30 ottobre 2011
29 ottobre 2011
STOP AL CONSUMO DI SUOLO O CONTRAZIONE DELLA CITTA?
Limitarsi allo Stop al Consumo di Territorio? O promuovere una restituzione “sostenibile” di parte dei terreni finora consumati?
di Ettore Maria Mazzola
Di recente, grazie anche all’operato di un sindaco illuminato come Domenico Finiguerra, sono nati in Italia diversi movimenti popolari atti a dire basta al consumo di territorio da parte dell’edilizia.
Della cosa, ovviamente, si sono interessati tutti tranne (o solo in maniera molto marginale) che gli architetti e gli urbanisti. La lezione morale che viene da quest’esperienza è comunque la dimostrazione della straordinaria volontà di partecipazione da parte della cittadinanza, stufa di essere posta a margine delle decisioni dalle quali può dipendere la propria qualità della vita e il proprio futuro! Del resto, studi sociologici come quello di Zigmunt Bauman (Voglia di Comunità – Laterza, 2005), dimostrano il desiderio di riappropriarsi della propria identità, e del senso di appartenenza ad una comunità, da parte della popolazione relegata al ruolo di spettatrice nella realtà che le viene costruita intorno ed in cui è costretta a vivere.
Per quanto mi riguarda, non solo ritengo che sia possibile non consumare più territorio, ma perfino che sarebbe possibile restituirne parecchio alla campagna. Ho affrontato il tema nel mio libro "La Città Sostenibile è Possibile" (Gangemi 2010) e nei progetti che ho sviluppato per la "rigenerazione urbana" di Corviale a Roma e dello ZEN di Palermo, mostrando come sia possibile "ricompattare la città dispersa" creando posti di lavoro, calmierando il mercato fondiario e immobiliare, e migliorando le condizioni socio-economiche di chi è costretto a vivere in "quartieri" spersonalizzanti.
Non si tratta di bloccare l'espansione, ma di promuoverne anche la contrazione. Non si può dire che non si deve costruire sul suolo demaniale, perché questo rischia di portare con sé l'espansione a macchia d'olio della città, sotto l'egida dei movimenti ambientalisti: è ciò che sta accadendo a Roma, dove il nuovo Piano Regolatore vieta di costruire su suolo pubblico, consentendo agli speculatori fondiari e immobiliari di acquistare terreni agricoli e promuovere l'edificazione residenziale in luoghi sempre più lontani dal centro urbano, peraltro in assenza di un adeguato sistema di trasporto pubblico! Cosa ancor più grave è che la Regione e il Comune ipotizzino la realizzazione di quartieri di edilizia economica popolare e/o gli interventi di "mutuo sociale" in questi luoghi lontani da tutto e da tutti, giustificando la scelta con l’ormai noto slogan della necessità di realizzare alloggi per chi ne ha bisogno, dimenticando che quei “bisognosi” necessitano anche di contenere le spese di gestione della famiglia, ergo di risparmiare le decine di euro/giorno necessarie per il carburante delle auto da cui dipenderanno per recarsi al lavoro … ma questo sembra essere un problema loro, e non della società! Così come sembra non essere un problema per questi miopi politici, urbanisti e pseudo-ambientalisti, il costo di costruzione e di gestione di tutte le infrastrutture necessarie a rendere possibile città la cui estensione di strade e marciapiedi, reti, fognarie, acquedotti, elettriche, gas, telefono, e la cui potatura degli alberi (posti a margine per fingere una certa attenzione all’ambiente) gravano sul bilancio di tutti noi!
Se in realtà ci accorgessimo che, a causa di uno scriteriato modo di fare urbanistica generato dalla concezione idiota della "Città Funzionale", voluta e imposta da Le Corbusier (dietro la sponsorizzazione dell'industria automobilistica) per mezzo dalla Carta di Atene del 1933, il cosiddetto "sprawl" ha portato con sé strade molto più larghe del necessario, parcheggi perennemente inutilizzati, pseudo aree verdi (che di verde hanno solo l'erbaccia, e che vengono utilizzate dagli incivili per abbandonare lavatrici, materassi, divani e immondizie), allora ci accorgeremmo che potremmo mettere a disposizione parte dei terreni demaniali per contrarre le città, edificando ove possibile edifici tradizionali (ecocompatibili e a chilometri zero) atti a demolirne altri, dotando tutti i quartieri di luoghi per la socializzazione, giardini, parchi di quartiere, servizi, ovvero tutte quelle attività e luoghi che lo zoning ha impedito. In poche parole ci troviamo in una situazione dove potremmo ribaltare del tutto il problema denunciato da Giolitti nel 1909 parlando del crack finanziario del Comune di Roma:
«Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione».
Per dare qualche dato, nel progetto che ho sviluppato per Corviale, oltre ad aver inserito una serie di funzioni vitali (5 piazze poste in sequenza, tutte le scuole primarie e secondarie, municipio, cinema-teatro, ufficio postale, attività sportive, negozi, attività artigianali, centro culturale, chiesa, un enorme parco di quartiere, una serie di giardini con aree attrezzate per il gioco dei bambini e per gli anziani, ecc.), è stato possibile restituire alla natura 11 ettari di terreno! Inoltre è stato possibile inserire oltre 2000 nuovi residenti, necessari all'integrazione sociale. Tutto questo significa che, se l'operazione venisse effettuata direttamente dallo stato, visto che l'IACP è stato trasformato in ATER (Azienda Territoriale per l'Edilizia Residenziale), tornando a poter costruire in proprio gli edifici (anche per conto terzi) come prima del fascismo, piuttosto che limitarsi ad amministrare edifici di pessima qualità costruiti da imprese private, potrebbero azzerarsi i conti dell'edilizia residenziale pubblica: dalla vendita degli edifici speciali, negozi, attività artigianali e alloggi eccedenti, potrebbero addirittura guadagnarsi molti soldi reinvestibili in operazioni simili. Nel caso specifico di Corviale parliamo di una cifra compresa tra i 450 e i 518 milioni di euro! Altrettanto dicasi per lo ZEN, ma non posso anticipare i dati prima di aver presentato ufficialmente il progetto.
