Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


6 gennaio 2009

REGOLE

Pietro Pagliardini

Il nome di questo blog, De Architectura, è un pò troppo importante e sontuoso, certamente sproporzionato rispetto alle intenzioni, probabilmente frutto di mancanza di fantasia e di fretta intervenuta al momento della scelta.
Per carità nessun ripensamento o cambio di rotta, però il sottotitolo, “regola”, è quello che definisce meglio lo spirito e le intenzioni del blog.
Regola è un termine allo stesso tempo più circoscritto e modesto, preciso e accessibile, ma contemporaneamente riveste un carattere più generale.

De Architectura, sarà per la lingua latina, indirizza subito verso uno stile, una classicità e può dare l’impressione di escludere altre forme di architettura che pure rispettano la triade vitruviana, quali ad esempio l’architettura di base tradizionale, quella vernacolare ed anche architetture moderne e perfino contemporanee (poche in verità) che sono rispettose di quei principi.
Insomma, De Architectura non evoca solo le tre regole di firmitas, utilitas e venustas ma diventa inevitabilmente un veicolo che richiama alla memoria l’architettura aulica classica, quella della storia dell’architettura, quella rappresentativa dei grandi edifici specialistici e quella dei grandi architetti.

Regola, invece, non esclude niente, o meglio esclude solo l’architettura senza regole, che è poi quella che ha la sola regola di stupire e far parlare tanto di sé quanto del proprio autore.
Regola non esclude l’edilizia di base, quella che nella maggior parte della critica non assurge all’Olimpo dell’Architettura, ma che viene invece ignorata se non dileggiata e schernita mentre in realtà costituisce, per quantità e qualità, il corpo delle città.
Non esclude, ovviamente, il centro storico, che è l’incarnazione stessa delle regole non scritte ma cogenti e rispettate perché spontanee e non esclude nemmeno quanto di più disprezzato e negletto vi sia nella storia degli insediamenti umani contemporanei, cioè favelas e baraccopoli, dove si ritrovano invece molte delle regole dei tessuti urbani tradizionali.

Le regole, in un certo senso, fanno parte dell’architettura anche per coloro che, come Bruno Zevi, hanno cercato, fino alla deriva nichilista e de-strutturante del grado-zero assoluto, un linguaggio (e perciò regole) alternativo al classicismo, con un accanimento da conflitto irrisolto con il padre (il classicismo) e, in questa ricerca senza fine perché circolare, si sono persi senza trovarne di accettabili e condivisibili, se non quella, unica, di non avere altra regola che non derivi dalla potenza titanica dell’architetto che fa dell’architettura “il termometro e la cartina di tornasole della giustizia e della libertà radicate nel consorzio sociale. Decostruisce le istituzioni omogenee del potere, della censura, dello sfascio premeditato, e progetta scenari organici. Fuori di una modernità impegnata, sofferta e disturbata non c’è poesia architettonica”. [Bruno Zevi, Architettura della Modernità, 1994].

