Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


26 aprile 2009

COMMENTO DI VILMA TORSELLI SULLA CHIESA DI FOLIGNO

Ho ricevuto questo commento di Vilma Torselli sul progetto della Chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Come faccio spesso quando ho fretta l'ho dapprima pubblicato nello spazio dei commenti, riservandomi di leggerlo con calma. Dopo averlo fatto, pur nella diversità di opinioni, mi sono reso conto che quel luogo era troppo stretto. 

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di Vilma Torselli

Ogni attività creativa dell'uomo produce immancabilmente simboli: unendo significati lontani e sintonizzandoli su un significato comune, l’opera costituisce il medium per svelare intrinseci valori simbolici ed un segno o una forma possono far riferimento ad una realtà non raccontata, ma resa comprensibile alla nostra capacità percettiva al di fuori dei normali processi razionali.


Come afferma Freud, il simbolo è un'eredità filogenetica grazie alla quale l'uomo ha una disposizione mentale che lo mette in grado di relazionare le pulsioni e le emozioni psichiche con gli oggetti, il campo della rappresentazione visiva è quello nel quale queste capacità relazionali vengono utilizzate costantemente e al meglio.

Si dice che "ogni figura racconta una storia", e questa asserzione generale vale per gran parte dell’arte, se si eccettua la ’mera’ decorazione geometrica.", così scrive Gregory Bateson ( "Verso un’ecologia della mente", 1997), e vale, aggiungerei, per l’architettura, che come l’arte è chiamata a istituire un criterio formale che convogli il linguaggio verbale verso la codifica iconica dell’immagine.

Tutte le attività umane, l’arte, l’architettura, che si esprimono attraverso segni acquistano un valore simbolico al di là della rappresentazione pura e semplice, per addivenire attraverso il simbolo alla rappresentazione visibile dell’invisibile.

Se accettiamo l’idea che l’architettura debba immancabilmente organizzare lo spazio secondo una funzione e al tempo stesso rappresentare i modi e il senso nei quali la funzione viene espletata, in relazione al contesto culturale in cui si colloca e che in essa si riconosce (da cui il valore simbolico dell’architettura), si comprende come tutto possa essere simbolo, che lo diventi o meno dipende dal significato che l’uomo gli attribuisce, in determinate circostante, in determinati contesti, nell’ambito di una realtà culturale precisa.

La religione ha sviluppato una vera e propria teologia simbolica, incorporando il concetto che il simbolo è mezzo per denunciare ed al tempo stesso surrogare l’inadeguatezza della parola o dell’immagine ad esprimere il sacro, cosicché l’architettura religiosa è per eccellenza quella che più si esprime attraverso una grande ricchezza di contenuti simbolici.

Tuttavia l’esecutore dell’opera, l’architetto che progetta un luogo sacro, esprime, sì, nella forma architettonica precisi contenuti liturgici e dogmatici codificati dalla tradizione religiosa, ma anche il senso che in quel momento storico e in quel contesto sociale viene annesso a quel tipo di edificio, filtrandolo, e questo è un passaggio chiave, attraverso il suo vissuto umano e culturale conscio o inconscio.
Solo grazie a questo passaggio un’architettura ‘simbolica’ diventa ‘simbolo’ (vedi la La Chapelle Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp).

Detta in parole povere, nella chiesa di Foligno Fuksas ci ha ‘messo del suo’, egli stesso spiega il significato della modesta elevazione del terreno, del taglio trasparente alla base, “la sospensione di un volume all’interno di un altro”, ecc.

Questi sono innegabilmente contenuti ‘simbolici’ che si sovrappongono a quelli dogmatici con il rischio reale di prevaricarli (rischio peraltro di tutta l’architettura moderna) e con la possibilità di una reificazione dell’architettura in oggetto architettonico. Ma questo rischio c'è sempre stato e sempre ci sarà, finchè, per fare una chiesa, non decideremo di mettere tutti i dati (dogmatici e liturgici) in un computer che, dopo una bella ‘shakerata’, sfornerà la chiesa perfetta!

Ciao
Vilma

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25 aprile 2009

ANCORA LANGONE SULLA CHIESA DI FOLIGNO

Un'altra PREGHIERA del 3 giugno 2008 di Camillo Langone sul Cubo di Foligno ripescata grazie alla segnalazione di un amico.

Due link per vedere la chiesa:
1)
www.archiportale.com
2)
www.archiportale.com

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23 aprile 2009

E SE FOSSE LA VOLTA BUONA?

Questo post è opera di Andrea Pacciani, architetto, che vive e lavora a Parma. Andrea si occupa da oltre 15 anni di progetti architettonici per nuove costruzioni di natura tradizionale, di interventi di restauro e di ristrutturazione. Si occupa di lavori teorici, studi di fattibilità, pianificazione urbana, oltre che di interni e di design.
A fine post c'è un suo profilo più completo.


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E SE FOSSE LA VOLTA BUONA?
di Andrea Pacciani

Finalmente una buona notizia!
Direi che questa sollevata d'armi dell'intellighentia da parte dell'architettura modernista è una vittoria senza precedenti per il Principe di Galles e per le idee che porta avanti con indefessa convinzione da oltre vent'anni.
La notizia non sta nel contenuto della dialettica o dall'esito del dibattito inglese su quell'intervento edilizio, quanto nel cambio di scala di uno dei partecipanti. Che la sua opinione abbia convinto la famiglia reale del Qatar a cambiare i progetti architettonici passa in secondo piano di fronte alla portata culturale della reazione scomposta del sistema consolidato delle archistar; queste infatti hanno sentito la necessità di schierarsi compatte contro un vero nemico della loro credibilità disciplinare, conclamata a livello planetario.

