma sono declassati a semplici comparse.

Foto: Dettaglio di un isolato

Ogni spostamento all’interno del singolo quartiere urbano può essere fatto camminando pochi minuti a piedi; i limiti estremi dell’agglomerato edilizio sono dettati dal limite di affaticamento, stimato in pochi minuti di camminata. Luoghi di lavoro e di residenza distano quindi poche centinaia di metri. Nella sua Carta per la ricostruzione della città europea, Krier afferma: “non ci devono essere zone industriali, zone pedonali, centri o zone di vendita… ci possono essere solo quartieri urbani che integrano tutte le funzioni della vita urbana”. Per fare in modo che funzioni lavorative e abitative si integrassero, il primo edificio realizzato a Poundbury fu una fabbrica di cioccolata, poi è venuta una fabbrica di birra e una di componentistica per computer; solo dopo la loro realizzazione sono cominciati i cantieri per gli immobili ad uso abitativo.

A Poundbury convivono edifici dal ben definito carattere borghese e porzioni a più alta densità abitativa; tutti gli immobili però hanno quella particolare qualità architettonica della tradizionale edilizia popolare inglese che garantisce alti standard estetici e, dalla complessità degli spazi urbani, si legge chiaramente la volontà di creare un tessuto sociale articolato.

Per quanto discutibile, la scelta dell’aspetto estetico della città diventa marginale rispetto ai principi sociali, ed economici ed urbanistici che in questa s’intendono affermare. C’è la precisa volontà di realizzare edifici a basso impatto ambientale, e per farlo si ricorre alla tradizione, seguendo la semplice regola che i materiali e le tecnologie devono essere più naturali possibili, locali, duraturi e facilmente riparabili. Il presupposto è che un immobile realizzato in muratura portante cavata a pochi chilometri ha un impatto ambientale infinitamente più basso di un edificio realizzato in acciaio e vetro, sia per le tecnologie usate e le conseguenti regimentazioni termiche, che per la durata dell’edificio stesso. I nostri ambienti di vita e di lavoro sono fra i maggiori responsabili delle emissioni di CO2: costruire e riconvertire in modo ambientalmente sostenibile sarà sicuramente uno dei modi di adeguarsi ai parametri del protocollo di Kyoto. Gli ideatori di Pondbury hanno individuato nella lunghezza della vita di un edificio un fattore fondamentale per la sostenibilità di un edificio stesso; progettare per trecento anni e non per cinquanta è un modo per lasciare a chi verrà dopo di noi un mondo migliore, cosa che il buon senso dei nostri nonni (a differenza di quello dei nostri padri) non avrebbe mai messo in discussione.

C’è poi l’assoluta negazione della zonizzazione come principio progettuale con la conseguente ridistribuzione sociale all’interno del nucleo cittadino.
Orgogliosamente i relatori della conferenza di studio a cui ho partecipato sostenevano che, in meno di 10 anni dall’arrivo del primo abitante, già il 25% degli abitanti vive e lavora dentro i confini naturali di Poundbury e che questa percentuale sembra destinata a crescere, grazie anche alle politiche lavorative adottate.

Dal punto di vista edilizio, esiste un rigido protocollo che detta le regole per la realizzazione delle nuove costruzioni.
Pur essendo la Prince’s Foundation un ente benefico, è importante sottolineare che gli imprenditori che lavorano a Poundbury di certo non sono dei filantropi visionari, ma, nell’assumersi gli ovvi rischi di impresa, hanno nella realizzazione di Poundbury una giusta fonte di guadagno. Non so se questa possa essere considerata una terza via, ma certo è una posizione che sta a cavallo tra l’obsoleto interventismo statalista e l’inumano capitalismo che, partendo da punti diversi, hanno creato e continuano a generare le periferie di tutto il mondo.

Nel quadro mondiale delle grandi progettazioni urbane, non si può dire che gli attori che stanno portando avanti l’esperimento urbano di Poundbury non abbiano preso una decisa posizione contro l’imperante globalizzazione, l’innarrestabile internazionalizzazione delle idee architettoniche e contro le posizioni estetico-culturali egemoni che, fin troppo evidentemente, vedono i grandi interpreti dell’architettura e dell’urbanistica mondiale al servizio dei giganti della finanza e della loro visione ipercapitalistica. Certo, a chi come me vede i grandi eventi della pianificazione urbana da lontano, appare quantomeno ironico che fra i più strenui difensori dei valori della qualità urbana ed edilizia, vista come mezzo per il riscatto e l’integrazione sociale, vi sia l’erede al trono di una delle più antiche monarchie del mondo; mentre gli eroi nostrani dell’architettura, la maggior parte dei quali si professa politicamente progressista o persino comunista, nelle loro scelte progettuali, confondendo dolosamente il profitto economico con il progresso, sono completamente asserviti ai potentati economici, che della ipertrofia metallica dei loro grattacieli e quartieri fieristici fanno bandiera, noncuranti delle ricadute ecologiche e sociali delle loro scelte architettoniche.

FINE PRIMA PARTE

Note:
(1) Un’attenta valutazione sulle scelte urbanistiche effettuate con questa ed altre urbanizzazioni si trova su Valuing Sustanaible Urbanism edito dalla Prince’s Foundation for the Built Environment e facilmente scaricabile dal sito internet della Fondazione
(2) Notizie e informazioni sul “New Urbanism”, movimento di visione urbana, possono facilmente essere raccolte su http://www.cnu.org.
(3) I testi tra le virgolette sono tratti dalla Carta per la ricostruzione della città europea di Lèon Krier.

Le immagini aeree di Pondbbury sono tratte da Google Earth

45 commenti:

Master ha detto...

Ma un villaggetto a bassa densità può permettersi negozi, mezzi pubblici e reti di servizi? Mi sembra più un ghetto per ricchi che vogliono la casa in campagna.

Sulle utopie urbanistiche del Principe Carlo è uscito tempo fa un articolo sul Corriere che ti linko.

http://archiviostorico.corriere.it/2008/ottobre/27/Fallisce_utopia_village_del_Principe_co_9_081027039.shtml

Poundbury non mi convince tanto, sembra un ritorno alla utopie della Garden City di Howard.

Pietro Pagliardini ha detto...

Master, la mia non è una risposta ma la segnalazione di due articoli del Times, mai benevolo con il Prince Charles, di cui ecco titoli e links:

La visione del Principe Carlo presa a modello per l’espansione in campagna
http://www.timesonline.co.uk/tol/news/uk/article4369070.ece
Così il Principe Carlo aveva ragione, alla lunga….
http://property.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/property/new_homes/article1272119.ece

Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Grazie per i link, mi leggero volentieri i due articoli.

Per dovere di collaborazione tra blogger devo segnalarti che il link che hai messo a fine post: www.ncu.org non funziona. Volevi inserire forse www.cnu.org (il sito del Congress for the New Urbanism)?

Master

Pietro Pagliardini ha detto...

Grazie per la tua segnalazione di errore. Provvedo subito.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Non è certo con un commento che si può liquidare la critica a Krier e alle sue teorie urbanistiche, ma rilevare macroscopiche incongruenze, questo sì che si può fare, seguo lo schema del tuo post, per comodità e perché so che sarai un puntuale obiettore. La contraddizione di fondo è che vengono date regole per replicare schemi spontanei sulla base del fatto che se hanno funzionato in passato, perché non devono funzionare ora?
L’approccio corretto sarebbe: se in passato l’urbanistica si definiva coerentemente alle esigenze reali, quali sono quelle odierne dalle quali definire l’urbanistica? Possibile che siano rimaste le stesse e che la storia si sia fermata? Ti pare possibile che ancora oggi gli 'scambi economici e sociali' si possano confinare nella ’piazza mercatale’, viene da dire suggellati con una stretta di mano e una pacca sulla spalla? E che dire dei quartieri polifunzionali, con gli ometti che se ne vanno a piedi al lavoro come gli allegri sette nani….... chi riesce oggi a trovare lavoro sotto casa? solo gli abitanti di un paesello incantato firmato Krier, che in meno di dieci anni sono riusciti a trovare lavoro ‘dentro i confini naturali di Poundbury’, evidentemente secondo una politica industriale ed aziendale frammentaria ed antieconomica che va contro ogni moderna pianificazione e che si fa solo a Poundbury, finché dura. E poi, non ci sono solo fabbriche di cioccolata, ci sono attività industriali che puzzano, sporcano, fanno rumore. Che si fa? Un elenco delle attività possibili e di quelle no, per salvaguardare le casette dei nanetti? Mi piacerebbe sapere se ora li stanno mettendo tutti in cassa integrazione …..

Un edificio progettato per trecento anni, quante volte necessiterà di una seria ristrutturazione (l’impiantistica, con i materiali usuali, va rifatta mediamente ogni 30 anni o meno), di radicali adattamenti a nuove normative di sicurezza e a più moderni standard edilizi? Sai quanto me che spesso è meno oneroso riedificare che ristrutturare, con risultati spesso migliori.

La presa di posizione contro ‘l’imperante globalizzazione, l’innarrestabile internazionalizzazione delle idee’ è stupida e miope, bisogna cercare i modi per 'fare di una crisi un valore’ e inventare nuove formule di progettazione su principi nuovi e mai sperimentati.
A me fa molta tristezza vedere che il futuro dell’urbanistica sta in piccoli ghetti attorno a fabbriche di cioccolata, quartieri con i loro bei confini e le loro belle identità (in uno ci mettiamo tutti i biondi, in un altro i fumatori, poi c’è quello per i non fumatori ecc.), mi fa tanto Truman Show.
Scusa la veemenza, ma sono assolutamente scandalizzata.

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Vilma, tu immagini la voglia che ho di rispondere, tanto più oggi che sei veemente e scandalizzata, però credo che sia giusto lasciare prima spazio all'autore del post di cui, è ovvio, condivido il contenuto che mi sembra equilibrato e niente affatto fazioso.
Le obiezioni che fai sono fondate ma....devo aspettare qualche giorno.
Ciao
Piero

Anonimo ha detto...

Pietro, è ovvio che non ce l'ho con Gueli, che peraltro non conosco, il contenuto del post è equilibrato e non fazioso nella misura in cui riporta teorie di altri e, come si dice, ambasciator non porta pena (anche se le teorie di Krier sono .... penose). Il mio commento è assai poco formale, Gueli non me ne voglia, ma mi pare il caso di sfatare leggende che si reggono, più che sulla forza e la validità delle posizioni, su fortunate circostanze, sulle elitarie preferenze del principe di galles e probabilmente sugli interessi degli imprenditori che lavorano a Poundbury e che avranno avuto i loro bei finanziamenti pubblici o da 'benefiche' fondazioni (sappiamo tutti come vanno queste cose).

Vilma

Anonimo ha detto...

Una piccola obiezione a Vilma.
Guarda che la città del passato, non è del passato.
Non senso che OGGI, non solo è intensamente vissuta, ma in genere la parte più appetita delle zone urbanizzate.
Questo significa che certe particolari configurazioni e conformazioni di questi manufatti, ottenuti attraverso secoli di selezione e perfezionamento, costituiscono uno "standard", per così dire, che è tuttora valido, tant'è che è usato, amato, desiderato.
Non si può dire in genere altrettanto dei nuovi insediamenti, ove si è cercato di interpretare la novità e la diversità della vita moderna, del "proprio tempo".
Allora forse, nella condiderazione delle nostre città, nella loro riorganizzazione (che implicherà sempre di più non espansione e nuovi insediamenti, ma trasformazione e rifacimento), di questo è opportuno tener conto.
E Krier ha tentato di farlo.

Master ha detto...

