Io Donna del 28 giugno, magazine del Corriere della Sera. Giornalista: Lia Ferrari.
Argomento: Biennale di Venezia.
Titolo: Architetti, rifiutatevi di costruire.
Diffido subito di questo titolo perché chiedere ad un architetto di rifiutarsi di costruire è come "chiedere" a un drogato di smettere di farsi, parole al vento. Non credo esista architetto, qualunque mestiere faccia per scelta o necessità, designer o pubblicitario, informatico o artista, che in fondo in fondo non desideri mettere un mattone sopra l’altro, figuriamoci uno che di mestiere fa proprio questo. Vedremo.
Vado avanti nell’articolo. Viene presentato il Direttore della Biennale, una faccia simpatica, architetto, di nome Aaron Betsky, per me un perfetto sconosciuto, ma questo non vuol dire.
Mi si presenta subito bene perche è stato criticato da Gregotti che ha parlato di "consolazioni puramente seduttive intorno allo stato delle cose": vuoi vedere che oltre che simpatico è anche bravo! In effetti alla giornalista che gli domanda se lui ce l’ha con l’architettura risponde di no e dice che “l’errore è confondere l’architettura con gli edifici, che ne sono solo la più evidente materializzazione”.
Il mio cervello ha il grave difetto di voler anticipare le risposte in base alle mie aspettative, e allora immagino che voglia andare oltre il singolo edificio, oltre l’architettura-oggetto che ci viene propinata oggi, che si interessi alla città, al contesto in cui l’edificio è inserito e questo argomento mi piace, sento che dirà qualcosa di interessante. Comincia a parlare di spreco di risorse, disciplina critica, usare il territorio senza distruggerlo, e passi, rifugi senza costruzioni come il giardino in cui viene intervistato, e passi ancora e la prima risposta finisce con “per questo ho invitato in Biennale solo architetti sperimentali”.
Fine dell’illusione. Architetti sperimentali: cosa vuoi sperimentare, torna all’antico e vedrai che trovi il nuovo.
Seconda domanda: Ma al di fuori della Biennale (ecco, è meglio), cosa possono fare oggi per noi gli architetti? Bella domanda davvero, vediamo come se la cava.
“A volte non fare. Rifiutarsi di costruire” - questa, come dicevo, è un po’ forte, e prosegue – “Mi viene in mente un progettista che in Belgio aveva firmato un contratto di 20mila euro per la risistemazione di una piazza. Dopo un anno di interviste, fotografie e studi, ha concluso che nessuna costruzione avrebbe migliorato lo status quo. Bastava la manutenzione. Così ha detto: bene, io ho fatto il mio lavoro, datemi i ventimila euro. Ed è stato pagato”.
Salto di soddisfazione dalla sedia, questo ha capito tutto, l’architetto belga intendo, ma anche Betsky! C’ha messo un anno per capirlo ma c’è arrivato: ha lavorato alle indagini, ha capito che less is more, ha giustamente riscosso (in Italia avrebbero denunciato lui e gli amministratori), non ha fatto danni, non ha messo pensiline, fontane improbabili, panchine, padiglioncini, lampioni di design, giardinetti, pavimentazioni da show-room e se ne è andato.
Bravo, bravo, bravo! Ma come faccio a dire che è bravo se non conosco la piazza e nemmeno la città? Lo dico perché lo so, perché il 99% delle piazze e degli spazi pubblici hanno solo bisogno di manutenzione, e invece gli amministratori vogliono lasciare il segno e riempire di tutto per far vedere che esistono e trovano sempre qualche architetto che vince un concorso il cui vero tema è sempre e comunque l’horror vacui.
Questo Betsky è forte, c’ha un’idea forte (gli architetti sperimentali saranno un incidente di percorso), è capace che ci sarà qualche novità in Biennale.
Giro pagina. Le domande restano pertinenti, la giornalista è competente ma le risposte sembrano date da un'altra persona. Avrà mica ragione Gregotti? Parla di un grande tubo che messo in laguna aspira l’acqua e ne esce il caffè, poi dice di un visitatore messo in gondola e intorno gli fanno vedere prima Venezia, quella vera, poi Venice di Las Vegas, poi quella di Macao, e il visitatore si confonde e scambia il vero dal falso e così fa la figura dell’imbecille. Ma che trovata!
Dopo altre amenità del genere alla domanda: Tra i suoi invitati c’è anche Zaha Hadid, autrice di uno dei tre controversi grattacieli all’ex Fiera di Milano, risponde: “Alla Biennale rivedremo la sua vena sperimentale (rieccola, perché fino ad ora la Hadid era accademica, evidentemente). Ha immaginato un fiore di loto che schiudendosi diventa abitazione”. Ma la Hadid è irakena mica giapponese e la domanda era sul grattacielo non sulla botanica.
L’intervista si conclude con l’affermazione che anche Palladio e Leon Battista Alberti erano archistar (questa è buona davvero), non senza avere annunciato anche la novità dell’happening con un uomo nudo.
Ci sarebbe da fare molta ironia ancora ma la conclusione è che Gregotti aveva davvero ragione e l’architettura non ha più veramente niente da dire essendo ormai solo un fenomeno economico-mediatico da magazine dei quotidiani, come il gossip, il turismo colto, la moda, le spa, l’ultimo cellulare, il calcio (questo non lo dice Gregotti, lo dico io).
Non si intravvede un minimo di coerenza logica tra l’architetto belga e la Zaha Hadid, tra il superamento dell’architettura-oggetto e il tubo che fa il caffè con l’acqua della laguna. Non c’è filo conduttore che non sia quello del sensazionalismo, della pura comunicazione.
Si dirà: è un magazine che entra in molte famiglie, che si trova dal dentista e dal barbiere, che sfogliano grandi e piccini, operai e professionisti, architetti e mogli di costruttori, non è mica una rivista seria! Proprio per questo dovrebbe essere più attenta, perché divulga informazione e fa cultura pop ma diffonde idee confuse fatte per confondere.
Anche al Festival del cinema di Venezia ci sono le star, le interviste, le curiosità mondane ma, alla fine, il film c’è, brutto o bello, il film si vede e si deve anche vendere: qui manca l’oggetto, l’architettura.