Fin adesso scarsamente considerato, se non addirittura denigrato o trattato con sufficienza dalla critica architettonica internazionale, con questo evento di cronaca il Principe Carlo viene assunto ad interlocutore “reale” nel dibattito; è evidentemente chiaro che l'eco delle sue teorie cominciano a diffondersi e a dare fastidio e a farsi sentire troppo anche tra i piani alti delle società immobiliari più importanti.

Fintanto che i suoi interventi erano a livello quasi filantropico in difesa di singoli interventi edilizi di modeste dimensioni, anche se di alto valore culturale o testimoniale, gli si lasciava volentieri un osso da mordere. Questa volta invece, per aver toccato interessi economici di scala importante, è arrivata la levata di scudi delle prime donne dell'architettura mondiale abituate a sfidarsi nelle più svariate parti del mondo a colpi di scenografici interventi autocelebrativi

In un periodo di implosione autoreferenziale della cultura architettonica dominante, le lobby immobiliariste globali si sentono evidentemente minacciate dalle pressioni di un personaggio che oltre Poundbury e una manciata di volenterosi seguaci alla ricerca di far vivere bene le persone in luoghi decorosi, non ha costruito niente in confronto a loro e non ha possibilità di ingerenza nella cultura architettonica istituzionale ed accademica (gli hanno anche chiuso tempo fa un'università in cui voleva si insegnasse architettura tradizionale).

Sicuramente solo la forte pressione dello statement immobiliare internazionale, che in questo momento di crisi mondiale ha subìto l'annullamento di commesse importanti un po' in tutto il mondo, ha compattato le vedette internazionali dell'architettura a schierarsi compatte a rivendicare la propria autorità disciplinare.

Da sempre snobbate, per il lignaggio del personaggio, considerato per questo poco credibile da un punto di vista scientifico, le sue tesi oggi possono essere considerate all'avanguardia, intesa come opinione controcorrente allo stato di predominanza culturale, ovvero quella modernista.

Per modernisti intendo semplicemente gli architetti che dal primo movimento moderno fino agli ultimi eclettismi storicistico-moderni (quelli che fanno architettura moderna un secolo dopo, alla ricerca delle radici pure della modernità senza rendersi conto che è cambiato il contesto storico-sociale ), o agli ultimi sperimentalismi (quelli che basta dimenticare gli assi cartesiani e tutto assume un aspetto più innovativo), credono ancora nel potere salvifico del nuovo rispetto al modo di gestire l'antropizzazione del territorio che si è perpetuato per secoli nella storia.

Sicuramente i temi dell'eco-sostenibilità, dello spreco delle risorse territoriali e delle energie non rinnovabili, in questo periodo sulla bocca di tutti, aiutano l'affrancamento delle opinioni del Principe Carlo dalle critiche stilistiche stupidamente prese a pretesto per contestare un modo di fare architettura che invece è integrato ad un sistema di valori di vita che vedono al suo centro il cittadino consapevole della qualità delle proprie scelte e l'identità dei luoghi in cui vive.

Chimera della modernità, la consapevolezza condivisa e partecipata dei cittadini ai temi dell'architettura oggi si manifesta attraverso invece nuovi progetti ed edifici tradizionali che in silenzio stanno conquistando piccolissimi segmenti del mercato immobiliare. Credo sia anche un fatto di comunicazione che si può leggere tra le righe anche in questa vicenda.

Il declino dell'architettura internazionale dello star-system è annunciato dal crescere dell'interesse dei temi dell'eco-sostenibilità ambientale: a questa svolta epocale di ricerca al rimedio del danno procurato dagli eco-mostri, i grattacieli e quant'altro costruito selvaggiamente in termini di risorse ambientali, non è stato ancora corrisposto un forte cambio di linguaggio architettonico di riferimento e ha indebolito le posizioni culturali dell'autorevolezza dell'architettura modernista contemporanea sbilanciata più verso l'impersonificazione del caos, dell'effimero, dell'architettura fine a se stessa.

E' forse il momento di una accelerazione nella comunicazione dell'architettura tradizionale come miglior applicazione dei concetti di costruzione ecosostenibile. Si tratta infatti di un approccio alla progettazione che si integra non solo tecnicamente meglio ad altre concezioni avveniristiche, ma soprattutto con la consapevolezza, per gli utenti, che quegli edifici sono costruiti sui loro bisogni reali e personali e non dei capricci dei progettisti o delle imprese, evidenziando il ruolo centrale della qualità della vita dell'individuo che lì deve abitare.

E' sicuramente il momento per il Principe Carlo di rimboccarsi le maniche e di raccogliere il guanto della sfida: chi meglio di lui può farlo? E' un'opportunità per i sostenitori di una nuova stagione classica per l'architettura, come altre ce ne sono state nella storia, che è al giusto grado di maturazione culturale per arrivare al sua conclamazione più ampia.

A vent'anni dalla pubblicazione del libro del principe A Vision of Britain: A Personal View of Architecture, oggi il Principe Carlo comincia a fare paura a qualcuno: che le lobby immobiliariste delle archistar comincino a pensare di scaricare qualcuno? è troppo presto per crederci, ma se son rose....


Profilo di Andrea Pacciani:

Andrea Pacciani, vive e lavora a Parma: da oltre 15 anni si occupa di progetti architettonici per nuove costruzioni di natura tradizionale, di interventi di restauro e di ristrutturazione. Si occupa di lavori teorici, studi di fattibilità, pianificazione urbana, oltre che di interni e di design.
Il curriculum più completo continua alla fine del post.