E’ chiara la visione di un’architettura che, diventando il mezzo di contrasto mediante il quale si può verificare il grado di libertà di una società politica, finisce per destrutturare la società stessa e le sue istituzioni, anch’esse ritenute, al pari dell’accademia e del classicismo, come oppressive della libertà. In Zevi è evidente il legame tra organizzazione politica della società e architettura, e la rottura delle regole di questa sono la distruzione di quella. Ma non si tratta di una visione schiettamente anarchica la quale in verità assegna all’individuo e alla sua libertà il compito di organizzare la società secondo dinamiche proprie non demandabili allo Stato e che prevede “una società che vuole basarsi sul libero accordo, sulla solidarietà, sulle libere associazioni, su federazioni, sul rispetto per la singola individualità che non volesse farne parte”, piuttosto di una concezione che svuota la società di ogni fondamento mediante l’esaltazione del superuomo che, in solitudine, fissa le proprie regole, senza dialogo alcuno con gli altri individui.
Infatti che dialogo architettonico esiste tra una Archistar e l’altra? Nessuno, non potrebbe esserci, perché ogni opera, o meglio ogni autore, fa ciò che vuole come lo vuole con una propria lingua che deve essere rigorosamente diversa da quello dell’altro. Questa è la regola-non-regola.
Tale culto dell’individuo, svincolato da regole e storia, è teorizzato da Zevi anche per il restauro scientifico che “soltanto un architetto schiettamente moderno e colto, che senta il restauro come un compito artistico, e intuisca la possibilità di creare, rispettando tutto ciò che esiste di antico , una nuova immagine poetica, necessariamente diversa dall’antica ma ad essa consona” [Bruno Zevi, Architettura in nuce, 1960].
Quindi, anche in un campo in cui le teorie d’intervento sono maggiormente verificabili, dove ci si confronta con la storia, tutto viene demandato all’architetto-artista che al solito, libero da altri criteri che non siano quelli individuali, con la propria “schietta modernità e cultura”, difficilmente potrà dialogare con alcuno e altrettanto difficilmente potrà essere giudicato, dato che non c’è lingua comune su cui intendersi.

Ma non potendo dialogare nemmeno tra loro, queste architetture solipsistiche non possono dialogare nemmeno con gli utenti, con gli individui che le dovranno abitare o fruire o subire; con ciò, seguendo la logica dello stesso Zevi, accade che al potere oppressivo delle istituzioni si sostituisce quello ben più pericoloso, perché non democraticamente controllabile, dell’architetto.

Questo è il risultato della poesia architettonica.


Di regole scriverò ancora.

N.B. L'immagine dell'uomo vitruviano-robot è tratto dal blog Dei o Demoni

8 commenti:

Anonimo ha detto...

Premetto che adoro Zevi ed anche i suoi difetti, il che non mi impedisce di dissentire da lui sia perché anch’io ho le mie modeste convinzioni, sia perché la lezione di Zevi oggi è forse datata, visto che in un mondo che corre così velocemente tutto diventa superato e discutibile in due giorni.
Convengo con te che la regola della non-regola è un trucchetto sul quale hanno giocato in molti, specialmente se analizziamo l’arte moderna dal dadaismo in poi, e mi pare che Zevi ci caschi in pieno quando, partendo dal grado zero del linguaggio (elasticamente applicando per esteso una teoria letteraria ad un’indagine architettonica ….. viene forse in mente Derrida?), mette in fila le sue sette invarianti, riproponendo la gaffe di Le Corbusier, che però non ha avuto vergogna di rimangiarsela (ben vengano tutte le Ronchamp!)
Trovo assolutamente innegabile la relazione tra architettura e società, anche se non schematicamente definibile secondo le equazioni zeviane, meno accettabile l’idea dell’architetto-artista-eroe, penso invece che come ogni storia anche quella dell’architettura sia un risultato corale, non perché l’architetto debba dialogare (con gli altri architetti o con i suoi utenti). ma semplicemente perché lui stesso non viene da Marte, è dotato di un sistema psico-cognitivo umano, cervello, sensi, memoria, è un 'animale sociale' come ciascuno di noi. Mi rendo conto che per le archistar bisognerebbe chiedere l’analisi del DNA, ma non credo sia possibile.
Tornando a Zevi, Sandro Lazier, zeviano di ferro, scrive in un suo articolo (http://www.antithesi.info/testi/testo_2.asp?ID=180) : “La teoria delle sette invarianti non è una teoria “formalistica come tutte le altre” perché la sua applicazione è successiva alla scrittura architettonica e quindi non può determinarla. Serve per leggere e non per scrivere.” Le invarianti zeviane, insomma, sarebbero “i criteri di lettura, le costanti dedotte dalla storia e riferibili allo spazio architettonico inteso come linguaggio.”
Mi sembra una puntualizzazione illuminante.
Comunque, se una teoria si presta ad essere equivocata, in genere non è colpa di chi legge, è colpa di chi scrive. Del resto, lo stesso Zevi è un 'poeta' della storia dell'architettura, e come tutti i poeti ha avuto straordinarie intuizioni.