Mi trovo daccordo con Vilma su tanti punti e ritengo Leon Krier un nostalgico estremista, un appassionato dello stile vernacolare che vorrebbe estendere i propri gusti ad un piano urbanistico, impossibile e inapplicabile nella società di oggi.
Linko un video che mostra una passeggiata in auto per Poundbury ... zero negozi, zero attività ... ho paura che sia l'ennesimo paesino dormitorio.

http://video.google.it/videosearch?sourceid=navclient&hl=it&rlz=1T4GPTB_itIT290IT293&q=poundbury&um=1&ie=UTF-8&sa=N&tab=wv#

Anonimo ha detto...

dimenticavo... concordo con tutto ciò che ha scritto wilma

Anonimo ha detto...

E' ovvio, ambasciator non porta pena, ma se non avessi a cuore alcuni dei principi che ho tentato di mettere a fuoco nel mio post, di certo non lo avrei scritto. Per questo proverò nel difficile intento di controbattere alle osservazioni di Vilma (dei cui scritti sono un attento lettore) e Master. Mi scuso sin da ora per il disordine espositivo inevitabile per una risposta che non potrà che essere limitata.
Poundbury non è “un villaggetto” bensì un quartiere della cittadina di Dorcester, poco più di 15.000 abitanti, né più né meno che Urbino. Probabilmente non sono stato chiaro nel spiegare che la rete di servizi principali è di tipo cittadino e che i quartieri sono il modo per ricercare la misura umana dei luoghi della città. Nulla di più lontano dalla città giardino, per rendersene conto basterà leggere la seconda parte del mio post che a breve sarà pubblicato da Pietro, nel quale parlo di numeri, e si sa, volente o nolente, l'urbanistica è fatta da numeri. Per quanto riguarda il “ghetto per ricchi”, capisco bene che possa fare questa impressione, ma mi permetto di dire che è un'impressione sbagliata, anche qui basterà dare un’occhiata alla seconda parte del post. Però già ora qualche cosa posso anticipare: le abitazioni di P. hanno costi a metro quadro eccezionalmente inferiori di quelle delle periferie di Londra (che per inciso sono meno care delle periferie di Roma), malgrado il fatto che, rispetto alle altre urbanizzazioni delle cittadine di campagna come Dorcester, abbiano avuto una rivalutazione economica alta. Invito a riflettere su questa rivalutazione economica: costruire le case a Poundbury costa in media solo il 10 o 15% in più che nel resto della Cornovaglia perché il regolamento edilizio obbliga a degli alti standard qualitativi, costi che ovviamente rientrano nell'arco di alcuni anni dato il risparmio energetico conseguente, però poi il prezzo di vendita all'utente finale è molto maggiore che nelle città limitrofe. Perché? Perché le persone desiderano andarci! Perché c'è un'alta richiesta. E' il mercato a decidere il prezzo delle case: se le tue case sono costruite meglio e incontrano i gusti dei compratori è ovvio che le tue case sul mercato assumeranno un valore maggiore delle altre, ma la colpa non è tua che le costruisci bene ma degli altri, che a parità di costi, le costruiscono di merda!
Gli abitanti di P. che lavorano all'interno dei suoi confini, sono per la maggior parte gli operai che lavorano nelle fabbriche a basso impatto ambientale collocate dentro P.
Non sono i sette nani che felici la mattina mettono il piccone in spalla e canticchiando vanno a lavorare, ma persone. Persone alle quali l'urbanistica ha in qualche modo facilitato la vita, alleviandole di quella quotidiana follia che ci vede intruppati in mandrie imbufalite di automezzi che teleguidati si muovono sincronizzati nei percorsi da alloggio a lavoro (si badi bene, da alloggio a lavoro e non da casa a lavoro).

Non posso dirvi che soddisfazione sia per me la mattina accompagnare il mio bambino di soli 5 anni all'asilo; facciamo quei cinque minuti di passeggiata ogni santo giorno, e ogni santo giorno dopo averlo accompagnato sono costretto a prendere lo scooter (prendere la macchina sarebbe inimmaginabile, tantomeno l'autobus), attraversare la città e andare allo studio immerso nella follia cittadina. Permettetemi un po' di sana gelosia nei confronti degli operai di P.

Le esigenze a cui deve fare fronte l'urbanistica moderna ovviamente non sono le stesse di 100 anni fa. Ma non bisogna confondere, perché sarebbe un errore gravissimo, la storia della tecnica con l'immutabile natura che è insita nell'essere umano. Questo hanno fatto l’urbanistica e l’architettura d’ispirazione modernista: dimenticare che il loro fine è l’uomo e non il disegno, che il disegno è solo il mezzo attraverso il quale si soddisfano i bisogni, materiali e immateriali, degli esseri umani.

Gli scambi economici e sociali di tutta la città ovviamente non si fermano alla piazza mercatale ma essa è, per dirla con le parole di Marco Romano, una “piazza tematizzata” ed è in questa sua caratteristica che dobbiamo ritrovare uno dei motivi per i quali la piazzeta di quartiere, malgrado tutto, “funziona”. Krier non elimina il centro dalla città, anzi lo conferma, ma aggiunge il parametro della policentricità, ed il fine principale è proprio quello di contrastare la mancanza d'identità delle periferie. Ed è proprio per “rispondere alle esigenze reali della società moderna” che questo quartiere dovrebbe destare il nostro interesse. Per comprenderlo è fondamentale dimenticarsi delle caratteristiche estetiche degli edifici e puntare alle caratteristiche tipologiche e funzionali degli spazi e degli immobili; solo dopo, se si ha una visione dell'urbanistica come disciplina di “servizio”, si possono comprendere le istanze estetiche che P. persegue.
Certamente le fabbriche puzzano e sporcano e nessuno meglio degli inglesi lo sa, sono loro che hanno inaugurato la “rivoluzione industriale”, e anche Dorcester ha le sue brave fabbriche produttrici di flatulenze. Ma la logica qui è quella del buon senso: nello stesso modo in cui non sistemerò l'inceneritore o il deposito di scorie radioattive sotto l'asilo del mio bambino, con la stessa logica però posso permettere alla panetteria industriale di starci accanto. Perché devo essere costretto a esiliare in un famigerato comparto produttivo anche quelle attività che dannose alla salute non sono? Qui si tratta di buon senso, il buon senso attraverso il quale attività economiche e sociali possono essere integrate con le abitazioni; non si tratta di un passo indietro ma di un passo avanti.
E se poi rientrando a casa i nanetti non vogliono trovare Biancaneve stesa sui loro lettini ma una Winks o una Spice Girl, allora costruiranno la loro casa adeguandosi al loro ideale di bellezza architettonica, ma la sostanza dei concetti urbanistici non cambia.
Personalmente critico l'eccessiva ingombranza dei regolamenti estetici imposti da Krier, li sento stretti, però posso comprendere quanto possa essere desiderabile per la maggior parte delle persone abitare in una casa fatta a casa.
Per quanto riguarda il “problema” della durata degli edifici, lo stato dell'arte ha ampiamente dimostrato che è economicamente e ambientalmente più conveniente ristrutturare un esistente ben fatto che demolire e ricostruire. Ma questo è il problema minore; come architetto egoisticamente mi rifiuto di pensare che quello che faccio ha una data di scadenza, come le lattine di pomodoro, credo che progettare e costruire una casa che non sia pensata per i tuoi nipoti sia profondamente immorale. Mi dispiace ribadirlo, ma il fatto che: “spesso è meno oneroso riedificare che ristrutturare, con risultati spesso migliori” è un’ ovvia e disastrosa eredità della machine à abiter. Il solo pensiero che mio figlio non possa godere della casa che il suo trisavolo ha costruito mi fa rabbrividire, intendiamoci non lo incatenerò alle mura che ha costruito il nostro avo, ma da esse anche qualcun’altro potrà essere protetto, perpetrando quel silenzioso sodalizio che, da sempre nelle nostre città, lega chi ha costruito una casa con chi la abita.
“La presa di posizione contro 'l'imperante globalizzazione, l'innarrestabile internazionalizzazione delle idee' è stupida e miope, bisogna cercare i modi per 'fare di una crisi un valore' e inventare nuove formule di progettazione su principi nuovi e mai sperimentati.” E nel frattempo che qualche anima pia inventa qualcos'altro cosa facciamo? Lasciamo che Junkspace e Bigness ci travolgano? Perché è di questo che stiamo parlando. Il modello vincente delle visioni urbanistiche e architettoniche in campo planetario è quello preconizzato da REM EX MACHINA. Lui, Rem Koolas, sì che di questa crisi ha fatto un valore! Mi dispiace, ma a me non sta bene di fare il sognatore e aspettare mentre qualcun altro scava la fossa dentro la quale catapultare ciò che resta delle nostre città. Intendiamoci, qui nessuno ha paura del nuovo, ma se il nuovo è eccezionalmente peggio del vecchio...
Infine e qui certamente c'è stato da parte mia un difetto di comunicazione nel non aver ben argomentato che nella ricerca di mix culturali, economici e sociali sta uno dei principi base che animano il S.U.. I quartieri ghetto, di soli biondi o bruni, sono proprio fumo negli occhi per i sostenitori del S.U.; anche questo forse sarà più chiaro nella seconda parte del post, nel quale sono riportati alcuni dei principi base di questa visione dell’urbanistica.

Sulla faccenda dei confini ed identità, andrebbe fatto un ragionamento molto approfondito, ma adesso mi limito a dire che senza confini ed identità non esisterebbe nessuna delle città europee per come oggi le conosciamo.

Estenuato da tutto questo scrivere e sicuramente estenuati anche voi, pazienti e coraggiosi che siete arrivati fin qui, non posso che concludere con una domanda: perché Truman show?
Perché la città deve essere per forza brutta sporca e cattiva per essere vera?
Perchè l’esistente può corrisponde al vero solo ed esclusivamente se usa i parametri estetici dell’edilizia selvaggia che contraddistingue tutte le nostre periferie, o se usa i canoni dell’architettura patinata delle riviste?
Perché qualcuno non deve poter desiderare, e quindi avere, il profumino della torta di mele che si spande nell'aria proveniente dal davanzale della finestra della casetta di Nonna Papera, e poi, saltellando e scuotendo il culetto piumato, correre a prendere la sua 313 per portare gli adorati nipotini al capo delle giovani marmotte?

Grazie a tutti
Angelo Gueli

Pietro Pagliardini ha detto...

