Pietro Pagliardini
Abbandonata sulla poltroncina di un treno, una conoscente l'ha raccolta e mi ha fatto pervenire una pagina de Il Messaggero, giornale non troppo diffuso dalle mie parti. Sapeva che avrebbe potuto interessarmi. E’ ingegnere con un forte interesse per l’architettura e l’arte.
Si tratta dell’anticipazione di un libro del poeta Giorgio Caproni, Prose critiche, Aragno. Non si tratta quindi di poesie in questo caso, anche se la prosa ha il ritmo della poesia. E’ un breve estratto e non ha un titolo e io citerò quello dell’articolo: Se la poesia non è di casa.
Non posso riportare il brano perché c’è la riproduzione riservata. Me ne dolgo perché è peccato sciupare quella prosa riducendola a semplici concetti, ma non ho scelta. Solo brevi brani sono costretto a non omettere, proprio per non travisare il senso del testo originale.
Semplici concetti dicevo, ma non così tanto semplici da essere compresi e soprattutto apprezzati e condivisi da molti architetti e dal modesto circo mediatico, detto anche culturale, che gira loro intorno.
“Se la poesia non è di casa” richiama esattamente il contenuto, la differenza che esiste tra gli edifici moderni e quelli antichi, tra la città contemporanea e la città storica. Nelle prime la poesia non è di casa perché le case sono prive di poesia. Caproni osserva le nuove costruzioni, con i loro intonaci dai colori freschi ma un po’ falsi, e le immagina tra qualche anno, invecchiati precocemente per le colature di pioggia, “annerite e striate le murature dal tempo e dal maltempo” quando “faranno l’effetto, ahimè, degli abiti vecchi, delle automobili vecchie, dei frigoriferi vecchi, insomma di tutte le cose vili e soltanto utilitarie che in pochi anni diventano vecchie senza poter diventare antiche, e quindi senza poter acquistare, sotto la patina del tempo, in bellezza e in valore”.
Immagini poetiche che non escludono un’analisi sociologica e antropologica, con l’essenziale differenza tra il bene di consumo o utilitario, legato al tempo, ai costumi, alle mode, e la casa, bene che racchiude altri significati simbolici legati all’esistenza stessa dell’uomo: il provvisorio rispetto al definitivo, all’eterno. La casa è per sempre. E il tempo, depositando la sua patina, le farà acquistare bellezza e valore, affettivo, di godimento estetico, economico perfino.
La casa del dopoguerra invecchia invece come un qualsiasi bene di consumo, diventa un rottame da buttare via. E più ci avviciniamo ai giorni nostri più questa precarietà, questo senso di provvisorietà della casa aumenta, con l’uso di materiali e di tecnologie meno durevoli, in barba a tutte le prove e certificazioni di durabilità. Chi certificherà la sensazione di disgusto di chi si troverà di fronte a questi ruderi contemporanei?
Il brano si conclude con la constatazione della “bruttezza degli interi quartieri nuovi che a suon di milioni crescono come funghi (…) Credo fermamente che se esistesse un controllo più oculato anche dal lato estetico, sulla base di tale cifra (una delle più modeste, dopotutto) si potrebbe avere una buona architettura media (…) Un minimo, senza pretendere capolavori, sufficiente a creare un paesaggio urbano accogliente e distensivo, capace, anche tra vent’anni, di non mortificare chi non ha ancora finito di pagarlo, e di non diseducare interamente, anziché contribuire a educare, i figli che vi nasceranno, e vi scorrazzeranno”.
Educare i figli alla bellezza con la bellezza dell'ambiente in cui crescono significa il diritto alla bellezza per tutti. Siamo agli antipodi dall'educazione all'abitare di cui parla il tiranno dell'urbanistica, Le Corbusier.
