“Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da altri gruppi e farlo proprio, ma ogni sistema culturale integra comportamenti estranei soltanto se questi non sono in contraddizione con il modello di base , se non ne altera la “forma” significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a Benedict a Mead a Malinowsky a Leroi-Gourhan, non c’è chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e verificare il funzionamento del “sistema significativo” che sostiene ogni modello culturale.
Il risultato è sempre lo stesso, e non avrebbe potuto non esserlo visto che la “cultura” è il fattore naturale che contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello culturale possiede una “forma”, nel senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza e di identificazione con il quale li rigetta l’organismo biologico. Non appena, quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come “etnologico”: segnale di pseudo vita, di “vita morte”….”.
Questa è una parte del testo con cui Ida Magli, nel suo atroce ma rivelatore libro Dopo l’Occidente, BUR, descrive il metodo attraverso il quale modelli culturali appartenenti a sistemi diversi entrano in contatto tra di loro e come uno di essi può soccombere fino ad estinguersi.
Non sono l’architettura e l’urbanistica al centro dell’attenzione del libro, essendo invece un grido di dolore con poche speranze sulla fine dell’Occidente e della sua cultura secolare, ad iniziare dall’Europa, l’anello più debole della catena, ma i richiami all’arte, all’architettura, alla storia, alla letteratura, al pensiero filosofico europeo e a quello italiano in particolare sono frequenti ed accorati perché i popoli d’Europa si risveglino ed evitino l’estinzione, minati come sono da una cultura di morte per avere perso ogni legame con la tradizione, con il proprio passato, con i legami familiari, con la propria religione, con tutto il suo patrimonio culturale, con il comune buon senso.
Non si occupa di città Ida Magli ma, pur non essendo certo io esperto di antropologia, come pensare che la città, come tutti gli insediamenti umani, non faccia parte del patrimonio culturale dei popoli, se è vero che la città è l’ambiente creato dall’uomo per potervi sviluppare tutti i propri rapporti sociali? Si può dire che la città è il luogo della società. E allora come non osservare i cambiamenti che le città hanno avuto negli ultimi cento anni, e nel nostro caso negli ultimi sessant’anni, grazie ad un “modello culturale” ad essa prima estraneo e di “forma” completamente diversa e volutamente a quello opposta!
L’annientamento della strada, prima di tutto, con la perdita delle sequenze spazio-temporali di quel continuum che era la città precedente, a vantaggio di uno spazio sincopato e frammentato, disegnato esclusivamente per il mezzo meccanico, per l’auto soprattutto, e costituito da zone tra loro separate e ciascuna monofunzionale e super specializzata.
La perdita quindi della ricchezza delle relazioni umane, della varietà delle azioni da compiere nell’arco dell’intera giornata.
La perdita della scoperta continua di situazioni e della possibilità di azioni diverse che accadono nell’arco spazio-temporale di qualche centinaio di metri e della stessa giornata, una variazione dei rapporti umani improntati alla regola della “uniformità nella diversità”, al pari delle abitazioni dell’edilizia di base, ciascuna con le medesime caratteristiche tipologiche eppure ognuna morfologicamente diversa dall’altra per la variazione di pochi elementi architettonici.
Cosa ha a che vedere una città-organismo in cui ogni parte è in relazione al tutto e dove l’insieme delle varie parti è ben più della somma delle stesse, con un modello frammentato, esploso, splittato in cui le singole parti sono relazionate alle altre solo con strade adatte alle automobili, impraticabili a piedi, e dove l’insieme, l’organismo, non esiste perché ogni parte funziona (male) separatamente dall’altra?
Cosa ha a che vedere un modello di città denso caratterizzato dalla pluralità di funzioni, dalla prossimità, intesa in senso spaziale, funzionale e simbolico, con un modello in cui ad ogni zona corrisponde una sola funzione e per assolvere a più funzioni nell’arco della giornata è necessario spostarsi con il mezzo meccanico? La prima città in un certo senso si muove con il cittadino, perché il suo fluire continuo ti accompagna ovunque; la seconda è immobile e gli abitanti devono spostarsi in massa da un luogo all’altro: se si bloccano gli spostamenti in auto, la città non funziona più, si paralizza. Paradossalmente i due estremi ingorgo-blocco del traffico producono lo stesso risultato: la paralisi della vita urbana.
Cosa ha a che vedere un modello di città caratterizzata da fronti continui che racchiudono la strada, lungo la quale si sviluppa la vita di relazione, con quello di una somma di edifici scollegati tra loro, tenuti insieme da vuoti informi, da verde di tutti e quindi di nessuno e/o da parcheggi, entrambi destinati presto a diventare luogo di degrado?
Il secondo modello, totalmente estraneo e diverso dal primo, è figlio di una cultura diversa, immessa a forza nel sistema culturale esistente da una macchina propagandistico-culturale straordinaria, che si è impadronita di quella precedente, ma ha iniziato “il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come etnologico”, cioè quello di una cultura morta. Questo fenomeno è già certamente avvenuto nella mente degli architetti, cioè di coloro che insieme alla politica, al mondo accademico, ai media avrebbero avuto il compito di capire in tempo cosa stesse accadendo e di porvi rimedio. Ma così non è stato e così non è tuttora, anche se vi sono segnali, deboli e incerti che vanno nella direzione opposta.
Segnali confusi però in mezzo a molti altri segnali, non sbagliati in se stessi, ma il cui forte rumore mediatico finisce per coprire i primi:
• la "smart-city", sistema tecnologico fors’anche utile, ma di secondo o terzo livello, solo software, quando la città invece è hardware, è forma delle varie parti relazionate tra loro. Una città funziona se la sua forma è giusta e i sistemi tecnologici sono utili supporti che, da soli e in presenza di una forma non idonea, poco o niente possono risolvere. Al pari di una abitazione, in cui ciò che conta è il tipo, gli spazi interni che la definiscono, la materia con cui è costruita, non gli impianti, avanzati quanto si vuole, ma che possono essere cambiati o migliorati in ogni momento.
•la città “sostenibile” o “green”, concetto generico entro cui ci sta tutto e il suo contrario. Non è certamente sostenibile per la sola presenza di un po' fotovoltaico, è sostenibile se il risparmio energetico deriva dalla sua forma, cioè se è pedonabile non per decreto del Sindaco ma perché è compatta ed è possibile accedere alla gran parte delle funzioni di uso quotidiano senza la necessità dell’auto.
In questi segnali non è difficile leggere il marchio delle lobbies industriali e commerciali che hanno tutta la convenienza a lasciare le cose come stanno, cioè a conservare la morta città attuale, per vendere i loro prodotti salvifici. Il mondo della cultura urbanistica non deve lasciarsi distrarre da queste idee, continuamente e ossessivamente veicolate dai media, che allontanano la ricerca della soluzione, per cadere ancora una volta nella trappola tecnicistica, dopo quella dello zoning che favoriva prima e adesso obbliga all’uso esclusivo e massiccio dell’auto.
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