"Fare di una crisi un valore": mi sembra questo il punto centrale del commento di Vilma, e su questo anch'io vorrei lasciare il mio commento.
La crisi della città di oggi deriva da un'infinità di cause, molte delle quali sfuggono al controllo dell'architetto o dell'urbanista o del politico stesso. Direi che sfuggono alla società nel suo complesso e in questo c'è, in un certo senso, spontaneismo, come dice anche Vilma nel suo ultimo articolo di architettura su Artonweb.
Ma non credo possano esservi dubbi sul fatto che una qualche regolamentazione dello sviluppo urbano sia “inevitabile”. E' qui che interviene il progetto, così come un“progetto” interviene nelle regole di borsa, nel libero mercato, nel contratto sociale degli Stati. Una società che sia Stato ha comunque regole e una differenza politica importante consiste in chi ne vuole il meno possibile e in chi ne chiede più possibile.
A questo punto come fare a risolvere in valore una crisi, cioè come fare a trovare regole se nessuno sa quale sia quella giusta? Per fare le costituzioni spesso si fanno le guerre civili, per fare leggi dello stato c’è il voto, ma per fare regole urbanistiche ci vuole un’idea di città la più condivisa possibile, che non vuol dire la città ideale in assoluto ma quella che meglio soddisfa le aspettative del maggior numero di persone.
A questo punto Vilma dice: non ci sono certezze quindi ricerchiamo, tentiamo, proviamo ma sapendo che il passato è passato e non può ritornare.
Il passato non può ritornare ma dal passato, remoto o recente, si può e si deve imparare e cogliere ciò che c’è di buono.
Adesso io credo che sul piatto ci siano due opzioni fondamentali:
Il passato recente, ed anche l’attualità, non soddisfa nessuno, se non qualche architetto che ne è l’autore; non è stato risolto nessun problema, se non quello quantitativo: nessuna risposta seria al traffico, nessuna risposta all’integrazione sociale, nessuna risposta ad una città che dia senso di appartenenza e di identità.
Il passato remoto non è certamente idoneo, come dice Vilma, perché sono cambiate le condizioni d’uso della città stessa, perché le regole igieniche e di privacy non consentono strade i cui fronti stradali distino tra loro 3 o 4 e nemmeno 8-10 metri; la mobilità urbana ed anche quella individuale è assolutamente impossibile ignorarla; le forme del consumo sono cambiate; esistono comunque attività della produzione che non possono essere mescolate alla residenza, quindi aree specialistiche (ma non monofunzionali) dovranno esistere in ogni modo.
Le differenze, però, si fermano praticamente qui. Per il resto la città storica soddisfa tutte le altre esigenze umane degli individui presi singolarmente e della società nel suo complesso: non ha fratture al proprio interno perché è permeabile; è costituita da un tessuto viario continuo i cui nodi sono le piazze; permette la pedonalizzazione; ha un mix di funzioni che, pur trattandosi di negozi in franchising e magari non botteghe artigianali di calzolai, garantisce una qualità della vita superiore. I piccoli supermercati fino a 1500 mq sono diffusissimi e fanno ottimi affari, ad esempio. Esiste un tessuto di botteghe specializzate che trovano la loro collocazione naturale proprio in un tessuto a maglia stretta e svolgono una notevole funzione sociale ed economica.
Insomma, senza approfondire su Poundbury, anche perché ci sarà una seconda puntata, direi che questa rappresenta una sorta di Manifesto di un’idea, un campione al vero, come fanno nei paesi più ricchi con le abitazioni, dove si fa costruire un pezzo di facciata al vero come campione di ciò che dovrà essere poi eseguito.
Non sarei affatto così tranchant su un’idea di città che, trascurando le forme architettoniche (che anch’io ritengo problema del secondo ordine ma non insignificanti) non sembra proprio sull’orlo del fallimento.
In mancanza di altre idee è necessario e saggio basarsi su quelle che ci sono già anche perché non è detto che ce ne possano essere molte altre in circolazione. Di tutte le aggregazioni urbane della terra, dice Marco Romano, solo l’Europa ha sviluppato quella peculiarità che è la piazza, ad esempio. Un motivo ci dovrà pur essere. La nostra terra non è gli USA le cui città sono state tutte fondate a partire da quel fatidico 1492 e in cui il pionierismo e i grandi spazi hanno dato un’impronta definitiva.
Noi viviamo in un luogo ad alta densità e la città deve essere necessariamente ricostruita e deve crescere al suo interno senza perdere, però, quel carattere di radicamento al suolo, alla strada ,che caratterizza i popoli d’Europa (l’unica cosa che ci unisce in verità). Senza perdere quella pluralità di funzioni e quell’integrazione sociale che, anche questa, è una caratteristica europea, salvo i ghetti ebraici che infatti non sono esempio da imitare.
Quindi io credo che appellarsi a quelle regole non sia poi così demodé o nostalgico e non vuol dire fare finta che non vi siano nuove istanze sociali da soddisfare ma vuol dire riconoscere che, con i necessari adattamenti, sono le migliori da cui attingere.
Per parafrase Camillo Langone, provocatore scorrettissimo per eccellenza e autentico e schietto conservatore, direi che “L’uomo d’ordine ama le soluzioni e non i problemi”.
Il che non vuol dire che i problemi non esistano.
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

i miei commenti? si saran mica persi per le stradine di krier...

Pietro Pagliardini ha detto...

Angelo scusami, il tuo commento si era davvero perso nelle stradine di Krier.
Ciao
Pietro

Pietro Pagliardini ha detto...

Caspita, il mite, educato, equilibrato Angelo ha tirato fuori le unghie, alla grande!
La polemica fa bene, non c'è dubbio, riesce a far emergere il meglio, se uno ce l'ha, ovviamente.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Ero certa che Angelo avrebbe controbattuto con logica stringata e puntuale coerenza le mie osservazioni, perché da quello che ho letto di suo mi pare una persona razionale, documentata e assolutamente attendibile, parla di quello che sa e di cui è fermamente convinto. Ciò non sposta, ovviamente, di un millimetro le mie convinzioni, quindi non mi ripeterò, anche perché credo che non troverei comunque punti di compromesso tra ciò che dico io e ciò che dice lui. Voglio fare, però, alcune considerazioni di carattere generale: intanto, Angelo, anche se ti rifiuti di pensare che quello che fai ha una data di scadenza, direi che la data di scadenza c’è, ci nasciamo pure noi, con una data di scadenza, e sapere che un oggetto inanimato, questo è una casa, ci sopravvive non so se fa più gioia o più tristezza. Presumo che tu abbia la ‘fortuna’ di abitare nella casa dei tuoi avi, ed è la stessa sorte che auguri a tuo figlio. Ebbene, io gli auguro invece di potersi fare una casa a sua misura, dove vorrà, sulla via che il destino gli assegnerà, in qualche parte di un mondo oggi molto più piccolo di quanto lo fosse per i tuoi avi e persino per te, che sei di un’altra generazione, per quanto giovane tu possa essere (il tanto temuto passaggio dall’homo sapiens all’homo videns……). Pensa se tutti avessero conservato la loro residenza nella casa degli avi ….. che ci sarebbe, oggi? Un villaggio di capanne?

Inoltre mi sembra di estrema ingenuità affermare che “la logica qui è quella del buon senso”, perché nella storia recente e passata gli esempi di come la fiducia nel buon senso sia stata mal riposta si sprecano. E poi ciò contraddice l’esuberanza di regole e regolette che devono necessariamente imbrigliare un sistema di progettazione così ‘guidato’ come quello di Krier ….. E poi, che vuol dire buon senso? E che vuol dire che “il nuovo è eccezionalmente peggio del vecchio”? Buon senso, peggio, meglio, sono concetti indefiniti che non dovrebbero far parte del lessico di un preciso ed attento osservatore come te.

Inoltre, possiamo liquidare con un’alzata di spalle Koolhaas e tutti quelli come lui, rifiutarci di guardare nel cannocchiale e andare avanti come se Copernico non fosse esistito, tutto ciò però rischia di addormentare le coscienze e di lasciarci credere che tutto vada bene, mentre non è affatto così: se da una rottura traumatica può uscire una società rinnovata, una sonnolenta acquiescenza mira a fossilizzate lo ‘status quo ante’ nascondendo lo sporco sotto il tappeto.

“perché Truman show?” ti chiedi, un paragone che, almeno nelle mie intenzioni, non c’entra niente con il fatto che la città sia brutta sporca e cattiva piuttosto che bella pulita e buona: volevo solo dire che gli abitanti di P. mi sembrano dei deportati in un intervento museo dove personalmente manderei i turisti della domenica, in alternativa allo zoo, per vedere nel suo ambiente naturale, la nuova specie del ‘coatto dell’ambientalismo’, tra case di marzapane e tetti di cioccolato (Hansel e Gretel si sono stufati e se ne sono andati).

Ciao
Vilma

Salvatore D'Agostino ha detto...

Cari Gueli e Pietro,
ho la sensazione che la descrizione di Poundbury sia stata fatta attraverso i libri (o internet) un sunto da depliant pubblicitario, come possono essere stati quelli di Milano 2 e 3 o i quartieri Caltagirone a Roma. Posti creati dal ‘buon senso’ del magnate per agevolare la stipulazione dei mutui dei futuri abitanti.
A mio avviso nella descrizione manca l’anima della città, la gente.
Mi chiedo cosa intendete dire per costruire a scala umana (anche Le Corbusier progettava a scala umana), se non amate relazionarvi con la gente (vedi commenti di Pietro)?
Mi chiedo a che serve fare un elenco di luoghi comuni:
• imperante globalizzazione;
• innarrestabile (sic) internazionalizzazione delle idee architettoniche;
• posizioni estetico-culturali egemoni;
• grandi interpreti dell’architettura e dell’urbanistica mondiale al servizio dei giganti della finanza e della loro visione ipercapitalistica;
• asserviti ai potentati economici;
• ipertrofia metallica dei loro grattacieli e quartieri fieristici fanno bandiera (ma dove sono? E quanti sono?;
• I quartieri ghetto, di soli biondi o bruni, sono proprio fumo negli occhi per i sostenitori del S.U;
• senza confini ed identità non esisterebbe nessuna delle città europee (ma conoscete il milieu di Parigi, Londra, Berlino, Barcellona?);

senza fare un’analisi critica?
Che cosa intendete per urbanesimo?
Condivido le tesi di Wilma soprattutto questo passaggio: “Inoltre mi sembra di estrema ingenuità affermare che “la logica qui è quella del buon senso”, perché nella storia recente e passata gli esempi di come la fiducia nel buon senso sia stata mal riposta si sprecano. E poi ciò contraddice l’esuberanza di regole e regolette che devono necessariamente imbrigliare un sistema di progettazione così ‘guidato’ come quello di Krier ….. E poi, che vuol dire buon senso? E che vuol dire che “il nuovo è eccezionalmente peggio del vecchio”? Buon senso, peggio, meglio, sono concetti indefiniti che non dovrebbero far parte del lessico di un preciso ed attento osservatore come te.” E la relazione visiva tra Poundbury e la reality city di Truman show.
Ciò che non convince di questo sunto è la visione ‘elitaria’ della speculazione architettonica.
Le più belle città non state costruite dagli architetti, ma da un mix straordinario di visioni spesso antitetiche.
Infine più che l’idea della città ideale a noi italiani manca il senso civile dell’urbanità e come dice Tiziano Scarpa: «La gara è in corso e nessuno lo sa, nessuno la vede, perché tutto intorno a noi è gara, la guerra è stata dichiarata in silenzio, tutti contro tutti, i gladiatori fanno finta di niente, guerrieri in giacca e cravatta escono da una banca per mandare in rovina una ditta, cartelli pubblicitari cannoneggiano iperboli, ragazze si contendono gli sguardi svettando sui tacchi, si fanno lo sgambetto, si falciano, le vetrine si accecano a vicenda da una parte all'altra della strada, tutto intono a noi è battaglia, tutto è agone e agonia, tutto intorno a noi è città.»
(Tiziano Scarpa, 'Noi che facciamo le gare in mezzo al traffico', Abitare, n. 475, settembre 2007, p. 206)

Anonimo ha detto...

Posso fare una domanda ad Angelo? Perché ha scritto questo post? Lo chiedo perché sono diviso tra l’esser scandalizzato come Wilma e quindi muovergli un attacco furente oppure guardare a P. per quel che è: un quartiere di buona qualità un po’ pittoresco.

Premetto che discutere di un progetto concreto e costruito non è facile come discutere di temi generali. In questo caso disegni, foto e altri dati essenziali io ne sono in possesso fino ad un certo punto (googleheart, video su youtube e qualche planimetria). Quindi è proprio per questo che gli rivolgo la domanda perché me lo sono chiesto e mi son dato anche delle risposte.