Saluti

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Vilma, è chiaro che io, accentuando l'aspetto critico, coinvolgo Zevi, e non solo lui, in giudizi unilaterali, anche se non del tutto fantasiosi credo, che non prevedono la valutazione degli aspetti positivi. E Zevi ne ha, eccome, sia per come racconta la storia dell'architettura, per la sua teoria dello spazio architettonico, per averci insegnato la differenza tra l'architettura vissuta e quella rappresentata, sia per quel senso, assolutamente innato di libertà che promana dai suoi scritti.
Zevi era un libertario, e per questo ha tutta la mia ammirazione ma quell'anelito umano e politico risolto con l'architettura non mi convince affatto, proprio per le conseguenze catastrofiche.
Il discorso di Lazier (del quale però ancora non ho letto l'intero articolo) mi convince meno, sia per la lettura delle sette invarianti, che evidentemente è stata fatta su progetti del Movimento Moderno, non certo sull'architettura precedente, sia per il fatto che sarebbe solo "lettura", cioè regole ricavate da altri.
Non riesco a ricordare le sette invarianti come lettura oggettiva e neutra quanto molto partecipata e condivisa.
D'altronde è difficile che l'analisi dei fatti non sia influenzata da un'ipotesi o da in'intuizione che l'osservatore ha in testa (frutto di mie recenti letture), cioè quando si ricercano dati bisogna sapere già cosa ricercare.
Inoltre Bruno Zevi non era un Pietro qualsiasi e se nelle sue analisi storiche affermava ripetutamente l'esistenza di determinati principi architettonici, difficile che il lettore, specialmente giovane studente o architetto, non ne fosse influenzato e orientato necessariamente verso quei principi. Quei principi, tra l'altro, proprio per essere animati da uno spirito anti-accademico, anti-conformista (rispetto all'ottocento, però) e libertario trova terreno facile in un giovane universitario che pensa di rovesciare il mondo come un calzino e di liberarsi da tutte le catene e i vincoli della società (se in questa descrizione intravedessi qualcosa di autobiografico....ci andresti vicino).
Semmai dovrebbe essere compito dei docenti insegnare a discernere ma se aspetti quelli stiamo freschi.
Saluti
Piero

Anonimo ha detto...

Riguardo al tema delle regole in generale, occorre dire però che ogni regola generale, riferita all'architettura, va comunque riferita all'oggetto nel suo specifico.
Si possono fare tante cose che non vanno pur rispettando le regole.
E più una regola è astratta (oppure è derivata da esperienze particolari e poi generalizzata) e più il rischio aumenta.
Un caso concreto: regole di tipo proporzionale se usate non bene possono dar luogo a edifici con elementi "fuori scala", o dare l'illusione che basti usare certe proporzioni per fare una bella cosa.
Ancora: molte cose terribili possono venire non tanto dalla mancanza di regole, ma dall'utilizzo ossessivo e implacabile di una certa regola però inadatta.
In questo senso, la regola che mi piace di più - anche perchè non può essere del tutto definita e "normata", è quella della "convenienza" (da non intendersi in senso "genovese", la conveniensa nel senso di risparmio economico :-) quanto piuttosto l'adeguatezza, essere conveniente per quella occasione.

Ancora, mi vine in mente un altro tema, ed è la differenza sostanziale fra la "norma" (definita dalla legge, numerica ecc.) e la regola, nel senso di orientamento non automaticamente prescrittivo e cogente.

Pietro Pagliardini ha detto...