Per concludere, come ha scritto Italo Insolera: «in una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione, già allora cospicuo, può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti»
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24 ottobre 2011
SULLA COMMISSIONE GRATTACIELI A ROMA
Un link ad un articolo del Prof. Gabriele Tagliaventi sulla costituita "Commissione grattacieli" del Comune di Roma:
23 ottobre 2011
LA BANALITA' DEL MALE
E così anche Arezzo entra, se pur dalla porta di servizio, nella "modernità" con il suo più noto simbolo: il grattacielo. Questa è una delle rare deroghe dedicate a parlare degli accadimenti della mia città, ma il tema è di quelli che interessano proprio questo blog.
Accade infatti che è stato approvato il Piano complesso(1) per una importante area all’ingresso della città, sede fino a circa dieci anni fa di una prestigiosa industria di abbigliamento poi decaduta, la Lebole, successivamente passata alla Marzotto, che prevede anche qualche grattacielino di 60 o 70 metri, non ricordo bene. Dalla porta di servizio a causa dell’altezza, troppo alta per la città ma troppo bassa per guardare in alto ed esclamare: "ooooh!" ma non solo per questo.
Non c’è in verità molta preoccupazione nel vedere disturbata la vista della città antica adagiata sul colle, proprio dal lato raffigurato da Piero della Francesca, dato che difficilmente quelle torri saranno mai realizzate, essendo state messe lì più come uno specchietto per le allodole a controbilanciare scelte del tutto diverse ma altrettanto “moderne” come un centro commerciale che per una convinzione profonda. Infatti, date le dimensioni del commerciale, per riequilibrare la grande superficie coperta si è evidentemente ritenuto che le torri fossero la soluzione più giusta e digeribile per liberare area da destinare a verde, con ciò aggiungendo male al male, perché condanna quell’area ad una condizione non urbana, dato che ci saranno due zone specializzate e separate: quella commerciale e quella residenziale, nessuna delle due aventi i caratteri della città. E’ il classico caso, negativo, in cui 1+1 fa meno di 2 e difficilmente saranno edificate in presenza di un mercato dove non si investe nemmeno in un condominio di quattro alloggi e quindi dubitiamo che qualche imprenditore rischierebbe il proprio denaro nelle torri le quali, una volta iniziate, vanno finite per vendere magari solo i piani "alti".
Stupisce però il fatto che tale scelta non sia stata nemmeno oggetto di dibattito in Consiglio Comunale, a leggere almeno il resoconto dell’ufficio stampa del Comune stesso: solo il consigliere del Movimento a cinque stelle ha fatto un accenno alla insostenibilità ambientale delle torri. Per il resto si parla d’altro.
Stupisce l’indifferenza con cui è passata questa perdita di “verginità”. Arezzo non è certo la prima città di provincia che sposa la verticalità, ma di ogni caso si è letto sui giornali, c’è stata discussione, fiere opposizioni e incondizionate dichiarazioni a favore. Qui invece si è parlato solo di commerciale, quasi a conferma di quanto prima detto. Le torri sono passate praticamente sotto silenzio, come fossero un accessorio, senza collera, certo, ma anche senza passione ed emozione.
Stupisce che un atto così “culturalmente” rilevante sia stato approvato in un momento in cui la città è in profonda crisi economica, con le industrie in difficoltà, e per la assoluta mancanza di idee e di volontà che non danno proprio l’impressione di essere in una fase creativa di sviluppo impetuoso. Non mi stupirebbe affatto l’adesione alla forma grattacielo come simbolo di sviluppo se ci trovassimo in una fase espansiva, se Arezzo avesse imboccato una strada di crescita economica che facesse presagire un futuro positivo e di speranza. E’ già avvenuto in passato che siano stati compiuti errori di cui oggi ci pentiamo, quale l’abbattimento delle mura urbane all’arrivo della ferrovia, ma almeno in quel caso c’era una spinta positiva verso la modernizzazione, c’era una comprensibile adesione ad un progetto di sviluppo. Ma oggi ci troviamo nella condizione opposta di decadenza e il simbolo stesso dell’improbabile rilancio, il grattacielo, è ormai diffuso in tutto il mondo sviluppato e anche sottosviluppato e non rappresenta nulla sotto il profilo della novità: non rappresenta più nessuna sfida né tecnica né ideale anzi accentua il contrasto con l’idea stessa di sostenibilità economica che a parole è la filosofia di questo tempo che viviamo. Il grattacielo è il simbolo vero di una contraddizione tra il pensiero e l'azione della nostra epoca. A meno che non si ritenga, e sarebbe quasi peggio, che il rilancio economico di una città possa essere affidato all’edilizia, di cui il grattacielo sarebbe, ancora una volta, il segno più sfavillante; non è così, ovviamente, avendo l’urbanistica il compito di disegnare le condizioni affinché la crescita si svolga in un ambiente urbano favorevole e l’edilizia al più può costituire un volano o un ammortizzatore in tempi di difficoltà, ma che può girare davvero solo se l’intera economia gira, non certo da sola. Il caso Spagna qualcosa dovrebbe avere insegnato.
Stupisce anche, e direi soprattutto, che questa scelta non sia stata minimamente inquadrata nella realtà urbana, economica e sociale di Arezzo, non tentando nemmeno di distinguere fra situazioni del tutto diverse, come quella di Milano ad esempio, città inserita a pieno titolo nel mondo del business globale, in cui c’è una sorta di obbligo di immagine che rispecchi questa realtà e si può anche comprendere, se non giustificare, che possa avere una sua importanza.
Non ci dovrebbe invece stupire dato che ormai sappiamo bene come la politica in genere abbia perso contatto con la realtà, sia diventata del tutto autoreferenziale e, al massimo, abbia come interlocutori privilegiati le varie corporazioni, chiusa nel suo Palazzo sempre più simile ad un grattacielo privo di rapporto vitale con la terra ma anche con la grandezza del cielo; tuttavia il minimo necessario di scambio di idee, anche sotto il profilo formale, sarebbe stato ragionevole attenderselo. Va detto, a parziale attenuante, che al solito la politica ha trovato il suo supporto nella tecnica, cioè negli architetti.
Molti altri sarebbero gli appunti da fare al Piano così detto complesso - che non è nemmeno un punto fermo dato che senza piano attuativo è poco più che una dichiarazione d’intenti, ragione in più per averne dovuto discutere senza l’urgenza dell’attuazione - ma questo dei grattacieli è il fatto più significativo di una scelta fatta in maniera indifferente e sbagliata, sintetizzabile appunto con l’espressione di "banalità del male".
