Pietro Pagliardini
PARTE 1°
L’obiezione ricorrente che viene opposta a chi crede che l’architettura e il disegno urbano, per andare avanti, debbano ritrovare le regole di crescita che hanno sovrainteso alla costruzione della città storica e regole architettoniche che azzerino il grado-zero di zeviana memoria e perciò debbano guardare indietro, facendo un salto di un’ottantina d’anni, e da lì ripartire (tenendo conto del fatto che in queste decadi la società è profondamente cambiata) è quella che recita più o meno così:
la ricerca non si deve interrompere e, come il progresso scientifico è stato reso possibile dalla sperimentazione libera, così l’architettura non può fermarsi, deve ricercare e
1) applicare nuovi materiali;
2) creare nuove forme adatte alla contemporaneità;
3) inventare nuove tipologie per tutte quelle “funzioni” che prima non c’erano e che ora proliferano a flusso continuo;
4) adattare l’architettura alle nuove tecnologie e ai nuovi stili di vita che creano nuovi modi di aggregazione e nuovi tipi di relazione tra la gente;
5) tenere conto dei nuovi bisogni e delle nuove tendenze che nascono nei luoghi professionali della comunicazione ma anche spontaneamente e dal basso nelle fasce giovanili delle periferie emarginate;
6) trovare formule spaziali adatte alle nuove forme di organizzazione del lavoro;
ecc. e devo smettere perché molte altre ve ne sarebbero.
Se è relativamente facile smontare tutte le derivate secondarie di quella prima obiezione (dimostrarlo è relativamente facile, difficile è vincere l’abitudine a pensarlo) molto meno semplice è argomentare la tesi di origine, cioè il fatto se l’architettura sia scienza e perciò debba seguire gli stessi metodi di questa, in particolare per la sperimentazione, oppure sia qualcosa d’altro.
Comincio dalla parte relativamente più facile.
1) I nuovi materiali: ci troviamo di fronte ad una delle tante contraddizioni di questa società che è capace di affermare, anche con forza ideologica quasi religiosa, il principio della sostenibilità e del rispetto delle risorse ambientali e contemporaneamente “sperimentare”, che vuol dire utilizzare, nuovi materiali quasi tutti energivori sia in fase di estrazione delle materie prime che nella produzione edilizia e nella gestione del bilancio energetico degli edifici, contrariamente a quello che la propaganda ci vuole far credere, in ossequio (da parte della propaganda) all’ecologicamente corretto.
Non c’è edificio nuovo, grattacielo, museo o auditorium dalle forme e dai materiali più “nuovi” e fantasiosi, che non venga presentato come eco-sostenibile e autonomo, o quasi, energeticamente. Basta affermarlo perché diventi verità, tanto nessuno si da cura di controllare, visto che quasi mai vengono forniti i numeri e dati in valore unitario (in assoluto non contano niente). Associare quei nuovi materiali alla sostenibilità è una contraddizione scientifica e un raggiro ai danni dell’ambiente. Per altre considerazioni più attinenti al rapporto tra architettura, materiali e benessere psicologico rimando a Nikos Salìngaros (http://en.wikipedia.org/wiki/Nikos_Salingaros) nel libro Antiarchitettura e demolizione.
2) Creare nuove forme: questa affermazione è frutto di un vero salto logico perché viene trasferito all’architettura il metodo che è normale nel mondo dell’immagine, della moda, delle auto che, per vendere, debbono creare sempre nuove accattivanti forme. Ma costruire edifici non è fare abiti o auto, non è moda, insomma, perché gli edifici non sono beni di consumo. E perché un edificio non è un bene di consumo? Basta chiederlo a colui che si fa la casa e che mette in quell’impresa molte aspettative per sé stesso e per i propri figli. Costruirsi la propria casa è un’impresa umana che il più delle volte viene affrontata una volta nella vita e che coinvolge emozioni, sentimenti, impegno dell’intera sfera famiglia, non solo per i costi e per il sacrificio che richiede, ma anche perché la casa diventerà il luogo in cui si svolgerà gran parte della vita di quella famiglia e conserverà il ricordo di gioie, dolori, avvenimenti importanti e preziosi per tutti i membri della famiglia stessa.
L’architettura ha accompagnato la storia dell’uomo, non solo quella scritta dagli storici, ma quella dei singoli individui che hanno preso possesso della natura, hanno occupato un territorio e gli hanno dato forma in base alle loro esigenze vitali per la sopravvivenza e a quelle simboliche, più recondite e segrete. L’uomo ha creato il suo ambiente artificiale di vita, la città, in un confronto continuo con la natura del luogo, modellandolo in base alla geografia, assecondandola o forzandola, se necessario. Decidere che secoli di lavoro e di intelligenza sono stati un errore e ripartire da zero con forme create ex-novo, in maniera astratta, cerebrale, senza relazione con i luoghi e con i bisogni degli individui è una scelta immotivata o meglio motivata da un delirio di onnipotenza, unito spesso ad una buona dose di ignoranza, di pochi che riescono ad imporsi su molti. Quanto al fatto che le forme devono adattarsi alla contemporaneità questa affermazione ribalta il principio di causa-effetto: se la società cambia e richiede nuove forme dell’abitare tale richiesta dovrebbe venire dalla società stessa, cioè dagli individui; invece la storia dell’architettura “moderna” è la storia di pochi intellettuali (peraltro di scarsa attitudine democratica) che hanno imposto un’ideologia a molti. Prova ne sia il fatto che non esiste architetto modernista che sia disposto ad essere giudicato dai cittadini.