E'certamente vero quello che dici, biz. Le regole da sole non sono garanzia di risultato ed è chiaro che non parlo di regole dei regolamenti edilizi o delle NTA.
Le regole sono una condizione necessaria ma non sufficiente, ma la loro assoluta mancanza sono la assoluta certezza (salvo il genio, uno, due per secolo) di errore.
Tornando alle norme edilizie comunali, in realtà quello che ho detto prima è vero, ma per il fatto che nella maggior parte dei casi si tratta di regole numerico-quantitative, pensate solo per limitare, e non di regole tipologiche. Le regole di carattere tipologico sono finalizzate ad ottenere un risultato, per cui: vuoi che una determinata zona si sviluppi secondo regole tradizionali? Fisserai limiti agli aggetti, una gerarchia dei piani, ordine nelle aperture, tetti inclinati (laddove sono la regola, ovviamente) ecc.
Hai pericolose tendenze moderniste? E allora pilotis (bassi, così non sono un bel niente), nessun limite ad aggetti e terrazze sul fronte, nessuna regola di ordine per le aperture, coperture piane, ecc.
La maggior parte delle NTA seguono la seconda strada, con l'aggravante delle solite norme assurde che servono solo a favorire interpretazioni leguleie da parte dei soliti tecnici la cui unica perizia consiste nel sapersi muovere nei meandri dell'ufficio edilizia.
Ad oggi quello che vediamo è gran parte merito di questo secondo tipo: regole libere e norme da legulei.
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Si. Mi interessa focalizzare la questione su questo paradosso: più aumenta la spinta alla "standardizzazione" (la regolazione degli oggetti mediante "regole esterne", astratte, dovute a interessi diversi ed estranei all'oggetto in sè), più aumenta la retorica dell'artista fuori dalle regole - queste invece "regolatrici interne" dell'organismo che di deve realizzare.
Mi è anche tornato in proposito in mente un vecchio svolazzo che avevo scritto parecchio tempo fa, sul diverso concetto di "Standard" in Gropius e nel Jazz, che mi piacerebbe tu leggessi.
http://bizblog.splinder.com/post/12438108/Standard%3A+modello+o+idealtipo%3F

Pietro Pagliardini ha detto...

Lo leggerò senz'altro. Sono un amante dilettante del Jazz però anche qui sono rimasto....indietro e non credo di superare il bebop.
Ti farò sapere.
Ciao
Pietro

Salvatore D'Agostino ha detto...

«L’ironia della sorte vuole che Takashi Murakami sia al tempo stesso un “Fat Man” e un “Little boy”. Con il suo lavoro questo artista quarantatreenne riflette la psicologia di un’intera nazione, intrappolata in uno stato di adolescenza senza fine, dove la società è come un liceo, regolamentato da rigide regole fatte apposta per essere trasgredite quando i professori non guardano. » (Francesco Bonami, “Lo potevo fare anch’io”, Mondadori, 2007)
Pietro credo che ti manchi il referente principale un RE.
Il De Architettura inizia con le referenze all’imperatore Cesare: «Conscripsi praes… Ho messo insieme regole ben definite, esaminando le quali tu possa [Cesare] acquisire personalmente conoscenza della qualità delle opere già realizzate e di quelle da realizzare. Infatti in questi libri ho esposto compiutamente principi e norme di quest’ambito disciplinare.» (Vitruvio, De Architettura, Einaudi,1997)
Io non credo nella regola ma nelle responsabilità, da non confondere con le patetiche responsabilità del buon padre di famiglia italiano.
Comunque (con ironia) dopo Re Artù, Re Sole, Re Carlo (amato dal nostro Krier) ti suggerisco RE GOLA un rubicondo e simpatico imperatore inventore della città stato “Magna Italia”.
Un saluto,
Salvatore D’Agostino

Pietro Pagliardini ha detto...

Non era necessario scomodare Takashi Murakami: forse non ti sei accorto che è proprio il cattolicesimo che perdona la trasgressione alle regole e non come banalmente si dice, deresponsabilizzando le persone tramite la confessione, ma per il fatto che al centro di questa religione c'è l'uomo e l'uomo è, per natura, umano e fallace.
Cosa c'entra questo discorso, ti chiederai? Niente con il post, esattamente come Takashi Murakami, che, per inciso, non so proprio chi sia.
Saluti
Pietro

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