Note:
1) Piano complesso d’intervento, in sigla PCI (sic): strumento urbanistico previsto dalla Legge urbanistica n° 1/2005 della Regione Toscana. E’ un piano intermedio tra il Regolamento Urbanistico e il Piano Attuativo che è talmente poco usato, servendo davvero a poco e allungando i tempi, dato che comunque prevede un successivo Piano Attuativo, che nella proposta di revisione della Legge la Regione ne ha deciso giustamente l’abolizione.
Altri link:
La Nazione- Arezzo
Commenti su Informarezzo
Osservazione al Piano Complesso presentata da INARSINDAREZZO
Credits:
L'immagine del primo progetto di 5+1AA è tratta dal quotidiano La Nazione
19 ottobre 2011
COMMISSIONI "GRATUITE" PER INTERVENTI GRATUITI
di Ettore Maria Mazzola
Purtroppo quello che è circolato in questi giorni sul Blog Archiwatch del buon Prof. Muratore non era uno dei suoi simpatici scherzi firmati “Falso Cascioli”, è tutto vero e documentato sul sito istituzionale del Comune di Roma, sulla pagina ufficiale si legge:
“Il giorno 4 ottobre 2011 e il giorno 11 ottobre 2011 alle ore 14,30 alla presenza dell’Assessore all’Urbanistica, avv. Marco Corsini, si sono insediate ufficialmente la “Commissione Piazze” e la “Commissione Grattacieli”, entrambe istituite dal Sindaco di Roma Capitale”.
“La Commissione Piazze, è presieduta dal Prof. Paolo Portoghesi, Architetto di fama internazionale, è composta dal Prof. Francesco Cellini, Architetto di fama internazionale e Preside della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre, dal Prof. Bruno Dolcetta, Architetto Docente di Urbanistica allo IUAV di Venezia, dall’Arch. Francesco Coccia, Direttore del Dipartimento Periferie di Roma Capitale, e dall’Ing. Errico Stravato, Direttore del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma Capitale, e ha il compito di individuare i siti idonei ad ospitare nuove piazze nell’ambito della città periferica nel territorio di Roma Capitale.
La Commissione Grattacieli, presieduta dall’Ing. Errico Stravato è composta dall’Arch. Massimiliano Fuksas, Architetto di fama internazionale, dall’Arch. Daniel Libeskind, Architetto di fama internazionale, dall’Ing. Francesco Duilio Rossi, Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, dall’Arch. Amedeo Schiattarella, Presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Roma, dal Prof. Livio De Santoli, Ingegnere esperto di energia per l’Università di Roma "La Sapienza", e ha il compito di individuare i nuovi siti adatti ad ospitare edifici con tipologia edilizia a sviluppo verticale.
Entrambe le Commissioni vedono la presenza dei loro componenti a titolo gratuito e hanno l’obiettivo di elaborare le linee guida per ogni sito individuato, unitamente alla procedura concorsuale che verrà successivamente bandita. Nel corso dei due incontri si è stabilito di calendarizzare i lavori delle Commissioni e selezionare i siti che verranno analizzati”.
Nulla è stato fatto per rimuovere la “Bara-Pacis” di Meier, anzi è stato proposto di realizzare un mega parcheggio ed un tunnel a suo supporto. Poi, sul problema dei palazzi demoliti nel ’39 lungo via Giulia, la giunta aveva inizialmente affidato al prof. Marconi (che con il sottoscritto e le Università di Notre Dame, Miami e Roma Tre, aveva prodotto un testo e dei progetti pilota) la redazione di un Bando internazionale per la ricostruzione filologica degli edifici da destinarsi ad Università per Stranieri a Roma, successivamente – di comune accordo con personaggi il cui amore per Roma e conoscenza della città sono ancora da dimostrarsi, nonostante la loro presenza nelle commissioni di cui sopra – il sindaco decise che la ricostruzione andava fatta ma non dovesse essere assolutamente basata su principi filologici! La storia vergognosa di questa faccenda è stata ampiamente raccontata e non merita ulteriori commenti, se non che dal ricordo dello scandalo legato all’appalto del parcheggio che dovrebbe sorgere in quel punto ed al tentativo di devastazione dei reperti archeologici trovati nell’estate di due anni fa. Poi c’è stato lo “strano caso” per cui il sindaco ha sostenuto a tutti i costi il progetto per Tor Bella Monaca e il “no” alla rigenerazione del Corviale su cui occorre stendere un velo pietoso. Che dire poi dei platani abbattuti dove si vorrebbe far sorgere le strutture delle ipotetiche Olimpiadi? Ma sono troppe le cose da raccontare, e allora mi limito a far qualche riflessione nella speranza che il sindaco e i suoi “esperti” facciano altrettanto.
Alemanno, forse a causa delle sue origini politiche, probabilmente vuole impersonare il ruolo del leader della nuova “era del piccone” e così, non pago degli scempi che ha promosso e sostenuto finora, ha deciso – complici i suoi “coltissimi” consiglieri ed assessori – di istituire due commissioni, una più insulsa dell’altra … forse per questo si sono premurati di sottolineare, di seguito ad ogni nome chiamato al capezzale della Capitale “Architetto di fama internazionale”, peccato però che questi personaggi, nella loro carriera, non hanno fatto altro che mostrare la “fame di fama” e perfino l’odio più totale nei confronti della tradizione e della storia!
Qualcuno potrebbe azzardarsi a scagionare da questa categoria di devastatori il prof. Portoghesi, ma poi basterebbe ricordarsi le parole che hanno accompagnato il suo progetto per via Giulia, oppure andare a vedere la piazza mostrata durante la conferenza sul futuro di Roma, o la proposta per Piazza San Silvestro, per rendersi conto che, sebbene abbia scritto libri mirabili in materia di “Barocco”, non provi alcun interesse per la progettazione dello spazio che quel meraviglioso periodo ha prodotto. A ben vedere, il suo unico interesse sembra rivolto alla forma della pavimentazione disegnata da Michelangelo per la Piazza del Campidoglio, forma che ha colonato gratuitamente (come i suoi incarichi gratuiti di cui sopra) ogni qualvolta gliene sia capitata l’occasione in giro per il pianeta. Che garanzie può dare un Presidente di Commissione per le Piazze che disegna piazze fini a se stesse, dove ci si deve recare e ripartire in elicottero perché non hanno alcuna relazione spaziale con una sequenza urbana pedonale? Quali mirabili piazze avrebbero realizzato, o perlomeno studiato e compreso, gli altri “architetti di fama internazionale” della Commissione?
