di Ettore Maria Mazzola
Quando a Londra ho appreso questa notizia ho provato un’immensa sensazione di vuoto.
E’ una perdita impossibile da sanare.
Paolo era un signore, un maestro, un gentiluomo, un pozzo di scienza.
Ricordo che, quando ero studente, avrei tanto voluto che fosse lui il mio professore di Restauro, invece dovetti accontentarmi d’altro su cui vorrei stendere un pietosissimo velo!
Era l’epoca del “nuovo ordinamento” e, per ragioni che è meglio ignorare, Paolo non era nell’elenco dei professori dell’indirizzo “Tutela e Recupero del Patrimonio Storico Architettonico” cui io mi ero iscritto … sarebbe stato l’unico professore degno di quell’indirizzo, ma non ne faceva parte.
Così, per passione, ho “studiato” ed apprezzato il lavoro di Paolo Marconi a distanza, fin poi ad incontrarlo di persona in occasione del convegno di Venezia organizzato con l’INTBAU per riscrivere la Carta del Restauro.
Fu un incontro bellissimo, parlammo a lungo dei miei libri e della mia passione per il lavoro degli architetti del primo Novecento, tra cui ovviamente suo padre Plinio, ricordo che fu molto sorpreso e commosso per questa mia passione.
Di lì in poi abbiamo avuto modo di conoscerci meglio, più volte è venuto a titolo di amicizia a tenere delle splendide lezioni magistrali per i miei studenti della Notre Dame … e ci è venuto gratis e per il solo piacere di condividere le sue conoscenze, solo ed esclusivamente per amore della cultura e dell’architettura con la “A” maiuscola!
Ricordo, quando lo invitai per la prima volta alla presentazione di un progetto dei miei studenti, che rimase entusiasta del lavoro svolto: si trattava di un progetto per l’area di Trastevere tra via di San Michele a Ripa e via Anicia. Al termine di quell’incontro ci diede dei “futuristi”, perché, disse, “questa ricerca nel recupero delle tecniche e linguaggio tradizionale è l’unico futuro sostenibile possibile”.
Dopo quell’esperienza, a mia insaputa, lanciò pubblicamente in Campidoglio la proposta di lavorare insieme per proporre la ricostruzione degli isolati di via Giulia che ben conoscete. Per me e per i nostri studenti fu un’esperienza meravigliosa … indipendentemente dal sangue amaro che, con Paolo stesso, ci siamo fatti a posteriori.
Il nuovo sindaco Marino dovrebbe porre fine all’attuale scempio in corso e dovrebbe ribattezzare quell’area Piazza Paolo Marconi!
di Ettore Maria Mazzola
Una cosa bellissima della sua personalità era quella di condividere sempre i suoi pensieri e la sua esperienza professionale, inclusi i tanti “trucchi del mestiere”, che non erano trucchi, ma vere e proprie soluzioni tecniche geniali imparate grazie alla sua infinita esperienza di cantiere.
Negli ultimi anni mi ha regalato un paio di DVD preziosissimi che contengono delle presentazioni in PPT dei suoi 40 e passa anni di esperienza … li custodirò come si fa con i libri più importanti di una biblioteca!
Ricordo, quando lo invitai per la presentazione del progetto che i miei studenti avevano sviluppato per le aree dismesse lungo il Tevere all’Ostiense, che Paolo si dimostrò assolutamente d’accordo con l’idea di rendere navigabile il Tevere … come disse lui, “risolvendo a monte il problema delle alluvioni come avviene in tutti i Paesi civili del mondo” e ancora, criticando gli assurdi muraglioni esistenti, ci spiegò come essi, “oltre a non risultare funzionali perché l’acqua eventualmente entrerebbe a Roma dalla via Flaminia, fungerebbero anche da vasca di contenimento per le acque che volessero rientrare nell’alveo”. A supporto di questa tesi ci raccontò il suo ricordo dell’ultima alluvione seria di Roma quando, diceva, seduto sulle spalle di suo padre Plinio aveva visto l’area presso Largo Argentina interamente allagata.
Voglio ringraziare ancora Paolo per l’importantissimo dono della sua splendida introduzione al mio libro “La Città Sostenibile è Possibile”.
Che dire poi della sua disponibilità nel fornirmi la sua copia personale del Manuale del Recupero di Palermo? Quando stavo elaborando il progetto per lo ZEN gli telefonai chiedendogli se sapeva dove avrei potuto trovarne una copia visto che, inspiegabilmente, la Flaccovio l’aveva da tempo messo fuori stampa. Paolo non ci pensò due volte e mi disse di andarlo a trovare per prendermi la sua copia.
Che dire, con Paolo l’Italia e il mondo intero perdono una figura straordinaria che sarà impossibile rimpiazzare.
Ciao Paolo, ti devo moltissimo.
Ettore
27 agosto 2013
PAOLO MARCONI NON C'E' PIU'
5 giugno 2013
L'ARCHITETTURA SACRA OGGI
Un video con Antonio Paolucci, Rodolfo Papa e Ciro Lomonte sull'architettura sacra oggi
21 maggio 2013
Arat_a Isozaki?
di Ettore Maria Mazzola
Dopo un piacevole silenzio durato qualche anno, nei giorni scorsi è stata tirata nuovamente in ballo l’abominevole tettoia di Arata Isozaki per gli Uffizi di Firenze, di qui il titolo ironico che nella mia città d’origine significherebbe “di nuovo Isozaki?”
E già, ci eravamo finalmente quasi dimenticati dell’esistenza di questo problema assurdo, e invece qualche indomito ha pensato bene di riesumarlo!
In un articolo pubblicato da Repubblica il 18 u.s. si apprende che “gli architetti” avrebbero fatto un appello affinché la “loggia” di Isozaki venga realizzata.
Andiamo per punti ed iniziamo col chiarire che ci troviamo davanti ad un doppio abuso terminologico:
1. Non è stato l’intero consesso degli architetti fiorentini a firmare la protesta, bensì solo uno sparuto gruppo di architetti i quali, a detta di molti loro colleghi, non si sarebbero minimamente confrontati pubblicamente con l’intera categoria, presentando indebitamente presentato quell’appello a nome dell’intero Ordine Professionale;
2. La struttura di Isozaki non può definirsi come Loggia, cosa ben più nobile di questa struttura, semmai potrebbe definirsi, in nome del politically correct, una mega-pensilina o mega-tettoia, ma io preferisco essere onesto e diretto e chiamarla uno sgorbio informe. A certi signori chiedo solo come possa esser possibile semplicemente immaginare di poter fare un confronto tra la Loggia dei Lanzi o quella del Bigallo e questa orrenda copertura, degna di un orripilante ed ipertrofico autogrill del pianeta Urano?
Chiariamo:
Sul primo punto, abbiamo potuto apprendere da una polemica lanciata da un architetto fiorentino molto impegnato nelle politiche di riforma degli ordini professionali, che le cose non siano andate proprio come ci è stato raccontato dall’articolo.
Il commento al veleno che aveva scatenato il dibattito era stato il seguente:
«Ci risiamo!!! Ma chi ha mai delegato qualcuno dell'Ordine a incardinare la rinascita urbanistica del centro storico di Firenze, sul bandone da posto macchina di Isozaki? Ma è tanto difficile promuovere una politica professionale condivisa? In mezzo a tanta arroganza qualche Architetto comincia a muoversi su sé stesso, bruciando in piazza la delega in bianco».
Nell’articolo di Repubblica si leggeva:
«La Loggia di Isozaki potrebbe essere il simbolo del recupero del centro storico di Firenze. Ma bisognerebbe farla, altrimenti diventa, come ormai sta accadendo, il simbolo del mancato recupero. L'Ordine degli architetti di Firenze lancia un appello alle istituzioni: Che fine ha fatto la Loggia di Isozaki? Facciamola. Non possiamo più aspettare. Da lì parte la credibilità del recupero degli spazi vuoti della città, a cominciare dal tratto che va da San Firenze a piazza dei Giudici […] se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto».
E allora chiediamoci:
Ma davvero il centro storico di Firenze avrebbe bisogno di un recupero di questo tipo??
Arat_a (ci risiamo) con l’abuso terminologico tipico degli architetti.
Certi architetti dovrebbero concentrare la propria attenzione su come migliorare l’abominio che hanno creato intorno ai centri storici … invece continuano ad accanirsi nel tentativo di fare approvare uno scempio urbanistico che, come nel caso dell’Ara Pacis di Meier a Roma, spianerebbe la strada a future mostruosità tanto care ai professionisti diversamente incapaci di dialogare con il contesto in maniera rispettosa.
Una delle tante assurdità di questo appello/capriccio presentato da questi fantomatici rappresentanti dell’Ordine degli Architetti fiorentino è quella che emerge da questa frase:
«[…] Uno snodo che potrebbe invece connettere il più importante museo della città con il resto di Firenze. Recuperando un'area del centro ancora vissuta come un «retro» e affollata di ex: ex Capitol, ex tribunale. Troppi ex che invece potrebbero invertire una tendenza liberando verso la città l'enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo con i tempi»
… già, “un enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo coi tempi” … evidentemente l’attuale Museo non sarebbe al passo coi tempi!
Guardando ai numeri del flusso turistico a me pare che gli Uffizi tirino parecchio … o sono diventato un pazzo visionario?
Sinceramente non penso affatto che questa orrenda “torta in faccia” dell’archistar giapponese possa generare un rilancio turistico di un qualcosa che non ha alcuna necessità d’esser rilanciata.
Ma, si sa, agli architetti il mondo piace sottosopra, così amano inventare soluzioni per trovarne i problemi!
Molti anni fa, in viaggio con i miei studenti e colleghi americani, all’interno degli Uffizi ci imbattemmo nell’esposizione di alcuni pannelli esplicativi del progetto che non conoscevamo. Restammo sconcertati, soprattutto restammo sconcertati da una frase che giustificava il progetto: “siccome Firenze e gli Uffizi ospitano ogni anno un gran numero di turisti giapponesi, siamo certi che la realizzazione della nuova entrata di Isozaki ne attirerà ancora di più”
… Un’idiozia che ci ha fatto sorridere per giorni al pensiero che si potesse anche solo immaginare che i giapponesi potessero essere così stupidi da affrontare un costosissimo viaggio transoceanico per venire a vedere questo orribile affronto sgrammaticato del loro compatriota nel cuore del Rinascimento italiano!
Suvvia, siamo seri!
Riflettiamo ora su alcune domande sulle quali, a causa del lavaggio del cervello patito nelle facoltà di architettura, troppo spesso gli architetti non riescono riflettere.