Contrariamente al modo corrente di fare la professione oggi in Italia, ha fatto la scelta di progettare e far costruire con i criteri compositivi e tecnologici tramandati dalla cultura costruttiva della tradizione; sulla semplice riflessione che si vive meglio nelle case di una volta che in quelle moderne, ha scelto di riprendere a costruire le prime con i comfort delle seconde.

Nato nel 1965 a Venezia, si è laureato in Architettura al Politecnico di Milano e ha svolto attività didattica in
collaborazione con l'Università di Parma. Ha ricevuto il secondo premio al concorso internazionale “Marsham
Street” Urban Design Competition, Londra (1996); ha organizzato “Le forme della tradizione”, Parma (2004),
convegno con atti pubblicati da Franco Angeli; ha esposto alla Biennale di Venezia (2006) 10° Mostra Internazionale di Architettura nella Mostra Città di Pietra con unprogetto su Punta Perotti a Bari.

Nel 2008 ha vinto il Palladio Award a Boston, premio internazionale per l'architettura classica e tradizionale.

Il suo lavoro è stato pubblicato su varie riviste di settore nazionali ed internazionali, e sul web; tra i suoi
scritti spicca, oltre a quelli dedicati all'Architettura Tradizionale, “L'Arte del Prosciutto”, un libro edito da
Mattioli 1885 che sconfina nella storia dell'arte e della gastronomia.

Parafrasando una frase di S.Agostino, il suo sito www.andreapacciani.com, nel quale viene descritta la sua
attività professionale, si apre con il motto IN INTERIORE HOMINE HABITAT TRADITIO



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21 aprile 2009

FORZA, CARLO!!

Pietro Pagliardini

La notizia è ormai nota: un nutrito quanto inedito gruppo di famosi architetti ha scritto una lettera al Sunday Times per diffidare il Principe Carlo d’Inghilterra dal mettere bocca su un progetto londinese di uno dei firmatari.
La notizia è nota e la do per scontata ma la novità è grande e merita tutta l’attenzione dovuta per i personaggi che coinvolge.
Intanto va decifrato che cosa rappresenta questo gruppo di architetti famosi, possiamo anche dire di archistar, se a qualcuno non dispiace:

- non è un SAR., che non vorrebbe dire Sua Altezza Reale ma Sindacato ARchistar perché, formalmente, non fa rivendicazioni economiche o di tutela del posto di lavoro;
- non è un gruppo di intellettuali che fanno appelli alla libertà, perché protestano contro una presunta, indebita ingerenza di un personaggio pubblico nel normale svolgimento del processo di formazione e approvazione di un progetto edilizio;
- potrebbe sembrare la preparazione di una class-action, cioè quelle cause collettive fatte a tutela di un gruppo di persone, in genere consumatori, contro un soggetto specifico per chiedere un risarcimento dei danni; potrebbe sembrare ma non lo è, perché qui il danneggiato potrebbe essere uno solo, cioè il progettista incaricato, e gli altri non hanno interessi specifici da tutelare.

Ma allora che cos’è?

E’ un errore. E’ la rappresentazione scritta e firmata di una debolezza, da una parte, e di una forza, dall’altra. Non mi riferisco ai soggetti interessati quanto alle idee che essi rappresentano.

Da una parte i più famosi architetti del mondo; ne manca qualcuno, certo; forse coloro che non hanno accettato di certificare per scritto la debolezza di un’idea.
Le riviste straripano dei loro progetti. Alcuni di loro sembrano produrre un progetto importante a settimana. La loro fama non è limitata al mondo degli addetti ai lavori ma ormai sono conosciuti praticamente a tutti, come le rock star, gli attori, le top model.

E’ un fenomeno abbastanza recente e mai conosciuto prima.
E’ un effetto collaterale dell’economia globale.

Non ha affatto aiutato l’architettura a migliorare. Ha assimilato l’architettura ad un bene di consumo come la lavatrice, l'auto, la TV.
Ma l’architettura non è una TV. Se non vuoi la TV non lo compri; sei un originale ma puoi non comprarla. Conosco diverse persone, non molte, che vivono benissimo senza TV.

L’architettura non la puoi rifiutare, quando c’è.
E’ lì, davanti a te. Vai in piazza e te la trovi davanti. Ci lavori dentro l’architettura. Non puoi cambiare città se non ti piace. Vai in un’altra città e trovi altre architetture simili. Ovunque nel mondo trovi architetture così
. Nei paesi ricchi ed anche in quelli poveri. Come la TV o la Coca Cola.

Dall’altra parte c’è un Principe. E’ una persona importante. E’ ricco. E’ un difensore dell’ambiente. E’ anche un pittore. E’ un appassionato amante dell’architettura tradizionale. Non so se abbia la TV in casa ma è certamente un originale.
E’ un personaggio controverso che non gode di buona stampa, anche se le sue azioni sono in salita. Potrebbe stare in pace a dipingere e ad andare a cavallo. Invece si occupa di architettura e urbanistica. Ha una fondazione molto attiva e grazie a lui è nato in Europa il primo esperimento di New Urbanism. Che ha un notevole successo di pubblico e di mercato. Per la critica basta aspettare. Ma già si vedono segnali favorevoli.

La sua colpa sarebbe quella di essersi interessato di un progetto presso la proprietà per cambiarne l’architettura, passando dal solito acciaio e vetro ad una più tradizionale. Posso immaginare che sia andato per un tè dal suo amico-proprietario e gli abbia detto, tra un pasticcino e l'altro: "Sarebbe bello che tu costruissi un progetto un pò più inglese, visto che siamo a Londra". E il suo amico avrà pensato: "Quasi quasi..! Faccio contento Carlo e magari lo vendo anche meglio... in questi temi di crisi.... che si guarda più alla sostanza".