Quanto all’altra Commissione, quella per i Grattacieli, c’è da restare annichiliti alla sola idea di istituirla, specie dopo che l’intera popolazione (non solo romana) s’era mobilitata per spiegare al sindaco, ed ai suoi sponsors, che quella del grattacielo è una tipologia che non appartiene né a Roma, né all’Italia, tipologia da ritenersi folle nell’era della sostenibilità. Si vede che gli sporchi interessi che girano dietro l’edilizia e il mercato fondiario hanno fatto decidere ai nostri amministratori di calarsi le braghe davanti a chi ha intenzioni speculative.
Il solo pensiero che della commissione facciano parte Fuksas, (che attualmente sta sfregiando l’edificio dell’ex Unione Militare all’angolo tra via del Corso e via Tomacelli) e di Liebskind (che ha finora dedicato la sua vita professionale a far violenza agli edifici storici come il Museo di Dresda), non può che suscitare incubi nella popolazione romana che, si deve supporre, vedrà massacrare il suo skyline, e probabilmente il suo centro storico, per lasciar posto quelle infernali macchine di distruzione ambientale che sono i grattacieli.
Non meravigliatevi se, di qui a poco, vedrete spuntare progetti che parlano di “grattacieli sostenibili” o di “boschi verticali”, saranno i nostri “esperti di fama internazionale” a proporceli, ci racconteranno che sono cose che si fanno all’estero, ci racconteranno che stanno cercando di farlo a Milano … ma questo non vuol dire che le parole e le immagini corrispondano alla realtà! Del resto se chiedessimo ad un produttore di pesticidi se sono nocivi non ci risponderebbe mai onestamente, né se chiedessimo ai produttori di alimenti geneticamente modificati quali possano essere gli effetti collaterali essi ammetterebbero mai una simile possibilità.
È incredibile che in questa nazione, e in questa città, ci si accorga sempre in ritardo di come le cosa vadano nel resto del mondo. Basta fare una semplice ricerca nel web, digitando “grattacieli abbandonati” o “ghostscrapers” o “abandoned skyscrapers” per trovare migliaia di pagine che raccontano come nel resto del mondo, dove questa tipologia è stata sposata, essa si è rivelata fallimentare. Onestamente basterebbe conoscere le ultime notizie su Dubai per rendersene conto, eppure sembra che, ottusamente, alcuni “architetti di fama internazionale” e i loro mecenati politici, non vogliano ammettere a se stessi la dura realtà.
Roma s’è già resa ridicola agli occhi dell’intero pianeta il 20 luglio 1972 quando, 5 giorni dopo l’abbattimento del complesso Pruitt-Igoe – ritenuto "ambiente inabitabile, deleterio per i suoi residenti a basso reddito” – evento che lo storico americano Charles Jencks aveva decretato “la morte di quelle utopie”, venne deciso di realizzare il progetto per Corviale a Roma!
Evidentemente dobbiamo credere a chi sostiene che i nostri attuali politici siano diabolici: errare è umano, perseverare è diabolico!
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17 ottobre 2011
DUE STORIE DI SUCCESSO DALLA PROVINCIA
Sabato 15 ottobre si è svolta la festa per il 30° anniversario dell’istituzione dell’Ordine degli Architetti di Arezzo. Oltre al riconoscimento ad un gruppo di decani, del quale mi onoro di non fare ancora parte ma a cui auspico fortemente di arrivare a farne parte … il più tardi possibile, c’è stata una tavola rotonda di colleghi di ogni età, ognuno a rappresentare un modo diverso di svolgere la professione di architetto.
Non farò un resoconto completo che sarebbe lungo e fuori tema ma mi soffermerò su due giovani, laurea nel 1998, un uomo e una donna (par condicio e pari opportunità e pari tutto puramente casuale) proiettati con successo in un genere di attività professionale che non ha confini, in senso fisico, vale a dire nel mondo: il primo, Maurizio Meossi, è Lead architect nello studio di Zaha Hadid e attualmente segue il cantiere CityLife a Milano; la seconda, Simona Franci, fa parte di una corporate (è lei che la chiama così) che, tanto per inquadrare il livello, ha come cliente, tra gli altri, il gruppo Ferrari per cui cura gli allestimenti dei vari “negozi” (e mi scuso perché non si chiamano così, ma non si chiamano nemmeno concessionarie, si chiamano in altro modo che non ho capito). Non si tratta di 4 o 5 negozi, ma di 300 in tutto il mondo e attualmente sono circa 60 in allestimento. Il bello è che lei vive ad Arezzo, è sposata ed ha un figlio, viaggia spesso ma la sua base operativa è ad Arezzo. A quello che ho capito praticamente lavora in casa grazie all’informatica. Incidentalmente, è anche piuttosto bella. Fantastico!
Fino a qui la premessa, non breve ma necessaria. L’architetto Meossi ci ha raccontato, oltre al suo percorso post laurea e del suo master a Londra, della esperienza in atto nello studio della Hadid, con circa trecento addetti nelle varie parti del mondo, del fascino della persona, dell’amore e della dedizione che egli ha per la sua professione, della dimensione internazionale dello studio, del processo di elaborazione del progetto che naturalmente non è paragonabile a quello di uno studio di provincia.
Io, dopo avergli esternato i miei sinceri complimenti per la sua attività che per molti colleghi è un traguardo inarrivabile, gli ho chiesto se non ritenesse che quel tipo di processo progettuale avesse più a che fare con il sistema produttivo tipico di un brand, di una griffe, cioè di un’industria che deve garantire un prodotto riconoscibile con un certo standard e ho concluso chiedendo che cosa resti alla fine dell’architettura. Domanda brutale, mi rendo conto, ma i tempi erano contingentati. E’ chiaro che volevo significare il fatto che se lo scopo, la mission è tenere alto il marchio, l’architettura intesa come progetto prodotto per quello scopo in quel determinato luogo c’entra poco mentre c’entra moltissimo l’oggetto in sé, esattamente come un paio di scarpe, una borsa, un abito. Lui mi ha risposto laconicamente: “La risposta è nel cantiere di CityLife che io seguo”.