Ma chi glielo dice alle nostre scuole, ai giovani architetti dai docenti stimolati, spinti, costretti e illusi alla superbia creativa, al sublime, all’opera d’arte? Chi glielo dice a quei docenti che dovrebbero insegnare una “architettura media” quando loro stessi probabilmente non sanno cosa sia e risulta molto più facile celare la propria ignoranza dietro grandi fantasticherie cui i giovani, per merito d’età, hanno naturale e comprensibile propensione? Chi seguirebbe, nella scelta, un ciarlatano che offre grandezza, successo e vita eterna rispetto ad un professore che chiedesse solo modestia e mestiere? Il nodo dell’architettura nella società di massa, in fondo è tutto qui.
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URBANISTICA DA STATO ETICO
Pietro Pagliardini
Ma è compito di una legge urbanistica stabilire i principi, qualunque essi siano, che devono guidare la disciplina urbanistica oppure dovrebbe limitarsi a fissare le regole e le procedure che permettano una gestione limpida, efficiente, rispettosa dei diritti di tutte le parti, democratica nella sua approvazione, chiara nel fissare ruoli e responsabilità e il meno interpretabile possibile?
Me lo domando ben sapendo la difficoltà di dare una risposta univoca. Non è un caso se Francesco Finotto, che ho già citato altre volte (1), scrive: "In che cosa consiste l'urbanistica moderna? Nella possibilità di condurre una pratica premoderna in una società moderna. Di fare una politica premoderna in età moderna" (2).
Me lo domando perché leggendo quella della mia regione, la Toscana, ma anche le varie proposte nazionali o le varie idee che circolano, non posso fare a meno di pensare che se lo stesso metodo fosse applicato ad altre leggi potremmo dire, con certezza, di appartenere ad uno stato di tipo etico. Uno stato cioè che determina una morale, un comportamento da seguire, uno stato che decide cosa è buono o cattivo per i cittadini, che non lascia spazio alla libertà dei singoli e delle comunità locali, pur nel rispetto, è ovvio, di poche priorità sovraordinate cui tutti devono necessariamente soggiacere.
Se immagino una legge per il cinema che dicesse che i film devono essere ispirati alla rappresentazione di una nazione felice, di un popolo italiano dedito al bene comune, di sentimenti che possano ispirare i giovani ad una sana visione della vita e che li porti ad atti di generosità verso il prossimo, pur potendo esser anche d’accordo su alcuni di questi principi mi preoccuperei molto e non credo che sarei l’unico a farlo. Ebbene la legge urbanistica toscana indica, e in misura sempre crescente con le numerose varianti, principi analoghi a quelli da me portati ad esempio, naturalmente trasferiti dal corpo sociale al territorio.
E’ davvero inevitabile che, almeno in parte, debba essere questa la forma e la sostanza di una legge urbanistica per il fatto che il nostro ambiente naturale e artificiale è quello che si chiama con retorica espressione “bene comune” e quindi, appartenendo a tutti, richiede una normativa con regole stringenti e con inevitabili indirizzi comuni tali da limitare in vario grado la libertà di ognuno, per garantirne il libero godimento da parte di ciascuno? In fondo, anche il Codice Civile fissa, nel campo delle costruzioni, regole limitative della libertà dei singoli per questo medesimo scopo.
La difficoltà consiste nel saper determinare il giusto punto di equilibrio per non scavalcare il confine del soffocamento della libertà, individuale e collettiva, cioè delle varie comunità locali, e trasformarsi quindi in leggi che configurano uno stato etico e illiberale.
Volendo immaginare una situazione ideale, che in quanto tale rischia di essere irrealistica se non utopica, le scelte su città e territorio dovrebbero essere lasciate al “libero mercato” della cultura, al contradditorio tra idee diverse tra le quali poi una potrebbe o dovrebbe prevalere, non necessariamente in modo omogeneo ovunque ma comunque a carattere dominante, lasciando alla legge, eventualmente, il compito di assecondare e seguire, non imporre e precedere, le scelte maturate dal dibattito culturale e politico della società. Se questa è una visione ideale probabilmente irraggiungibile se non in astratto, credo che dovrebbe essere tuttavia una traccia di percorso cui ispirarsi.
