Pietro Pagliardini
Il titolo non è mio ma è quello del nuovo libro di Marco Romano che consiglio vivamente di leggere con animo sgombro da pregiudizi. E’ un libro disinibito, dissacrante, libertario, liberatorio e perfino libertino, tanto è anti-moralista e quindi controcorrente in questa fase della nostra storia così grevemente moralista e giacobina, e lo è con spirito leggero e divertito. Leggendolo viene da immaginarsi la sottile e irridente perfidia dell’autore nello scrivere quelle parti più politicamente scorrette, col gusto per la provocazione intellettuale che ci ha messo, ben sapendo che sarebbe stato sottoposto alle critiche più feroci. Probabilmente andando volontariamente a sollecitarle.
Ma detto questo, il libro è serio, anzi serissimo, fondato sulla profonda conoscenza non solo delle città ma della storia e delle sue pieghe più nascoste, quasi da erudito topo di biblioteca.
Il contenuto è letteralmente politico perché affronta il tema città dal punto di vista della civitas, cioè dei cittadini, ribaltando completamente la visuale rispetto a quella che è la regola generale da sempre: la città europea come noi la conosciamo e come a noi è giunta, è il frutto dell’opera dell’uomo da mille anni a questa parte ed è cresciuta e si è trasformata guidata da una precisa volontà estetica non imposta dall’alto bensì cresciuta in un clima di democrazia e libertà, e quindi il metro con cui leggerla e giudicarla è l’uomo stesso in quanto cittadino, senza divinizzare i manufatti se non in funzione del soddisfacimento dei desideri, oltre che dei bisogni, dell’uomo in quanto appartenente alla civitas. Il valore simbolico dei temi collettivi e dei temi individuali trova la sua ragion d’essere nell’essere stati scelti come tali dai cittadini con l’intento di rendere più bella l’urbs.
Da questo assunto storico, che fa perno sul diritto di cittadinanza garantito dal possesso di una casa, le cui origini Romano spiega con dovizia di particolari, nasce Liberi di costruire, che va preso proprio in senso letterale, almeno di primo acchito, per entrare dentro l’argomento, salvo poi riportarlo entro l’alveo delle regole le quali però hanno sempre come faro il rispetto del diritto dei cittadini a costruirsi una casa secondo le aspettative e le possibilità di ciascuno.
Le regole infatti sono informate, riprendendo quello che sempre l’autore ha sostenuto, dal principio di garantire un godimento della città il più possibile egualitario, a prescindere dalle possibilità economiche dei singoli. Ciò può avvenire, secondo Romano, disegnando piani regolatori che non pongano limiti quantitativi al “dimensionamento” del piano (immagino i funzionari-urbanisti della Regione Toscana saltare sulla seggiola alla lettura di questa parte, ammesso che non sia già messo all’indice e che tutti i dipendenti non vengano perquisiti per evitare che il virus si diffonda), strutturati con rete stradale costituita da boulevard e viali che partano dal centro della città o comunque da luoghi centrali, affinchè la città sia una presenza per tutti gli isolati che affacciano su di essi e per tutte le case allineate lungo le strade, creando così una condizione tale per cui, anche chi non può permettersi di abitare in centro, abbia la percezione fisica di essere comunque parte integrante di quella civitas. E’ la visione tradizionale che Marco Romano ha del disegno della città, che in questo libro si evolve e si arricchisce di indicazioni politiche più ampie.
Leggiamo i titoli dei capitoli che lo compongono:
-Il cittadino europeo e la sua casa
- Limiti alla libertà di costruire
- La democrazia della civitas e la bellezza dell’urbs
- Che fare?
- Liberarsi dalle commissioni edilizie
- Liberarsi dalle norme edilizie
- Una libera casa di vacanza
- Liberiamoci dallo Stato.
Come si capisce, questo è un libro sulla libertà, che non va considerata in alcun modo anarchia o scambiata, ancora peggio, per una bieca visione speculativa, perché Romano non solo non rifiuta l’idea di progetto della città, ma anzi auspica un ritorno al piano disegnato, al piano all’antica, contro la pratica della pianificazione come fonte di corruzione:
“E su questo terreno incerto [cioè sulle infinite regole scritte da presunti esperti, Ndr] serpeggia un’endemica corruzione, che non va fatta risalire alla disonestà dei singoli – spesso coperti dai partiti – ma alle stesse procedure della pianificazione: una corruzione che i piani regolatori correnti fino a mezzo secolo fa, con le loro strade tracciate seguendo un’indiscutibile coerenza d’insieme e con una semplice norma regolativa dell’edificabilità, rendevano minima (...)
E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto –o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…) La vera difficoltà che incontra questa proposta non è tanto quella concettuale, perché tutti dovrebbero convenire su quanto sia connaturata a una società libera la libertà di conformare la propria casa secondo i propri desideri e non secondo le arbitrarie prescrizioni di quegli esperti che i principi totalitari infiltrati tra noi hanno legittimato, quanto dal semplice fatto che a controllare il rispetto di codeste norme sono impegnati gli uffici tecnici dei Comuni, che spesso non saprebbero a cos’altro venire destinati. Ma se il governo di questo paese vorrà seriamente impegnarsi nella spending review ecco un campo dove il taglio non soltanto sarebbe indolore ma verrebbe salutato con vero entusiasmo da quanti sono quotidianamente impegnati – gli architetti e i loro clienti – ad aggirare queste assurde disposizioni spesso con umilianti sotterfugi: gli attentati alla nostra libertà evocano in ogni campo un popolo di abusivi, e le quotidiane e innocue trasgressioni alle norme più stravaganti consolidano la convinzione che tutte le norme siano di fatto trasgredibili”.