Ma dall’altro lato della barricata cosa pensa la gente di certi progetti?
E poi, se il problema che si pongono questi architetti fiorentini sarebbe quello della eventuale “figuraccia” e della “mancanza di credibilità” di Firenze e dell’Italia, chiediamoci: cosa pensano gli stranieri del progetto di Isozaki?
Ebbene, insegnando in una prestigiosissima università americana e collaborando con molti altri programmi internazionali, posso dire di avere centinaia di colleghi sparsi per il pianeta – non necessariamente “tradizionalisti” come qualcuno potrebbe malignare – i quali sono a dir poco indignati dall'approvazione di quel progetto ... e se questo è il parere di molti architetti e docenti di architettura, è facile immaginare quella che possa essere l’opinione dell'enorme massa di terrestri non appartenenti alla “specie contaminata” degli architetti. … signori colleghi fiorentini, ci avevate mai riflettuto?
Nell’articolo, come si è detto si rivendica: “se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto”
… Ma quale credibilità avrebbero certi concorsi dove i partecipanti sono a turno alterno i giudicanti ed i giudicati?
Vogliamo dare credibilità ad un concorso?
Vogliamo dare finalmente il giusto rispetto alla cittadinanza ormai da troppo tempo assoggettata alle imposizioni degli architetti?
Allora rifacciamo il concorso e facciamo in modo che la presenza degli architetti risulti del tutto marginale nella commissione giudicante e vediamo che succede. Peraltro Firenze è Patrimonio dell’Umanità … per quale motivo non dovrebbe essere il mondo intero a dover decidere cosa sia giusto premiare e realizzare all’interno di quello squarcio del tessuto urbano fiorentino?
Speriamo nel buon senso del Ministro ai Beni Culturali Massimo Bray, chiamato in causa dai presunti rappresentanti degli architetti fiorentini, ed ovviamente nel buon senso del sindaco e dell’intera cittadinanza fiorentina, così da non dover piangere un giorno per aver accontentato un ridicolo ed arrogante capriccio.
25 aprile 2013
COCCODRILLI, "PECORE" E AGNELLI SACRIFICALI
Questo il ricordo personale, sincero come sempre e commosso che Ettore Maria Mazzola ha dedicato all'On. Teodoro Buontempo, deceduto il 24 aprile 2013.
Coccodrilli, “Pecore” e agnelli sacrificali
di
Ettore Maria Mazzola
Nel gergo giornalistico, il coccodrillo è un necrologio scritto in anticipo, per averlo pronto al momento del bisogno; probabilmente molti dei commenti che si leggono oggi ovunque nel web a seguito della dipartita dell’on. Teodoro Buontempo fanno parte di questa categoria.
Non è quello il “coccodrillo” a cui penso: mi riferisco ai tanti necrologi caratterizzati da “lacrime di coccodrillo”, scritti da personaggi vicini a lui che ben poco hanno a che fare con il reale affetto e stima nei suoi confronti.
Personalmente, lo sanno tutti, sono lontano anni luce dal partito in cui militava l’onorevole Buontempo, e proprio per questa ragione mi sento in dovere di esprimere il mio disinteressato e profondo dolore per la morte di un personaggio che, nel bene e nel male, faceva politica perché credeva realmente in ciò che portava avanti – anche quando si trattava di scelte impopolari come la vicenda dei fondi per la regolarizzazione del 4° piano di Corviale – perché credeva fino in fondo nell’obbligo di rispettare le promesse elettorali e, soprattutto, credeva nella necessità di lavorare per il bene comune e per le classi disagiate, tutte, senza distinzioni!
La ragione per la quale parlo di lacrime di coccodrillo da parte dei politici a lui vicini è dovuta ad una mia brevissima esperienza diretta col personaggio.
Qualche anno fa, al termine di una lunga ricerca sull’edilizia popolare riportata nel mio libro “La Città Sostenibile è Possibile” (Gangemi 2010), volli elaborare un progetto di Rigenerazione Urbana del quartiere Corviale di Roma, un progetto nel quale mettevo in pratica i miei studi, suggerendo la riscoperta di una serie di norme e strumenti in vigore nell’Italia degli anni ’10 del secolo scorso, norme e strumenti che avevano consentito all’ICP di costruire in proprio e per conto terzi l’edilizia pubblica facendolo divenire l’azienda più florida dell’epoca a Roma. Quelle norme, soprattutto strumenti, furono riposti in cantina con le leggi fasciste che istituirono i Governatorati, “degradarono” l’ente ed eliminarono l’Unione Edilizia Nazionale.
Di quel progetto, che venne pubblicato su alcuni giornali e nel web, se ne innamorò l’onorevole Buontempo, Assessore alle Politiche della Casa della Regione Lazio, sicché mi volle conoscere per cercare di organizzare insieme un convegno a tema. Egli aveva molto a cuore la situazione delle periferie e degli alloggi popolari ed avrebbe voluto porre fine alle ingiustizie sociali ed urbanistiche che caratterizzano le periferie italiane. In particolare aveva a cuore l’indegna situazione del Corviale di Roma. L’idea partiva dal fatto che, oltre al mio progetto, ce ne fossero degli altri, come per esempio quello di Gabriele Tagliaventi e Alessandro Bucci, tutti votati a sostituire l’attuale ecomostro in un quartiere autonomo a dimensione umana, caratterizzato da edilizia tradizionale, piazze e giardini.
Ci chiarimmo subito sul fatto che non avrei mai accettato strumentalizzazioni politiche su di un tema che per me viaggiava ad un livello culturale, sociale ed economico molto più alto dei patetici battibecchi politici dai quali rifuggo.
Lui si mostrò d’accordo: l’impegno sociale era più importante di tutto, e anche persone come me, allergiche a certi partiti, avevano diritto a dare una mano per migliorare le cose, indipendentemente dalla tessera del partito!
Ricordo come commentai l’incontro ad amici e colleghi che scherzavano sull’incontro col “Pecora”, come veniva chiamato l’onorevole. A questi amici e colleghi dissi che, indipendentemente dalle cose che si dicevano su di lui, a me era sembrata una persona corretta, eventualmente di un altro pianeta rispetto ai politici italiani: non riuscivo a quasi a credere alla sua apertura al dialogo, così mi documentai sulla sua biografia, scoprendo che, in effetti, sembrava più stimato dall’opposizione che dal suo partito!
Nel tempo, con sorpresa, mi resi conto, che l’onorevole mi seguiva, leggeva i miei scritti, sedeva tra il pubblico delle mie conferenze (Ferrara, Latina, Roma), alcune volte mi ha perfino telefonato per chiedere consigli su ciò che sarebbe andato a dire a degli incontri e conferenze sull’ambiente e sulla sostenibilità dove si accingeva a partecipare … ricordo ancora una lunga telefonata durante la quale parlammo di energie alternative e della mia idea di far riconoscere il diritto agli sgravi fiscali del 55% non solo a chi usi prodotti industriali coibentanti, pannelli fotovoltaici, ecc, ma anche a chi utilizzi materiali e murature tradizionali a chilometri zero che non richiedono sforzi energetici per riscaldamento e raffrescamento.
Ricordo come una volta cercai di fargli cambiare modo di esprimersi circa l’edilizia del Corviale per evitare di cadere nel tranello dell’inquadramento politico di quel genere di architettura che lui definiva “Sovietica”, così gli dimostrai come fosse figlia delle folli teorie di Le Corbusier che nulla aveva a che fare col comunismo, sebbene quelle tipologie abbiano fatto presa presso le giunte e i Paesi sinistrorsi.
Di lì a poco intraprendemmo un lungo e faticoso lavoro per organizzare il convegno. L’onorevole mise a disposizione il suo team interno alla Regione, collaborando con noi (me, Gabriele Tagliaventi, Alessandro Bucci, Stefano Serafini, il Gruppo Salìngaros) alla pianificazione di un convegno che avrebbe potuto lasciare il segno sul futuro delle periferie romane e italiane.
Il convegno era pronto e si sarebbe dovuto svolgere alla fine di giugno 2011, poi si preferì evitare la concomitanza con la festività sei SS. Pietro e Paolo e si riprogrammò, nei minimi particolari, il convegno che avrebbe dovuto aver luogo il 23 e 24 settembre 2011 presso l’Auditorium dell’Ara Pacis: 20000 mega-posters a colori stampati, 2000 brochures da 16 pagine a colori stampate, 3000 inviti a colori stampati e spediti, un video ed un’intervista radiofonica registrate dall’onorevole per pubblicizzare l’evento, alberghi e aerei prenotati per ospitare Philippe Pemezec, sindaco di Plessis Robinson, Bernard Durand Rival, Direttore dell’Uff. Urbanistico di Val d’Europe, il prof. Nikos Salìngaros, e il dr. Stefano Chiavalon, direttore generale della General Smontaggi esperto di demolizioni.
… Tutto procedeva a meraviglia fino a meno di una settimana dal convegno, quando la Governatrice del Lazio impedì che il convegno avesse luogo motivando il fatto con presunti motivi di bilancio … tuttavia, nonostante quei presunti motivi, al posto del nostro convegno se ne svolsero altri due per la promozione del Piano Casa … il nostro convegno e le idee dell’assessore, effettivamente, risultavano troppo in contrasto con le strategie urbanistiche della Regione Lazio!
Inutile raccontare quanto l’onorevole abbia sofferto di questo schiaffo morale, inutile dire come “er Pecora” possa essersi sentito un “agnello sacrificale”, ricordo il suo imbarazzo nei nostri confronti, ricordo lo sfogo dettato dall’incredulità.
Tre mesi dopo ci incontrammo nuovamente, voleva comunque provare a ritornare alla carica sul tema della sua vita, poi più nulla, anch’egli dovette arrendersi alla condanna del silenzio!
Oggi sarebbe dunque utile evitare la retorica e l’ipocrisia, rispettando la memoria di chi non c’è più!
Addio onorevole, nonostante la divergenza politica, ho stimato moltissimo la sua incrollabile coerenza.
13 aprile 2013
PIAZZE 1 - LUDWIG HILBERSEIMER
Pietro Pagliardini
Comincio questa mini-serie sulle piazze in negativo, con un autore, Ludwig Hilberseimer, che è l’antitesi stessa dell’idea di piazza e che ha dato il suo contributo alla dissoluzione della città.
