“Questa è dunque la prima accusa che noi formuliamo contro di voi: l’iniquità dell’odio vostro per il solo nome di tradizionalista. Quella stessa ragione che sembra scusare la vostra iniquità, in realtà l’aggrava e la refuta: voglio dire l’ignoranza. Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio? Essa non merita il vostro odio, se voi non sapete che lo meriti. Se la conoscenza di ciò che essa meriti fa difetto, come difendere la fondatezza di un odio, che non può essere provato dal fatto, ma dalla intima conoscenza? Quando gli uomini odiano perché ignorano quale sia l’oggetto del loro odio, non può allora darsi che esso sia tale da non meritare d’essere odiato? Così dunque noi contestiamo ambedue le cose, e l’una con l’altra, la loro ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.
Questo splendido e incalzante atto di accusa è tratto dall’Apologeticum di Tertulliano, ma con l’introduzione, da parte mia, di una pesante e strumentale mistificazione: al posto di “tradizionalista”, nel primo periodo, l’oggetto dell’odio cui l’autore si riferisce è il “cristiano”.
Intanto è bene chiarire che non voglio apparire per quello che non sono, cioè Umberto Eco, ma devo solo ringraziare la lunga serie economica del Corriere della Sera (1 euro) di classici greci e latini della BUR.
Certo che, fatte le dovute proporzioni, l’ostracismo da parte del mondo accademico e della cultura urbanistica dominante del nostro paese nei confronti di chi si occupa di architettura e urbanistica tradizionale, nell’insegnamento come nella professione, presenta caratteri qualitativamente analoghi e congruenti con quelli del brano: l’odio preconcetto nei confronti di ciò che non si conosce e/o non si vuole conoscere e riconoscere. Si è mai visto un concorso di architettura non dico vinto, ma che abbia presentato nella rosa di premiati o segnalati almeno un progetto ispirato alla tradizione o alla classicità? Niente sforzi, non lo trovereste. Ho sempre pensato invece che, in assenza di un pregiudizio ideologico, in un concorso non dovrebbero essere premiati progetti sostanzialmente uguali o dello stesso genere, come invece accade, ma, tra quelli meritevoli, una gamma di soluzioni proposte, una selezione rappresentativa di varie idee e tendenze. Questo dovrebbe essere lo scopo di un concorso: esaltare le differenze, oltre che premiare il progetto migliore. Così non è. In Italia però, perché altrove invece la situazione è molto diversa.
E così accade che un progetto di rigenerazione urbana in cui al posto di un “gratta terra”, quale il Corviale a Roma, ha ricevuto un prestigioso premio negli USA, a Portland, Oregon, da parte dell’International Making Cities Livable. Il progettista è naturalmente l’amico Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola.
Non sarò io a raccontare i dettagli della 49th International Making Cities Livable Conference on True Urbanism: Planning Healthy Communities For All & Exhibit on Successful Designs For Healthy Inclusive Communities, durante la quale è stato presentato il progetto da Mazzola ed è stato consegnato il premio, perchè non c’ero.
C’è invece il link al resoconto che mi ha mandato E.M. Mazzola, che offre un quadro più ampio del contesto in cui il riconoscimento si è inserito.
Io ho linkato un video e, soprattutto, insisto su questa palese contraddizione che dimostra il chiuso provincialismo accademico di casa nostra: c’è un progetto diverso, assolutamente diverso da quelli che generalmente circolano nelle riviste (quali non saprei, dato che oramai sono tutte scoppiate sotto il peso di internet e della loro noiosissima ripetitività) o in internet o nelle varie sagre dell’architettura dove invece che la porchetta si espongono progettifici industriali in serie; ammetto, come fa Tertulliano, che questo progetto possa anche essere “meritevole di odio” ma perché non mostrarlo, non cercare di capirlo? “Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano”.
Se si è così sicuri che esso progetto, una volta conosciuto, divulgato, reso pubblico, diventato oggetto di discussione, sarà disprezzato dai più, perché allora ignorarlo, non volerlo conoscere, tenerlo nascosto? Quanto più grande sarebbe la vittoria una volta che il giudizio sul progetto fosse unanimemente negativo in quanto consapevolmente e criticamente riconosciuto come sbagliato, non adeguato, peggiore addirittura di ciò che vuole andare a sostituire!