Ma questa non è una colpa, è un merito. E allora perché si sono arrabbiati i famosi architetti?
Io penso che non si siano arrabbiati con il Principe.

Io penso che si siano arrabbiati con l’idea di architettura del Principe che sembra finalmente scesa dalle montagne e cominci ad affermarsi nell’opinione pubblica.
L’opinione pubblica non è la gente, perché quella non credo abbia mai cambiato idea, semmai hanno abboccato all'idea di casa come una TV, ma i mezzi d’informazione che cominciano a fiutare l’aria e, cominciando a dare credito a quell’idea, ne amplificano gli effetti.

E allora hanno commesso l’errore. Hanno certificato la debolezza dell’idea di cui sono portatori.
Sarà la crisi? Sarà la moda? Sarà una vera presa di coscienza?
Sarà quel che sarà. L’importante è che sia.


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19 aprile 2009

ARCHITETTURA DEL CONSENSO

Pietro Pagliardini

Questo post è un commento all’articolo di Vilma Torselli, Architettura e consenso, su Artonweb.
Inutile leggere il post se prima non si è letto l’articolo.

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L’interpretazione che Boncinelli fornisce della creatività in relazione al consenso sociale si presta, come accade spesso in questo campo, alla doppia, possibile interpretazione.
Al soldato che doveva partire per la guerra e domandava trepidante se sarebbe tornato vivo, la Sibilla rispondeva “Ibis, redibis non morieris in bello” lasciando a lui l’interpretazione nel mettere la sospensione prima o dopo la negazione, con ciò assicurandosi un sicuro successo.
Il doppio senso di Boncinelli mi sembra stia nel la frase “Il successo creativo richiede qualità sociali tali da permettere l’affermazione propria e dei propri prodotti, e tali capacità sociali possono facilitare un giudizio positivo sull’insieme delle caratteristiche possedute dal soggetto creativo”.

Ora mi sembra che Boncinelli, diversamente dalla Sibilla, non dia due risposte opposte ma due risposte di valore diverso, una basata sull’oggettività del prodotto creativo, l’altra, quella della frase riportata sopra, sulla soggettività , rispetto al pubblico, delle qualità sociali del soggetto creativo. Insomma, sulla capacità del creativo di sapersi vendere bene, di saper sedurre, di apparire convincente, con ciò lasciando al lettore la scelta se attribuire maggiore importanza all’una o l’altra delle risposte.

Non attribuisco un giudizio negativo a questa dote di fascinazione, tanto più in un architetto che non può in alcun modo essere simile ad un poeta maledetto, dato che questi può continuare a scrivere quanto vuole anche senza avere uno straccio di lettore ma l’architetto non può costruire neanche una capanna se non trova un minimo di consenso sociale, almeno in un cliente disposto a dargli credito. E i progetti da soli difficilmente fanno un architetto: mi piacerebbe aver potuto vedere Sant’Elia all’opera!

Non gli attribuisco un giudizio negativo ma aiuta a spiegare il perché, come dice Vilma Torselli, le archistar hanno tanto, innegabile consenso.
Il caso Gehry è emblematico e ormai è diventato un classico: il successo del suo museo a Bilbao è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Grazie alla sua creatività, sulla quale non si possono avere incertezze (che invece ve ne sono sul fatto se sia creatività da architetto o da scultore) ma grazie anche alla potenza dei media che, probabilmente in virtù del nome e della tradizione che porta il museo, l’hanno “pompato” oltre misura, e masse di turisti sono andate in una città ai più ignota, salvo che per il calcio. Grande è pure la creatività di Ghery nel sapersi fare propaganda, nel saper sfruttare con grande capacità la sua bella faccia rugosa e allegra da vecchio saggio e scapigliato allo stesso tempo, nel farsi fare il suo bel film da un grande regista, nel lanciare ai giovani insegnamenti tanto creativi quanti inutili, tipo quello arcinoto del foglio di carta accartocciato entro cui guardare con una telecamera per esplorare spazialità “nuove”.

Se Ghery è grande in questo, per esserne stato anche il capostipite del genere, altrettanto lo è Zaha Hadid la cui condizione di donna, in un universo di architetti uomini, e di irachena, in un ventennio in cui questo paese è stato al centro dell’attenzione mondiale, ha costituito un ottimo viatico, sicuramente casuale, nel conferirle un’aura di novità, mistero, esotismo, curiosità, eccezionalità, unito ovviamente alla sua creatività che consiste nel disegnare forme dinamiche nello spazio mettendo a frutto le innovative tecniche del software, che però nel passaggio dalle patinate copie a sublimazione alla dura materia edilizia, stentano a conservare la loro capacità attrattiva. Non risultano infatti per lei pellegrinaggi come a Bilbao.

Ma è giusto citare anche il nostro Renzo Piano il quale tra tutti è, in questo senso, il più intrigante e il più sapiente, con un approccio mediatico molto “contestualizzato”, che io definirei “genovese”, perché è “oculato” nel proporsi e, quando lo fa, riesce a mantenere un garbo ed un aplomb molto understatement, in cui bisogna essere veramente del mestiere per capire se ti sta prendendo in giro oppure se fa sul serio, e comunque ti lascia davvero sempre il dubbio; cosa invece che negli altri è più semplice discernere, se tanto tanto uno non è avvezzo ad abboccare a tutta la pubblicità che gli viene propinata.
Anche umanamente Renzo Piano è una miscela di romanticismo(il suo amore per il mare) e di concretezza (il suo battere sul mestiere e sulla ricerca) ed è perciò italianissimo in questo, perché è “ruffiano” come la sua architettura: non ti lascia senza fiato né ti indigna ma sei costretto ad accettarla anche contro voglia non riuscendo a capire cosa ci sia di giusto o di sbagliato. Al che, viene da pensare, ma non ho fatto alcuna indagine in materia, che il Beaubourg sia più opera di Rogers che sua, tanto è esuberante e eccessivo (per questo dubbio vedi anche www.prestinenza.it).