Risposta intelligente e abile, senza dubbio, che dimostra attaccamento e fedeltà al proprio lavoro ma che elude chiaramente il problema.
Alla mia domanda ha però risposto indirettamente e molto bene l'architetto Franci, entusiasta quanto Meossi, ma del tutto calata, senza infingimenti, nella realtà industriale e d’immagine in cui lei opera. Ha detto che nel suo lavoro non ha mai fatto uso del timbro professionale, che l’unica volta che l’ha utilizzato è stato per casa sua, che lei non conosce, e si vanta di non conoscere una legge una (oh, che invidia!), che non le vuole conoscere perché non le servono, che il suo lavoro consiste nel soddisfare il cliente fornendogli dettagli anche in scala 1:1 che siano perfetti, che ognuno dei trecento progetti sarà diverso nell’adattamento alle singole “locations” dall’altro ma il concetto è sempre lo stesso.
Mi pare chiaro che i due lavori, pur con organizzazioni diverse e nella diversità dell’oggetto prodotto, sono sostanzialmente analoghi quanto a finalità, obiettivi e processo di produzione. I progetti della Zaha Hadid poco hanno a che fare con l’architettura (questo è il mio parere, ovviamente), anche se una volta realizzati sono, purtroppo, architetture. Dico purtroppo perché restano e perché vengono considerate e venerate come tali dagli architetti. Sono invece, io credo, oggetti artigianali nel processo costruttivo (il cantiere edile non è mai industria) il cui processo progettuale è invece industriale e in questo io trovo molta più coerenza intellettuale nella collega, consapevole e soddisfatta del proprio ruolo e priva di qualsiasi intenzione di lasciare un segno che non sia quello prettamente d’immagine per l’azienda prestigiosa per la quale opera.
Lei sa di fare parte di un segmento importante, e suppongo e spero per lei, anche redditizio, della professione di architetto ed anche ad altissimi livelli, ma non ha minimamente ammantato il suo racconto di quel velo di romanticismo architettonico, di mitizzazione del proprio prodotto in quanto Architettura che deve fare scuola e passare alla storia. Ha solo mostrato un grande e legittimo entusiasmo per il suo successo professionale, consapevole del ruolo che lei svolge nel mondo dell’industria per l’immagine di un marchio come la Ferrari.
Non so se l’architetto Simona Franci diventerà presto archistar, ma se lo diventasse mantenendo questo stile, distruggerebbe l’immagine stessa delle archistar come si intendono comunemente perché farebbe comprendere a tutti di cosa si parla. A meno che anche in lei non risorga quel tarlo che tutti gli architetti hanno nascosto dentro di voler murare, di voler lasciare nel territorio un segno concreto e duraturo del loro passaggio su questa terra.
Credits:
La foto dell'Arch. Meossi è tratta dal sito ufficiale di Zaha Hadid
La foto di Simona Franci è tratta dal sito della società Fortebis Group Leggi tutto...
13 ottobre 2011
L'INGANNO DELL'ARCHITETTURA COME TESTIMONE DEL TEMPO
Torno a casa e, in attesa di cena, sfoglio la rivista trimestrale della nostra cassa di previdenza e vedo un articolo dal titolo “Il nuovo e il vecchio. Riflessioni sul dibattito attuale per un possibile dialogo (tutto italiano)”, di Antonio Crobe. Grazie a Internet vedo che è un delegato della Cassa, ma questo non è importante.
Mi interessa il “possibile dialogo”, cioè la proposta, proprio oggi, il giorno dedicato, diciamo così, al rompighiaccio di Dresda.
Mi ha anche colpito il commento di biz, cioè Guido Aragona al post precedente perché ho la sensazione che quello che lui scrive abbia un fondamento logico più sottile di come appaia ad una prima lettura e so che non è certo un cieco adoratore di scriteriati progetti.
C’è prima un inquadramento generale dei termini del problema, qualche giudizio sbrigativo - ma non sono certo io titolato a far critiche del genere - e infine la parte propositiva.
La possibile soluzione consiste nella “conoscenza profonda del passato [da cui] si possono trarre i principi per la progettazione del nuovo che risulterà fortemente ancorato alla storia e che costituirà un valore aggiunto. Bisogna discernere sia da una conservazione assoluta, tesa alla musealizzazione dell’esistente, che dal criterio di intervento sul costruito inteso come sopraffazione del testo, al fine di aggiungervi la propria griffe. L’intera questione deve, forse, essere ricondotta nell’alveo del “progetto” (virgolettato nel testo), luogo dell’equilibrio di esigenze complesse”.
E poi continua con l’architetto che ha il “compito di amministrare il cambiamento in atto, un inserimento nuovo nel vecchio che deve essere soprattutto un innesto, che è rispetto della memoria, ma anche nuova proposta”. Alcune altre considerazioni dello stesso tenore per concludere che occorre “evitare così di cadere nell’immobilismo”.
Eccoci al dunque, evitare l’immobilismo attraverso il progetto. Ma cos’è l’immobilismo, a quali casi pensa l’autore, a quali situazioni fa riferimento? Immobilismo ha valenza negativa in molti campi ma in molti altri stare immobili può garantire la soluzione e la sopravvivenza. In politica non si può stare sempre immobili, ma in certi casi farlo può evitare disastri. Senza immobilismo la guerra fredda sarebbe stata anche troppo calda, ad esempio. Quindi cominciamo col ribaltare i termini del discorso perché è sempre lo stesso trucco: dare per scontato, attraverso l’uso di termini che hanno un consolidato quanto non sempre giustificato valore negativo, che certe condizioni sono sbagliate e vanno superate per aprire la strada al nuovo E’ una tecnica, in gran parte involontaria, ma molto subdola.
Invece che parlare di immobilismo, domandiamoci dove, perché e in quali casi si dovrebbe intervenire nei centri storici con nuove costruzioni. Domandiamoci perché “Caratteristica inconfondibile delle nostre città storiche è la stratificazione di epoche diverse, la capacità di cambiare aspetto adattandosi ai contesti sociali e culturali che si avvicendano nel tempo” e oggi, invece, questa caratteristica è fortemente e, secondo me, giustamente, contestata!
Non è difficile la risposta: il modernismo - è un dato oggettivo - ha voluto rompere con la storia e le tradizioni ma la memoria non è così facile da cancellare come sembra. Certo, si può distruggere e demolire ma la memoria resta ugualmente e, quanto più traumatica essa sarà, tanto più forte sarà il desiderio umanissimo di riavere ciò che è andato perduto.