Leggere i suoi testi di analisi storica della città e confrontarli con la sua produzione urbanistica, i disegni, i progetti realizzati e la sua teoria per la città contemporanea è come leggere la storia di una dissociazione mentale, di una schizofrenia. Poi, riflettendo e rileggendo alcuni passi de La natura della città, 1955, l’idea della dissociazione non si annulla ma si stempera nella consapevolezza che ad un certo punto della storia del novecento appare come ineluttabile la ricerca di dominare la modernità con gli strumenti propri della modernità stessa E’ come se un velo fosse entrato nella mente di ognuno e avesse fatto da filtro tra la realtà e le aspettative del futuro, non riuscendo a mettere a fuoco insieme e a collegare le due diverse fasi temporali.
La forza della realtà presente al momento, con un atteggiamento certamente influenzato anche dalle categorie della struttura e della sovrastruttura, sembra avere impedito di riuscire perfino ad immaginare di opporsi ad una organizzazione tecnologica della società ritenuta inesorabilmente vincente, probabilmente a ragione, e di dedurne che la città coerentemente avrebbe dunque dovuto adattarsi ad essa attraverso lo strumento e il simbolo primo della modernità, cioè l’automobile. Questa viene considerata allo stesso tempo un pericolo (per la salute e la vita in Hilberseimer) ma anche, per massimo paradosso, la generatrice stessa del disegno della città che si piega a quell’oggetto malefico. Si noterà leggendo l’inizio del brano riportato di seguito, la straordinaria analogia di temi e di linguaggio, a distanza di 60 anni, con quelli che potremmo avere letto in un quotidiano di oggi.
Hilberseimer: particolare del piano di ristrutturazione dell'area commerciale di Chicago |
A questo proposito, una breve digressione dal tema: mi sembra che lo stesso errore, in maniera simmetricamente ribaltata, venga compiuto oggi, con l’idea largamente prevalente di chiudere tutti i centri storici, e anche oltre, alle auto. C’è un problema irrisolto con l’auto, non solo dal punto di vista strettamente tecnico, ma direi a livello inconscio, la quale, in entrambe i casi, riesce a diventare il carnefice della città. Una città senz’auto è un’utopia e un errore pari ad una città disegnata per l’auto, una fuga dalla realtà che rischia di accentuare le differenze tra le parti di città e l’artificialità dei nostri centri storici. L’auto è un problema da risolvere non un nemico da combattere e per risolverlo, o attenuarne gli indiscutibili problemi che crea, occorre liberarsi da quella specie di riflesso condizionato di negazione che finisce per produrre ideologie sbagliate qualitativamente simili a quelle di Hilberseimer.
Riporto alcuni brani tratti da La natura della città, scritto nel 1955 da Hilberseimer e che illustra principi e criteri del suo piano per Chicago, che porterà tra l’altro al suo progetto realizzato più conosciuto, Lafayette Park.
Il capitolo finale, Problemi di pianificazione, quello delle proposte e del progetto, ci mostra tutto il senso della fiducia nel progetto e nelle proprie idee di una nuova visione di città. Ci indica anche una buona dose di ottusità e di infinita distanza tra le proposte progettuali e gli esiti che, con un minimo di senso critico e di dubbio, si sarebbe potuto prevedere sfociare nella creazione di un ambiente totalmente artificiale e astratto. In pochi come in questo, proprio perchè non ha l'aspetto dell'utopia ma quello della fattibilità di piano, si misura la separazione dell'uomo dalla natura, in quel processo di astrazione cominciato in maniera sistematica con le il razionalismo dei primi anni del 900 ma le cui radici sono evidentemente ben più lontane. Ottusità tanto più grave in chi, come l’autore, nelle pagine precedenti dimostra invece sensibilità e conoscenza dei processi che hanno determinato la nascita o lo sviluppo delle città nel corso della storia. E’ questo il velo di cui parlavo prima. Certo dobbiamo tenere conto che si parla di Chicago, una città dominata e probabilmente sopraffatta dal traffico già negli anni 50, che, risulta bene dal testo, era probabilmente tale e tanto da mettere in secondo piano altri aspetti.
Ma qui non si parla di aggiustamenti, qui si disegna una sorta di “città ideale” che ha aspetti a dir poco allucinati, tutti trattati con uno spirito razionalistico e positivista che prevede effetti sicuri, che non ammette dubbi o incertezze, con descrizioni anche di dettaglio che oggi fanno perfino sorridere per la loro mediocre ingenuità.
Eppure, anche se non al livello ossessivo in cui Hilberseimer sembra aderire e indulgere in modo del tutto acritico, quei criteri hanno fatto scuola e sono diventati cultura dominante. Basti pensare alle strade a cul de sac, o alla ossessione delle funzioni con la loro rigida divisione.
L’unico aspetto positivo, per assurdo, è che la parola “piazza” non viene citata nemmeno una volta. Di questo Hilberseimer era evidentemente consapevole: niente rete urbana, niente piazze.
“La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo così abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico, il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale della nostra attuale condizione è l’incapacità di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico. La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.
Le limitazioni di traffico, e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale richiede l’intera città. La sua soluzione richiede la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa, e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede inoltrel’integrazione della città con i suoi immediati dintorni.
Il sistema di strade e di lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altre parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituire quet’impianto con uno che elimini, per quanto è possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita. […] Le arre residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano queste due condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minaima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale.
L’unità che noi proponiamo soddisfa queste necessità e contiene, al suo interno, tutte le parti essenziali di una piccola comunità. La sua dimensione sarà determinata da distanze percorribili a piedi che, per essere tali, non dovranno mai superare i 15 o 20 minuti di cammino. Il nuemro di abitanti sarà determinato dal numero di posti di lavoro negli uffici e nelle fabbriche che fanno parte dell’unità; la densità varierà in modo analogo.”
Seguono sezioni che affrontano l’inquinamento, i diagrammi del vento, i valori architettonici, i problemi del traffico. Passa poi a simulare l’applicazione di quei principi espressi ad alcune città campione:
“ Questa rete di strade secondarie dovrebbe collegare tutte le strade residenziali le quali, verso la città, dovrebbero essere a fondo cieco”.
Si passa infine a Chicago:
“L’eliminazione del traffico di attraversamento nelle zone residenziali e della possibilità di accesso diretto a ogni casa, è un problema importante e difficile. Qui potrebbe essere risolto semplicemente chiudendo le strade. E’ possibile ottenere che soltanto le strade centrali delle unità future consentano ancora il traffico di attraversamento; mentre tutte le altre son chiuse, come, eliminando alcuni blocchi tra le unità future, si può creare un parco, una area libera naturale in cui potrebbero essere localizzate le scuole e gli edifici pubblici che dovrebbero essere accessibili senza attraversare strade di traffico: in tal maniera, pertanto,i bambini potrebbero andare a scuola senza risultare in nessuna maniera esposti ad alcun pericolo”.
Queste ultime righe sono la descrizione efficace e quasi pittorica della fine della città, attraversata da autostrade a livello inferiore, una distesa di verde su cui si ergono edifici pubblici staccati l’uno dall’altro e poi una scuola, staccata anch’essa, più lontano gli edifici, ognuno rigorosamente separato dall’altro.
Distanza e separazione sono le cifre di questo schema, prossimità e connessione sono quelle della città tradizionale .
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11 aprile 2013
EFFETTI COLLATERALI DELLA "SMART GENERATION", RIFLESSIONI SULL'ULTIMA TROVATA DI ARUP ASS.
di
Ettore Maria Mazzola
Conoscevamo le previsioni di Nostradamus, quelle di Cassandra, quelle dei Maya, tutti i giorni abbiamo a che fare con le previsioni del tempo, Ci mancavano solo quelle sull’evoluzione degli edifici!
Ma ora abbiamo anche quelle! Infatti, grazie al gruppo di ricerca Foresight + Innovation del Gruppo Arup Associates, che ha prodotto una mostruosità definita “It’s Alive”, possiamo sapere quello che sarà il costruito dei prossimi 50 anni.
Bè diciamolo forte, sentivamo davvero il bisogno di questa “previsione basata su dati certi” perché rigorosamente stabiliti dallo stesso gruppo di ricerca!
Peccato però che quei dati ignorino una serie di ricerche di matrice sociologica, antropologica, neurofisiologica, economica e ambientale. Includo l’ambiente in questo elenco perché quest’ultimo andrebbe letto nel vero senso del termine e non in quello di comodo che certi studi di matrice consumistica adottano!
Potremmo ironizzare dicendo: data una soluzione se ne crei il problema.
È il principio che muove l’economia moderna iper-consumista. Non si fa a tempo a comprare l’ultimo tipo di I-Phone o Smart-Phone che ne esce subito uno nuovo dotato di “funzioni indispensabili” per risolvere problematiche delle quali fino a ieri sera non conoscevamo neppure l’esistenza, però è così che va il mondo (degli stupidi), e quindi tutti in fila al megastore per acquistare per primi l’ultimo ritrovato tecnologico!
… Ma perché tanta fretta ad essere i primi? Forse perché sappiamo che il giorno dopo quello straordinario ritrovato tecnologico sarà già vecchio? … gli uomini, che specie strana!
Sembra un discorso fuori luogo, ma a conti fatto siamo lì.
L’urbanistica, così come la conosciamo oggi, è una disciplina non più mirante a “disegnare la città”, essa infatti si limita all’organizzazione “funzionale” del costruito e, se si è fortunati, alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per i collegamenti.
Peccato però che l’urbanistica della presunta città funzionale abbia prodotto, a livello planetario, luoghi perennemente congestionati, pericolosi e invivibili, a differenza dell’urbanistica delle città storiche – quelle che i convenuti del IV CIAM liquidarono come “non funzionali” – che continua a funzionare alla perfezione nonostante le violenze della “civiltà” moderna. L’urbanistica moderna si è basata e si basa su “previsioni di piano”, previsioni che, nella totalità dei casi, non rispondono mai alla realtà dei fatti ma solo agli interessi fondiari di qualcuno, generando un consumo di suolo inimmaginabile prima degli anni ’30, ovvero prima delle visioni folli di Le Corbusier e Wright.
Non se ne può ovviamente parlare tra colleghi, i danni ideologici e l’assuefazione al modernismo/funzionalismo, nonché gli interessi speculativi, sono tali che se si mette in dubbio la normativa urbanistica e il nostro stile di vita si viene condannati in ogni possibile modo da parte degli “esperti”.