In questo senso lo slogan del Congresso Mondiale degli Architetti di Torino, Transmitting Architecture è, da un lato, coerente con lo stato dell’architettura attuale, cioè pura comunicazione senza sostanza, dall’altro già superato dalla realtà: fare un congresso per “comunicare” l’architettura, quando ormai questa è solo pura comunicazione mediatica, sia nel progetto che è costantemente alla ricerca di novità, esattamente come un qualsiasi prodotto commerciale, sia nel mezzo per trasmettere il messaggio, cioè magazine, riviste, spot TV in cui questi prodotti appaiono come sfondo.
L’architettura che appare dalla comunicazione assolve alla stessa funzione del gossip sui giocatori di calcio in cui uomini e donne si identificano nei rispettivi ruoli del giocatore e della velina e sognano di vivere come loro: non faccio moralismo, ognuno ha diritto di aspirare a ciò che vuole, ma l’importante è saperlo e gli architetti dovrebbero sapere che quel tipo di architettura vive solo se è presente in un foto patinata, solo grazie a quella ha qualche possibilità di essere accettata da un cliente.
In questo senso frequentare architettura all’università è come partecipare ad una selezione di un qualsiasi reality show in cui migliaia di aspiranti si impegnano come pazzi per realizzare il sogno della loro vita: apparire.
L’architettura, cioè il fine, non ha più alcuna importanza, ed è l’architetto, cioè il mezzo, a prevalere.
Questo è l’esito naturale del Movimento moderno e dello stile internazionale che avendo fatto tabula rasa di qualsiasi canone hanno messo al centro la sperimentazione e la ricerca del nuovo; è stata distrutta la disciplina ed è emerso lo show.
Chissà se sarà mai possibile una Biennale che metta al centro l’architettura classica italiana, antica e moderna!
P.S. A POST GIA' FINITO E PUBBLICATO LEGGO SU REPUBBLICA CHE, SU PROPOSTA DI BETSKY, E' STATO ASSEGNATO IL LEONE D'ORO A GEHRY, CON LA SEGUENTE MOTIVAZIONE: "Ha trasformato l' architettura moderna, l' ha liberata dai confini della "scatola" e dai limiti delle comuni pratiche costruttive". Oddio, le scatole, per romperle le ha rotte davvero.
Come ho potuto pensare bene, solo per un attimo, di questo Betsky!
29 giugno 2008
L'ARCHITETTURA DEI MAGAZINES
26 giugno 2008
GRATTACIELI SOSTENIBILI E .... SOSTENUTI
Pietro Pagliardini
Ho come l’impressione che il libro di La Cecla su moda e architettura sia già roba da archivio, e con esso i miei post sul tema, superato nel breve volgere di un click dal nuovo verbo per veicolare architetti e grattacieli: SOSTENIBILITA’.
Ce ne fosse una di queste offese al buon senso che non è sostenibile! L’ultimo è quello girevole di David Fischer che verrà prodotto in scala industriale (questa è la vera novità) prima a Dubai e poi nelle varie metropoli smaniose di apparire, somma espressione di globalizzazione culturale. Anche la sindaca di Milano ha detto che le piacerebbe che uno di questi divenisse il simbolo di Expo201, non so dire se per il fatto che gira, o perché è sostenibile o perché si tratterebbe di un prodotto industriale e a lei magari ricorda la Milano operaia. Fatto sta che ne è rimasta folgorata. Mi permetto comunque di osservare che andare a prendere come simbolo dell’Expo2015 un progetto che a quel momento sarà già “usato”, a prescindere da ogni altra considerazione, non mi sembra gran cosa dal punto di vista dell’immagine.
“Sostenibilità” apre tutte le porte, allarga i cuori di chi è terrorizzato dal global warming, mette gli amministratori in pace con i propri elettori, tappa la bocca dei critici e pare siano contenti anche i cittadini (che cosa gliene freghi poi ai cittadini che sia sostenibile un grattacielo se non sono loro a comprarci casa, c’ho da capirlo: i proprietari risparmiano sulla bolletta e loro si beccano il birillo davanti casa. Potenza del nuovo credo!).
Ho letto perfino che è sostenibile quello storto di Libeskind a Milano perché, essendo incurvato, si farà ombra da solo, senza aggiunta di niente, cioè è sostenibile “per forma”. Trovata, questa, assolutamente grandiosa, la migliore dell’anno in assoluto; però speriamo che venga davvero il caldo anche d’inverno, altrimenti i piani alti non li vedo messi bene senza un rinforzino di riscaldamento.
Perché tanto sarcasmo da parte mia, perché sono così cinico nei confronti dei destini del nostro pianeta?
Il fatto è che questa dei grattacieli sostenibili e autosufficienti mi sa tanto di bufala mediatica, di trucco per ammorbidire le resistenze di eventuali oppositori perché se c’è una tipologia di edifici che è il contrario del risparmio energetico è proprio quella dei grattacieli. In base a quali dati faccio questa affermazione? Oltre che su un pò di "letteratura", in base a semplici leggi della fisica le quali insegnano che: mandare l’acqua a tre o quattrocento metri di altezza, veicolare in su e in giù fluidi per riscaldamento e raffrescamento (a parte quello storto che si fa ombra da solo, ovviamente), scaricare reflui da quelle altezze richiede interruzioni della linea e quindi ulteriori impianti, movimentare ascensori veloci ecc. brucia tanta di quell’energia che parlare di sostenibilità mi sembra una beffa. In tema di isolamento termico, inoltre, un grattacielo non può che essere costruito con materiali di tamponamento leggeri i quali, come è noto, hanno poco massa e quindi scarsissima inerzia termica, per cui gli apporti energetici sono molto superiori a quelli con materiali tradizionali (si parla di “effetto baracca”).
Esistono poi altri fattori non secondari quali la grande quantità di energia necessaria alla costruzione e alla manutenzione, dato che tutti i materiali e le persone devono essere movimentati ad altezze considerevoli.