Non è neppure una condizione culturale, piuttosto è antropologica. Si dà il caso che da una parte i nostri centri storici esistono, sono lì in piedi, nonostante il tempo, sopravvissuti ai terremoti - salvo i casi in cui è intervenuta malamente la modernità - e dall’altra c’è la città nuova, le cui case sembrano soddisfare meglio esigenze del vivere contemporaneo ma dove lo spazio pubblico è assente o sbagliato e dove l’insieme non appaga, non è appagante o almeno, a livello puramente emotivo e magari non perfettamente consapevole, se ne intuisce il differenziale di valore tra l’una e l’altra parte di città. Il dubbio, come minimo, dovrebbe essere, ed è, lecito per tutti perché ogni cambiamento, ogni trasformazione è da decenni un peggioramento.
Solo architetti e politici, nella loro smania di apparire, di cogliere una visibilità e un successo effimero, gli uni per vanità professionale, gli altri per consenso elettorale, sembrano convinti del contrario.
Ma c’è un paradosso straordinario in questa volontà di lasciare il segno con sulle spalle il bagaglio di una “conoscenza profonda del passato”, come è scritto nell’articolo: gli innovatori del passato non ragionavano in termici storicistici, operavano in continuità con il loro presente, talvolta a piccoli passi, talvolta con concezioni diverse e “dissonanti”, ma sempre e comunque nel solco di una evoluzione. La rottura avvenuta nei primi anni del ‘900 ha stravolto questo metodo, la specializzazione estrema del mestiere di architetto, la rigida periodizzazione degli “stili”, ciascuno dei quali visto come una necessaria e consapevole volontà di cambiamento, attribuendone uno per ciascun periodo, ha fatto perdere ogni legame effettivo, almeno a livello spontaneo, con il passato e con ciò che di esso è rimasto nella città.
Solo una logica intellettualistica e autoreferenziale del genere può far pensare che sia naturale e doveroso “lasciare il segno di un’epoca”. Non esiste motivo razionale che giustifichi questa condizione, siamo in presenza invece di un assioma e non di un teorema che prevede dimostrazione. Il trucco usato è quello di scambiare il progresso, inteso come miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone, con una sorta di destino che ci costringe a testimoniare a noi stessi e ai posteri ciò che è stato fatto in una certa frazione di tempo. E’come se la nostra vita dovesse essere scritta in una timeline in cui, ad ogni settore temporale “debba” corrispondere una traccia caratteristica di quel periodo e diversa dalle altre, a dimostrazione del “progresso fatto”.
Ebbene, coloro che credono in questa condizione assiomatica, non hanno altra possibilità di intervenire nei contesti storici che con progetti di rottura. Per assurdo, si può dire che il rompighiaccio di Dresda sia, in quella logica, la migliore espressione dell’assioma di lasciare testimonianze del nostro tempo.
Chi invece immagina di lasciare un segno “soft” è, ed estremizzo un concetto, afflitto da ingenuità perché qualunque tipo di diversità sarà comunque leggibile e non potrà essere evolutiva rispetto a ciò che c’è.
A meno che, come scrive Paolo Marconi, non si consideri l’architettura antica come viva e, conoscendone le tecniche e ricostruendone le possibilità di evoluzione, tipologicamente e morfologicamente, quindi con un atteggiamento che prevede anche la ricostruzione di parti completamente nuove e non documentate ma coerenti con quelle esistenti, si intervenga come su un corpo vivo ricostruendone o costruendone ex-novo nuovi “organi” e “tessuti” ma in armonia con quelli esistenti, esattamente come si farebbe, se fosse possibile, con un corpo umano.
Così facendo si produrrebbero quelli che molti chiamano il “falso storico” – storico perché pronunciato con l’idea storicistica che ogni epoca debba avere per legge la sua espressione – e che pochi invece chiamano l'“autentico contemporaneo”.
La terza via è, anche in questo campo, una illusione, una aspirazione “debole” perché lasciata al “progetto”, come scrive Crobe, vale a dire al progettista, al singolo, all’artista sensibile. E’ possibile che ne esistano, non lo si può certo escludere, ma come dato statistico e di semplice osservazione del reale si può dire che è altamente improbabile, mentre è quasi certo che il risultato sarà disastroso.
Anche perché si pone il dilemma: chi giudica l’artista?
Ho ragionato in maniera estrema ma solo in questo modo si può affrontare un tema del genere, non con il buonismo architettonico che nasconde spesso la medesima volontà, mascherata, di lasciare il segno di coloro che invece non hanno pudore. Forse biz pensava anche a questo.
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12 ottobre 2011
AUTOCENSURA
Avventurarsi in considerazioni troppo pensose, invece, può portare ad una grottesca situazione di esagerato contrasto con la quantità di pensiero presente nell’opera.
Inserire questo progetto nella storia dell’autore per inquadrarne il messaggio nel suo personale percorso progettuale, in ossequio alla concettualità dell’opera, potrebbe apparire un omaggio all’autore stesso e rischierebbe di indurre l’idea in qualche mente debole che vi sia anche del vero.
Provare a immaginare come potrebbe risolversi l’inserimento ambientale del Ponte sullo Stretto di Messina, di cui il nostro è incaricato, basandosi su questo disegno mi farebbe diventare per un paio di minuti l’idolo dell’opposizione parlamentare al gran completo, come con l'Arcuri, e di guai ne ho già troppi in casa per andarne a cercare anche fuori.
Osservare che questa nostra società occidentale ha un serio problema con Alzheimer che non lascia presumere niente di buono per il futuro è talmente ovvio che sarebbe inutile approfondire.
Dichiarare di pensare che quest’edificio ci fa sentire più vicini gli orrori della guerra potrebbe essere scambiato per retorica o, molto peggio, come la prova della giustezza del progetto, invece mi è solo balenato per la testa che di cose brutte, oltre alla guerra, in giro se ne cominciano a vedere.
Scrivere sulla degenerazione del fenomeno archistar è sotto gli occhi di tutti, o quasi, e non sarebbe originale.
Affrontare il tema del rapporto del progetto con il contesto o del dialogo tra nuovo e vecchio mi farebbe sentire alquanto scemo.