Invece….niente, non accade niente. Il metodo prevede il silenzio e il disconoscimento della esistenza stessa di quel progetto. Possibile che, tra le tante cazzate (unico termine adeguato al caso) che non lasciano tracce di sé tra quelle che si presentano in convegni, seminari, mostre, lezioni universitarie, mai una volta che un progetto diverso come quello del Borgo Corviale non possa trovare un perfido critico o docente che se la senta di sputtanarlo pubblicamente invitando il suo autore? Sarebbe una grande soddisfazione, per il perfido critico, ovviamente. Non è forse degno quel progetto, almeno per la sua veste grafica, di mettere piede nel sacrario di un’aula universitaria?
Sia chiaro, E.M. Mazzola non ha bisogno di entrare in un’aula dell’Università pubblica italiana per dimostrare le sue capacità, tanto meno per essere legittimato. Altrove fuori d’Italia il suo lavoro è apprezzato e parecchio, e non mi riferisco solo al Premio a Portland, ma ad altre situazioni quali la Biennale di Architettura Classica e Tradizionale di Mosca, cui Ettore partecipa con 12 pannelli dedicati ai progetti per il Corviale e per lo Zen di Palermo in Russia, e ad altre ancora su cui adesso è opportuno non insistere.
Il fatto è che, parafrasando Martin Luther King, I have a dream: che non esistano le Biennali di Architettura Classica e Tradizionale e le Biennali di Venezia, che non hanno attributi dichiarati, ma che di fatto sono a senso unico, anche se dicono di mettere in mostre varie tendenze. Non è vero, mettono in mostra variazioni della stessa tendenza.
Questa non è cultura, semplicemente è “ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.
P.S.
Riporto di seguito il commento che memmo54 ha lasciato sul blog Archiwatch di Giorgio Muratore, nel post dedicato proprio al premio in oggetto. Mi sembra colga un punto essenziale ma spesso trascurato dell'odio per la tradizione da parte della cultura ufficiale:
"Ciò che non si perdona ad Ettore è l’assoluta mancanza di riferimenti “illustri” recuperati tra i maestri internazionali. Quelli citati sulla vulgata bibliografia che ogni architetto pone innanzi a se come dichiarazione d’appartenenza
Non una citazione di alcun personaggio di spicco: non si intravede Mis Vanderrò, non si scorge Gropìus, tantomeno Le Curvasier.
Difetta anche di Dudok, Asplund, Bonatz, Oud, De Klerk ud ed altri nordici.
Ciò è letteralmente imperdonabile.
Ci si può ispirare al più lontano maestro islandese , finlandese, lappone, swahili o polinesiano..
Chiunque è benvento ed apprezzato: riconosciuto ed omaggiato.
La storia di tutti (…indistintamente “tutti”…di tutte le epoche di qualsiasi tendenza e/o ispirazione) è seriamente ed ampliamente considerata nonchè apprezzata.
Quella propria no !
Robetta, minuzie di cui non vale la pena interessarsi.
Stanche rimasticature beaux arts… al massimo “barocchetto” decadente. Le più astiose s’imperniano intono al mesto concetto di “falso storico”: come se la storia fosse solo quella nostra, contingente, e tutto il resto un sogno: incubo indotto da un demone pervicace.
Come definire quest’atteggiamento che lascia fuori, sminuisce e dileggia, per definizione, ciò che appartiene ed è sempre appartenuto alla propria cultura.
Provinciale ? Ci sono, forse, termini più adatti ?
Autolesionismo ? Cupio dissolvi ?
Eppure si sentono “impapocchiare” fumose spiegazioni sul al passo con i tempi, vagheggiamento di tempi futuri cui adeguarsi necessariamente, laboriose subornazioni della sociologia progressiva e democratica nonchè altre amenità .
M proprio questa mancanza, questo profilo quotidiano, dimenticato ma vero, è la carta vincente.
Saluto
memmo54"
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