Ma, si dice, a fronte di questi consumi, si farà largo impiego di energie rinnovabili che garantiranno l’autonomia o almeno una percentuale dell’energia necessaria. Ora, a parte il fatto che sarebbe buona cosa poter verificare a posteriori gli apporti esterni di energia in grattacieli già costruiti e decantati per la loro sostenibilità, la domanda vera è: ma se quell’energia alternativa prodotta per alimentare un grattacielo calcolato per, diciamo, 3000 persone fosse adoperata per alimentare edifici normali, quante persone alimenterebbe? Lo stesso numero di 3000 oppure 3000 x n, dove n è un numero maggiore di 1? La risposta giusta è l’ultima, quindi dichiarare che un edificio è sostenibile perché autoalimentato è una presa in giro. Ci dimostrino piuttosto che a parità di unità di misura (metro quadro, metro cubo, abitante, ecc) un grattacielo consuma meno di un edificio di due o quattro o sei piani e allora, anche se a malincuore, mi convincerò della loro effettiva sostenibilità.
Esistono anche altre varianti di grattacieli sostenibili: una delle ultime (è difficile dire quale sia l’ultima perché ce n’è una al giorno) è il “bosco verticale”.
Questo è proprio bello. Si tratta di due grattacieli previsti a Milano su progetto di Stefano Boeri con la consulenza di “esperti”. Si chiama bosco verticale perché il grattacielo è completamente ricoperto all’esterno da una barriera di alberi, non piante rampicanti o gerani, ma veri e propri alberi.
Il progetto si presta a varie interpretazioni.
Intanto c’è una certa suggestione in questo bosco verticale dentro la città perché la natura, per quanto manipolata, ha sempre un suo potere evocativo per l’uomo; poi vi si legge un senso di ritorno alle origini, di risalita sugli alberi da cui vi è chi ritiene che noi proveniamo ma, più forte di tutti, io vi leggo il rifiuto della città, la rinuncia, direi quasi la vergogna, il senso di colpa, alla costruzione dell’artificiale, mascherandolo con l’elemento naturale più amato dall’uomo, l’albero.
Immagino che i residenti non avranno molta possibilità di apprezzare il panorama di Milano e forse è proprio questo il significato vero dell’edificio: la città è brutta, è cattiva, è violenta, è artificiale, inquina ed è meglio chiudersi nel bosco per non vederla. È il segno di una sconfitta totale della civiltà urbana e dell’ambiente costruito dall’uomo.
Questo grattacielo ha raccolto consensi unanimi, pare, e ha perfino la benedizione di Lega Ambiente che, non so bene a quale titolo, sembra costituire un vero e proprio marchio di qualità (a proposito, Lega Ambiente ha mai protestato per il fermo del termovalorizzatore di Acerra?).
Preferisco trascurare alcune considerazioni in ordine alla fattibilità di quell’edificio, alla manutenzione dello stesso, ai problemi di sicurezza legati al vento (che talvolta sradica gli alberi), ai carichi enormi dovuti alla terra, ecc. perché immagino che siano stati tutti considerati: vedremo. Mi interessa di più capire cosa la parola sostenibilità sottintenda e se non sia diventata ormai uno dei tanti luoghi comuni di cui ci nutriamo, parola d’ordine vuota e priva di senso, utilizzata un po’ ad arte e un po’ come un automatismo, ma sempre utile per coloro che la propongono.
Sostenibilità viene usata:
-per favorire o bloccare nuovi insediamenti edilizi;
-per l’utilizzo di energie alternative;
-per fare nuovi parchi in città;
-per fare nuovi grattacieli in città;
-per vendere case a basso consumo energetico;
-per favorire la bio-architettura;
-per ridurre il traffico veicolare e il relativo inquinamento;
-per fare piste ciclabili;
-per le nuove collezioni di moda;
-per favorire la nascita o lo sviluppo di poli tecnologici;
-per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti;
-per sostenere il turismo nelle campagne;
-per sostenere qualche architetto;
-per creare nuove associazioni;
-per fare ricerche finanziate dallo stato o da aziende che inquinano come matte;
-per promuovere la qualità di cibo e vino locale;
-per giustificare nuove leggi urbanistiche ed edilizie;
-per fare nuovi piani regolatori;
-per inventare nuove figure professionali;
-per fare corsi di aggiornamento;
-per dare certificazioni alle aziende;
-per creare aziende che aiutano altre aziende a prendere le certificazioni;
-per condannare i paesi emergenti;
-per fare spedizioni in Antartide;
-per assegnare premi Nobel;
-per fare film;
-perfino per giustificare gli autovelox in città;
insomma per quasi tutte le atività, per quelle buone e per quelle meno buone.
E’ un passepartout, è la parola-motore di una bella fetta dell’economia.
Io avevo la netta sensazione che la sostenibilità presupponesse una natura buona e un’umanità cattiva, che avesse ragione chi sostiene, come Paul Driessen nel libro Eco-imperialismo. Potere verde, morte nera, che si tratta di una nuova ideologia per gli orfani del comunismo ma mi rendo conto, che la realtà si è evoluta e si è trasformata in una delle tante strategie di marketing fatte proprie, con notevole abilità, da gruppi economici per vendere meglio i loro prodotti.
Di seguito qualche link utile:
Michael Mehaffy sul Corriere della Sera: CITTA' SOSTENIBILE SENZA GRATTACIELI
Lucien Steil su archimagazine: La ricostruzione di Manhattan senza grattacieli
Nikos Salingaros intervista Leon Krier, su archimagazine
Architettura sostenibile-Nella trappola solare
A VISION OF EUROPE: Scambio di lettere con il Sindaco di Torino
Italia Nostra
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22 giugno 2008
Emanuele Severino e Nikos Salingaros: Le due visioni dell'architettura
Pietro Pagliardini
In questo post riporto qualche stralcio del libro di Emanuele Severino “Tecnica e Architettura”, Raffaello Cortina Editore. In particolare mi riferisco al testo Raumgestaltung, scritto su richiesta di In/Arch.