Ma, come ci ricorda Marco Romano in un libro che uscirà alla fine del mese e recensito in un articolo de Il Giornale dal significativo titolo Vogliamo libera casa in libero stato: “tanto più i cittadini sono lasciati liberi di costruire quanto più esprimono il loro essere cittadini; il possesso della casa, la possibilità di trasformarla, ampliarla, decorarla, cambiarla del tutto, di averne anche altre per le vacanze, è la base della nostra cittadinanza, che si sviluppa nella città; se invece lo Stato, come ha fatto nel '900 e come fa oggi, reprime questa libertà di costruire con forzose norme edilizie, pianificazioni urbanistiche, costrizioni estetiche, estenuanti procedure e controlli, i cittadini sono come sospinti a trasgredire la legge”.
Questa semplice verità rivoluzionaria, sicuramente contestata dai più dell’establishment urbanistico, ma anche dal corpo degli architetti che si ritengono dispensatori di cultura a quegli ignoranti dei cittadini, sposta però il discorso dal mondo della cultura a quello ben più reale e corposo dei cittadini stessi, che dovrebbero essere i veri soggetti delle trasformazioni della città. Questa verità rivoluzionaria mette alle corde il modo che noi architetti abbiamo di considerare la nostra professione. Ci prende a schiaffi, non perché siamo inutili ma perché ci riteniamo essenziali. E non lo siamo. Siamo utilissimi al servizio dei bisogni espressi dai cittadini. A maggior ragione, come possono un consiglio regionale e un pletorico dipartimento di burocrati regionali arroccati ai piani alti di brutte torri fiorentine, stabilire cosa sia giusto o sbagliato per tutto il territorio e quindi per tutti i cittadini, visto che non esiste territorio o città senza di essi?
Eppure il “bene comune” richiede qualche regola. Esattamente come un condominio non può andare avanti senza norme che diano certezza su ciò che è possibile fare e con quali procedure e a quali condizioni sia possibile farlo.
Ma anche le leggi sul condominio non dicono che è necessaria la solidarietà tra condomini, o che incontrando un vicino di pianerottolo lo si debba salutare con un sorriso. Non ci insegnano insomma comportamenti che non superino la soglia oltre la quale creiamo un danno ai condomini.
Le leggi della mia regione ci vogliono insegnare invece proprio questo e anche molto di più e di peggio di questo. Sono infarcite di retorica ambientale e sono scritte con linguaggio indecifrabile ai più e soprattutto agli attori principali del processo, cioè i cittadini.
E’ necessario che il di più, il molto di più sia eliminato, oltre che il tutto sia semplificato, di molto semplificato. E’ necessario che chi pensa le leggi e chi le scrive immagini, ogni tanto, che esse sono scritte per persone e non per politici o burocrati affinchè le possano poi portare ai convegni con lo stesso orgoglio con cui un cacciatore mostra la sua preda. E’ necessario ridurre l’influenza delle idee di pochi sulla vita di tutti.
Note:
1) Pratiche premoderne nell'urbanistica, blog De Architectura
2) Francesco Finotto, La città aperta, Saggi Marsilio 2001
8 marzo 2013
PALAZZO FARNESE A CAPRAROLA CADE A PEZZI
di Ettore Maria Mazzola
Martedì scorso, come ogni anno, ci siamo recati a Caprarola e Bagnaia per visitare Palazzo Farnese e Villa Lante con i nostri studenti.
Per la prima volta ho sentito l’esigenze di parlare di questa esperienza, non per la bellezza di questi luoghi, ma per ciò che abbiamo riscontrato a Caprarola.
A Caprarola abbiamo infatti avuto modo di visitare gli interni (non tutti quest’anno) e i giardini di Palazzo Farnese, per apprezzare dal vivo questi gioielli che il mondo ci invidia. Quest’anno il Salone dei Fasti Farnesiani affrescato da Taddeo Zuccari, e la Camera della Torre con i fregi di Bartholomaeus Spranger non erano accessibili perché in restauro … peccato per la visita dei nostri studenti ho pensato, ma che fortuna per l’edificio che possa aver ottenuto dei fondi per il restauro!
Ma sarà poi una fortuna??