Mi resta solo la scelta di non scrivere niente e aspettare che qualche coglione di critico o di storico ce lo spieghi con dovizia di particolari e molte citazioni. Sai quanti se ne trovano nel web e pure nelle nostre facoltà! Leggi tutto...
7 ottobre 2011
IL DOLORE NON HA PREZZO
Ricevo da Ettore Maria Mazzola questo testo sulla morte delle cinque donne per il crollo dell'edificio nel quale lavoravano. E' un testo scritto sull'onda della commozione, essendosi la tragedia consumata nella sua città natale, ma lucido come al solito nell'evidenziare l'approssimazione con cui vengono emessi giudizi e la scarsa conoscenza delle cause che possono averla determinata.
Il testo è stato anche pubblicato su Archiwatch.
Caro Pietro,
ho sentito il dovere nei confronti della mia città natale di raccontare ciò che a 500 km di distanza ho percepito di questa terribile tragedia e della speculazione che c'è stata intorno al dolore di chi ha perso la vita, un familiare o una casa e un lavoro.
Spero possa postare sul tuo blog questo mio sfogo
IL DOLORE NON HA PREZZO
di Ettore Maria Mazzola
Succede che, mentre una città si stringe intorno ai feretri di cinque povere vite strappate, e la donna sopravvissuta al crollo di via Roma dal suo letto di ospedale racconta si che lavorasse per 4 euro all’ora, ma che non è vero che il suo datore di lavoro fosse un negriero, la stampa locale e nazionale continuava ad accanirsi, descrivendo Barletta come un luogo in cui gli imprenditori sfruttane le operaie .. e trascurando colpevolmente la ricerca della verità sulle ragioni del crollo.
Peggio hanno fatto certi politicanti i quali, stimolati dal banchetto per sciacalli e avvoltoi allestito dalla malasorte e dalla faciloneria, hanno pensato bene di cogliere al volo l’occasione per potersela prendere con il sindaco chiedendone le dimissioni.
Che senso ha tutto ciò? Come è possibile essere così cinici da trasformare una tragedia che ha distrutto 5 famiglie in una occasione di rivincita politica? Dov’è la dignità e l’etica di certa gente il cui comportamento è paragonabile a quello degli sciacalli, se non addirittura a quello degli stercorari?
Se c’è qualcosa che certi momenti richiedono è un’unità, al di là del credo politico, è il senso di solidarietà verso chi ha perso la mamma o una figlia, verso chi ha perso la casa, verso chi non ha più nulla. E invece certa gentaglia, assetata di “politica”, ha pensato bene di approfittare della situazione.
Questa gentaglia ha trovato l’ovvio appoggio di certi media interessati allo scoop scandalistico che, nell’era della società dello spettacolo, trovano molto remunerativo usare la macchina del fango che non mira solo a distruggere la personalità dei titolari del maglificio all’interno del quale hanno perso la vita 5 giovani vite, inclusa quella della loro piccola figlia, ma ad infangare un’intera città, e se si vuole, tutto il sud d’Italia!
Ieri c’è stato il funerale, anch’esso immortalato dalle telecamere come in uso per le grandi tragedie, anch’esso preceduto e seguito da passaggi pubblicitari televisivi. I servizi degli inviati hanno “giustamente” dato ampio spazio alle rimostranze dei cittadini che chiedevano la verità … senza assicurarsi dei modi con i quali lo facevano, né a chi fossero rivolte le accuse che, purtroppo, in parte sono sembrate manipolate da chi sosse interessato solo alla testa del sindaco Maffei.
Ora cala il sipario, e probabilmente in Italia, Presidente della Repubblica incluso, non fregherà più nulla a nessuno della tragedia che si è consumata a causa del pressappochismo con cui qualcuno ha operato.
Se c’è qualcuno con cui bisognerebbe prendersela, non credo proprio che possano essere le autorità comunali, semmai bisognerebbe alzare l’indice verso quei tecnici e periti che non hanno saputo valutare il pericolo incombente, oppure verso quella cultura generale che a Barletta, come in molte altre città italiane, consente di far demolire edifici storici ritenendoli intenzionalmente “fatiscenti”, mentre nella realtà potrebbero vivere molto più a lungo di quanto non si immagini: la loro colpa è solo quella di essere dislocati in zone centrali, molto appetibili per chi voglia fare speculazione e costruire in zone molto più vivibili che non nelle orribili periferie zonizzate che la pseudo-cultura urbanistica a partire dagli anni ’50 ci ha “regalato”.
Ma c’è di più. Lo sputtanamento mondiale sul salario delle povere vittime andrebbe capito meglio. La fortunata e coraggiosa sopravvissuta ci dice che fossero proprio loro stesse, le operaie, a chiedere di non essere messe in regola: qui si tratta di una situazione di necessità di sopravvivenza!
Uno Stato la cui Costituzione si apre dicendo che “l’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro” non dovrebbe consentire che certe cose possano accadere, e se accadono è perché i “moderni” politici – anni luce distanti da chi concepì e scrisse quelle parole sulla Costituzione – hanno trasformato questa “Repubblica” in una “Oligarchia fondata sul precariato e sul gioco d’azzardo”.
Ci scandalizziamo per i 4 euro l’ora delle povere ragazze di Barletta, ma quanto guadagnano le loro omologhe che lavorano nelle altre città d’Italia, nord incluso? Ce lo siamo dimenticato il servizio di Report che mostrava come gli operai delle “grandi imprese” impegnate nei cantieri “a 5 stelle” milanesi vengono pagati 2,5 euro l’ora? E quanto guadagnano i maestri di scuola e i professori delle medie e superiori? E quelli delle Università? E come è possibile accettare la sola esistenza delle Agenzie Interinali che guadagnano sul lavoro sottopagato dei loro iscritti? Quanto guadagnano gli addetti ai call-center della grandi aziende? E quanto i “tecnici” che oggi fanno le perizie per alcune banche italiane pur avendo le loro basi in Romania, togliendo lavoro ai tecnici nostrani che, tra l’altro, potrebbero visionare meglio gli immobili da periziare? Cosa dire poi della mia categoria, gli architetti, dove i grandi studi sfruttano vergognosamente i giovani laureati e abilitati pagandoli (quando li pagano) i giovani e volenterosi ragazzi molto meno di quei 4 euro l’ora?