Cosa c’entra tutta questa premessa? C’entra col fatto che, se un tempo certe previsioni riguardavano il modo di sviluppare la città, oggi Arup Associates ha deciso di fare un salto di qualità. Così, per poter conquistare una fetta di mercato edilizio del quale già detiene una grossa parte a causa di un sistema assurdo secondo il quale le cosiddette archistars (sotto forma di “società di ingegneria” e i “gruppi”) vengono considerate sinonimo di “garanzia” … indipendentemente dai ripetuti fallimenti e cause giudiziarie che hanno visto nel mondo coinvolti tanti nomi famosi.
Ecco quindi che la Arup Associates, per tramite del suo gruppo di ricerca Foresight + Innovation, si auto proclama “esperta” del settore – da lei stessa creato – dettando i tempi e i modi del futuro sostenibile dell’architettura e decidendo il modo in cui gli esseri umani dovrebbero vivere nei prossimi 50 anni.
In realtà non è proprio un settore creato dalla Arup, bensì l’esasperazione di uno slogan gran moda negli ultimi anni, la Smart City.
Sarebbe ora che gli umani prendessero coscienza del fatto che le grandi multinazionali “tech” stiano creando a tavolino un presunto futuro ipertecnologico del quale non solo possiamo fare a meno, ma che addirittura probabilmente mai vedremo a causa dell’esaurimento delle fonti non rinnovabili e della dipendenza di quelle rinnovabili dalle prime.
Sarebbe ora di smetterla di prendere per i fondelli la gente con descrizioni come quella che segue relativamente alla “Net-Native Generation”, termine coniato da Arup Associates per giustificare “It’s Alive”:
“La generazione di individui che popolerà la terra sarà nata nell’”era della rete”, perciò sarà molto probabile una tecnologia basata sempre di più sulla produzione di soluzioni individuali”.
Ragion per cui la ricerca della Arup mira alla possibilità/necessità di una progettazione architettonica basata su:
• “componenti flessibili per una continua adattabilità” … ma che senso ha parlare di continua adattabilità se stiamo parlando di una concezione usa e getta? (ndr)
• “produzione di più risorse di quelle che si consumano” … l’architetto diviene Dio e, per magia produce risorse energetiche dal nulla! (ndr)
• “presenza di una pelle sensibile e multifunzionale” lo slogan è “puoi immaginare un edificio che abbia una pelle sensibile e multifunzionale?” … le immagini allegato legittimano il dubbio relativo ai materiali proposti: quali costi, economici ed energetici si prevedono per questa pelle? E quale è il suo reale ciclo di vita? (ndr)
• “ipotesi di una città in cui gli edifici sono pienamente integrati con le infrastrutture urbane circostanti” … in pratica un modello di città intimamente dipendente dai trasporti a grandi distanze, piuttosto che un ambiente dimensionato sull’uomo. Come potrà una realtà di questo tipo sopravvivere alla fine dell’era del petrolio a buon mercato? (ndr)
• “Smartness che consiste in un sistema connettivo paragonabile al sistema nervoso umano, una mente insomma, capace di rispondere efficacemente e (quasi) autonomamente alle necessità del singolo” … interessante quel “quasi” messo tra parentesi, come a voler ammettere l’impossibilità di autonomia paventata nei primi tre punti! (ndr)
In un articolo dedicato a It’s Alive firmato da Giulia Custodi per il sito www.architetturaecosostenibile.it si apprende che lo studio di Arup Associates vuole prefigurare ciò che succederà nel 2050 a causa di “14 motori di cambiamento” dell’esistenza degli umani.
Nell’articolo si legge che nello studio di Arup la consapevolezza delle cause del cambiamento assume grande rilevanza, proprio perché si tratta della classica e preliminare indagine sull’identificazione del problema, senza cui non sapremmo dove andare a cercare le risposte. Tra queste abbiamo la crescita della popolazione e la relativa urbanizzazione, i cambiamenti climatici, il riconoscimento della scarsità delle risorse naturali, la coscienza ambientale e infine la consapevolezza di una società fondata sulla difesa e sulla sorveglianza”.
Viene quindi spontaneo chiedersi come mai, davanti a tanta consapevolezza, il prodotto sembra essere l’esatto opposto della risposta alle problematiche delle quali si era consapevoli?
Mi spiego meglio: se si è coscienti del problema dell’aumento della popolazione e, conseguentemente della crescita dell’urbanizzazione, si dovrebbe tendere a proporre delle tipologie urbanistiche ed edilizie che portino a ricompattare il tessuto urbano, piuttosto che proporre edifici puntiformi isolati che tendono a consumare un’immane quantità di territorio; quest’ultimo infatti risulterebbe indispensabile per risolvere i problemi relativi all’inquinamento e ai cambiamenti climatici … ma ciò non conta, evidentemente.
Inoltre, i ricercatori della Arup Associates raccontano della loro presa di coscienza della scarsità delle risorse naturali, tuttavia propongono un’edilizia che, oltre a danneggiare le falde freatiche per le ragioni che ho testé elencato, richiede anche un’immane consumo energetico! Si dovrebbe costruire artigianalmente e con materiali durevoli, naturali e a chilometri zero, materiali ottimamente performanti a livello termo-igrometrico, piuttosto che proporre edilizia industriale che impiega materiali dalla vita breve, prodotti a migliaia di chilometri di distanza, materiali che necessitano di artifici chimico-fisici per poter difendere gli edifici dagli agenti atmosferici … ma anche questo non conta!
Infine la Arup Associates sbandiera la triste consapevolezza di una società fondata sulla difesa e sulla sorveglianza, ciò nonostante propone un’edilizia frammentaria all’interno della quale il pedone non è il benvenuto e ci si muove solo grazie a grandi infrastrutture in uno scenario degno di Blade Runner, dove le relazioni sociali sembrano irrealizzabili. Nel tipo di città del futuro proposto da Arup non v’è possibilità di avere strade caratterizzate da fronti compatti ospitanti attività commerciali e/o artigianali al piano terreno, conseguentemente non v’è possibilità di ottenere quella “sorveglianza spontanea”, operata da negozianti e passanti, della quale Jane Jacobs parlava nel lontano 1961 criticando le città americane ormai disegnate in funzione delle automobili … dove sarebbe dunque tutta questa consapevolezza?
Lo studio di Arup è un inno alle nuove tecnologie e nulla più. Nell’articolo summenzionato infatti si legge:
“Nuovi modelli di produzione del cibo, città ed edifici intelligenti, nanotecnologie e biotecnologie, robotica e automazione. Tutti questi concetti rappresentano, nell’immaginario collettivo ma anche e soprattutto nei laboratori tecnici che ne preparano versioni sempre più sofisticate, ciò da cui oggi ci aspettiamo sarà popolato il mondo del futuro”.
In pratica siamo tornati al punto di partenza. Amiamo complicarci la vita con tecnologie sempre più sofisticate che rendono obsolete la sera ciò che era stato prodotto al mattino … di questo passo non sarà possibile costruire edifici che richiedano più di 24 ore, perché al mattino seguente saranno passati. E’ questo il futuro sostenibile che vogliamo?
Ma poi chiediamoci, è questo il futuro? È questa la novità? A me sembra che con 100 anni di ritardo si stia proponendo ciò che vaneggiava Antonio Sant’Elia nell’8° punto del suo Manifesto dell’Architettura Futurista del 1914: «[…] i caratteri fondamentali dell’Architettura Futurista saranno la caducità e la transitorietà. “le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, […] pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista».
Personalmente penso che l’unico futuro possibile per l’architettura, l’urbanistica e l’ambiente possa essere solo quello di un ritorno al buon senso, cosa che prevede la necessità di liberarsi al più presto dagli stupidi pregiudizi ideologici e dall’idea dell’architetto demiurgo.
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7 aprile 2013
SUL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO "LIBERI DI COSTRUIRE"
di Ettore Maria Mazzola
Sebbene sia ben felice delle provocazioni di Romano (vedi post precedente), devo necessariamente esprimere i miei dubbi – o suggerimenti – atti a dare più credibilità a certe argomentazioni.
Chi mi conosce sa benissimo quanto io sia dalla parte di chi sostenga la necessità di ridare ai cittadini comuni la possibilità di esprimersi sulle realizzazioni urbanistico-architettoniche entro cui dovranno vivere; tutti sanno quanto io possa essere contrario alle presunte élite colte degli architetti che, parlandosi addosso ed autocompiacendosi, impongono la loro ideologia testandola su delle ignare cavie umane, quindi spero che capirete come queste mie critiche non vogliano essere distruttive del testo di Romano, ma piuttosto un suo completamento.
Il motivo principale della critica è che ritengo pericolosa la proposta di una sorta di tabula rasa della normativa edilizia e delle procedure vigenti in nome di una sorta di istigazione al “fai da te ciò che vuoi” … un modus operandi che, ritengo, piuttosto che presagire un miglioramento delle nostre città, sembra prefigurare un far west urbanistico architettonico degno delle peggiori periferie abusive.
Un grosso limite in questo approccio lo vedo anche nella sua difesa basata su discutibili indicazioni storiche questa pratica costruttiva libertaria.
Gli storici dell’architettura, e di conseguenza gli architetti di palato fino, tendono a considerare la formazione della città a partire dall’opera di Alberti e Rossellino a Pienza, mentre la vera coscienza urbanistica italiana si è sviluppata e consolidata molto prima, per celebrare la nuova istituzione dei Comuni all’indomani del feudalesimo, epoca in cui i “signori” realizzavano all’interno delle città dei castellari che nulla avevano a che fare col senso di città degli spazi condivisi, ma piuttosto si configuravano simboli arroccati della propria arrogante presenza bellicosa.
A testimonianza di ciò che dico, sottolineo come gli archivi storici italiani risultino stracolmi di Statuti, Regolamenti, Codici, Trattati, ecc. a partire dal tardo XII secolo (Siena, Vicenza, Città di Castello, Gubbio, Bologna, Perugia, Orvieto, Nocera Umbra, Verona, Pistoia, Parma, Viterbo, Ravenna, ecc.), documenti che dimostrano l’altissima concezione urbanistica degli italiani del medioevo, capaci di concepire e scrivere regole del vivere civile e del costruire nel rispetto degli altri. Se però andiamo a ritroso – sono anni che ci sto lavorando – troviamo che quelle regole, alcune delle quali sono riportate anche nel nostro Codice di Procedura Civile, sono riscontrabili in codici altomedievali e medievali arabi e bizantini [Trattato di Giuliano di Ascalone, sotto Giustiniano I (531-533), Trattato di Ibn Abd al-Hakam (767–829) al Cairo, Trattato di Ibn Dinar (827) a Cordoba, Trattato di Ibn al-Rami a Tunisi (circa 1350)] trattati che a loro volta si rifacevano ai codici costantiniani; ebbene quei codici e trattati, tramite la dominazione bizantina e araba si sono diffusi in tutto il Bacino Mediterraneo, completando un viaggio di andata e ritorno dall’Italia e restando in vigore, anche se non ne abbiamo tracce scritte, nel modo di costruire la città e relazionarsi urbanisticamente tra i suoi cittadini fino all’alba del Rinascimento.