1 è un semplice tentativo di mostrare le qualità di P, quartiere che presso molta critica architettonica non ha ricevuto affato critiche positive. In questo caso accetto il post e aspetto volentieri anche la seconda parte.

2 è un modo per diffondere alcuni strumenti compositivo-progettuali che l’autore ritiene non sufficientemente diffusi: piazze, edificazione continua, bassa densità ma compressa per generare spazi misura d’uomo, mix di funzioni ecc… Beh, in questo secondo caso, vado a parare dove di solito mi succede di andare: certi strumenti sono stati utilizzati negli ultimi decenni. Città storica ed edificazione chiusa sono stati ripresi anche con linguaggi contemporanei (mai visto Meier che progetta con isolati residenziali ottocenteschi e con piazze e scorci che ricordano la città storica? E non parliamo dell’urbanistica olandese con la sua capacità di generare interi quartieri che mescolano paizze, corti e canali). Se poi mi si risponde che ultimamente è stato rivalutato pure LC… beh, sì, è vero. Nel momento in cui la città ha perso i limiti, le infrastrastutture hanno un’importanza sempre maggiore, gli spazi “aperti” divengono parte del progetto contemporaneo (per spazi aperti intendo aperti nel vero senso della parola, non le piazze premoderne che sono ancora spazi chiusi) perché non andare alla ricerca di chi si è posto (magari anche malamente) il problema? Che facciamo se per caso si deve progettare un parco, guardiamo solo fino ai giardini rinascimentali e magari barocchi e lasciamo perdere i giardini paesaggisti inglesi perché hanno rotto il limite e si son messi a confronto con lo spazio aperto ma… aperto- aperto nel vero senso della parola. Che faccio? Continuo usare i soliti strumenti o me ne doto di altri senza buttare i precedenti?

3 spero ardentemente che P non venga spacciata come una possibile teoria architettonico-urbanistica perché non è esportabile. Dochester è immerso nella campagna inglese… è in una situazione quasi idilliaca. Una piacevole cittadina con le sue civilissime case inglesi (eh si, gli inglesi sanno abitare meglio di noi) tutte molto simili, pacate ed eleganti. Fabbriche? Beh.. non mi pare Dochester abbia 2-3 zone industriali attorno. Quale situazione migliore per creare la propria città ideale: un territorio inedificato che ha come unico riferimento una graziosa cittadina e non vi sono infrastrutture tra i piedi e nemmeno capannoni che rompono le scatole. Se poi a ciò si aggiunge un bravo e autorevole architetto (non chiamiamolo archistar che sennò qualcuno si arrabbia :-) che ha trovato un principe mecenate che lo asseconda… beh, un’ottima occasione per mostrare i propri meravigliosi esercizi architettonici. Una situazione idilliaca sotto tutti gli aspetti e, appunto, non esportabile e nemmeno lontanamente utilizzabile come base per una teoria.
Questo non vuol dire che io non ritenga importanti le piazze e il vivere a dimensione umana ma vorrei vederla questa teoria di Krier applicata chessò… al Nord-est con le sue zone industriali che occupano tanto quanto l’abitato, con le suddette zone che vanno a cozzare una contro l’altra da paese a paese e con la solita visione egocentrica del veneto medio che ritiene innanzitutto importante che la finestra del vicino sia almeno a 10 metri dalla propria. Ah, stranamente, la densità della megalopoli padana è simile a quella di P: casette unifamiliari a due piani. Se poi la guardi a grande scala noti anche che, essendo i paesi all’incirca di 5.000-20.000 abitanti, si crea un’alternanza tra residenze e zone industriali… sì, insomma, sembra quasi che il nord-est sia P già bello e costruito (e non è un caso che tra gli urbanisti, anni fa, si propendeva verso la città diffusa come esempio del quieto vivere e del benessere… finchè, ovviamente s’è talmente diffusa che s’è inceppata, e non ti muovi più).

Sia chiaro, ci possono anche essere altre risposte che non ho individuato: primo perché non sono telepatico; secondo perché volevo cercare di ragionare oltre le forme e il linguaggio Krier (come sollecita Angelo nel suo post) senza però avere in mano tutti gli elementi che potrebbero darmi un quadro completo di P e Douchester.

Robert Maddalena


PS una critica, questa sì: le macchine… siam sicuri che sian semplici comparse? P ha i marciapiedi, cosa strana se si vuole tornare ad un edificazione non moderna. Ha marciapiedi e anche dossi rallenta traffico. Sì, insomma, o a P hanno problemi di traffico (come tutti i centri storici) o hanno deciso di usare una delle invenzioni del moderno (la separazione tra traffico veicolare e pedonale) e a ‘sto punto mi spiace proprio farlo notare: era l’unico strumento compositivo-progettuale del moderno che non avrebbero dovuto usare, genera quella separazione netta tra facciata e strada (che mi verrebbe da chiamare da stanza comune all'aperto) che recide il rapporto interno-esterno tipico delle nostre città storiche e che, secondo me, fa sì che siano fatte per l’uomo e non per l’auto.

Master ha detto...

Quoto l'esaustivo e intelligente post di Salvatore D'Agostino. Le problematiche che stanno alla base della creazione di una città di fondazione sono innumerevoli e l'utopistica idea di inventarsi una "città ideale" come Poundbury in UK o Seaside (la città simbolo del New Urbanism creata in Florida) non è solo ingenua ma anche pericolosa se applicata in maniera meccanica (vedi i vari flop di "new town" come Celebration, sempre in Florida).
Dopotutto se Seaside è stata scelta come set del film The Truman Show è stato forse perchè ha l'aspetto di una città fittizia, costruita per dare l'apparenza di vivere in una realtà ideale, utopistica.

Pietro Pagliardini ha detto...

A me sembra che le domande e i dubbi di LdS abbiano fondamento reale. Intanto io dico la mia, ed è chiaro che Angelo potrebbe rispondere altro.
L'avessi scritto io il post non c'è dubbio che alla domanda n° 1 avrei risposto: sì, anzi avrei risposto, anche. E ti dirò che mi sembra, da solo, un ottimo motivo, visto il pensiero unico dilagante. Unico certamente ma non particolarmente stimolante perché c'è grandissima povertà di idee in giro. E in questa povertà, in tutta questa "grande ricerca", non cambia proprio niente, tutto procede come sempre, e il brutto avanza.
Anche alla seconda domanda risponderei: sì. Farei però dei distinguo sugli esempi che porta. L'Olanda: non c'è dubbio che esistono nuove aree olandesi, non necessariamente quelle famose delle riviste, che hanno le caratteristiche positive che LdS dice: le densità non sono basse, in verità, e non è un male, la maglia fitta, i fronti continui stradali opposti incredibilmente ravvicinati (pare che agli olandesi non interessi la privacy, visto che mettono in bella mostra i loro soggiorni con ampie finestre sulla strada,) le strade che presentano le stesse caratteristiche di Poundbury, cioè la moderazione di traffico che consente la "convivenza" tra auto, bici e pedoni, con deviazioni obbligate e ostacoli che obbligano ad andare piano. E su questi esempi io dico: magari averne così da noi, sarebbe un bel passo avanti. Però c'è qualche problema: intanto la rete stradale è rigida, non c'è gerarchia interna, non esistono piazze, spesso le strade sono a cul-de-sac e non cè permeabilità, mancano, insomma, di anima, di sapore. Possono certamente essere prese ad esempio nella loro razionalità ma non hanno la forza per diventare un Manifesto.
E LC insegna: ci vogliono i Manifesti per attirare l'attenzione.
Il nord-est: un argomento che se non sbaglio sta molto a cuore a LdS. Non posso dire molto se non le impressioni che ho avuto nei viaggi in transito verso le sue belle città d'arte. Intanto ti dico che, se tu,forse, vivi nel nord-est, io vivo in Toscana e, se non ti dispiace, mi dispiacerebbe assai se anche la mia terra diventasse come il nord-est (in parte lo è già diventata). Ma il problema è reale: villette sparse, tutte su terrapieno artificiale, globalmente bruttine.
D'altronde chi non vorrebbe una villetta singola (se non me cui piace la compagnia, contrariamente a quello che dice Salvatore, cui fa molto difetto l'ironia)? Un'aspirazione legittima e non condannabile. Io penso che tra un sistema che prevede solo due estremi, la villettopoli e il mega-condominio, esistono anche soluzioni intermedie che garantendo buone densità garantiscano quella privacy, ma direi meglio, quel senso di individualità e riconoscibilità che credo molti desiderino veramente. Perchè non offrire una vasta gamma di scelte?
Se tu poi guardi attentamente il dettaglio dell'isolato di Poundbury vedrai che c'è questa possibilità, senza dover dilagare su tutto il territorio.
Lo so che la forza del mercato, cioè i desideri della gente, è più forte dell'urbanistica ma se si rinuncia senza neanche provare, tanto vale smettere di discutere, chiudere tutti i nostri blog e/o siti e cominciare a parlare di cazzate su Facebook. Perché è del tutto evidente che se tu, io, gli altri ci siamo messi in testa di discutere di urbanistica e architettura lo facciamo con l'ovvio presupposto che ci sia, a monte, una possibilità di avere un minimo di controllo e di capacità di scelta da parte della politica o se preferisci dall'amministrazione della città.
Io lascio ai critici la ricerca storiografica che non mi interessa e che, in verità, non mi pare abbai prodotto poi questi grandi risultati (o i critici non sono un granché oppure noi architetti siamo molto duri) perché credo profondamente e forse ingenuamente che la società siamo noi e i comportamenti collettivi sono la somma di quelli individuali. Se pensassi che nulla può cambiare a quest'ora guarderei la TV o leggerei un libro.
E una riprova indiretta di quello che dico è che esistono i Piani Regolatori (non è il mio mestiere) e chi li fa sono nostri colleghi e ci sono molti modi per farli. Allora, domando, siamo proprio certi che chi li ha fatti e li fa non abbia un'idea di città? Tutti pensiamo di si. E siamo sicuri che quell'idea, una volta realizzata e pur modificata dalle varie vicende "urbanistiche" sia completamente separata dal risultato? oppure non sarà invece che il risultato dipende "anche" da quell'idea?
Quando parliamo di società abbiamo sempre davanti le aree metropolitane ma il nostro paese è fatto soprattutto da realtà medio-piccole e piccolissime e riuscire a "governare" (brutto termine)almeno quelle non mi sembrerebbe una cattiva aspirazione.
E' qui che comincia il "come", e io parlo solo dal nostro punto di vista di architetti, escludendo naturalmente l'aspetto più alto e difficile della politica, che non è l'oggetto del mio blog.
Ora tu mi prenderai per un coglione che crede di cambiare il mondo e che cammina con una mano sul petto e l'altra dietro e io invece sono abbastanza disincantato e perfino scettico ma penso che le idee si fanno strada, lentamente, senza rivoluzioni, senza ribaltamenti di fronti, senza grandi illusioni. In questo io credo nella mitica complessità e nella teoria del caos.
E' nel pensiero unico che non cambia niente. Fino a che (ed è chiaro che sto facendo un'iperbole) arriva Angelo Gueli che riporta in dettaglio una sua esperienza vissuta e la gente si incazza, e un minimo di dibattito c'è, e quelli che Poundbury è la città dei Puffi.... insomma...qualcosa di buono ci sarà ma se lo dico sono io che passo da coglione....ci sono cose più importanti....però, in fondo, non ci avevo mica pensato.
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

A me piacerebbe se le critiche alla urbanistica di Krier fossero architettoniche e non basate su teoremi storicistici superati, su sociologismi ad un tanto al chilo che lasciano il tempo che trovano.