A giudicare da quello che poi abbiamo visto e sentito c’è infatti da rimanere sconcertati. In merito alle due stanze chiuse ci è stato detto che i lavori sono fermi da tempo per ragioni economiche. Inoltre, la persona (esperta di restauro) che ci ha informati lamentandosi degli sprechi e dei metodi adottati nei lavori in corso, si è sbilanciata ed ha voluto raccontarci dello scandalo relativo alla realizzazione di un bagno per disabili, dove il contratto prevede una spesa di 15 mila euro solo per le misure di sicurezza!
Ma restaurare è giusto mi sono detto, quindi, dubbi legittimi a parte, ben vengano i lavori.
Al termine della visita, purtroppo molto frettolosa perché tra Palazzo e giardini non è più consentito fermarsi per più di un’ora e un quarto – ormai lo studio deve adeguarsi alle tempistiche del consumismo applicato alla cultura sicché non si fa più distinzione tra visita di studio e turismo di massa – abbiamo dovuto ricrederci sul pensiero positivo relativo al restauro.
Lo stato di abbandono dei giardini è ormai da anni noto a tutti, sicché la passeggiata dal Palazzo alla Palazzina del Piacere risulta essere un susseguirsi di squallore. Muri scrostati, terreno dissestato, gradini dove è facile inciampare, sterpaglie, rami e alberi schiantati al suolo … non è certo una bella immagine del nostro Paese, a chi giova tutto questo?
Arrivati poi alla Fontana del Giglio, quando ci apprestavamo a passare i due padiglioni che precedono le due scale affiancate separate dalla “catena d’acqua” che conducono al piazzale con la Fontana dei Fiumi, siamo stati presi dallo sconforto.
Ampie superfici di rivestimento delle facciate sono rovinati al suolo; i crolli più recenti risultano recintati con la banda bianca e rossa di pericolo, il materiale dei crolli più vecchi (qualche mese!) è stato rimosso, e i muri sono stati lasciati tristemente nudi. Tuttavia i crolli vanno più veloci delle recinzioni, sicché molti sassi del rivestimento murario risultano caduti e lasciati lungo le pareti.
Ma come è possibile tutto ciò?
Eppure ricordo che l’area sottostante la Palazzina del Piacere sia stata recentemente oggetto di restauro ad opera di ditte accreditate presso la Soprintendenza, ditte che, si suppone, meritando l’accredito dovrebbero saper restaurare in maniera ineccepibile, altrimenti a cosa servirebbe la selezione?
Un primo sguardo a quelle pareti scrostate lascia supporre che chi ha operato nei recenti restauri, piuttosto che applicare i vari strati di intonacatura e rivestimento, adoperando intonaci a base di calce e pozzolana e facendo un’adeguata preparazione della parete con una energica sbruffatura, si sia limitato ad incollare il rivestimento mediante l’uso di malta cementizia, o comunque “bastarda”, probabilmente partendo da uno strato di malta dato direttamente alla pezza, previa applicazione di un aggrappante chimico. Diversamente è strano comprendere le ragioni per le quali nelle aree lacunose non vi sia alcuna traccia dell’intonaco di supporto, né che lungo l’intero margine del rivestimento superstite risulti leggibile profondo distacco che preannuncia ulteriori crolli.
Ma chi le fa le selezioni delle ditte accreditate? E in base a quali credenziali? Chi li fa i controlli sui materiali e sulle metodologie di restauro? E in base a quali esperienze? E, a questo punto, chi li nomina i tecnici della Soprintendenza? E in base a quali titoli?
Purtroppo il nostro patrimonio va in pezzi, e non solo perché non ci sono soldi a causa del dirottamento di fondi necessario a realizzare e tenere in vita di capricci modernisti come il MAXXI di Roma, ma anche a causa della perdita di conoscenza delle tecniche e dei materiali da costruzione tradizionali. Finché si continuerà ad insegnare, a progettare e costruire esclusivamente in maniera antitradizionale, saranno sempre meno le ditte e gli artigiani in grado di intonacare e/o rivestire una parete in maniera corretta, e i tecnici in grado di dirigere i lavori. Chi ne pagherà le conseguenze sarà quel patrimonio storico-architettonico che dovrebbe darci da campare.
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