Ciò vuol dire che le città sono – SEMPRE – state costruite in base a delle regole, sicuramente più snelle e logiche di quelle post-lecorbusieriane, e mai in nome del fai da te; o meglio, il fai da te è sempre stato ammesso, ma nel rispetto degli altri, perché un tempo vigevano le regole del vivere civile, del rispetto del bene comune, del rispetto del decoro urbano, ecc., tutte regole che la presunta “civiltà” contemporanea ha perduto.
Se vogliamo quindi riportare le città ad essere più armoniose, e i cittadini a realizzare in maniera più libera (nel rispetto altrui), bisogna prima risvegliare il senso civico … ed oggi non mi sembra affatto che ce ne siano le condizioni! Occorrerebbero anni di insegnamento dell’Educazione Civica (vergognosamente eliminata dall’insegnamento scolastico), occorrerebbe rivedere il modo di insegnare la storia dell’arte e dell’architettura, imponendo anche quello della Storia dell’Urbanistica (oggi inesistente nelle scuole superiori), occorrerebbe imporre l’insegnamento della Sociologia Urbana, affiancato a quello dell’Urbanistica, per far comprendere a chiunque, e non solo a pochi eletti che andranno a studiare architettura ed urbanistica (peraltro con tutti i limiti dell’ideologia), quelli che sono gli effetti collaterali dell’urbanistica e dell’architettura … solo allora potrebbe rendersi possibile operare come Romano suggerisce.
Potrei andare avanti moltissimo … ma rischierei di essere prolisso, quindi rimando ai miei tanti articoli sparsi nel web ed ai miei libri per far capire meglio ciò che intendo, però devo fare un’ultima annotazione, questa volta profondamente critica.
Romano dice:
«E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto – o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…)»
Ebbene questa libertà non è percorribile, né può esserlo l’idea che si possa fare a meno, in nome di una presunta libertà, di conquiste scientifiche come quelle derivanti dall’eziologia e dalla fisiologia e neurofisiologia!
Consentire di costruire ambienti dimensionati in quel modo, o addirittura non ventilati significa buttare nel cesso anni di studi che hanno portato a ridurre la mortalità delle persone grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita delle abitazioni … cosa che Le Corbusier, dall’alto della sua presunzione ed ignoranza, volle fingere di non sapere, per il comodo degli speculatori suoi sponsors.
Il risultato di quell’ignoranza portò gli architetti, gli urbanisti, e prima di loro i docenti universitari a fare una grandissima confusione, sempre negli interessi degli speculatori (fondiari ed edilizi), tra “densità urbana” e “densità abitativa”, portando le città ad espandersi a macchia d’olio in nome di una errata criminalizzazione dei centri storici – densi e compatti – che nulla aveva a che fare con le condizioni di vita all’interno degli edifici.
Inutile quindi far notare l’ossimoro delle stanze senza finestre per prevenire crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina: stanze senza finestre = dipendenza dall’aria condizionata = aumento dell’inquinamento = aumento delle polveri sottili!
Detto ciò chiudo con la speranza che questo scritto aiuti tutti, Romano incluso, a riflettere sulla frase “est modus in rebus”: … così come fu un grande errore quello di spazzare tutto il passato in nome dell’ideologia modernista (Carta di Atene e Le Corbusier), altrettanto e peggio ancora potrebbe succedere nel caso si facesse repentinamente, e senza nuove regole, piazza pulita, in nome della demagogia, di tutto ciò che abbiamo conquistato in materia di ecologia e salute pubblica!
LIBERI DI COSTRUIRE
Pietro Pagliardini
Il titolo non è mio ma è quello del nuovo libro di Marco Romano che consiglio vivamente di leggere con animo sgombro da pregiudizi. E’ un libro disinibito, dissacrante, libertario, liberatorio e perfino libertino, tanto è anti-moralista e quindi controcorrente in questa fase della nostra storia così grevemente moralista e giacobina, e lo è con spirito leggero e divertito. Leggendolo viene da immaginarsi la sottile e irridente perfidia dell’autore nello scrivere quelle parti più politicamente scorrette, col gusto per la provocazione intellettuale che ci ha messo, ben sapendo che sarebbe stato sottoposto alle critiche più feroci. Probabilmente andando volontariamente a sollecitarle.
Ma detto questo, il libro è serio, anzi serissimo, fondato sulla profonda conoscenza non solo delle città ma della storia e delle sue pieghe più nascoste, quasi da erudito topo di biblioteca.
Il contenuto è letteralmente politico perché affronta il tema città dal punto di vista della civitas, cioè dei cittadini, ribaltando completamente la visuale rispetto a quella che è la regola generale da sempre: la città europea come noi la conosciamo e come a noi è giunta, è il frutto dell’opera dell’uomo da mille anni a questa parte ed è cresciuta e si è trasformata guidata da una precisa volontà estetica non imposta dall’alto bensì cresciuta in un clima di democrazia e libertà, e quindi il metro con cui leggerla e giudicarla è l’uomo stesso in quanto cittadino, senza divinizzare i manufatti se non in funzione del soddisfacimento dei desideri, oltre che dei bisogni, dell’uomo in quanto appartenente alla civitas. Il valore simbolico dei temi collettivi e dei temi individuali trova la sua ragion d’essere nell’essere stati scelti come tali dai cittadini con l’intento di rendere più bella l’urbs.
Da questo assunto storico, che fa perno sul diritto di cittadinanza garantito dal possesso di una casa, le cui origini Romano spiega con dovizia di particolari, nasce Liberi di costruire, che va preso proprio in senso letterale, almeno di primo acchito, per entrare dentro l’argomento, salvo poi riportarlo entro l’alveo delle regole le quali però hanno sempre come faro il rispetto del diritto dei cittadini a costruirsi una casa secondo le aspettative e le possibilità di ciascuno.
Le regole infatti sono informate, riprendendo quello che sempre l’autore ha sostenuto, dal principio di garantire un godimento della città il più possibile egualitario, a prescindere dalle possibilità economiche dei singoli. Ciò può avvenire, secondo Romano, disegnando piani regolatori che non pongano limiti quantitativi al “dimensionamento” del piano (immagino i funzionari-urbanisti della Regione Toscana saltare sulla seggiola alla lettura di questa parte, ammesso che non sia già messo all’indice e che tutti i dipendenti non vengano perquisiti per evitare che il virus si diffonda), strutturati con rete stradale costituita da boulevard e viali che partano dal centro della città o comunque da luoghi centrali, affinchè la città sia una presenza per tutti gli isolati che affacciano su di essi e per tutte le case allineate lungo le strade, creando così una condizione tale per cui, anche chi non può permettersi di abitare in centro, abbia la percezione fisica di essere comunque parte integrante di quella civitas. E’ la visione tradizionale che Marco Romano ha del disegno della città, che in questo libro si evolve e si arricchisce di indicazioni politiche più ampie.
Leggiamo i titoli dei capitoli che lo compongono:
-Il cittadino europeo e la sua casa
- Limiti alla libertà di costruire
- La democrazia della civitas e la bellezza dell’urbs
- Che fare?
- Liberarsi dalle commissioni edilizie
- Liberarsi dalle norme edilizie
- Una libera casa di vacanza
- Liberiamoci dallo Stato.
Come si capisce, questo è un libro sulla libertà, che non va considerata in alcun modo anarchia o scambiata, ancora peggio, per una bieca visione speculativa, perché Romano non solo non rifiuta l’idea di progetto della città, ma anzi auspica un ritorno al piano disegnato, al piano all’antica, contro la pratica della pianificazione come fonte di corruzione:
“E su questo terreno incerto [cioè sulle infinite regole scritte da presunti esperti, Ndr] serpeggia un’endemica corruzione, che non va fatta risalire alla disonestà dei singoli – spesso coperti dai partiti – ma alle stesse procedure della pianificazione: una corruzione che i piani regolatori correnti fino a mezzo secolo fa, con le loro strade tracciate seguendo un’indiscutibile coerenza d’insieme e con una semplice norma regolativa dell’edificabilità, rendevano minima (...)
E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto –o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…) La vera difficoltà che incontra questa proposta non è tanto quella concettuale, perché tutti dovrebbero convenire su quanto sia connaturata a una società libera la libertà di conformare la propria casa secondo i propri desideri e non secondo le arbitrarie prescrizioni di quegli esperti che i principi totalitari infiltrati tra noi hanno legittimato, quanto dal semplice fatto che a controllare il rispetto di codeste norme sono impegnati gli uffici tecnici dei Comuni, che spesso non saprebbero a cos’altro venire destinati. Ma se il governo di questo paese vorrà seriamente impegnarsi nella spending review ecco un campo dove il taglio non soltanto sarebbe indolore ma verrebbe salutato con vero entusiasmo da quanti sono quotidianamente impegnati – gli architetti e i loro clienti – ad aggirare queste assurde disposizioni spesso con umilianti sotterfugi: gli attentati alla nostra libertà evocano in ogni campo un popolo di abusivi, e le quotidiane e innocue trasgressioni alle norme più stravaganti consolidano la convinzione che tutte le norme siano di fatto trasgredibili”.
Come si capisce bene, il gusto del paradosso, accompagnato da osservazioni assolutamente vere e a tutti note, serve a provocare una reazione forte nel lettore, a dare una scossa al torpore, al massimo all’indignazione, con cui oramai subiamo ogni tipo di assurde e inutili vessazioni.
Ma allora, c’è un limite alla libertà del cittadino? Il limite c’è e “la civitas è legittimata a porre limiti soltanto quando viene intaccata la sua sfera simbolica, e la sua sfera simbolica non è un campo aperto alle coercizioni dei pianificatori ma può essere soltanto quella sedimentata nei secoli dalla sua democrazia e dalla sua libertà”. La sfera simbolica è, secondo Romano, lo spazio pubblico con i suoi temi collettivi.