Mi piacerebbe anche parlare di Libeskind ma ho divagato troppo e sono anche andato fuori tema rispetto alle riflessioni finali di Vilma Torselli che condivido. Non c’è dubbio infatti che i media, nella loro fame mai appagabile di notizie sensazionali ad ogni costo, per valorizzare il loro spazio pubblicitario, lasciano poco o punto tempo e spazio alla riflessione meditata, a tutto vantaggio dell’immagine flash, della spettacolarizzazione, della “invenzione” straordinaria.
Anche la critica specializzata, sempre attraverso i media ma anche in gran parte attraverso l’università, ed è quella che lascia il segno più profondo, svolge un decisivo ruolo di mediazione tra il soggetto creativo e il pubblico.

E’davvero possibile bypassare questo sistema? Io credo proprio di no, si può solo sperare che cambi il prodotto ma il metodo resta lo stesso. Questo vale però per le punte dell’iceberg, per l’occhio dei media, per la notizia globalizzata. Esiste invece un grande bacino di consenso o dissenso che non sta sotto gli occhi del mondo ed è quello della provincia dove io credo sia possibile oltre che necessario, mettere in rapporto diretto soggetto creatore e pubblico, opere e città.

Lo si può fare, basta che lo si voglia fare ed è una forma di rapporto così profondamente coerente con la nostra società che si dice essere democratica che quasi stupisce non sia presa in alcuna considerazione. E’ il metodo del voto popolare, ma non quello fatto attraverso la TV digitale, che è manipolabile perchè influenzato da fattori incontrollabili, ma quello fatto proprio con una scheda o una firma, che richiede un interesse reale che smuova il cittadino ad andare in un luogo, a guardare cosa si sta pensando di fare della propria strada, del proprio quartiere, della propria città e decidere che cosa sia più giusto o, semplicemente, cosa gli piaccia di più.

Nel mezzo possono esserci manipolazioni politiche; è possibile, anzi sicuro, ma politica significa arte di governare la città, quella però fatta al cospetto di persone fisiche, di cittadini-elettori in carne ed ossa non passivi spettatori o lettori o nickname della rete. Quindi non ha senso parlare di manipolazione quanto di normale dinamica della politica, cioè di scelte per la città.
Un concorso per un nuovo edificio pubblico, una piazza, la sistemazione di una strada, un edificio privato di grande impatto, tanti sono i campi in cui è doveroso che vi sia il parere “scritto” dei cittadini.

In realtà la decisione su quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi della città”, fatta in base ad una intenzione estetica è caratteristica comune e peculiare della città europea almeno fin dagli inizi del medioevo.

Ma l’intenzione estetica collettiva, cioè la volontà di determinare ciò che è bello e ciò che è brutto per la propria città, pur appartenendo ad una società chiusa di tipo organico, perciò disposta a muoversi entro un universo di canoni condivisi, contrariamente alla nostra società aperta in cui la scelta individuale e le spinte centrifughe sono nettamente prevalenti sull'unità, ha determinato tuttavia la formazione di un diritto architettonico secondo il quale la città appartiene a tutti. Il fatto che vi sia una separazione dei compiti tra coloro che sono deputati alla redazione del progetto e coloro che di tale progetto dovranno essere i fruitori non esclude l’esistenza della figura del committente, di colui cioè che paga per l’esecuzione dell’opera.

Nel caso delle opere pubbliche non c’è alcun dubbio che tale committente sia la città.

Si tratta di decidere, perciò, se lasciare tale decisione al livello della democrazia rappresentativa, come avviene "teoricamente" oggi, cioè ai Consigli Comunali e Provinciali, oppure se rimetterla ad una forma più diretta, cioè direttamente dei cittadini.

Allo stato attuale la decisione è sempre e comunque frutto di una mediazione di interessi diversi e contrastanti tra una pluralità di soggetti:
- l’ente preposto che, consapevole della propria debolezza e incapacità di assumersi responsabilità che potrebbero influire sul meccanismo del consenso, si affida agli “esperti”;
- gli “esperti”, nominati anch’essi con assurdi metodi di garanzia che, per dover essere impersonali, finiscono per diventare o casuali o frutto di scelte opache;
- gli architetti che rivendicano il loro diritto alla libertà di espressione e alla creatività che è culturalmente l’opposto del rispetto dei luoghi e degli uomini;
- i cittadini direttamente interessati all’opera che vengono formalmente fatti sfogare nelle varie forme in cui si esercita la così detta partecipazione e trasparenza ma cui alla fine non resta che la formazione di comitati di protesta e del no; questa procedura, che in termine tecnico si chiama “presa in giro”, allunga a dismisura i tempi, inquina il clima, sotto ogni profilo, fa guadagnare qualche posticino in municipalizzate a qualche presidente di comitato e dà sempre, alla fine pessimi risultati.
Risulta perciò chiaro che la soluzione corretta è affidare la scelta dell’opera direttamente alla città.
Dunque, in campo urbanistico, come in quello artistico, è necessario trovare strade capaci di stabilire una relazione diretta tra autore e pubblico e direi meglio tra prodotto e pubblico, dato che l’autore interessa solo agli architetti e ai media. Ma qui c’è da superare un doppio ostacolo: quello degli architetti, cui torna comodo il filtro dell’establishment culturale e politico, più manipolabile che non il giudizio di massa e torna comodo anche ad una politica che, incapace da tempo di assumersi la responsabilità di scelte autonome, preferisce coprirsi le spalle con parodie di scelte democratiche.