Perché mi occupo di un libro scritto da un grande filosofo contemporaneo (il giudizio è degli esperti) che tra l’altro, pur essendo uno dei suoi più accessibili, presenta comunque qualche difficoltà e richiede, per una reale comprensione, la conoscenza del suo pensiero e della filosofia in generale?
Non certo per tirarlo strumentalmente per la giacchetta a dimostrare le tesi di questo blog, cioè la superiorità dell’architettura e dell’urbanistica tradizionale, perché, al contrario, i fautori del de-costruttivismo potranno trovarvi argomenti in abbondanza a loro favore; direi quasi che questo libro potrebbe essere adottato come una sorte di fondamento teorico dell’impossibilità di riproporre forme classiche, del predominio e dell’inevitabilità della tecnica in architettura. E allora?
Prima di tutto va detto che il pensiero di Severino, qualunque conclusioni egli ne tragga per l’architettura, è un pensiero alto che nulla ha a che fare con la partigianeria, l’approssimazione e talora l’interesse di alcuni addetti ai lavori (nella partigianeria è certamente compreso questo blog) e quindi è utile a conoscere le ragioni degli altri (altri da me), eventualmente per contestarle; poi perché, e sembra una contraddizione, l’analisi che egli fa dell’architettura tradizionale o antica o classica e anche di quella moderna e contemporanea coincide spesso con quella che generalmente fanno i critici della stessa.
Ma, principalmente, perché credo che dietro ogni opera dell’uomo si cela una visione del mondo, che può essere più o meno consapevole, più o meno strutturata ma c’è e a maggior ragione dietro l’architettura che, da quella minore a quella alta, lascia segni incancellabili, perciò ogni architetto dovrebbe almeno averne coscienza; e invece quando leggo le motivazioni date dagli architetti ai loro progetti non riesco ad andare oltre le tre righe perché, il più delle volte, non trovo pensiero, solo marketing, architettese militante e auto incensante, parole immaginifiche dietro cui si nasconde il nulla. Il progetto dovrebbe parlare da solo: ad un bel progetto non servono parole, ad uno brutto è inutile aggiungere sciocchezze.
Al pensiero di Emanuele Severino farà da contraltare quello di Nikos Salingaros, che non è un filosofo in senso stretto ma uno scienziato, matematico e fisico, che si occupa di urbanistica e di architettura e che, partendo dalla matematica, ha sviluppato una sua teoria dell’architettura, in parte autonomamente, in parte in collaborazione con Christopher Alexander. Purtroppo, sia di Salingaros che di Alexander sono pochi i testi tradotti e dobbiamo accontentarci dei saggi brevi reperibili in Internet e del libro Anti-architettura e demolizione, Libreria Editrice Fiorentina, di Salingaros.
Le due visioni sono agli antipodi nelle conclusioni e nelle previsioni per il futuro dell’uomo e dell’architettura, ma l’analisi che essi fanno dell’architettura antica e di quella classica e tradizionale è assolutamente coincidente.
Ma prima di fare queste considerazioni è meglio leggere il testo di Severino, con l’avvertenza che, per evidenti motivi, ho dovuto tagliare molto e aggiungere molti omissis, talché il pensiero dell’autore non può apparire nella sua compiutezza. Per questo, oltre a rimandare (e consigliare) alla lettura integrale del libro che offre molti altri spunti di grandissimo interesse, mi scuso con l’autore.
N.B.: la punteggiatura e i corsivi sono dell’autore, i grassetti sono miei.
"Nella tradizione dell’Occidente la città, la casa, il tempio, il teatro, lo stadio, la chiesa, il castello non vogliono esistere in eterno, e tuttavia vogliono rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo e quindi intendono essere il meno caduchi possibile e presentarsi essi stessi con una certa aura di eternità. Volendo rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo, vogliono esserne il simbolo. L’uomo trova un riparo nelle proprie abitazioni non perché riceva da esse certe prestazioni, ma perché è il loro essere simbolo dell’Eterno che egli, abitandole , si sente al riparo.
Omissis
E poiché nella cultura tradizionale la regola assoluta e immutabile coincide con la bellezza, nell’architettura moderna (e in ogni altra forma di arte) la bellezza della figura non appare più come valore assoluto, ma come la configurazione che le opere dell’uomo vengono ad assumere in rapporto ai suoi scopi.
Nell’architettura tradizionale la bellezza appartiene all’essenza dell’edificio e la decorazione all’essenza della bellezza, perché concentra in sé gran parte della forza simbolica con cui l’edificio mostra di essere rivolto e inscritto nell’Ordinamento eterno e divino del mondo. Per il Greci la decorazione è cosmesi: conferisce “ordine” (kosmos) ai materiali dell’arte e allo spazio in cui si dispongono. Il kosmein (“dare ordine”) è la Raumgestaltung dove la Gestaltung è regola assoluta e immutabile. Anche la parola latina decus (“fregio, ornamento, legiadria, bellezza, convenienza, decenza, dignità, splendore”), su cui si formano decor (“decoro”) e “decorazione”, e che proviene da deceo (“convenire, essere decoroso”), indica ciò che conviene e si addice alle cose, ossia indica, quando il linguaggio parla la lingua dell’episteme, l’ordinamento che conviene e si addice alle cose e dunque alle abitazioni, perché rispecchia ed è il simbolo dell’eterno Ordinamento divino.
Omissis
Ma quando l’episteme tramonta, la decorazione perde tutto questo imponente spessore semantico e si presenta come il superfluo e l’estrinseco da cui, a partire da Herman Muthesius e da Hratio Greenough, il “Movimento moderno” dell’architettura intende liberarsi totalmente in nome del principio che “la forma segue la funzione”. E’ il modo in cui si vuol vivere negli spazi interni degli edifici (la “funzione”) a determinare “l’involucro” (la “forma), il quale dunque diventa una configurazione che lascia liberi gli spazi interni. Nel “Movimento moderno”, dove la libertà spaziale è essenzialmente connessa alla libertà democratica e all’architettura popolare, la libertà della pianta, della sezione e della facciata è una delle caratteristiche architettoniche più visibili (come la libertà metrica e sintattica della poesia, la libertà dei rapporti cromatici-figurativi e dei rapporti melodico-tonali). Tale libertà esprime la liberazione dalle strutture immutabili dell’episteme e dunque dalla concezione epistemica della matematica e della geometria. E, insieme, tale libertà è resa possibile dalle nuove tecniche del ferro e del cemento armato, che si costituiscono all’interno della progressiva affermazione della tecnica guidata dalla scienza moderna, all’interno cioè della potenza che diventa predominante proprio perché si fa guidare da un sapere che si rende sempre più conto che la crescita della potenza sul mondo è direttamente proporzionale all’entità della libertà, ossia del rifiuto della concettualità epistemica.