Cosa può fare un piccolo, o piccolissimo, titolare d’azienda italiano che vuole continuare a produrre in Italia invece di farlo in Cina (magari anche prendendosi dei contributi dallo Stato Italiano)? A nord si sfruttano i lavoratori stranieri i quali, pur consentendo al loro “padrone” di mantenere in vita l’azienda nonostante il mondo globalizzato, viene anche negato il diritto a mantenere il proprio credo religioso perché, essendo in Italia, questi “sporchi stranieri” devono rinnegare le loro origini e tradizioni! Non c’è dunque da meravigliarsi se a sud la cosa avvenga, come è sempre avvenuta, coinvolgendo dei connazionali. Questo non significa voler giustificare chi lo faccia, ma semplicemente voler guardare più onestamente, e senza retorica, alla dura realtà che investe il mondo del lavoro di tutto il Paese, e non solo Barletta.
Il vero scandalo non è dunque questo, ma l’esistenza di un sistema marcio che si ricorda di queste realtà solo in occasione di certe disgrazie, disgrazie che esso stesso ha generato avendo gettato nella disperazione l’intero mondo del lavoro.
Poche ore dopo aver appreso la notizia, quasi in diretta perché me l’aveva comunicata mia madre che si era trovata a passare lì vicino quando ancora si levava in volo la nuvola di polvere avevo scritto queste parole:
“È una storia che si ripete. Spero che adesso si riescano a salvare i superstiti e si comprendano fino a fondo le cause che hanno generato questo crollo. Che si puniscano gli eventuali responsabili, se non è stato un caso dovuto all'abbandono parziale dello stabile, come sembra di capire da alcune notizie che ho potuto leggere nel web, spero soprattutto che non si speculi politicamente sul dolore e sul lutto che ha colpito Barletta. Dalle foto mi sembra comunque di capire che la malta che legava i tufi delle murature non fosse di buona qualità, mi sembra uno di quegli edifici che, come usano dire gli operai molto anziani, ha sofferto la sete, ovvero un edificio la cui malta aveva poca calce, tanta sabbia e poca, se non pochissima, acqua. In questo caso, finché l'edificio è stato abitato e vissuto, e non ha subito stravolgimenti degli orizzontamenti e delle murature portanti, nulla gli è capitato perché aveva raggiunto un suo equilibrio che lo faceva "lavorare" a compressione, nel momento in cui sono sopraggiunte delle modifiche (pare che ci fossero dei lavori in corso?) che hanno generato delle tensioni, quell'equilibrio precario è venuto meno. Diversamente non mi spiego come possano esserci la quasi totalità dei blocchi di tufo che sembrano essere usciti ieri dalla cava. Chiudo esprimendo il mio dolore ai parenti della piccola che è deceduta e all'intera cittadinanza”.
Il giorno dopo ho potuto capire qualcosa in più e ho scritto:
“ho letto stamattina un po' di notizie che non avevo potuto leggere ieri, ed ho anche visto un video prima del crollo che mi ha lasciato alquanto perplesso: Un edificio che viene demolito in adiacenza ad un altro con il quale "collaborava" staticamente. Una demolizione avvenuta sicuramente con l'ausilio di martelli pneumatici (tassativamente vietati sugli immobili costruiti in tecnica tradizionale), un muro ad arcate che è stato demolito venerdì e che, si suppone, facesse da contrafforte alla struttura, sono tutte cose che lasciano sconvolti per la faciloneria con cui si è proceduto. Non sapevo dell'atteggiamento discutibile dei VVFF cui qualcuno ha fatto riferimento, del quale sono venuto a conoscenza solo stamattina. Fino a ieri pensavo che il crollo fosse relativo all'intero blocco che non c'è più, solo stamattina ho compreso che a crollare è stata la casa a schiera con due sole finestre. Penso che sia fin troppo chiaro come le cose siano andate, spero che lo sia altrettanto per chi farà le indagini e le perizie, e per chi emetterà delle sentenze .. nella speranza che certe cose non accadano mai più”.
E poi, avendo letto un post di Niki Vendola sul crollo ho voluto puntualizzare:
“Condivido il discorso, ma voglio puntualizzare alcune cose perché potrebbe partire una campagna demonizzatrice di una certa edilizia nell'interesse di chi voglia specularci (specie in conseguenza dei Piani Casa). Voglio ricordare che certi edifici vengono giù per l'incompetenza con cui vengono fatti certi lavori e non perché sono costruiti con pietre, mattoni e calce. Tra l'altro gli edifici in tecnica tradizionale, se ben costruiti, in caso di sismi o altre sollecitazioni, adattandosi gradualmente alle mutate condizioni statiche, possono salvare molte più vite degli edifici in cemento armato e/o acciaio che, in caso di collasso, non lasciano vie di scampo. Per essere più preciso voglio ricordare che i crolli di L'Aquila e Pompei ci hanno dimostrato come, se certi edifici fossero stati restaurati con tecniche e materiali tradizionali, oggi starebbero ancora in piedi, e molte vite sarebbero state salvate. Non si deve demonizzare gli edifici antichi e/o "vecchi", semmai si devono demonizzare le università che non formano più dei tecnici in grado di restaurare a dovere il nostro patrimonio. Non è poi ammissibile che per ragioni economiche (anche dovute alla situazione politico-economica attuale) si debba risparmiare sulle norme e i sistemi di sicurezza: Come è stato possibile demolire l'edificio accanto a quello crollato (col quale collaborava staticamente) senza nemmeno puntellare quello crollato? Chi ha vigilato sulle opere di demolizione in corso ha valutato la necessità di demolire "a mazza e piccone"? Oppure ha consentito l'uso (proibito sugli immobili costruiti in tecniche tradizionali) del martello pneumatico che crea vibrazioni pericolosissime che generano il distacco tra i blocchi di tufo e i ricorsi di malta? Come è stato possibile che, come ha raccontato un volontario, sotto gli occhi dei VVFF e della Protezione Civile, una pala meccanica si sia potuta mettere a scavare senza pensare che sotto potevano esserci ulteriori cedimenti che, come poi si è visto, probabilmente hanno portato ad estrarre solo cadaveri nonostante ci fossero stati dei contatti tra i soccorritori e le "sepolte vive"?
Riflettiamoci tutti, e stiamo vicini, almeno col pensiero, a queste famiglie straziate da un dolore che nessuna condanna potrà più colmare.