Una prova di tutto questo lo avremo proprio con la ricostruzione in Abruzzo: voglio proprio vedere se quella gente così colpita nei propri affetti, nella perdita della propria casa e dei propri ricordi più intimi permetterà di essere espropriata della decisione sul che fare delle loro città. Voglio proprio vedere se il dibattito rimarrà a livello politico e di esperti urbanisti e architetti o sarà costretto a confrontarsi con i veri protagonisti della ricostruzione.

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14 aprile 2009

IL PARADOSSO DEL MODERNISTA

Pietro Pagliardini

Un brano di Karl Popper:

"In conseguenza della perdita del proprio carattere di organicità una società aperta può diventare gradualmente quella che amo definire una “società astratta”. Essa può perdere, in considerevole misura, il carattere di gruppo concreto o reale di uomini o di sistema di gruppi reali siffatti. Questo punto, che è stato raramente compreso, può essere spiegato per mezzo di un’esagerazione.
Noi possiamo concepire una società nella quale praticamente gli uomini non si incontrano mai faccia a faccia –nella quale tutte le attività sono svolte da individui completamente isolati che comunicano tra loro per mezzo di lettere dattiloscritte o di telegrammi e che vanno in giro in automobili chiuse. (La fecondazione artificiale consentirebbe anche la riproduzione senza la componente personale). Siffatta società fittizia potrebbe essere chiamata una “società completamente astratta o depersonalizzata”. Ora, il punto interessante è che la nostra società moderna assomiglia in molti dei suoi aspetti a siffatta società completamente astratta. Benché noi non sempre viaggiamo da soli in automobili chiuse (ma incontriamo faccia a faccia migliaia di uomini che ci camminano accanto nella strada), il risultato è quasi o stesso che se viaggiassimo a quel modo: noi cioè, di norma, non stabiliamo alcuna relazione personale con pedoni nostri simili.[…..]



Ci sono molte persone che, vivendo in una società moderna, non hanno alcun contatto personale intimo o ne hanno pochissimi, vivono nell’anonimità e nell’isolamento e, di conseguenza, nell’infelicità. Infatti, benché la società sia diventata astratta, la struttura biologica dell’uomo non è cambiata molto, e gli uomini hanno bisogni sociali che non possono soddisfare in una società astratta.

Naturalmente, il nostro quadro, anche in questa forma, è oltremodo esagerato. Non ci sarà mai o non ci può essere mai una società completamente astratta o anche una società prevalentemente astratta. Gli uomini continuano a creare gruppi reali e ad allacciare reali contatti sociali di ogni genere e cercano di soddisfare nella massima misura possibile i loro bisogni sociali emozionali.
[….]

Alla luce di quanto si è detto, risulterà chiaro che il passaggio dalla società chiusa alla società aperta può essere considerato come una delle più profonde rivoluzioni attraverso le quali è passato il genere umano. In conseguenza di quello che abbiamo definito il carattere biologico della società chiusa , questo passaggio deve avere su coloro che lo vivono un’incidenza profondissima. Perciò, quando diciamo che la nostra civiltà occidentale deriva dai greci, dobbiamo renderci conto di che cosa ciò significa. Significa che i greci cominciarono per noi quella grande rivoluzione che, a quanto pare, è ancora ai suoi inizi: il passaggio dalla società chiusa alla società aperta."

Karl Popper, La società aperta e i suoi nemici. Platone totalitario. Roma 1973.

Questo brano di Karl Popper, pubblicato in Italia nel 1973 ma concepito in gran parte circa 70 anni fa, non si occupa direttamente di urbanistica, tanto meno di architettura ma suggerisce alcune cose sul rapporto tra l’individuo, la società e la città: chi ritiene (in realtà auspica) che la città, nel suo adattarsi alla “società aperta”, debba assecondare quell’isolamento sociale di cui parla Popper, non tiene conto di quanto Popper stesso dice e che è abbastanza evidente anche senza scomodare Popper, cioè che la struttura biologica dell’uomo, nel passaggio durante questi secoli da un tipo di società all’altra, non è cambiata molto e ha ben poco di astratto.

Quindi l’uomo, la cui condizione ancora fortemente legata alla sua biologia alcuni giudicano evidentemente come primitiva, ha bisogno di città che permettano lo scambio sociale e che lo facciano sentire meno isolato, di case capaci di garantire loro intimità e riparo. Nonostante sia passato e passi sempre più di frequente nei media il messaggio di una società astratta in atto e si confondano alcuni episodi marginali, ma di grande impatto pubblicitario, legati al mondo dell’immagine, il grosso della società mantiene tutta la sua concretezza e la sua naturalità.

Questa società ha bisogno di città tradizionali e a chi pensa che ciò non sia vero io suggerisco di individuare, in ogni occasione possibile di nuovi progetti importanti, la strada giusta per fare una verifica: si rendano i cittadini responsabili delle scelte importanti per la città, sottoponendo loro una variegata gamma di progetti diversi e opposti come impostazione (non uno stesso genere, cioè) al voto popolare. Ciò che verrà scelto sarà la scelta giusta.

Chi sostiene una scelta tradizionale in urbanistica e architettura non teme il giudizio popolare. Chi lo teme si rifugia sempre dietro l’idea che queste scelte spettano agli esperti perché la gente non capisce, non possiede gli strumenti per giudicare.