Insomma, critiche da architetti, che vedono nel "disegno urbano" uno degli aspetti della propria disciplina fra i più difficili e nobili.
Innegabilmente trascurato o ridotto economicisticamente in modo intollerabile nella architettura del SECOLO SCORSO.

Anonimo ha detto...

Tanto per dirne una:
la critica al fatto che Poundbury ha i marciapiedi non è architettonica.
Se siamo architetti, sappiamo benissimo che ciò che conta davvero nel disegno urbano sono gli spazi (delimitati da volumi), e i marciapiedi non fanno "spazio".
Pensare: lascio passare le auto, si, ma in modo che il traffico sia limitato (e non vietato), serve proprio per eliminare la scissione fra circolazione veicolare (che resta, ma limitata nella velocità e nell'uso) e quella pedonale, ed eliminare i marchignegni necessari per realizzare questa separazione.
Separazione che mai ha funzionato, questo bisognerà pure ammetterlo, una buona volta.
Allora, il marciapiede è il male minore. Ci sono le auto, certo. NOn sarà il disegno urbano ad eliminarle, semmai potrà metterle in subordine rispetto alla circolazione pedonale (e limitando anche la sua circolazione, non consentendola nelle piazze e negli spazi di rilevanza pubblica).
Dire che P. è contraddittorio perchè non ha le strade di palta e i carretti, è davvero ingiusto.
Allora, bisognerebbe togliere i pluviali, fare i tetti di paglia, ecc.
NOn è quello il punto.

Un punto, ad esempio è: lo "spazio aperto" e indeterminato, non funziona.
Quello che credo a certuni dia maggior fastidio di P. è il fatto che in esso K. ha puntato a spazi definiti, abbastanza chiusi e compatti; connessi in modo GERARCHICO e non indistinto; in cui l'edificio è subordinato alla organizzazione urbana e pochi edifici possano aspirare a divenire "monumento" e riferimento urbano.
Ma è proprio questo che secondo me è giusto. Non perchè "non moderno" (me ne frego se è moderno o non moderno), ma perchè è con questi criteri che si può fare una città, e non un semplice ammasso scoordinato di masse edilizie.

Anonimo ha detto...

E' proprio questo il punto! Il "disegno urbano" di Poundbury non esiste! La complessità urbana, la gerarchia stradale e lo studio della viabilità, la densità urbana e i servizi di reti sono banalmente semplificati in un intreccio di viuzze reso, credo appositamente, casuale per dare la parvenza di un borgo di campagna, con una suddivisione in lotti altrettanto irrazionale. L'aspetto pittoresco è mirabile ma assomiglia più ad uno di quei parchi a tema disneyani in cui far divertire i bambini. E' pura nostalgia del passato bucolico! Mi sembra che l'urbanistica sia una disciplina ben più complessa e strutturata, molto più razionale e finalizzata a soddisfare requisiti funzionali (che poi vanno ad aumentare la qualità della vita delle persone). L'illusione di vivere nel proprio villaggio bucolico è abbastanza deprimente!

Pietro Pagliardini ha detto...

Master, vorrei sapere perchè "la divisione in lotti è irrazionale"! Prima di tutto non ci sono "lotti", ma ci sono "isolati". I lotti sono, eventualmente, all'interno degli isolati ma sono semplici divisioni di proprietà, urbanisticamente irrilevanti.
Qual'è una divisione "razionale" degli isolati? Forse la forma squadrata? Certamente in questo quartiere Krier ha privilegiato l'aspetto vernacolare e "pittoresco" come dici te e credo per due motivi: il primo è che si tratta non del "centro" di Dorchester ma di un'area periferica ed ha voluto assegnare a questa zona un carattere di borgo, più che di città vera e propria, anche, suppongo, per motivi commerciali; la seconda è che questo doveva essere un manifesto esplicativo che servisse da modello.
Se guardi i progetti di Krier per vari concorsi, ad esempio in Lussemburgo, vedrai isolati di forma regolare, certamente più adatti ad una situazione di centro urbano con un'edilizia più alta e a maggiore densità.
Dunque non esistono isolati irrazionali, esistono isolati calibrati sulle caratteristiche di quel luogo.
E poi a me sembra che l'elemento forte sia proprio la presenza di isolati in sè piuttosto che lotti con case sperdute in mezzo.
Inoltre la concezione che Krier ha degli isolati è una delle sue migliori intuizioni, riuscendo a ricreare anche all'interno di questi quel carattere urbano a piccolissima scala che si ritrova nell'impianto generale; potrai notare infatti che all'interno vi sono non solo spazi di parcheggio ma anche edifici più piccoli, talché non esistono spazi abbandonati o di risulta: in questo senso Krier applica, non so se consapevolmente o no, il principio della geometria frattale in cui il dettaglio è la ripetizione del tutto.
Ciao
Pietro

Anonimo ha detto...

Accidenti che bella discussione!

Vilma,
in realtà avrei avuto piacere se le mie argomentazioni un po' avessero fatto barcollare le tue granitiche convinzioni, però il fatto di stare tutti intorno a questo blog fa di noi dei sinceri amanti della vita delle città, se ci trasciniamo fino alle ore piccole per argomentare, confutare, immaginare visioni future e passate di “habitat umani” lo facciamo tutti perché desideriamo il meglio per noi e per gli altri abitanti umani e non delle nostre città, quindi in fin dei conti sono contento di non aver spostato le tue opinioni neanche di un millimetro. Detto questo, desidero esprimere un paio di opinioni.
Le porzioni di città che stanno nascendo seguendo i canoni del S.U. sono rispetto a quelle “vere” una percentuale infima, ridicola, esse quindi non sono un “pericolo” per lo sviluppo della città contemporanea. Però rappresentano un monito, nel momento in cui esse incontrano i desideri delle persone. Intendo dire che, per esempio negli Stati Uniti dove il principe Carlo non ha nessun ascendente, si costruiscono molti quartieri con i canoni del New Urbanism versione americanizzata del S.U., e li non fanno storie, se la cosa non funziona economicamente nessuno si sogna di applicare principi culturali che non hanno anche un riscontro in quattrini. Il riscontro economico queste realtà lo hanno perché qualcuno preferisce vivere li anziché nelle periferie fatte di villette.
E' su questo che dobbiamo indagare, perché a P. sono in fase avanzatissima di costruzione altri due grandi lotti? Perché c'è questa richiesta di unità abitative? Perché le persone desiderano viverci? Perché da altri quartieri della stessa Dorcester si trasferiscono in questo quartiere? (vedi il report che cito nella seconda pate del post) E' a questi interrogativi che dobbiamo provare a rispondere. Ripeto a me non interessa l'architettura di questi luoghi, mi interessa capire perché qualcuno si ostina a volerci vivere anche se Ansel e Gretel sono scappati via.
Gregotti si ostina a sostenere che lo Zen lo rifarebbe dove è e come è ,e che se il quartiere è inabitabile è colpa dei palemmmmitani e non dei progettisti. Io non lo so perché quel posto è così, la risposta più logica, probabilmente, è che si tratta di una concausa, e che il malato è moribondo per una serie innumerevole di problemi. A guardar bene alla prevenzione di queste concause è mirata la stragrande maggioranza dei principi del S.U.. Mi guardo bene (e nel mio articolo questo è evidente) dal sostenere che il S.U. sia la panacea per tutti i mali, ma ritengo, in tutta onestà, che sia un serio tentativo per tentare di risolverne alcuni.
Quando dico che l'urbanistica deve essere intesa come una disciplina di “servizio” intendo dire che oltre all'ovvio soddisfacimento dei famigerati standard, la progettazione urbanistica deve rivolgersi al soddisfacimento dei bisogni immateriali degli abitanti, solo la sommatoria di questi diversi elementi può creare città degne di questo nome. E se qualcuna delle “regolette” del S.U. (stringenti, esagerate, desuete, vecchie e ammuffite e chi più ne ha più ne metta) in qualche modo contribuiscono a modificare nel verso della vivibilità/umanità le nostre periferie forse sarebbe giusto indagare.
Per quanto riguarda la data di scadenza degli edifici questo è un argomento a cui tengo molto: la cultura architettonica europea ha avuto nella “firmitas” vitruviana, per molti secoli, uno dei cardini, e questa solidità tettonica è stata a lungo indissolubilmente legata con la solidità temporale degli edifici, fino a che, come tutti sappiamo, non arrivò il ferro solidissimo ma bisognoso di cure, per questo molto allora si costruì ma poco oggi è rimasto. Larga parte dell'architettura del secolo scorso e di questo appena entrato ha visto nella “firmitas temporale” un tema fondamentale, Louis Kann, Rafael Moneo, Grassi, Zermani, Fernad Poullion, Natalini,Utzon.....sono solo alcuni nomi, costruire per i posteri è un tema che è trasversale ai modi e alle visioni dell'architettura, alcuni ne hanno fatto un cardine, altri lo accettano come un dato di fatto non enfatizzandolo altri ancora lo ignorano completamente, ma questi, e concorderai con me, sono gli ultimi arrivati (in senso temporale dico). La quarta dimensione in architettura, e credo che concorderai con me, a volte può essere la più importante, nel dire questo penso al duomo di Siracusa o al Panteon o perché no al teatro di Sagunto di Giorgio Grassi (esagero la temporalità degli esempi proprio per farmi intendere).
E scusami, una casa non è un oggetto inanimato! Se la vedi così anche la morte della Vergine di Caravaggio, il cretto di Gibellina di Burri o la casa di Curzio Malaparte sono inanimati! Sempre che quella del murare pietra su pietra, o rivettare lastra di titanio su lastra di titanio, sia da considerare un'arte. Per me malgrado tutto lo è!

Capisco bene che “il buon senso” non ha assolutamente nulla di scientifico, mi avete un po' tutti colto in fallo, il buon senso e come “la giusta causa” degli schieramenti politici per uno è rossa per l'altro è nera. Quindi mea culpa mea culpa proprio non avrei dovuto fare appello a questo argomento. Ma, anche dire che le teorie di Krier “sono penose” non ha un granché di scientifico. Questo dire che fa schifo o che è dettato dal buon senso, però umanizza le cose di cui parliamo. Personalmente credo che l’urbanistica sia scienza politica: pertanto molto poco scientifica.

LienadiSenso
Hai compreso a pieno il senso del mio post. Se da un lato nessuno può negare che P. sia “un quartiere di Buona qualità un po' pittoresco” e il mio è il tentativo di descrivere ciò che o visto e poi incuriosito cercato di approfondire tramite qualche lettura, (per inciso se qualcuno di Voi fosse preso dalla malsana voglia di visitare P. assolutamente cercate un BB. nella campagna, gli unici due alberghi di Dorcester sono: uno troppo caro l'altro, quello dove sono stato io, ha la moquette sotto il vaso del bagno... e non dico altro).
Dall’altro lato sono perfettamente d'accordo con te nel pensare che altri, senza fare ricorso al vernacolare, usano e hanno usato le tematiche della città storica. Il caso del S.U. però mi ha incuriosito perché si tratta di un movimento strutturato, lontano anni luce dal fiero individualismo che affligge noi italiani, un movimento a cui si può aderire come si aderisce ad un partito politico, e questo, benché sia un modus operandi inapplicabile per noi, mi sollecita a pensare. Se in altre nazioni esiste un partito del S.U. questo significa che l'idea di città è territorio di riflessione comune, che gli interventi sulle città non sono elaborati soltanto da oscuri burocrati professionisti degli standard, ma che, per quanto sbagliate, le idee del S.U. vengono fuori da una piattaforma comune, anche se, ovviamente parziale come parziale è ogni visione “politica” (Se qualcuno volesse approfondire il rapporto tra politica e S.U. qualcosa può trovare sul saggio di Elena Gentilini intitolato “Esclusione sociale e riqualificazione urbana” reperibile anche in rete, purtroppo non ho sottomano il link).