Omissis
Il “Movimento moderno” dell’architettura esprime, sia pure entro i limiti della prassi e della riflessione architettonica, il passaggio dalla città chiusa alla città aperta. Nella città chiusa, recintata da mura, le mura, la casa, il tetto, le pareti, il tempio, il teatro riparano dall’annientamento solo se in essi si rispecchiano il divino e l’eterno, cioè solo se la città è “presidio degli dei”…….
Omissis.
La città terrena è l’immagine della città celeste. Nel greco antico, nell’avestico, nell’ebraico le parole che indicano il paradiso significano “recinto”, luogo chiuso e protetto, e appunto per questo “giardino di delizia”. Il paradiso è la rocca inaccessibile che ripara dal caos e dal nulla che la circondano e protegge dall’angoscia. La città chiusa dell’episteme è l’immagine del paradiso. La volta del cielo si abbassa e diventa volta architettonica e mura che proteggono e poi soffocano i mortali.Omissis
Le strutture in ferro e vetro della città aperta rendono invece possibile quella elevata permeabilità visiva tra interno ed esterno che esprime sul piano architettonico la necessità che il riparo non sia a priori chiuso in sé, ma quell’apertura all’esperienza, una delle cui forme più caratteristiche è data dal metodo sperimentale della scienza moderna – dal metodo che, aperto agli insegnamenti dell’esperienza, consente un dominio del mondo più reale di quello ottenuto dal sapere incontrovertibile e chiuso in sé dell’episteme. E il grattacielo, a sua volta, rompe la volta architettonica tradizionale e si protende nei liberi spazi del cielo per aggredirli e dominarli realmente e non per sottometterli alla onirica e dunque fallimentare configurazione epistemica dello spazio":
In questo testo non è difficile leggere un’estetica dell’architettura e della città. Dove affonda, secondo Severino, la bellezza di un edificio dell’architettura tradizionale? Nella decorazione che, egli dice, è l’essenza della bellezza perché la decorazione è il simbolo che l’edificio è inscritto nell’Ordinamento eterno e divino del mondo. La cosmesi è ordine e l’ordine è regola assoluta e immutabile perché “rispecchia ed è il simbolo dell’eterno”. La regola assoluta coincide con la bellezza ma quando cade la conoscenza incontrovertibile dell’Ordine, la decorazione diventa superflua ed ad essa si sostituisce la funzione, la quale determina la forma.
Severino chiarisce tuttavia che tutto ciò vale quando il linguaggio è quello dell’episteme, cioè “della conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che si stabilisce su fondamenta certe, al di sopra di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti”.
Ma tutto il pensiero di Severino ruota intorno all’idea che il mito, prima, la fede in Dio dopo (qualunque Dio), sono una costruzione della mente umana per attenuare il dolore e l’angoscia dell’esistenza; la fede in Dio è però già stata superata dalla fiducia nella Tecnica la quale, con processo analogo a quello avvenuto nei confronti della Religione, si trasformerà da mezzo, per attenuare e curare il dolore e l’angoscia, a fine, determinando così, in maniera ineluttabile, il fatto che l’uomo sarà costretto ad essere dominato dalla Tecnica (i filosofi mi vorranno perdonare se ho banalizzato in tre righe il pensiero di Severino, sperando di non averne travisato del tutto il senso).
Anche l’architettura, al pari di ogni altra attività umana, si trasforma insieme all’evoluzione del pensiero della società e alla “cupola”, rappresentazione terrestre della volta celeste, si sostituisce il “grattacielo”, sfida tecnologica alla volta celeste, cioè all’ordine universale e, infine, a Dio; parimenti, alle mura della città, simbolo di una società chiusa, rappresentazione terrestre della città celeste, si sostituiscono le pareti di vetro che rappresenterebbero (uso il condizionale perché questo passaggio mi sembra un po’ troppo automatico) la consapevolezza che oltre le mura ci sono territori sconfinati di conoscenza.
Non voglio nemmeno accennare lontanamente ad argomentazioni a queste contrapposte, basate sul piano filosofico e logico, e mi limito ad osservare, in maniera perfino banale, che tutto l’impianto del pensiero di Severino si basa sulla mancanza di scelta e di libertà da parte dell’uomo. Tutto è prestabilito, tutto è ineluttabile. Quanto alle considerazioni sull’architettura, devo dire che alcuni concetti mi sembrano un po’ nebbiosi e forse non risolti. In particolare, mi sembra che nel rapporto tra antico e nuovo (capitolo: “La città e le idee – Sulla questione dei centri storici”) non sia affatto chiaro il fondamento del principio di “abbandonare conservando” che si attuerebbe mediante la “conservazione integrata” che è la costruzione della città nuova che coinvolge il centro storico senza distruggerlo e che darebbe “il senso del nostro tempo, che può veramente allontanare dal passato solo se continua a guardarne il volto e a sentirne il respiro”. L’impressione che ne colgo, ma posso sbagliare, è quella che nell’autore, rispetto ai suoi principi, prevalga una volontà di conservazione su una ineluttabilità della stessa.
Resta tuttavia il fatto che la fotografia che Severino fa dell’architettura tradizionale è perfettamente coincidente con quella di molti teorici di questa architettura, da Alexander a Salingaros, come specchio delle leggi matematiche di ordine dell’universo.