Sull’architettura, sulla forma che le abitazioni potrebbero avere, Romano pensa che: “E’ vero che la tradizione moderna pretende che l’architettura abbia il dovere morale di rispecchiare nei suoi progetti il linguaggio estetico appropriato ai tempi nuovi, quello di Gropius e di Le Corbusier, e non di replicare gli stili del passato, ma questa pretesa è anch’essa riconducibile ai principi di una pianificazione che pretende di formare un uomo nuovo piuttosto che soddisfare i bisogni degli uomini in carne e ossa; e se qualcuno tra costoro crederà di essere felice in un paese costruito con un aspetto antiquario è legittimo che trovi un architetto capace di disegnarlo – speriamo con un disegno più sapiente di quello corrente degli outlet , un disegno che del resto va già in qualche caso comparendo – ed è anche legittimo che codesto architetto non debba avvertire alcun senso di colpa per questa sua rara capacità”.
Molti altri sono i temi di grande interesse affrontati da Marco Romano, che conclude il suo libro con una intrigante, anche se di difficile architettura istituzionale, proposta di una Europa delle città, anziché quella di una Europa delle nazioni, sempre fondata su argomentazioni e interpretazioni storiche non certo estemporanee. Questo è il senso del titolo dell’ultimo capitolo, Liberiamoci dallo Stato, non quello di un grido anarchico o di un becero lassismo come qualcuno certamente penserà.
Un libro i cui assunti non tutti possono essere condivisi e tanto meno che se ne ritenga possibile la facile attuazione, ma che tuttavia riporta tutta la materia della città e dell’architettura alla sua fonte originaria, cioè l’uomo come cittadino parte della civitas con i suoi desideri e i suoi bisogni, sottraendo l’urbs alle grinfie dei presunti esperti. Chi mi ha letto un po’ sul blog sa che ho sempre sostenuto che per ridare legittimità all’architettura non c’è altra strada che rimetterla al giudizio dei cittadini. Forse è questa l’unica vera “terza via”, vale a dire quella di tornare alla prima.
1 aprile 2013
PIAZZE
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Piazza pulita, mettere i propri affari in piazza, fare una piazzata, piazza telematica, scontri di piazza, mi sono messo sulla piazza, Piazza Italia, scendere in piazza, processi di piazza, riempire le piazze, Piazza Affari: il linguaggio comune e quello politico e giornalistico ci racconta che la piazza è rimasta nell’immaginario collettivo, anche con valenze negative, il luogo pubblico per eccellenza, il luogo in cui si condensano i rapporti sociali tra gli individui e si esprime l’appartenenza di ciascun individuo ad una civitas. Piazza è il simbolo di comunità, locale il più delle volte ma anche nazionale, in occasione di grandi manifestazioni pubbliche e addirittura universali nel caso di Piazza San Pietro, luogo di riferimento per milioni di persone di ogni continente.
In piazza si commercia, si discute, si manifesta, ci si mette in gioco, più nelle intenzioni e nei ricordi che nei fatti però. Nel linguaggio comune, ma anche nella pratica urbanistica, la piazza è mitizzata oltre ogni misura e quasi trasfigurata fino a perdere ogni connotazione fisica, ogni aggancio con la realtà urbana. Il significato metaforico prevale largamente su quello di luogo fisico e storico della città.
Questa frase di Baricco è sintomatica in questo senso:
"Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada? Sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto".
Il posto per eccellenza è la piazza, anche se poi in piazza non ci sta quasi mai nessuno, se non in particolari eventi e circostanze. Un collega, Danilo Grifoni, osservava che le piazze sono affollate ai bordi, quasi mai al centro. Si prenda Piazza del Campo a Siena: chi sta al centro, a parte i turisti? La vita si svolge ai margini, cioè lungo la strada, laddove ci sono attività o edifici pubblici importanti. E Baricco sembra non tenere conto del fatto che le piazze senza le strade non esistono. Se è lecito in letteratura, non è invece lecito nella lettura della città, che esiste anche in assenza di piazza, e non solo nei paesi extra-europei, come spiega Marco Romano che attribuisce alla storia urbana europea “l’invenzione” della piazza, ma anche da noi, dove esistono borghi lineari che non hanno piazza. Ma non solo borghi lineari: Arezzo, la mia città, spiegava con gusto del paradosso il prof. Piero Ricci “è quella città che ha come unica piazza un semaforo”, per il fatto che la gente si concentrava e si concentra tutt’ora, nell’incrocio tra le due strade più importanti, una pedonalizzata, la strada del passeggio, dello struscio, e l’altra carrabile, dove c’è un semaforo ma, incredibilmente, non c’è una piazza.
La piazza risiede più che mai nella mente: in quella di sindaci che dichiarano di volerne 50 o 100 ad ogni campagna elettorale, e in quella degli architetti, che ad ogni concorso attribuiscono il nome di piazza ai luoghi più improbabili: interni di edifici, edifici senza interni, vuoti destrutturati, ma molto ben renderizzati, residuali tra edifici messi a caso secondo un “gusto” geometrico-astratto, spiazzi marginali aperti delimitati dal vuoto intorno.
Non esiste invece, dicevo prima, una città senza strade e infatti le nostre periferie post-belliche non sono città proprio per la programmatica prima, abitudinaria adesso, mancanza di strade, nell’accezione tradizionale del termine. E se non esistono le strade non possono esistere nemmeno le piazze, quindi è inutile fare concorsi per piazze che non possono esserci laddove non esiste un organismo urbano con un sistema circolatorio strutturato in grado di alimentare i vari organi vitali. Inutile anche, anzi dannoso, laddove le piazze già esistono, proporre interventi di così detta riqualificazione, la quale si risolve in vacuo arredamento d’esterni generalmente estraneo e dissociato dai caratteri del luogo, esercizi di fantasie grafiche con supponenti ambizioni artistico-decorative, sempre ben renderizzate, che fanno perdere il sapore originario senza riuscire a sostituirlo con uno nuovo che non sia di astratto design da stand fieristico: segni di pura grafica nella pavimentazione del tutto priva di significato, accostamento di materiali da pavimentazione diversi, immancabile fontana e panchine e poi le scale affollatissime, nei rendering, di giovani, qualche stento alberello perché il verde arreda e scaccia l’horror vacui.
Se qualcuno volesse riconoscere in questa descrizione una piazza a lui nota si metta in pace, non è così. E’ che sono tutte eguali e non c’è bisogno di pensare a qualcuna in particolare. Ne vedi una, le hai viste tutte. Le piazze storiche invece sono tutte diverse tra loro e tutte riconoscibili perché diversa è la loro conformazione spaziale rispetto alla città, diversa è la forma, diverse le cortine degli edifici che le circondano.
Il verbo della piazza è stare, quello della strada andare. La vita è andare (in poesia e in letteratura è stare) e andando lungo una strada si può capitare in una piazza dove eventualmente stare. La piazza è per i giorni di festa o per le occasioni speciali, la strada è per la quotidianità, per i giorni feriali. Con molte eccezioni, come la piazza del mercato. Ma la piazza non può essere in un luogo qualsiasi, in base alla volontà di arredare un vuoto o di destinarvi una funzione. Le funzioni passano ma la piazza resta e se non è nel posto giusto tornerà rapidamente ad essere solo un vuoto.
Scrive Marco Romano nel suo libro appena uscito Liberi di costruire, Bollati Boringhieri:
“I sostenitori dei principi sui quali riposa la pianificazione rimarranno sconcertati dal fatto che il piano di una nuova città non abbia nulla a che vedere con la destinazione d’uso degli isolati tracciati dalla nuova rete di strade e di piazze, dove tuttavia non sussistono motivi per stabilire le famose prescrizioni funzionali che sono il loro pane quotidiano. Che la città possa venire immaginata come un complesso di funzioni, alla guisa del corpo umano, è precisamente la metafora organicista che ha legittimato la pianificazione moderna, ma le cose non stanno con ogni evidenza così, perché la consistenza materiale dell’urbs – quella che ne incorpora la sfera simbolica e il significato civile – viene disegnata e costruita con la pretesa di durare per sempre, proprio perché alla sicurezza della nostra appartenenza alla civitas e alla presunzione della sua durata nel tempo noi ancoriamo la speranza di sopravvivere nella memoria dei nostri discendenti (…) mentre l’utilizzazione dei fabbricati che oggi ne occupano le aree intercluse tra strada e strada, tra una sequanza e l’altra, è destinata a durare molto meno, sostituita nel tempo da altre utilizzazioni, com’è stato in questi ultimi mille anni…”.
Per inciso, credo che la metafora che Romano chiama organicista riferita alla pianificazione moderna, sia in verità una metafora meccanicista, in pieno accordo con il dettato del capo, Le Corbusier. Ma è solo una questione nominalistica.
Per cercare di ripassare l’essenza e il significato del luogo piazza, cercherò di mettere insieme, in post successivi, brani significativi di vari autori, senza la minima pretesa sistematica tanto meno didattica, ma come pro-memoria. Spero anche di fare ricorso ad autori e architetti moderni e contemporanei, per cercare di capire cosa essi intendano per piazza ma soprattutto come, su quali presupposti, essi arrivino a collocarla nello spazio urbano.
25 marzo 2013
SE LA POESIA NON E' DI CASA
Pietro Pagliardini
Abbandonata sulla poltroncina di un treno, una conoscente l'ha raccolta e mi ha fatto pervenire una pagina de Il Messaggero, giornale non troppo diffuso dalle mie parti. Sapeva che avrebbe potuto interessarmi. E’ ingegnere con un forte interesse per l’architettura e l’arte.
Si tratta dell’anticipazione di un libro del poeta Giorgio Caproni, Prose critiche, Aragno. Non si tratta quindi di poesie in questo caso, anche se la prosa ha il ritmo della poesia. E’ un breve estratto e non ha un titolo e io citerò quello dell’articolo: Se la poesia non è di casa.
Non posso riportare il brano perché c’è la riproduzione riservata. Me ne dolgo perché è peccato sciupare quella prosa riducendola a semplici concetti, ma non ho scelta. Solo brevi brani sono costretto a non omettere, proprio per non travisare il senso del testo originale.
Semplici concetti dicevo, ma non così tanto semplici da essere compresi e soprattutto apprezzati e condivisi da molti architetti e dal modesto circo mediatico, detto anche culturale, che gira loro intorno.
“Se la poesia non è di casa” richiama esattamente il contenuto, la differenza che esiste tra gli edifici moderni e quelli antichi, tra la città contemporanea e la città storica. Nelle prime la poesia non è di casa perché le case sono prive di poesia. Caproni osserva le nuove costruzioni, con i loro intonaci dai colori freschi ma un po’ falsi, e le immagina tra qualche anno, invecchiati precocemente per le colature di pioggia, “annerite e striate le murature dal tempo e dal maltempo” quando “faranno l’effetto, ahimè, degli abiti vecchi, delle automobili vecchie, dei frigoriferi vecchi, insomma di tutte le cose vili e soltanto utilitarie che in pochi anni diventano vecchie senza poter diventare antiche, e quindi senza poter acquistare, sotto la patina del tempo, in bellezza e in valore”.