Biz
Non credo che sia il la forma urbis a dare fastidio, credo proprio che sia invece l'aspetto architettonico ad indispettire. Aspetto architettonico del quale francamente a me non frega assolutamente niente! Se non per il fatto che è un tentativo di dare individualità e identità ad una porzione di città. Gronda o non gronda il dilemma è relativo esclusivamente al sentire comune di cui si devono far carico le città, e se gli inglesi le vogliono così: che se le prendano così! Non posso che essere profondamente d'accordo con te quando dici che solo con criteri gerarchici si può dare forma alla città! E credo di capire che anche per te “un semplice ammasso scoordinato di masse edilizie” non è e non può essere considerato città!

Ciao
Angelo

Anonimo ha detto...

Angelo, mi sembra assolutamente logico e lodevole che tu difenda le tue ragioni, tanto più che lo fai con educazione e dovizia di informazioni. Voglio solo brevemente osservare che, se a monte di questo modo di progettare c'è il fatto che la gente vuole vivere in luoghi siffatti, come ti domandi ripetutamente, non bisogna dimenticare che la gente prende ciò che le si offre, è onnivora, metabolizza anche la spazzatura, altrimenti non si spiegherebbero gli indici d'ascolto stratosferici del Grande fratello.
Aggiungo che l’urbanistica (di quella si parlava, mi pare, se non ho perso il filo) è la pratica più coercitiva che ci possa essere, nella quale prevale il continuo dominio del collettivo sull’individuale: ogni cittadino, ogni casa, ogni isolato costituisce un tassello del grande mosaico che occupa il territorio, a maggior ragione in interventi come P., dove il controllo sulla progettazione è spinto alla più piccola scala, ma ciò che conta veramente è il mosaico generale. Infatti se io mi volessi costruire a P. una casa di vetro e acciaio, sarei costretta a cambiare comune di residenza, nel rispetto dell’edulcorata e falsa spontaneità del borgo antico.
“.... l’urbanistica ideale è la proiezione nello spazio della gerarchia sociale senza conflitto. Strade, prati all’inglese, fiori naturali e foreste artificiali lubrificano gli ingranaggi del dominio, lo rendono amabile.” così scrive Raoul Vaneigem nei suoi “Commenti contro l’urbanistica”, e Luigi Prestinenza Puglisi sul suo sito, "Tre parole per il prossimo futuro" : “Leon Krier, aiutato e sponsorizzato dal principe Carlo, produce edifici e cittadine che sembrano medioevali, ma solo per nascondere impianti tecnologici d’avanguardia e garage alla vista delle persone. E’ la logica puritana: lo faccio ma non lo dico.”
Dopo queste considerazioni sparse e disordinate (sia per mancanza di tempo che per pigrizia) che condivido, mi chiedo che differenza c’è tra progettare Brasilia e progettare Poundbury.

ciao
Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Invito Master e gli altri a visitare questo link al blog Dezeen (quindi lo potete guardare con fiducia: non è antichista) di un progetto in Inghilterra.
A parte l'architettura, l'impianto potrebbe essere definito, secondo alcuni, pittoresco e krieriano. L'architettura è fumettistica, le piante sono....popolari.
La grafica è originalissima.
http://www.dezeen.com/2009/01/12/goldhawk-village-by-peter-barber-architects/
Pietro

Anonimo ha detto...

Vilma,
hai centrato il punto dolente di P. la mancanza di libertà individuale. Hai perfettamente ragione nel dire che il grado di coercizione nei confronti delle scelte architettoniche dei singoli edifici qui è troppo elevato.
A P. lavorano molti di studi di architettura. Che io sappia Krier non ha disegnato edifici, ma le regole stringenti con le quali P. è realizzata sono ovviamente sue.

Ciao
Angelo

Pietro Pagliardini ha detto...

Vilma, non c'è differenza, in effetti, tra progettare Poundbury e Brasilia perché nell'architettura progettata dall'architetto, di tutti i tempi, c'è sempre una quota di falsificazione. In fondo, per ripararsi dal freddo, dalla pioggia, dal caldo, dai propri simili non c'è bisogno di molto più che quattro mura e una copertura.
Tutto il resto è "superfluo", è linguaggio, è simbolo, è riconoscibilità, è identità, è "stile".
La vera differenza andrebbe chiesta a chi vive a Brasilia e a chi vive a Poundbury, o meglio, la vera differenza la si valuterebbe se nella stessa città, contemporaneamente, fossero immesse nel mercato due aree l'una uguale a Poundbury, l'altra uguale a Brasilia. E vedere cosa viene venduta prima.
Ciao
Piero

Anonimo ha detto...

"La vera differenza andrebbe chiesta a chi vive a Brasilia e a chi vive a Poundbury, o meglio, la vera differenza la si valuterebbe se nella stessa città, contemporaneamente, fossero immesse nel mercato due aree l'una uguale a Poundbury, l'altra uguale a Brasilia. E vedere cosa viene venduta prima."

pietro, non fare demagogia spiccia. non può essere che se un progetto fatto da gerhy vende è 'na schifezza imposta dai potentati economico-imperialisti-globalizzanti e se vende P vuol dire che è la risposta migliore che si possa dare all'abitare semplicemente perchè l'ha scelto la gente. a 'sto punto pigliati la villettopoli diffusa che ti fa schifo,ti posso assicurare: vende benissimo.

robert

PS x BIZ: se t'innervosisci così tanto per una critica ai marciapiede non oso pensare cosa possa succedere se mi metto a criticare l'intero impianto fondativo di P (ti posso assicurare che di critiche se ne possono fare... ma veramente tante! :-))))

Pietro Pagliardini ha detto...

robert, non è demagogia spicciola. Ho detto, a parità di condizioni, cioè contemporaneamente e nella stessa città, ci verificasse questa condizione. Perchè come ha detto Vilma, il mercato assorbe quello che c'è, senza discriminare, perché l'edilizia è anche un bene rifugio. Ma, in ideali condizioni di mercato libero, mi spiace, ma non è demagogia, è scelta.
E se poi la gente vuole villettopoli, non piace a te e non piace a me, ma che ci possiamo fare noi?
Ciao
Pietro

Master ha detto...

In un mercato libero vince la metropoli efficiente, ben strutturata, dove tutte le funzioni sociali sono ampiamente soddsfatte: abitazione, lavoro, svago, cultura, divertimento, possibilità e varietà di acquisto, efficiente viabilità pubblica ecc... rispetto al villaggio-dormitorio. Facciamo il paragone tra Londra e Poundbury (e Londra non è perfetta, anzi ha un sacco di problemi) e poi vediamo chi vince.
Rispondendo invece al post di prima sul concetto di "irrazionale", io intendevo una disposizione volutamente casuale e irregolare per dare la aprvenza di trovarsi in un villaggio medioevale sorto in maniera spontanea. Ho guardato il link che hai postato e lo trovo un progetto interessante (anche se le immagini dalla grafica originale danno poche informazioni) ma è comunque alla scala del quartiere e non del villaggio.
Il vero problema di Poundbury, come già rilevato sia da Vilma che da Angelo, è l'imposizione di una architettura vernacolare poco credibile, insieme con l'impianto urbano "sconnesso", il tutto per creare un ambiente urbano "antico" in cui avere la sensazione di abitare in una città storica, costruita invece solo pochi anni fa.

Pietro Pagliardini ha detto...

Master, paragonare Londra a Poundbury mi sembra un pò fuori misura.
Sono d'accordo che l'architettura vernacolare (che io in realtà non disprezzo affatto) rappresenti l'ostacolo maggiore a farla apprezzare agli architetti e soprattutto mette in secondo piano l'impianto urbanistico che non è affatto "sconnesso" ma leggibilissimo e sapiente. Quella che tu chiami sconnessione, perché magari ci vedi qualche imperfezione apparente di troppo, è invece un ordine preciso: la piazza su cui convergono le due strade principali, la più importante delle quali prosegue quella esistente ed è pronta a continuare oltre questa prima parte.
Questa non è sconnessione, è ordine. Puoi non approvare ma chiamarla sconnessione è uno sbaglio.
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Nell’ultimo mio commento ho scherzosamente fatto riferimento ai principi fondativi di P. Beh… incuriosito, ho cercato di capire quali fossero.

Guardiamo Doechester (che chiamerò d’ora in poi D), D… non P, perché qui guardiamo sempre e solo P (e spesso e volentieri solo la P I fase non le altre 3-4).
D è una elegante cittadina di 15000 abitanti, più o meno di forma ovale immersa nella idilliaca campagna inglese. Una della principali regole che stanno alla base di D è il lotto allungato con casa unifamiliare (o a chiera). La casa si arretra dalla strada e il giardino è sul retro, come da tradizione inglese (l’hanno inventata loro la casa borghese), nel giardino ci faccio quello che voglio, è privato e si confronta e si giustappone agli altri giardini privati. Le auto stanno in strada o comunque in garage ma verso la strada. E la strada? Beh… in D non è poi così studiata: una semplice strada dove le case creano un fronte continuo o quasi. Si potrebbe studiare questa strada per migliorarla? Hai voglia! Ve ne sono di cose da dire: possono essere alberate, allargate, ristrette, i fronti possono essere alzati, bucati, resi uniformi o infinitamente variati. Il tutto, ovviamente, tenendo conto della distanza dal CENTRO città, più ci si avvicina al centro e più la densita può aumentare e la natura (sottoforma di aiuole continue e giardini privati non recinti) può svanire e lasciare il posto alla città di PIETRA. Belle queste regole, no? il traffico, rimane sempre confinato verso la parte pubblica della città, tutto è molto razionale ma anche no (vi sono alcune strade più o meno irregolari in D) onde evitare l’effetto griglia razionalista. Ovvio anche, che la città, dovrebbe possedere un CENTRO. E se il centro non c’è? Beh, cerchiamo di farlo. Dove? Beh… al centro. Uno si guarda D e cerca di capire se il centro c’è e, se non c’è, prova a crearlo. Ovviamente una città può avere bisogno di più centri, ma non sembra essere il caso di D… è talmente piccola, senza zone industriali e c’è un ferrovia che la attraversa (altro bel tema: la ferrovia unisce nella grande dimensione però separa nella piccola: crea quelle cesure che ritroviamo nelle nostre città). Bene, allora, ‘sto centro c’è e non c’è in D? uhm… da googleheart non parrebbe… qualche edificio storico, qualche piccolo parco storico… molte aree aperte nell’intorno della ferrovia… ma il fatidico centro non ci sta… purtroppo… non ci sta…

E quindi? Che si fa? Beh, ovvio no? il centro lo si fa fuori, in periferia, meglio se in un’area completamente libera così non mi devo rompere le scatole con fastidiose preesistenze e stratificazioni lasciate lì dal passato! Cosa molto intelligente non vi pare? Ho bisogno di un CENTRO: dove lo faccio? Fuori! In periferia! Cazzarola… che genialità ‘sta cosa… c’avevo mai pensato… oppure sì, in effetti è quello che fanno quelli che costruiscono centri commerciali ovviamente mettendo in crisi i centri storico-commerciali già esistenti.

E quindi, i nostri due bizzarri personaggi (Leon e Carlo) si sono messi in testa che, in mancanza, di un centro quel centro bisogna farlo fuori dal centro… cazzarola, son proprio geni ‘sti due eh? Diciamo che le regole fondative delle città le conoscono a memoria, eh?

Ah, ovvio che io parlo riferendomi alla P finita in tutte le sue fasi, mica solo il quartierino riportato nel post.