La differenza sta nelle premesse e nella conclusione che per Severino porta al dominio ineluttabile della Tecnica e al nichilismo assoluto, per Salingaros al valore universale delle leggi matematiche che regolano la natura, di cui l’uomo fa parte, e che trovano la loro espressione anche nell’architettura, dal dettaglio decorativo all’insieme, e nella città come organismo complesso che si comporta, analogamente al corpo umano, come una rete costituita da collegamenti e nodi.
Salingaros sviluppa la sua parte teorica nel libro A Theory of Architecture, che purtroppo non è tradotto in italiano ma di cui ci fornisce alcuni piccoli saggi nel libro Anti-architettura e Demolizione. Dice Salingaros:
“Per capire meglio la situazione, dobbiamo seguire la nascita e l’emersione storica degli stili tradizionali. Come si sono evoluti fino a rappresentare una tale complessità visuale e strutturale? L’ornamento non è necessario dal punto di vista strettamente utilitario, ma è necessario per definire un’architettura viva. Ovviamente l’uomo ha sviluppato tecniche e tipologie nel costruire il suo ambiente basate sulla sua neurofisiologia. Abbiamo sempre voluto costruire forme e superficie che ci facessero stare meglio, e non il contrario. Il nostro corpo e i nostri sensi riconoscono le strutture adatte, che dispongono di una similarità fondamentale con la nostra struttura. Il benessere fisiologico e psicologico ambientale è basato sulla consanguineità con l’ambiente. Tale affinità è possibile soltanto se l’ambiente è strutturato con una complessità molto speciale. Questa complessità è la qualità comune a tutti gli stili architettonici tradizionali e vernacolari.
Omissis
Soltanto nell’era dell’industrializzazione si sono aperte nuove direzioni, provocate dai prodotti e dai materiali industriali.”
Quindi secondo Salingaros è la complessità la caratteristica saliente dell’ambiente costruito tradizionale mentre l’architettura moderna e soprattutto quella de-costruttivista si caratterizza per la sua estrema povertà di segni, essenzialità di materiali, mancanza assoluta di decorazione. Anche Salingaros, al pari di Severino, riconosce nella decorazione l’essenza della bellezza, ma egli ritrova l’Ordine dell’universo nelle leggi matematiche, senza ricorrere necessariamente a Dio, pur non escludendolo affatto.
Per spiegare le leggi della complessi Salingaros utilizza la matematica dei frattali che è capace di rappresentare le forme della natura. Negli alberi, ad esempio, ogni ramo è simile all’intero albero e ogni rametto è simile è simile al ramo, e la foglia è simile al rametto, e così via. Lo stesso avviene per la geografia dove un golfo è simile ad un’insenatura molto più piccola del golfo stesso, e così via. Un frattale è un oggetto geometrico che si ripete nella sua struttura allo stesso modo su scale diverse.
Ancora dal libro di Salingaros:
Lo scienziato americano Edward Wilson va molto a fondo nella sua convinzione che l’essere umano è legato alle altre forme viventi tramite il materiale genetico. Wilson introduce il termine di biofilia per denotare il legame molto stretto tra noi e il nostro ambiente. Esaminando come si è formato il corpo umano nel passato presitorico, egli ritiene che il ricordo di quegli antichi luoghi si sia conservato nella memoria ereditaria e che noi cerchiamo in modo inconscio di riprodurli nel nostro ambiente contemporaneo.
La qualità del nostro ambiente primordiale originale, cioè una savana con alberi distanziati, è matematicamente complessa in modo molto preciso. E’ la stessa complessità frattale che si trova nella struttura biologica. Riconosciamo la stessa complessità, o la sua assenza, nelle strutture costruite. Dove c’è ci sentiamo bene, e dove non c’è ci sentiamo male”.
L’accostamento di queste due diverse strutture di pensiero consente alcune semplici considerazioni:
- L’architettura tradizionale affonda le radici della sua bellezza in una visione del mondo che presuppone un Ordine, divino o naturale;
- la scelta che gli architetti fanno a favore della tradizione o della modernità non può essere perciò esclusivamente basata cu criteri personali di “gusto” né su banali considerazioni sociologiche del tipo “alla civiltà delle macchine si confà un’architettura moderna” o, peggio, “la società è caotica e quindi anche l’architettura deve essere il suo specchio”. Ammesso che la realtà sia caotica non è affatto detto che lo debba essere per forza e il costruire edifici caotici comunque contribuisce solo ad aumentare il caos;
- il modernismo e talora anche il de-costruttivismo hanno coinvolto perfino l’architettura sacra; questo fatto è un vero paradosso perché la visione religiosa non può che basarsi su un universo ordinato e governato da leggi assolute e incontrovertibili e i luoghi di culto dovrebbero esserne la rappresentazione fisica più alta, come in effetti è sempre stato fino ad oggi, e non luoghi in cui più che altrove si avverte il contrasto tra l’architettura e il simbolo che dovrebbe esprimere, tra forma e funzione, ovviamente intesa in forma non utilitaristica.
P.S. PER UN APPROFONDIMENTO SUL TEMA SEGNALO QUESTO POST SU BIZBLOG
16 giugno 2008
INVETTIVA
Giulio Rupi
1 – Premessa
La scienza medica progredisce con il passare del tempo, cosicché il patrimonio delle conoscenze nella cura delle malattie che ogni generazione di medici acquisisce è più efficace di quello della generazione precedente.
Questa disciplina viene trasmessa più o meno bene nelle Università. Gli studenti di Medicina ne fanno un uso più o meno buono a seconda delle capacità individuali, ma sicuramente qualsiasi medico è oggi in grado di curare una broncopolmonite o di cavare un dente meglio di un suo collega di cento anni fa.
Altrettanto avviene, per esempio, nell’Ingegneria.
Anche qui la trasmissione delle conoscenze acquisite può essere ottima o mediocre, l’apprendimento degli studenti pessimo o eccellente, ma in linea di principio qualsiasi Ingegnere farà stare in piedi una struttura con strumenti di calcolo molto più raffinati ed efficienti di quelli di un Ingegnere di cento anni addietro.
E così un geologo avrà conoscenze e strumenti di indagine con cui potrà eseguire diagnosi e suggerire soluzioni sempre più efficaci, e similmente un Archeologo o uno Storico si avvarranno dei risultati raggiunti fin qui nelle loro discipline e le trasmetteranno, insieme ai progressi nel contempo acquisiti, ai loro studenti.