Immagini poetiche che non escludono un’analisi sociologica e antropologica, con l’essenziale differenza tra il bene di consumo o utilitario, legato al tempo, ai costumi, alle mode, e la casa, bene che racchiude altri significati simbolici legati all’esistenza stessa dell’uomo: il provvisorio rispetto al definitivo, all’eterno. La casa è per sempre. E il tempo, depositando la sua patina, le farà acquistare bellezza e valore, affettivo, di godimento estetico, economico perfino.
La casa del dopoguerra invecchia invece come un qualsiasi bene di consumo, diventa un rottame da buttare via. E più ci avviciniamo ai giorni nostri più questa precarietà, questo senso di provvisorietà della casa aumenta, con l’uso di materiali e di tecnologie meno durevoli, in barba a tutte le prove e certificazioni di durabilità. Chi certificherà la sensazione di disgusto di chi si troverà di fronte a questi ruderi contemporanei?
Il brano si conclude con la constatazione della “bruttezza degli interi quartieri nuovi che a suon di milioni crescono come funghi (…) Credo fermamente che se esistesse un controllo più oculato anche dal lato estetico, sulla base di tale cifra (una delle più modeste, dopotutto) si potrebbe avere una buona architettura media (…) Un minimo, senza pretendere capolavori, sufficiente a creare un paesaggio urbano accogliente e distensivo, capace, anche tra vent’anni, di non mortificare chi non ha ancora finito di pagarlo, e di non diseducare interamente, anziché contribuire a educare, i figli che vi nasceranno, e vi scorrazzeranno”.
Educare i figli alla bellezza con la bellezza dell'ambiente in cui crescono significa il diritto alla bellezza per tutti. Siamo agli antipodi dall'educazione all'abitare di cui parla il tiranno dell'urbanistica, Le Corbusier.
Ma chi glielo dice alle nostre scuole, ai giovani architetti dai docenti stimolati, spinti, costretti e illusi alla superbia creativa, al sublime, all’opera d’arte? Chi glielo dice a quei docenti che dovrebbero insegnare una “architettura media” quando loro stessi probabilmente non sanno cosa sia e risulta molto più facile celare la propria ignoranza dietro grandi fantasticherie cui i giovani, per merito d’età, hanno naturale e comprensibile propensione? Chi seguirebbe, nella scelta, un ciarlatano che offre grandezza, successo e vita eterna rispetto ad un professore che chiedesse solo modestia e mestiere? Il nodo dell’architettura nella società di massa, in fondo è tutto qui.
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10 marzo 2013
URBANISTICA DA STATO ETICO
Pietro Pagliardini
Ma è compito di una legge urbanistica stabilire i principi, qualunque essi siano, che devono guidare la disciplina urbanistica oppure dovrebbe limitarsi a fissare le regole e le procedure che permettano una gestione limpida, efficiente, rispettosa dei diritti di tutte le parti, democratica nella sua approvazione, chiara nel fissare ruoli e responsabilità e il meno interpretabile possibile?
Me lo domando ben sapendo la difficoltà di dare una risposta univoca. Non è un caso se Francesco Finotto, che ho già citato altre volte (1), scrive: "In che cosa consiste l'urbanistica moderna? Nella possibilità di condurre una pratica premoderna in una società moderna. Di fare una politica premoderna in età moderna" (2).
Me lo domando perché leggendo quella della mia regione, la Toscana, ma anche le varie proposte nazionali o le varie idee che circolano, non posso fare a meno di pensare che se lo stesso metodo fosse applicato ad altre leggi potremmo dire, con certezza, di appartenere ad uno stato di tipo etico. Uno stato cioè che determina una morale, un comportamento da seguire, uno stato che decide cosa è buono o cattivo per i cittadini, che non lascia spazio alla libertà dei singoli e delle comunità locali, pur nel rispetto, è ovvio, di poche priorità sovraordinate cui tutti devono necessariamente soggiacere.
Se immagino una legge per il cinema che dicesse che i film devono essere ispirati alla rappresentazione di una nazione felice, di un popolo italiano dedito al bene comune, di sentimenti che possano ispirare i giovani ad una sana visione della vita e che li porti ad atti di generosità verso il prossimo, pur potendo esser anche d’accordo su alcuni di questi principi mi preoccuperei molto e non credo che sarei l’unico a farlo. Ebbene la legge urbanistica toscana indica, e in misura sempre crescente con le numerose varianti, principi analoghi a quelli da me portati ad esempio, naturalmente trasferiti dal corpo sociale al territorio.
E’ davvero inevitabile che, almeno in parte, debba essere questa la forma e la sostanza di una legge urbanistica per il fatto che il nostro ambiente naturale e artificiale è quello che si chiama con retorica espressione “bene comune” e quindi, appartenendo a tutti, richiede una normativa con regole stringenti e con inevitabili indirizzi comuni tali da limitare in vario grado la libertà di ognuno, per garantirne il libero godimento da parte di ciascuno? In fondo, anche il Codice Civile fissa, nel campo delle costruzioni, regole limitative della libertà dei singoli per questo medesimo scopo.
La difficoltà consiste nel saper determinare il giusto punto di equilibrio per non scavalcare il confine del soffocamento della libertà, individuale e collettiva, cioè delle varie comunità locali, e trasformarsi quindi in leggi che configurano uno stato etico e illiberale.
Volendo immaginare una situazione ideale, che in quanto tale rischia di essere irrealistica se non utopica, le scelte su città e territorio dovrebbero essere lasciate al “libero mercato” della cultura, al contradditorio tra idee diverse tra le quali poi una potrebbe o dovrebbe prevalere, non necessariamente in modo omogeneo ovunque ma comunque a carattere dominante, lasciando alla legge, eventualmente, il compito di assecondare e seguire, non imporre e precedere, le scelte maturate dal dibattito culturale e politico della società. Se questa è una visione ideale probabilmente irraggiungibile se non in astratto, credo che dovrebbe essere tuttavia una traccia di percorso cui ispirarsi.
Ma, come ci ricorda Marco Romano in un libro che uscirà alla fine del mese e recensito in un articolo de Il Giornale dal significativo titolo Vogliamo libera casa in libero stato: “tanto più i cittadini sono lasciati liberi di costruire quanto più esprimono il loro essere cittadini; il possesso della casa, la possibilità di trasformarla, ampliarla, decorarla, cambiarla del tutto, di averne anche altre per le vacanze, è la base della nostra cittadinanza, che si sviluppa nella città; se invece lo Stato, come ha fatto nel '900 e come fa oggi, reprime questa libertà di costruire con forzose norme edilizie, pianificazioni urbanistiche, costrizioni estetiche, estenuanti procedure e controlli, i cittadini sono come sospinti a trasgredire la legge”.
Questa semplice verità rivoluzionaria, sicuramente contestata dai più dell’establishment urbanistico, ma anche dal corpo degli architetti che si ritengono dispensatori di cultura a quegli ignoranti dei cittadini, sposta però il discorso dal mondo della cultura a quello ben più reale e corposo dei cittadini stessi, che dovrebbero essere i veri soggetti delle trasformazioni della città. Questa verità rivoluzionaria mette alle corde il modo che noi architetti abbiamo di considerare la nostra professione. Ci prende a schiaffi, non perché siamo inutili ma perché ci riteniamo essenziali. E non lo siamo. Siamo utilissimi al servizio dei bisogni espressi dai cittadini. A maggior ragione, come possono un consiglio regionale e un pletorico dipartimento di burocrati regionali arroccati ai piani alti di brutte torri fiorentine, stabilire cosa sia giusto o sbagliato per tutto il territorio e quindi per tutti i cittadini, visto che non esiste territorio o città senza di essi?
Eppure il “bene comune” richiede qualche regola. Esattamente come un condominio non può andare avanti senza norme che diano certezza su ciò che è possibile fare e con quali procedure e a quali condizioni sia possibile farlo.
Ma anche le leggi sul condominio non dicono che è necessaria la solidarietà tra condomini, o che incontrando un vicino di pianerottolo lo si debba salutare con un sorriso. Non ci insegnano insomma comportamenti che non superino la soglia oltre la quale creiamo un danno ai condomini.
Le leggi della mia regione ci vogliono insegnare invece proprio questo e anche molto di più e di peggio di questo. Sono infarcite di retorica ambientale e sono scritte con linguaggio indecifrabile ai più e soprattutto agli attori principali del processo, cioè i cittadini.
E’ necessario che il di più, il molto di più sia eliminato, oltre che il tutto sia semplificato, di molto semplificato. E’ necessario che chi pensa le leggi e chi le scrive immagini, ogni tanto, che esse sono scritte per persone e non per politici o burocrati affinchè le possano poi portare ai convegni con lo stesso orgoglio con cui un cacciatore mostra la sua preda. E’ necessario ridurre l’influenza delle idee di pochi sulla vita di tutti.
Note:
1) Pratiche premoderne nell'urbanistica, blog De Architectura
2) Francesco Finotto, La città aperta, Saggi Marsilio 2001
8 marzo 2013
PALAZZO FARNESE A CAPRAROLA CADE A PEZZI
di Ettore Maria Mazzola
Martedì scorso, come ogni anno, ci siamo recati a Caprarola e Bagnaia per visitare Palazzo Farnese e Villa Lante con i nostri studenti.
Per la prima volta ho sentito l’esigenze di parlare di questa esperienza, non per la bellezza di questi luoghi, ma per ciò che abbiamo riscontrato a Caprarola.
A Caprarola abbiamo infatti avuto modo di visitare gli interni (non tutti quest’anno) e i giardini di Palazzo Farnese, per apprezzare dal vivo questi gioielli che il mondo ci invidia. Quest’anno il Salone dei Fasti Farnesiani affrescato da Taddeo Zuccari, e la Camera della Torre con i fregi di Bartholomaeus Spranger non erano accessibili perché in restauro … peccato per la visita dei nostri studenti ho pensato, ma che fortuna per l’edificio che possa aver ottenuto dei fondi per il restauro!
Ma sarà poi una fortuna??