Quindi, ricapitolando, che forse non s’è capito: la città di D ha bisogno di un centro (non di due) e quindi lo si costruisce in totalmente decentrato. E come lo progettano ‘sto centro un po’ ubriaco? Usando le regole che nei secoli passati (confrontandosi con la modernità) gli inglesi hanno inventato? Macchè, certe regole che funzionano le possiamo tranquillamente mandare a quel paese. Quindi: lotti totalmente irregolari, macchine che entrano dappertutto, davanti, dietro, nella zona pubblica e pure in quella privata, massì, parcheggiatele dove vi pare.. appena finito lo spettacolo le rimuoviamo! Bella sta cosa, eh? Davvero complimenti.
E rispetto al contesto? O meglio… al genius loci… come sicuramente Leon chiamerà il preesistene (sai com’è… il genius loci presuppone la capacità dell’architetto di mettersi in ascolto delle regole fondative… delle problematiche della città… di tutte le stratificazioni storiche…si… in ascolto… per carpire il genius… e portarlo in…presenza…wow! mi emoziona la cosa).
Bene, tornando al contesto che fanno? Mettono in relazione D con P? cosa che parrebbe ovvia e che viene insegnata in qualsiasi facoltà italiana assieme alle regole che regolano la città (eh si, noi italiani, la città la sappiamo studiare, poi non ce la fanno costruire, ma studiare la sappiamo). No, per niente, semplicemente una rotatoria. Una bella e immensa rotatoria (Leon voleva fare un canale e una porta murata, ma Carlo, che deve vendere le case e non costruirle, ha preferito la moderna e funzionale rotatoria), ai lati un parco (ma ne ha così bisogno D? ci sta gia un’immensa campagna) e… boh… un altro parco o qualcosa che comunque assomiglia ad un prato. Quindi… P è legato a D solo da un paio di strade (assi) che giungono al centro del centro ubriaco di P. Quindi i nostri due bizzarri personaggi questo han fatto: di fronte ad una dignitosa cittadina di 15000 hanno progettato un nuovo centro che col D non c’entra un fico secco, Come dire: mi faccio il mio bel quartierino totalmente separato perché l’esistente è brutto, cattivo e sporco. Porca miseria…se non è tabula rasa questa… eh si, proprio tabula rasa.

Non mi metto a discutere sui limiti che danno alla loro cittadina: totalmente soggettivi e campati in aria; e non mi metto a discutere su altre questioni che sennò non la finisco più. Tanto per dire una: le zone industriali che i signori in questione pensano come i soliti opifici in bei mattoni rossi che davano lavoro allintera citta… ma no! cazzarola! Secondo me sti due hanno in mente l’alta finanza angloamericana! Sai… quella che fa soldi senza produrre! Che cavolo servono a sto punti i capannoni???Niente! Ovvio no?.


Io, tutte queste considerazioni, le ho fatte con quello che ho in mano… potrebbe essere che qualcuno conosca P e D talmente bene da smentirle tutte… però, ora come ora, mi par di capire che i due bizzarri personaggi che vogliono costruire P di città non ne capiscano un granchè. Non solo quella moderna ma nemmeno la loro stessa città settecentesca, ottocentesca che si è confrontata con la tecnica e le nuove richieste date dalla formazione della famiglia borghese… quella tradizione che ha dato alla luce la casa a schiera, i giardini privati e anche i giardini “aperti” paesaggistici.
Mi pare, in soldoni, che si sia di fronte al solito caso di megalomania: un principe che vuole costruire la sua città ideale e niente di più. Per fortuna che alla fine ne è uscito un grazioso ed villaggetto e non si messi in testa di far di peggio.
Qualcuno mi dirà: ma le regole che hanno usato? La dimostrazione che le regole spaziali delle città storiche funzionano? Beh… a questi consiglio di leggersi Camillo Sitte, di segnarsi gli esempi di città storiche che ha analizzato e, a ‘sto punto, di mettere al corrente in due tizi che han voluto costruire P che quello che cercavano già esisteva e fatto, oltretutto, con una qualità spaziale assai migliore.

Buona città a tutti
Robert

Master ha detto...

Il dizionario alla voce "sconnessione" dice: "che manca di connessione logica, di coerenza". Mi sembra che a guardare la pianta di P (ormai tutti la chiamano così) di irregolarità ce ne siano tante (chiamiamole irregolarità perchè la parola sconnessione non piace). Sono consapevole che l'effetto sia voluto (e a guardare alcune immagini anche esasperato in modo gratuito) ma mi chiedo quanto sia giusto nella pratica urbanistica e architettonica creare un villaggio finto-antico come P.
Di falsi-storici ce ne sono stati diversi in passato, da Grazzano Visconti (finto villaggio medioevale creato il secolo scorso vicino a Piacenza) ai castelli di Ludwig II in baviera (che scimmiottano i castelli delle favole) e oggi abbiamo grazie al principe Carlo (un novello Ludwig) un bel villaggio bucolico che potrebbe anche diventare un'attrazione turistica. Se questo fenomeno rimane circoscritto non c'è nessun problema, è il voler proporre quei modelli come schemi urbani da applicare che mi lascia molto dubbioso.

Pietro Pagliardini ha detto...

Mi piace molto il tuo commento robert (LdS); ti sei preso la briga di cercare di capire, magari un pò prevenuto, ma ti sei sforzato.
E le tue osservazioni sono pertinenti, stanno al pezzo.
Mi permetto però di fare alcune osservazioni: a me non sembra che D non abbia un centro. Guarda con attenzione a nord. Vedrai una strada (a nord-est) che ad un certo punto si biforca e diventa tangenziale. Segui la strada non la tangenziale e vedrai che dopo un viale alberato entra in città e dopo un pò arriva al centro, almeno a me sembra così. Non mi farei ingannare dal disegno generale, ovale come dici te, che è determinato dal limite della tangenziale, chiaramente recente (almeno questi hanno il senso del limite, del confine).
Dorchester era evidentemente un borgo lineare lungo quella strada.
La strada che, da A35, in città diventa High Sreet (il nome qualcosa dice)prosegue verso ovest e lambisce Poundbury.
Ciò che c'è tra la high street e la tangenziale è stato riempito in maniera non particolarmente disordinata (il confronto è con le nostre città) ma penso in tempi recenti.
Un altro indizio che la high street è il centro lo puoi avere dal fatto che su Google earth le fotografie, che puoi accendere o spengere, sono concentrate esattamente lungo questa (e a P).
Se osservi i vari quartieri di cui è composta la cittadina, vedrai che ne esistono di due tipi: quelli che descrivi te, con giardinetto davanti e giardino più grande dietro, con schiere allineate su strade rettilinee ma ne esistono altri, che invece cercano, di ricreare degli isolati. Guarda in particolare in drezione sud-est e vedrai qualcosa di analogo a P. Può darsi che sia nato dopo e abbia imitato, però se guardi in posizione simmetrica, a sud-ovest, ne vedrai un altro analogo.
Qual'è la differenza? Che a P. sono localizzate attività, negozi, servizi che fanno di un quartiere una comunità.
Dirai: un pò arbitrario il limite di P, un pò manierista in questa ricerca esasperata dell'irregolarità. E io ti dò pure ragione. Però credo ci siano due motivi: il primo è certamente il segno distintivo di Lèon Krier, ma tieni conto che ci troviamo in un paese più che in una città. Il secondo credo dipenda dal fatto che era necessario probabilmente dare a questo Manifesto una immediata definizione. Non credo che abbia potuto fare un disegno generale di tutta la parte sud, che altrimenti avrebbe certamente ricollegato a quel quartiere di sud-ovest, riempiendo quella vasta area verde che, come vedi, non è un parco ma un'area di risulta.
Se devo fare una mia critica semmai direi che in un borgo che nasce come lineare (e di questo sono ragionevolmente certo) la crescita dovrebbe avvenire per strade idealmente verticali a questa e poi parallele alla high-street.
Ma, ripeto, Krier non ha potuto fare il Piano di Dorchester, ma sostanzialmente una lottizzazione di dimensioni consistenti che fosse compiuta in sè, perchè, lo ripeto per 100° volta P è un Manifesto di un'idea.
Non sono affatto d'accordo con te invece sul discorso delle auto: Le auto entrano e parcheggiano dentro gli isolati, hanno i garage dietro, nessun portone per auto lungo strada. Niente ignobili rampe. La filosofia è semplice, potrà non piacere, ed è quella della convivenza auto-pedone. Le auto fanno parte della nostra vita e questo fenomeno va governato, non negato.
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Be', Pietro, se "P è un Manifesto di un'idea.", con che coraggio critichiamo le archistar che tappezzano il pianeta di "manifesti" delle loro idee, li accusiamo di soggettività, presunzione e esibizioniasmo? Uno che lo fa con 15.000 persone cos'è?

Vilma

Anonimo ha detto...

Pietro, non scalfisci di una virgola quello che ho detto io e per difendere un'intervento a scala urbana non sai far altro che dirmi: è un manfesto... a Leon mica han chiesto un piano per Dochester... però c'han messo i negozi... le auto van governate non negate... (eh??? farle andare dappertutto lo chiami governare?).

Allora: se uno si vuole occupare di città si occupa di città. Se uno vien chiamato dal principe ad costruire la sua piccola lottizzazione ideale… ok. Però la chiami come va chiamata: lottizzazione carina con piazze e negozi. Se vuol fare il manifesto… ok. Si ricordi però che il suo manifesto tratta temi ampiamente trattati e costruiti (vedi i centri storici italiani tuttora abitati e coi loro problemi di traffico e congestione) e che i manifesti li facevano le avanguardie cent’anni fa; attualmente agli architetti non vengono chiesti manifesti ma risposte, soluzioni e ascolto dei problemi di un’amministrazione/comunità. Se un architetto fa altro… ok, lo fan tutti, soprattutto le archistar (di cui il Leon fa parte). Agli urbanisti e agli architetti viene chiesto di dare soluzioni ai problemi e confrontarsi con la modernità (anche se non piace). Tradotto: la città è ben più complessa di come la dipingono l’accoppiata Leon-Carlo. Putroppo a tutta questa complessità P non dà risposta e, cosa peggiore, nemmeno si prende la briga di confrontarsi con D, coi suoi bisogni e con le sue forme (come hai fatto notare pure tu) e con gli strumenti che D e gli inglesi negli ultimi 3-4 secoli hanno affinato per confrontarsi con la tecnica e la modernità. Se poi tu chiami centro il girino-centro di D beh…. Pietro, non venirmi a parlare di città storiche perché io e te abbiamo una concezione della città come organismo ben differente. Un ultima cosa, le regole: ora, regola vuole che a D le auto stiano verso la strada e i giardini sia privatizzati e si guardino l’un l’altro. Ci sono eccezioni? Sì, ma la regola funziona eccome… è da un po’ di secoli che gli inglesi la usano. Mandarla a quel paese mi va bene ma chiamiamola coma va chiamata: soggettività di un archistar in cerca di lottizzazione medievale e carina da vendere.

Robert


PS: per favore, evita di darmi del "prevenuto", sentirlo dire da un che pensa che pure il cesso che perde nella propria casa sia da imputare a LC... beh, passiamo dal confronto al ridicolo. Per carità Pietro, almeno questo, risparmiamelo :-)))

Pietro Pagliardini ha detto...