Tale ragionamento ha in sé questo paradosso: i sostenitori di un tipo città che loro reputano adatta ad una “società aperta”, usano esattamente gli strumenti di potere e la forma mentis propri della “società chiusa”, della società organica e platonica.

In altre parole i modernisti sono "antichisti" oppure i progressisti sono i veri conservatori.

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10 aprile 2009

PIANO CASA, DENSIFICAZIONE, NEW-TOWNS

Pietro Pagliardini

Dopo circa un mese dal suo esordio non si può non prendere atto che il tanto inizialmente vituperato Piano Casa sta ottenendo lo scopo di cui parlavo nei precedenti post e negli innumerevoli commenti lasciati nei vari blog: oltre alla futura finalità economica, far discutere in positivo sulla città contemporanea, sull’urbanistica, sui suoi fallimenti e sui criteri da seguire per modificarla profondamente.
Una legge semplice, senza astruserie e ridondanze (ma ancora devono arrivare le Regioni), senza dichiarazioni di principio come è d’uso ormai nelle varie leggi urbanistiche che sembrano catechismi urbanistici da Stato Etico che impongono “comportamenti” , e quindi stabiliscono “colpe”, più che norme legislative, che dettano regole e stabiliscono infrazioni, ma una legge che ha riacceso un interesse sopìto da tempo.

Densificazione e new towns sono diventate le parola d’ordine e mentre sulla prima c’è una certa convergenza di pareri, sulle seconde c’è opposizione o diffidenza.

Densificazione è una bruttissima parola che possiede tuttavia il dono di farsi capire da tutti anche se la legge non la utilizza mai; la legge dice solo che è possibile demolire e ricostruire con un premio volumetrico.
Da questa possibilità ne ricavavo la necessità di utilizzarla soprattutto in quelle aree marginali alla città del tutto prive dei requisiti urbani per renderle più dense e integrarle con le città stesse.

Densificare è però necessario ma non sufficiente; questa legge ha il pregio di essere uno strumento affidato alle scelte della società civile che potrà farne l’uso che vuole e di cui sarà capace; non impone regole se non quantitative e il resto spetta al mondo della cultura e della politica. Densità non dice infatti nulla sul risultato qualitativo che si intende ottenere.
Se dietro non c’è un’idea di città, se si intende proseguire con la cultura urbanistica dominante fino ad oggi che ha portato alle periferie e alle aree marginali attuali non solo si perde un’opportunità grande, ma si rischia di aggravare la situazione di parti di città già degradate. E a poco varrà affidarsi al solo risparmio energetico che, in termini di apporto globale non avrà un valore significativo, perché è lecito supporre che gli edifici da demolire siano prevalentemente dismessi, quindi a consumo zero, mentre quelli da ricostruire consumeranno, se pur poca, energia; per cui il bilancio energetico totale, alla fine, non potrà che essere negativo o prossimo allo zero.

Demolire e ricostruire nelle periferie vuol dire tessere l’ordito stradale che ancora non esiste, riempire i vuoti per unire brandelli di città, trovare spazi pubblici e verde urbano.

E’ il momento della svolta, è il momento di disegnare città con le regole che hanno sovrainteso alla crescita delle nostre città storiche.

E’ il momento in cui la strada deve tornare ad essere l’elemento generatore della trama urbana, abbandonando il lotto razionalista con l’edificio che vi fluttua dentro, indifferente agli edifici e alla strada stessa, banale accostamento casuale di oggetti di (scarso) design.

E’ il momento dell’isolato che aumenta la densità senza eccessivi sviluppi in altezza che restituisca ai cittadini il piacere di abitare in una città autentica e dia loro la possibilità di intessere normali rapporti sociali con gli altri individui lungo la strada finalmente percorribile anche a piedi e non solo funzionale al traffico veicolare. La città è il luogo della socialità, dello scambio di merci, di cultura e anche di sentimenti umani che non sono affatto cambiati come da più parti si tende a far credere. Senza città non esiste forma di civiltà umana possibile e l’unica città in grado di garantirla è quella tradizionale.

Le piazze non dovranno più chiamarsi tali solo per via della targa, ma diventarlo realmente quali risultanti di nodalità cui concorre il disegno gerarchico della rete stradale, la quale dovrà tenere conto delle relazioni territoriali esistenti e delle preesistenze naturali o artificiali.

Dovrà finire la zonizzazione funzionale, che ha diviso la città in reparti stagni ognuno dei quali è abitato alternativamente solo di giorno o solo di notte, per fare posto al mix di funzioni.

L’edilizia sociale non dovrà avere niente che la possa distinguere come tale e dovranno avere fine i quartieri popolari che nascono, oggi più che mai con il fenomeno dell’immigrazione, con il marchio della diversità e dell’emarginazione.

Densificare per fare città belle.

E’ difficile tutto questo e forse è un’illusione ma non è né utopia né fuga in avanti.

Per ottenere questo risultato, tuttavia, dovrà essere accantonata la mentalità della complicazione burocratica fine a se stessa e il sacrificio del principio di realtà a leggi irrazionali e incomprensibili. Non che la realtà sia semplice o che la Legge debba essere disattesa ma quando questa diventa non solo ostacolo insormontabile alla realizzazione in tempi ragionevoli di piani e di opere necessarie e in più cozza contro elementari principi di libertà significa che ad essere sbagliata la Legge e non la realtà delle cose. Il rapporto tra realtà e Legge è sempre bi-univoco nel senso che l’una crea l’altra e viceversa ma quando questo rapporto diventa univoco, come sta accadendo da anni ormai a tutto vantaggio della Legge, significa che nella società si è insinuato un virus capace di fiaccare la volontà e le coscienze e di far scadere il mondo reale a pura astrazione.
E’ necessario perciò che gli architetti tornino a fare il loro lavoro e abbandonino le procedure dell’urbanistica, che nelle loro mani si sono trasformate da mezzo a fine, e le lascino svolgere a coloro che ad esse sono deputati per cultura e professione.