L’architettura è diventato il campo dei soli esperti che progettano, giudicano, scelgono, propagandano. Cosa sia adatto alla contemporaneità sono loro a stabilirlo, da molti decenni e nonostante le prove evidenti del fallimento del loro pensiero. Il sistema di potere dall’establishment dell’architettura non è, concettualmente, molto diverso da quello delle grandi dittature del secolo scorso che si arrogavano il diritto di decidere ciò che era bene o male per i popoli. Certo che mancano gulag e campi di sterminio (che non è differenza da poco), è un potere dolce che si basa sulla propaganda, è un sistema raffinato che è stato capace di saldare le istituzioni con il potere economico e quello dei media e che si è arrogato il diritto di decidere per tutti. Si faccia decidere agli interessati cosa intendono per contemporaneità visto che saranno loro che dovranno abitarla e viverla.
3) Inventare nuove tipologie è, il più delle volte, operazione illusoria, come hanno dimostrato Caniggia e Maffei, cui rimando, visto che ogni nuovo tipo è l’evoluzione di uno precedente.
4) L’applicazione di nuove tecnologie, che è certamente importante, raramente richiede nuove forme. Non le richiede per quello che riguarda la comunicazione né per il risparmio energetico, visto che tutta la tecnologia si adatta benissimo alle tipologie tradizionali e le abitazioni che possono vantare alte prestazioni per la certificazioni energetica hanno forma compatta e masse murarie molto elevate, caratteristiche, guarda caso, proprio dell’edilizia tradizionale.
5) Quanto al doversi adattare alle nuove forme di cultura spontanea delle periferie, qui siamo addirittura alla beffa, visto che prima l’ideologia modernista ha creato le periferie come luogo dell’emarginazione, poi giustifica sé stessa e la propria esistenza con l’esistenza di quella emarginazione da essa creata, creando altri non-luoghi emarginanti.
6) L’evoluzione dell’economia mondiale, la delocalizzazione che si ritira sempre più nelle aree deboli economicamente, visto che, fortunatamente, aumentano i paesi ex in via di sviluppo, grazie alla globalizzazione; la recente e purtroppo presente crisi economica ha reso carta straccia i troppi volumi sprecati da economisti e sociologi sulla previsione dell’evoluzione del mercato del lavoro e ha dimostrato non tanto la fragilità del sistema quanto la pochezza dei suoi interpreti e presunti guru, da cui gli architetti hanno attinto tanto entusiasticamente quanto acriticamente.
Insomma, in tutti questi casi la prova della necessità di forme nuove dovrebbe essere a carico di chi le propugna e non di chi le nega, visto che non c’è evidenza alcuna che le renda indispensabili, salvo il fatto di dover obbedire, in molti casi, alla giusta esigenza della comunicazione e del marketing, come ad esempio nel caso dell’architettura industriale o commerciale, che non comporta però il fatto di fare di ogni luogo il luogo della pubblicità.
Invece, grazie ad un processo mediatico-propagandistico straordinario quanto ad abilità, passa tranquillamente il messaggio che occorrono per forza “nuove forme”.
Ma questo è proprio il metodo utilizzato dalla pubblicità: avete mai sentito una pubblicità che dica: “In effetti non abbiamo trovato un motivo vero perché dobbiate comprare questo detersivo rispetto all’altro, visto che risultati e costi sono pressoché identici, però comprate il nostro prodotto perche ve lo diciamo noi”?
Invece la pubblicità dice: “Il nostro detersivo lava più bianco, ma parecchio più bianco!”. E ne porta anche la prova : “Guardate com’è contenta la signora, quanto è soddisfatta del suo bianco! E anche il marito è contento delle camicie pulite. Se volete un marito contento e una famiglia felice comprate il nostro detersivo”.
Il messaggio è stucchevole nella sua mediocrità, ma passa perché fa appello alle emozioni e non è facilmente “falsificabile”, non è soggetto cioè a una smentita e quindi è difficilmente negabile e quindi può essere vero. Come ha più o meno detto un sociologo esperto di pubblicità in TV: “Di fronte ad un giudizio del Tribunale quali prove si potrebbero addurre per condannare come falsa una pubblicità emozionale? Chi è capace di portare l’inconscio come testimone in aula?”.
In un prossimo post affronterò il quesito se e a quali condizioni l'architettura sia scienza ed eventualmente cosa si possa intendere per ricerca in architettura.
Nota: La foto della pianta di San Carlo alle Quattro Fontane di Borromini è tratta da Wikipedia
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