Sì Vilma, capisco cosa intendi, e lo aveva già accennato anche robert.
Però va detto che il quartiere è (anche se so che non sei d'accordo) godibile e vivibile e la sua forza di Manifesto non si pone a mio avviso "contro" l'esistente come dice robert ma "per" un tipo di disegno urbano che riprende criteri di crescita e formazione della città.
Dorchester è sostanzialmente una strada con tutta una serie successiva di piccoli e meno iccoli insediamenti alquanto scollegati l'uno dall'altro ed esclusivamente residenziali (sempre meglio dei nostri, almeno in realazione alle tipologie). Poundbury lo sforzo di creare una nuova zona con dignità urbana lo fa.
Le Archistar lasciano invece segni (strampalati) per segnalare una presenza, quella dell'archistar stessa, dietro cui si nasconde l'idea di dissolvere la città in frammenti e, nel caso di piani urbanistici, di ricercare volutamente una totale separazione dal tessuto esistente.
Basta guardare il piano della Bovisa di Rem Koolhaas il grande, verso il quale gli stessi studenti del Politecnico (blog Bovisiani)hanno una reazione di rigetto.
Io farei un confronto tra questo piano, che puoi vedere sul blog Bovisiani, e il piano Fiat-Fondiaria di Krier a Firenze, di cui puoi trovare un disegno nel mio post
http://regola.blogspot.com/2008/11/le-scelte-di-piano.html
per vedere la differenza di approccio.
Detto questo confermo la mia perplessità su una lettura rigorosa dell'insediamento esistente.
Ciao
Piero

Anonimo ha detto...

“Dorchester è sostanzialmente una strada con tutta una serie successiva di piccoli e meno piccoli insediamenti alquanto scollegati l'uno dall'altro ed esclusivamente residenziali [..] Poundbury lo sforzo di creare una nuova zona con dignità urbana lo fa.”

Ecco, proprio questo volevo arrivare. Alla lettura che Leon-Carlo danno di Doechester: un semplice ammasso di case attorno alle strade e, come tale, non degno di esser chiamato “città”. Lo stesso pensiero che LC fece dei centri storici: non sono segni di essere città, rasiamoli al suolo. I nostri due però son più furbi di LC e quindi, sapendo bene che D non possono raderla al suolo si spostano un po’ così possono costruire. Di D se ne disinteressano totalmente, non importa loro che la costruzione di P avrà degli ulteriori effetti di periferizzazione per D stesso e si mettono a costruire nel vero senso della parola le loro teorie (che poi non sono loro non avendo inventato nulla).

Cavolo, abbiamo una concezione di città ben diversa. Per me una città è fatta non solo di elementi materiali ma anche immateriali: istituzioni, relazioni tra enti e persone, commerci, produzione, svago, mobilità, infrastrutture reali e virtuali ecc ecc. All’architetto dovrebbe spettare il compito di capire se tutti questi hanno sede e luoghi adatti, se la comunità ha bisogno di edifici, spazi aperti, chiusi, piazze, monumenti ecc ecc di buona qualità e, se non li hanno, porli all’interno di un contesto preesistente e risolvere, assieme (sottolineo assieme) queste esigenze. Se con P questo è stato fatto bene… lo riempio di elogi ma se non lo è, mi spiace, gli sparo contro ad alzo zero. E mi sembra ch più affondo vado alla questione più venga in presenza non il genius loci ma il semplice narcisismo di Carlo, Duca di Cornovaglia che… toh… guarda caso… è la regione in cui sono immerse D e P… sia mai che cercando cercando… scopriamo interessi immobiliari celati e mai da nessuno notati (ma questo è un altro discorso :-)

robert

Pietro Pagliardini ha detto...

Robert, ti rispondo al tuo penultimo, perchè, se devo essere sincero, l'ultimo l'ho capito poco.

Scusami ma prevenuto non voleva essere un'offesa. Volevo solo semplificare l'ovvia considerazione che tu guardi Poundbury per accentuarne i difetti, io la guardo per accentuarne i pregi. Ognuno di noi, e non credo tu faccia eccezione, ha una sua idea precostituita e, pur essendo aperti al confronto, tendiamo a corroborare le nostre convinzioni. Io poi dichiaro apertamente la mia faziosità.
Sulle auto sono in totale disaccordo. La scelta di mescolare auto e pedoni non è solo di Krier ma anche, e se non sbaglio l'hai citata te, anche dell'Olanda in molti interventi. La specializzazione esasperata delle strade non è propria della città ma delle infrastrutture e trovare il modo di far convivere auto e pedoni mi sembra una visione realistica e alquanto moderna. Se poi vuoi fare finta che le auto non ci siano o speri che non ci saranno più, è un altro discorso.
Quanto alle case a schiera con giardinetto davanti è sì molto inglese, ma non è detto che sia la migliore soluzione, visto che le città inglesi prima dell'800 non sono affatto diverse da quelle europee e italiane, e il rapporto casa-strada non è mediato dal giardinetto (che pure non disdegno in assoluto). Che seguire questa tipologia sia seguire il genius loci è assolutamente discutibile. Se guardi il centro, la High street, non è così. Probabilmente l'avrai vista, ma se tu non l'avessi vista e vai su un mio post di cui ti do il link, puoi trovare la pianta generale di D e P.
http://regola.blogspot.com/2008/12/note-sul-convegno-urbs.html

A me sembra che P., in soldoni, sia oggi e sarà ancora di più a completamento avvenuto, un'esperienza, se preferisci un tentativo, di ricreare le condizioni urbanistiche per avere una città con certe caratteristiche della città europea visto che quello che abbiamo davanti e di cui non mi sembra che molti si preoccupino, a parte la solita storia della speculazione, è un insieme informe di quartieri dormitorio che, checchè se ne dica, sono alienanti. La speculazione mira a fare profitti e se ne frega alquanto se la forma è in un modo o nell'altra. Non a caso tu dici che Carlo è uno speculatore ma che, guarda caso, l'ha fatto con un piano e con tipologie molto diverse da quelle che si fanno generalmente. Allora lascia perdere la speculazione che io potrei chiamare attività economica, che è argomento fuorviante, restiamo ai progetti, che mi risulta siano fatti dagli architetti.
Allora vedrai che le alternative non sono molte. P. è una. Un'altra è la normalità dei nostri nuovi quartieri senza strade, senza alcuna qualità urbana, senza servizi, mono-funzionali, con il giardinino davanti e dietro, oppure con i casermoni metropolitani, oppure con la villettopoli, sempre e comunque senza disegno relazionato alla città esistente, deserte per tutto il giorno, prive di vita di relazione minima; e la città è relazione. L'ultima è il grande piano modello archistar, per capirsi: quadri astratti riportati in pianta come se vi fosse analogia alcuna tra un quadro e lo spazio.
P. non è perfetta? Certamente che non lo è, ma credo che non lo sia, come ho detto prima, dal mio punto di vista, non dal tuo, cioè non è abbastanza rigorosa nell'applicazione delle regole di lettura del territorio che consentono di capire come dovrà crescere.
Lo è invece rigorosa nella sua logica interna, lo è anche nel tentativo di mescolare attività diverse alla residenza. Non è esportabile? Non è esportabile come fotocopia, per fortuna, ma il principio ispiratore lo è e faremmo molto bene a rifletterci. A meno che non adottiamo l'italico metodo della nostra cultura che è quello di "superare", "andare oltre" prima ancora di aver fatto qualcosa, condannandoci così a tenere la situazione attuale in eterno.
Ripeto, non a te in particolare, che il governo inglese ha indicato Poundbury come modello da seguire per i nuovi insediamenti commerciali in aree agricole, perchè a P. c'è una visione e un approccio globale di grande buon senso: un'area monofunzionale non funziona, lo zoning ha fallito e ha disintegrato lo spazio urbano.
P. propone un ripensamento. P. "va oltre", "supera" ma dopo che i tentativi sono stati fatti e non sembrano particolarmente buoni.
Noi a P. bisogna ancora arrivarci.
Sono caldamente in attesa di proposte migliori. Se ci sono tiriamole fuori.
Saluti
Pietro

Master ha detto...

A mio avviso il vero problema non è tanto Krier che vive nel suo mondo di templi greci e obelischi egizi (basta cercare un po' di immagini su google per rendersene conto) ma di chi gli permette di fare interventi semplicistici e manieristici come P. Il principe Carlo e tutti le altre amministrazioni che propongono questi modelli (l'articolo che ho linkato nel primissimo commento parla proprio del fallimento di uno di questi) lo fanno più sotto la spinta della speculazione che di una consapevole capacità di analisi dei problemi urbanistici di oggi. Per di più la storia insegna che in questo campo non esiste un modello che vada sempre e comunque bene perchè la complessità delle dinamiche urbane è enorme e va valutata attentamente e approfonditamente di caso in caso. E' abbastanza semplicistico applicare un modello a ogni realtà e ha portato spesso a grossi fallimenti.

Anonimo ha detto...

LdS, quanta acrimonia!
Poundury è un tentativo di tipo radicalmente diverso sia dalle urbanizzazioni di tipo "moderno classiche", sia di tipo "moderno ruspante" (leggi "villettopoli" ... villettopoli è "moderna", checchè se ne pensi ... almeno quanto skyscraper city ...)
Certo, ha i suoi errori; il tentativo lo farei diverso (e farei altri diversi errori, magari); però il senso del tentativo è apprezzabile comunque.

Se si applicasse la stessa ingenerosa acrimonia che applichi a P. a tutto il costruito recente, diventeremmo terroristi che mettono la dinamite negli edifici.

Anonimo ha detto...

Pietro, proposte migliori ve ne sono, basta guardare a tutta l’urbanistica olandese. P, purtroppo, è un “tema molto semplice”… diciamo che non si sono presi la briga di affrontare temi più complessi come possono essere le grandi aree urbane e metropolitane né tanto meno la città diffusa. Quindi il principio ispiratore va senz’altro bene, come sostiene il governo laburista, solo per i centri commerciali in area agricola. Come ho cercato di far capire il tema semplice l’hanno semplificato ancor di più spostandosi fuori D e costruendo ex-novo un insediamento. (A proposito: ma è stata l’amministrazione di D a chiedere un intervento di così vaste proporzioni accanto al proprio abitato? Se non sbaglio l’intera P, una volta conclusa, mi sa che accoglierà sicuramente qualche migliaio di persone...) A ciò si aggiunge il vizio fondante di P: è un’idea nata da dall’alto e da un singolo. Spiace, ma come tale non va nemmeno presa in considerazione come pratica urbanistica. Tolti i principi fondativi e l’aspetto procedurale non resta che giudicare P sotto l’aspetto puramente formale e quindi per me P rimane quel che è: un simpatico, grazioso ed elegante villaggio ben progettato e un po’ pittoresco che si rifà ai centri storici (mi pare un po’ poco come innovazione per il controllo degli insediamenti). Né più né meno di quello che posso dire di un qualsiasi altro progetto di qualsiasi altro architetto che riesce a nascondere sotto le belle forme (tradizionali, moderne, decostruzioniste o trans che siano…) delle ipotesi più o meno sbagliate in partenza. Se poi si passa all’equivalenza: osi criticare P? allora tieniti le villettopoli e i casermoni! Beh… a ‘sto punto stiamo saltando a piè pari tutto il dibattito attorno alla città, che anche nel nostro paese è stato portato avanti, e scadiamo in un dibattito un po’ meschino e ideologico che con l’architettura e la città non c’entra nulla e mandiamo in vacca tutto.

Robert

Pietro Pagliardini ha detto...

Robert, oggi arriva la seconda ed ultima parte del post su Poundbury.
Successivamente ho preparato, sollecitato anche dalla tua pervicacia, un post che, nelle mie intenzioni e nella sua essenziale crudezza, tenta di spiegare il perchè di Poundbury.
Così spero, bonariamente, di farti imbufalire ancora di più.
In effetti gli scambi di opinioni servono perché aguzzano l'ingegno.
Saluti
Pietro

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