Come si capisce bene, il gusto del paradosso, accompagnato da osservazioni assolutamente vere e a tutti note, serve a provocare una reazione forte nel lettore, a dare una scossa al torpore, al massimo all’indignazione, con cui oramai subiamo ogni tipo di assurde e inutili vessazioni.
Ma allora, c’è un limite alla libertà del cittadino? Il limite c’è e “la civitas è legittimata a porre limiti soltanto quando viene intaccata la sua sfera simbolica, e la sua sfera simbolica non è un campo aperto alle coercizioni dei pianificatori ma può essere soltanto quella sedimentata nei secoli dalla sua democrazia e dalla sua libertà”. La sfera simbolica è, secondo Romano, lo spazio pubblico con i suoi temi collettivi.
Sull’architettura, sulla forma che le abitazioni potrebbero avere, Romano pensa che: “E’ vero che la tradizione moderna pretende che l’architettura abbia il dovere morale di rispecchiare nei suoi progetti il linguaggio estetico appropriato ai tempi nuovi, quello di Gropius e di Le Corbusier, e non di replicare gli stili del passato, ma questa pretesa è anch’essa riconducibile ai principi di una pianificazione che pretende di formare un uomo nuovo piuttosto che soddisfare i bisogni degli uomini in carne e ossa; e se qualcuno tra costoro crederà di essere felice in un paese costruito con un aspetto antiquario è legittimo che trovi un architetto capace di disegnarlo – speriamo con un disegno più sapiente di quello corrente degli outlet , un disegno che del resto va già in qualche caso comparendo – ed è anche legittimo che codesto architetto non debba avvertire alcun senso di colpa per questa sua rara capacità”.
Molti altri sono i temi di grande interesse affrontati da Marco Romano, che conclude il suo libro con una intrigante, anche se di difficile architettura istituzionale, proposta di una Europa delle città, anziché quella di una Europa delle nazioni, sempre fondata su argomentazioni e interpretazioni storiche non certo estemporanee. Questo è il senso del titolo dell’ultimo capitolo, Liberiamoci dallo Stato, non quello di un grido anarchico o di un becero lassismo come qualcuno certamente penserà.
Un libro i cui assunti non tutti possono essere condivisi e tanto meno che se ne ritenga possibile la facile attuazione, ma che tuttavia riporta tutta la materia della città e dell’architettura alla sua fonte originaria, cioè l’uomo come cittadino parte della civitas con i suoi desideri e i suoi bisogni, sottraendo l’urbs alle grinfie dei presunti esperti. Chi mi ha letto un po’ sul blog sa che ho sempre sostenuto che per ridare legittimità all’architettura non c’è altra strada che rimetterla al giudizio dei cittadini. Forse è questa l’unica vera “terza via”, vale a dire quella di tornare alla prima.
7 aprile 2013
LIBERI DI COSTRUIRE
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2 commenti:
avrei da scrivere un poema, ma non posso superare i 4096 caratteri. volevo essere architetto ma poi purtroppo non ho intrapreso questi studi.
secondo me l'architettura non è un arte vera e propria,cioè un arte fine a se stessa.Ma ha una funzione.
Si progetta una chiesa non per abbellire la città ma per creare un luogo di preghiera.Anche le fontane, oggi meramente decorative, un tempo avevano la loro funzione.
In tal senso quindi si parla di "stile" e non di "opera d'arte". Ma oggi l'architettura sta diventando un'opera d'arte e questo per via del turismo che ha creato dei brand. La cupola del Brunelleschi è un "brand" che fa guadagnare pure soldi....
prima non era così.Ed ecco perché era normale che a Pistoia o Loreto si facessero delle cupole alla maniera fiorentina.
Ecco quindi che oggi si è diventati gelosi dell'architettura perché è diventata risorsa economica .... l'architettura delle città ha iniziato ad attirare turisti in massa.
Per me invece rimangono stili.Firenze ha un stile tutto suo,quello fiorentino, imitato per il mondo.... ma non per questo una Vienna costruita in stile "barocco romano" è una città da disprezzare.
Ricordiamoci che l'architettura è funzionale e quindi l'ego dell'architetto dovrebbe essere messo da parte a favore della funzionalità , anche estetica. Perché poi queste "creature" ce le dobbiamo subire tutti.Non è che un quadro o un film dove, al limite, non lo guardo.
Volevo però aggiungere una cosa altrimenti il commento sembra sconnesso. Seppur mi sembra che il libro, che non ho letto ma che sicuramente, se avrò soldi, cercherò in libreria non appena passo per il centro, sembra fare una critica ai tempi moderni (intesi nel senso di contemporanei perché l'architettura moderna, grazie al cielo,è scemata) , non mi trovo d'accordo con il titolo del libro. E questo perché io sono più favorevole a una certa rigidità ...sono abbastanza Haussmaniano in questo e così come Haussmann diede indicazioni ben precise sull'aspetto dei palazzi, credo che anche oggi ci dovrebbe essere un coordinamento che purtroppo non c'è.
Ripeto. Per me l'architetto deve servire la funzionalità (anche estetica) più che soddisfare il proprio ego progettando spesso gingilli architettonici orrendi o che sono un pugno nell'occhio. Sia ben chiaro, una cupola del Brunelleschi tra i tetti di New York, sarebbe un pugno nell'occhio. Quindi a volte il progetto di per sé è anche bello ma non è rispetto dell'ambiente.
Quindi no. Gli architetti non devono essere liberi di costruire, ma devono essere servili e piegarsi ai bisogni del luogo. In tal senso mi piace tantissimo, al contrario di molti, il Palazzo di Giustizia di Firenze che è moderno (è stato progettato se non sbaglio negli anni 70) ma rispettoso della tradizione fiorentina.....quei mattoni marroni mi ricordano il bugnato dei palazzi signorili del centro.
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