Insomma, in ogni disciplina si acquisiscono tutte le certezze raggiunte nei secoli precedenti, le si elaborano, le si migliorano con la ricerca e le si trasmettono attraverso la scuola alle nuove generazioni. Cosicché i risultati di queste discipline tendono a migliorare nel tempo: così con la medicina aumenta la durata della vita media, l’Ingegneria crea strutture sempre più resistenti ai terremoti, l’Archeologia acquisisce nuove conoscenze del passato e così via dicendo, per ogni disciplina umana.
2 – Desolata constatazione
Perché in Architettura no?
Perché il 99% di quello che si è costruito negli ultimi 80 anni è generalmente peggiore di quello che si era costruito nei precedenti 5.000?
Perché il “costruire” è l’unica disciplina in cui gli esiti, cioè la forma della città, la forma del tessuto urbano, la forma degli edifici, anziché migliorare nel tempo, sono, per ammissione universale, generalmente peggiorati su tutto il pianeta?
Perché le folle dei turisti di ogni nazione, votando con i piedi questa inappellabile bocciatura, vanno a visitare in tutto il mondo i Centri Storici delle città, costruiti PRIMA, anziché le loro periferie, costruite DOPO?
3 – Invettiva finale
Signori modernisti, non vi sorge il dubbio che questo disastro planetario abbia avuto inizio dal momento in cui qualcuno (Marinetti, Sant’Elia, Le Corbusier etc.) disse che bisognava fare TABULA RASA del passato (letteralmente: “Bisogna distruggere i centri storici delle città”)?
Non vi sorge il dubbio che questo disastro planetario abbia avuto inizio quando, in perfetta conformità con quell’enunciato, nelle Università avete spiegato ai vostri studenti che il costruire non era una disciplina fatta di REGOLE TRASMISSIBILI in maniera oggettiva (quella era l’ignobile “Accademia”!) ma un’Arte (astratta, non figurativa) in cui si doveva creare dal nulla, dopo essersi affrancati da ogni incrostazione del passato?
Non vi sorge il dubbio che impedendo ai vostri studenti di far proprie le regole precedenti per migliorale, impedendo loro di disegnare dal vero gli edifici del passato e di studiare le caratteristiche del tessuto urbano antico, avete creato centinaia di migliaia di “Artisti creativi” impegnati a posare sul territorio forme tutte inventate ex novo e avulse da qualsiasi contesto storico e ambientale?
Non vi sorge il dubbio che dovreste tornare a ripensare il “costruire” come una disciplina OGGETTIVAMENTE TRASMISSIBILE, quindi tornare a studiare le regole che sono state, fino a un secolo addietro, alla radice di questa attività umana, per trasmetterle poi ai vostri discepoli e far sì che essi, anche i mediocri, ne divengano più o meno padroni e possano tornare a porre i principi della propria attività su solide fondamenta?
13 giugno 2008
"Quando non hai niente da dire, non dire niente" (C.C.Colton)
New York Times dell'8 giugno 2008. Articolo di Nicolai Ouroussoff di cui riporto un estratto con l'intervista a Steven Holl:
“In America non potrei mai fare il lavoro che faccio qui” mi ha detto recentemente Steven Holl, un architetto di New York con molti grandi progetti in Cina, riferendosi al suo ultimo complesso a Pechino.
“Stiamo guardando troppo indietro. In Cina vogliono che tutto sembri nuovo. Questo è il loro momento. I cinesi vogliono che il XXI secolo sia il loro secolo. Per qualche motivo la nostra società vuole rendere tutto vecchio. Penso che in qualche modo abbiamo perso il nostro coraggio”.
La foto sopra è un esempio del nuovo in Cina. La città è Shenzen e questo non è il progetto di Steven Holl; ma cambia qualcosa?
CONCORSI PER GLI ARCHITETTI O CONCORSI PER LA CITTA'?
Pietro Pagliardini
In occasione della presentazione del libro di Nikos Salingaros, Anti-Architettura e Demolizione, Libreria Editrice Fiorentina, € 22,00, tenutasi a Firenze mercoledi 12 giugno, presenti l’autore, l’editore Giannozzo Pucci e gli architetti Natalini, Vannetiello, Zermani e Brugellis, l’architetto Natalini, a seguito di mia specifica domanda, ha spiegato le esatte modalità con cui si è svolto il concorso di Groningen, Olanda, per la ricostruzione della Waagstrasse del 1991 dal quale egli è uscito vincitore.
Il suo racconto riveste un grande interesse per quegli architetti che sono grandi fautori dei concorsi ma anche per quelli che sono diffidenti di questa forma di assegnazione degli incarichi; soprattutto dovrebbe interessare quegli amministratori e politici che intendono riappropriarsi della dignità e responsabilità di fare scelte per la propria città, non abdicando a favore di figure terze, gli "esperti", il cui ruolo, fondamentale, è però del tutto diverso.
Il progetto è stato scelto dopo un concorso, al quale erano stati invitati tre architetti olandesi (Jo Coenen, Gunnar Daan ed il gruppo van Velsen) e tre europei (Moneo, Siza e Natalini), per la ricostruzione di due isolati distrutti dalla guerra. (Fonte: Architectour.net).
Il concorso prevedeva tre gradi di giudizio:
• una giuria squisitamente tecnica per verificare la congruità economica e la fattibilità esecutiva;
• una giuria “tradizionale”, come la intendiamo noi, che valutava la qualità urbanistica e architettonica del progetto;
• una giuria popolare costituita dai cittadini di Groningen.
Natalini ha detto che:
- per la giuria tecnica il suo progetto era il primo (o comunque tra i primi);
- per la giuria tradizionale il suo progetto era da scartare (o comunque tra gli ultimi);
- dal voto popolare il suo progetto ha vinto con l’83,7% dei consensi, cioè la quasi unanimità.
A questo punto la scelta è passata in mano all’amministrazione comunale la quale ha scelto il suo progetto.