Sulle new-towns, che allo stato attuale credo siano un’intuizione non concretizzata in articolato, vale sempre il discorso della parola che induce a pensare male perché ci riporta all’esperienza inglese che spesso ha dato esiti negativi.

Ho letto sul Corriere della Sera che il concetto di new-town viene affiancato al nome di Hebenezer Howard, il teorico della città-giardino. Non si può escludere che il Presidente del Consiglio possa avere in testa un simile modello e ammetto anche che l’ideologia che sta dietro le new-towns inglesi del dopo-guerra non differisca molto da quella, però io interpreto quest’idea come un segnale, un simbolo che esprime il desiderio di ritrovare una città bella e funzionale dopo il fallimento della città moderna.

Ciò che non è accettabile è il fatto che coloro che apprezzano Brasilia e Chandigarh, il Corviale o lo Zen, rigettino aprioristicamente questa idea perché creerebbe ghetti! E’ forse troppo chiedere coerenza logica?
Coerenza che invece appartiene a Pier Luigi Cervellati che su Repubblica, riferendosi proprio all’Aquila, chiede di ricostruire il centro storico esattamente com’era prima, ricordando l’esempio di Varsavia. Una visione non solo coerente con il suo pensiero ma che tiene conto del valore profondo dell’identità e dell’appartenenza dei cittadini ai luoghi e alla città. Una relazione complessa questa, molto simile all’amore per un’altra persona che, quando è forte, non accetta scambi anche se l’alternativa si presenta migliore.

Ma anche nel caso delle new-towns vale il criterio sostanziale di quale dovrà essere il loro principio ispiratore che non potrà essere diverso da quello sopra esposto. In questo caso esse potranno svolgere un ruolo di esempio, di guida, di indirizzo anche per gli interventi nell’esistente. E’ abbastanza chiaro che ipotizzare 100 nuove città di fondazione non può che rappresentare un segnale simbolico per dire: le nostre città hanno fallito e devono essere cambiate e migliorate radicalmente e tornare belle come lo erano prima e come abbiamo dimenticato di farle.
Nell’ambito del territorio nazionale ci potranno essere villaggi totalmente nuovi (e non c’è niente di strano visto che anche in Gran Bretagna stanno andando in questa direzione) dotati di una loro autonomia e villaggi nuovi ma fortemente integrati con le città esistenti, in base alle diverse realtà urbane esistenti.

Perciò, se il termine città-giardino è una metafora per dire che i nuovi insediamenti dovranno caratterizzarsi per un livello alto di qualità della vita, entro cui rientra anche, ma non solo, il verde, va bene, sapendo però che la caratteristica prima della città, e di quella europea e mediterranea in particolare, sta nella densità, nello spazio racchiuso più che nello spazio aperto.

La concentrazione, in orizzontale e non in verticale, è un valore perché incrementa i contatti e lo scambio, il vuoto isola.

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9 aprile 2009

Salìngaros, Piano casa e Archistar



Sul Piano casa segnalo questi due articoli su Il Domenicale di Nikos Salìngaros e Matteo Tosi

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2 aprile 2009

LA FORZA DELLE IDEE

La Republica, 10 marzo 2009
Appello:

Le licenze facili e i permessi edilizi fai da te decretano la fine delle nostre malconce istituzioni. Il territorio, la città e l'architettura non dipendono da un'anarchia progettuale che non rispetta il contesto, al contrario dipendono dalla civiltà e dalle leggi della comunità. La proposta di liberalizzazione dell'edilizia, annunciata dal presidente Berlusconi, rischierebbe di compromettere in maniera definitiva il territorio. Ecco perché c'è bisogno di un sussulto civile delle coscienze di questo paese.

Gae Aulenti
Massimiliano Fuksas
Vittorio Gregotti


Ventitre giorni dopo…..

IL SECOLO XIX, 2 aprile 2009.(1)
Bruno Lugaro intervista Massimiliano Fuksas.
…….
Lugaro: (la proposta) non sembra così diversa da quella originaria di Berlusconi contro la quale lei per primo si schierò due settimane fa.
Fuksas: ……Ciò che non condividevo del piano Berlusconi era la demolizione delle istituzioni non quella degli edifici obsoleti…..Oggi con una legge concretamente cambiata, siamo tornati un Paese normale.
……..
Lugaro: Le regioni alla fine hanno dato ragione a Berlusconi su ampliamenti e demolizioni di vecchi edifici. Lei è d’accordo quindi?
Fuksas: Certo, non vedo nulla di strano nell’autorizzare aumenti di volume del 20%, oltretutto con il limite di 1000 mc.
……
Lugaro: Non sarà facile neppure applicare la norma della “rottamazione” degli stabili obsoleti.
Fuksas: E’ vero, ma l’idea è ottima. Si può veramente ragionare sull’eliminazione di volumi che non hanno più alcun senso e ce ne sono tanti.
….
Lugaro: La burocrazia è una delle questioni affrontate dalla nuova legge.
Fuksas: Lentezze e inefficienza sono un problema reale che va risolto: lo ha detto Berlusconi lo hanno confermato i presidenti delle Regioni nel loro documento.
……
Lugaro: Architetto, la Conferenza delle Regioni ha chiesto il suo aiuto per la stesura del Piano?
Fuksas: Diciamo che ho dato volentieri un contributo.
……..




(1) Il link all'articolo del SECOLO XIX non c'è perché é riservato agli abbonati.

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