A giudicare da quello che poi abbiamo visto e sentito c’è infatti da rimanere sconcertati. In merito alle due stanze chiuse ci è stato detto che i lavori sono fermi da tempo per ragioni economiche. Inoltre, la persona (esperta di restauro) che ci ha informati lamentandosi degli sprechi e dei metodi adottati nei lavori in corso, si è sbilanciata ed ha voluto raccontarci dello scandalo relativo alla realizzazione di un bagno per disabili, dove il contratto prevede una spesa di 15 mila euro solo per le misure di sicurezza!
Ma restaurare è giusto mi sono detto, quindi, dubbi legittimi a parte, ben vengano i lavori.
Al termine della visita, purtroppo molto frettolosa perché tra Palazzo e giardini non è più consentito fermarsi per più di un’ora e un quarto – ormai lo studio deve adeguarsi alle tempistiche del consumismo applicato alla cultura sicché non si fa più distinzione tra visita di studio e turismo di massa – abbiamo dovuto ricrederci sul pensiero positivo relativo al restauro.
Lo stato di abbandono dei giardini è ormai da anni noto a tutti, sicché la passeggiata dal Palazzo alla Palazzina del Piacere risulta essere un susseguirsi di squallore. Muri scrostati, terreno dissestato, gradini dove è facile inciampare, sterpaglie, rami e alberi schiantati al suolo … non è certo una bella immagine del nostro Paese, a chi giova tutto questo?
Arrivati poi alla Fontana del Giglio, quando ci apprestavamo a passare i due padiglioni che precedono le due scale affiancate separate dalla “catena d’acqua” che conducono al piazzale con la Fontana dei Fiumi, siamo stati presi dallo sconforto.
Ampie superfici di rivestimento delle facciate sono rovinati al suolo; i crolli più recenti risultano recintati con la banda bianca e rossa di pericolo, il materiale dei crolli più vecchi (qualche mese!) è stato rimosso, e i muri sono stati lasciati tristemente nudi. Tuttavia i crolli vanno più veloci delle recinzioni, sicché molti sassi del rivestimento murario risultano caduti e lasciati lungo le pareti.
Ma come è possibile tutto ciò?
Eppure ricordo che l’area sottostante la Palazzina del Piacere sia stata recentemente oggetto di restauro ad opera di ditte accreditate presso la Soprintendenza, ditte che, si suppone, meritando l’accredito dovrebbero saper restaurare in maniera ineccepibile, altrimenti a cosa servirebbe la selezione?
Un primo sguardo a quelle pareti scrostate lascia supporre che chi ha operato nei recenti restauri, piuttosto che applicare i vari strati di intonacatura e rivestimento, adoperando intonaci a base di calce e pozzolana e facendo un’adeguata preparazione della parete con una energica sbruffatura, si sia limitato ad incollare il rivestimento mediante l’uso di malta cementizia, o comunque “bastarda”, probabilmente partendo da uno strato di malta dato direttamente alla pezza, previa applicazione di un aggrappante chimico. Diversamente è strano comprendere le ragioni per le quali nelle aree lacunose non vi sia alcuna traccia dell’intonaco di supporto, né che lungo l’intero margine del rivestimento superstite risulti leggibile profondo distacco che preannuncia ulteriori crolli.
Ma chi le fa le selezioni delle ditte accreditate? E in base a quali credenziali? Chi li fa i controlli sui materiali e sulle metodologie di restauro? E in base a quali esperienze? E, a questo punto, chi li nomina i tecnici della Soprintendenza? E in base a quali titoli?
Purtroppo il nostro patrimonio va in pezzi, e non solo perché non ci sono soldi a causa del dirottamento di fondi necessario a realizzare e tenere in vita di capricci modernisti come il MAXXI di Roma, ma anche a causa della perdita di conoscenza delle tecniche e dei materiali da costruzione tradizionali. Finché si continuerà ad insegnare, a progettare e costruire esclusivamente in maniera antitradizionale, saranno sempre meno le ditte e gli artigiani in grado di intonacare e/o rivestire una parete in maniera corretta, e i tecnici in grado di dirigere i lavori. Chi ne pagherà le conseguenze sarà quel patrimonio storico-architettonico che dovrebbe darci da campare.
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15 febbraio 2013
NOVITA'
Pietro Pagliardini
Ieri al TG il garrulo Mollica, nei rituali servizi da San Remo, esaltava la “novità” di una canzone, non so quale. Quel poco di canzoni che ho sentito mi hanno fatto dormire, però pare siano portatrici di “novità”.
Novità, modernità, contemporaneità, creatività, innovazione, questi tag passano nei media e nella cultura diffusa come valori assoluti, esclusivi e indipendenti da ogni ulteriore attributo di qualità e di merito per ogni ambito in cui si esprime l’attività umana. La canzone è una novità e tanto basta a definirla una buona canzone. Ovviamente è anche contemporanea, e non potrebbe essere diversamente dato che è stata creata in questi giorni, e anche questo basta a renderla degna di nota. Però deve essere anche moderna, che non è proprio uguale a contemporanea. Infatti contemporanea ha un significato meno durevole, più di moda ma più soggetta al logorio del tempo, mentre moderna fissa definitivamente il carattere di positività in un arco temporale più vasto, un’epoca direi, e la consegna definitivamente all’olimpo delle cose da ricordare e da esporre al MOMA. Come si faccia ad esporre una canzone al MOMA non saprei dire, però credo che qualcuno ne sarebbe capace, se non l'ha già fatto. Se una canzone o un’opera è moderna, diventa icona di un’epoca, quella della modernità ovviamente.
Parlo di canzoni come semplice incidente di percorso ma il ragionamento vale per qualsiasi altra opera. Anche per l’architettura. Qui le novità si sprecano da decenni ma al momento attuale hanno raggiunto un ritmo veramente incalzante, da mozzare il fiato. I futuristi, poveretti, non reggerebbero il passo.
Le novità migliori sono quelle che viaggiano con la tecnologia. Zaha Hadid, grazie a Patrik Shumacher, fa due schizzi di autostrade che si incrociano, si sovrappongono, si allineano, arriva Shumacher e con il sapiente uso del software dà loro forma nello spazio virtuale. Il tutto passa poi a qualche disgraziato di ingegnere che deve ingegnerizzarlo per farne qualcosa che assomigli ad un edificio, che magari non serve a niente ma che comunque deve, ahimè, contenere persone in carne ed ossa senza cadere loro addosso. E’ decisamente una novità, su questo non si possono nutrire dubbi di sorta. Sarebbe l'architettura a prescindere.
Prima c’era, ormai sembra superato, quell’altro, Gehry, che nasce come scultore. Poi ha capito che tutto sommato scultura e architettura sono quasi la stessa cosa, solo che questa, oltre ad essere vuota dentro per farci entrare le solite persone, è molto più grande e costa molto di più e allora ha cominciato ad accartocciare dei fogli. Con una telecamera riprende da vicino i vari scorci creati dalla casualità delle pieghe e, con un processo decisamente più complicato e più artigianale (d’altronde siamo ai primordi, è pioneristico), sempre al computer, restituisce il modello cartaceo, arricchendolo e modificandolo per dargli una forma se non compiuta, che sarebbe esagerato dire, almeno più coerente. Tutto sommato l’impegno e lo studio, dal punto di vista plastico e compositivo è superiore. Superiore a quello di Hadid. Anche questa è stata una novità, a questo punto direi archiviata, certamente contemporanea quando è stata fatta e forse anche moderna. Non è andata al MOMA, perché non sapevano come infilarcela, ma è stata immortalata in un film di un famoso regista. E poi è andata a finire in diverse parti del mondo, con diversa fortuna e qualche problema di infiltrazioni d’acqua (certo nelle sculture questo problema non si poneva) ma l’apoteosi è stata Bilbao. Almeno per noi europei, soprattutto italiani. A Bilbao però non sembra vi siano problemi di acqua.
Quell’altro, decisamente in disarmo, ha fatto un ponte a Venezia in acciaio e vetro. E’ certamente una novità, e che novità. Camminare sull’acqua come Gesù nel lago di Tiberiade! Se non è una novità questa! L’altra novità è quella che sul vetro si scivola, specie quando piove e se non piove, a Venezia, quando non tira vento di tramontana c’è l’umidità che è come se piovesse e anche peggio perché uno non se lo aspetta. E allora si scivola anche quando non piove. E anche questa è una novità. E poi c’è l’altra novità, che se il ponte ad arco è spingente, vuol dire che spinge là dove appoggia e allora le spalle del ponte tendono ad allontanarsi l’una dall’altra e bisogna fare in modo che invece questo non avvenga. Questo fatto, in verità, tanto nuovo non è. Lo sapevano già gli antichi, che il vetro lo usavano poco, ma che se c’era un arco spingente rimediavano con un contrafforte. Ora Calatrava avrà pensato che le spalle avrebbero retto la spinta ma si vede che non devono avere retto se si muovono. La sfortuna ci sta nella novità.
Ma la sfortuna è anche delle casse pubbliche che pare abbiano sborsato 3 milioni di euro per la scivolosità e non so quanti per la spinta. Anche per la compagnia assicurativa del Comune deve essere stata una novità. Una novità un po’ dispendiosa, riconosciamolo, ma pur sempre una novità.
Adesso c’è l’ultima novità, almeno fino a qualche giorno fa che nel frattempo è capace ne abbiano trovata un’altra. E’alla portata di molti architetti e questo fa prevedere, crisi permettendo, che potrebbero esserci moltissimi prodotti nuovi. Si parla del laser-scanner. Si crea una forma con qualsiasi materiale duttile e modellabile - e qui si esercita anche la creatività nella scelta dello stesso - la macchinetta lo “legge” e crea una nuvola di punti che, trattata al computer, restituisce un modello 3D bello e precotto. Cartocci di carta, pongo, plastilina, creta, lamiere tagliate e sagomate, stoffa, reti di acciaio, quello che si vuole. A quel punto, trovato il cliente giusto, non resta anche qui che passarlo agli ingegneri per la ingegnerizzazione. Tutti gli architetti potranno sentirsi Gehry, Hadid, Calatrava no perché lui è più tradizionale nel metodo, a parte il vetro che però non credo riuserà un’altra volta, per i ponti almeno.
A questo punto come non osservare che, a dispetto di chi afferma che la modernità è caratterizzata dalla frammentazione, decostruzione, individualismo, disordine, caos addirittura, siamo in vero tornati all’unità dell’arte e fra le arti! Musica, architettura, scultura, tutte unite dall’essere novità.
E il merito, la qualità dell’opera? Non conta, un dettaglio superato. D’altronde la novità è un concetto e l’arte moderna e contemporanea è concettuale. Questa però non è una novità, ma un discorso piuttosto vecchio.