Questo episodio, che ha lanciato Natalini in Olanda, in particolare, ma lo ha fatto affermare nel giro internazionale con un progetto che ha, tra l’altro, segnato l’ultima decade di fine millennio avendo girato per tutte le più importanti riviste specializzate, è sintomatico della distanza che separa la nostra realtà concorsuale, professionale e politica da quella olandese:
- i nostri concorsi sono il più delle volte un'assoluta presa in giro per coloro che partecipano e spesso anche per coloro che vincono, perché a vincere sono sempre gli stessi, perché spesso non segue l’esecuzione dell’opera, perché c’è un intreccio perverso tra giurati e concorrenti;
- la nostra realtà professionale è bloccata dagli ordini che si comportano come una vera corporazione che nomina loro membri nelle varie commissioni concorsuali come se gli eletti nell’ordine fossero i più adatti, cioè i migliori (mentre l’essere consigliere ha tutt'altra valenza), alimentano il desidero degli architetti di essere loro i decisori delle sorti della città, quando è evidente che altri sono i soggetti a questo delegati;
- la nostra politica è delegittimata e impaurita e impotente, per legge, ad assumersi la responsabilità di decidere, pena ricorsi e denunce.
La procedura olandese è invece esemplare per chiarezza di ruoli, assunzioni di responsabilità da parte di tutti i soggetti, senso pieno e compiuto del concetto di civitas che si ritrova a decidere sulle sorti della propria urbs.
Certamente, come ha premesso lo stesso Natalini, vi sono condizioni completamente diverse in Olanda rispetto all’Italia, in particolare vi è un altissimo e diffuso senso civico (si pensi che per le elezioni politiche e amministrative non si usano le scuole ma le case dei privati o di associazioni), l’architettura è tenuta in altissimo conto a livello popolare visto che in ogni giornale, anche locale, così ha raccontato Natalini, c’è sempre (magari spesso) una pagina ad essa dedicata e i politici, evidentemente, hanno sufficiente autorevolezza per non delegare ad altri scelte che ad essi spettano per diritto democratico.
E’ ovvio che l’Olanda non può non essere interessata all’urbanistica e all’architettura dato che è terra inventata e strappata al mare, e il disegno e la geometria vi regnano sovrane; questa è la prima impressione forte che si prova entrando in quel paese, di trovarsi in un gigantesco foglio da disegno su cui mani sapienti hanno lavorato e stanno continuamente lavorando per tracciare canali, strade, edifici, città. Ogni cosa è progettata perché la terra stessa, la stessa geografia è progettata dll’ingegno umano. Quello è l'unico paese in cui l'espressione cultura del progetto ha un significato non astratto e fumoso. Questa circostanza determina condizioni uniche che, oltre a dare un forte senso di unità e appartenenza ad una collettività, non può non influenzare la cultura di un popolo in ogni suo aspetto.
Ciò detto, poste le dovute differenze, fatte le necessarie distinzioni, perché non dovrebbe essere possibile l’adozione di questo sistema democratico anche da noi?
Chi si potrebbe opporre ad una soluzione di questo tipo?
E’ triste constatare che probabilmente si opporrebbero proprio gli architetti nelle loro istituzioni rappresentative e, probabilmente, l’establishment accademico che perderebbe una parte del suo potere “culturale” di decidere per gli altri.
E’ interessante osservare che, cercando in internet qualche informazione rispetto a questo concorso e a questo metodo, occorre veramente la lente di ingrandimento e i dati sono scarsi, a meno che uno non conosca l’olandese. Nei siti italiani si racconta naturalmente di quest’opera ma il metodo sembra non interessi proprio a nessuno. Ho dovuto fare appello alla mia memoria per ricercarne tracce e ho dovuto incappare in Natalini in persona per avere notizie più precise, anche se infiorettate dallo spirito sagace e ironico dello stesso.
E pensare che questo metodo sarebbe rivoluzionario per l’architettura, almeno per quella di immagine e quindi, per ricaduta, su tutta l’architettura, perché buona parte delle opere de-costruttiviste sparirebbe dalla circolazione, nei centri storici finirebbero i folli inserimenti di pensiline varie, i monumenti agli architetti si trasformerebbero in monumenti alla città e ai cittadini. Forse è proprio per questo che c’è la congiura del silenzio, o l'indifferenza, da parte di una parte della classe professionale.
Eppure, proprio a quella presentazione del libro, nella sala all’ultimo piano di Orsanmichele a Firenze, c’erano, nel raggio di 100 metri due esempi reali, concreti ed esemplari che stiamo sbagliando tutto e che quel sistema è giusto e possibile: l’architetto Natalini con la sua Waagstrasse a Groningen e addirittura Filippo Brunelleschi con la sua Cupola di Santa Maria del Fiore. Con le rispettose differenze, non sono mica tanto male come esempi!
9 giugno 2008
***** UN'ALTRA MODERNITA' (1) *****
LES HALLES COME ERANO
Victor Baltard
PRESENTE:
LES HALLES COME SONO
Claude Vasconi
FUTURO:
LES HALLES COME SARANNO
David Mangin
CONDIZIONALE:
LES HALLES COME AVREBBERO POTUTO ESSERE
Leon Krier
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EDIFICI-LOGO: IL RE E' NUDO
Pietro Pagliardini
Ecco la riprova, se qualcuno avesse pensato ad esagerazioni, che La Cecla, nel suo libro “Contro l’architettura”, ha colpito nel segno:
CASAMICA del 7 giugno, magazine allegato al Corriere della Sera, articolo sul prossimo negozio di Louis Vitton in Giappone.
Il titolo è estremamente “schietto”: UN LOGO ALTO DIECI PIANI.E il testo dell’articolo è ancora più esplicito: “Con un logo si può fare tutto. Anche un palazzo di dieci piani che contiene un negozio. E se il committente è Louis Vitton ….. il successo è garantito”.
Ma il meglio viene alla fine dell’articolo:
Domanda del giornalista al progettista: “Dove e quando sorgerà il progetto?”
Risposta dell’architetto: “Louis Vitton è attualmente in trattativa per l’acquisto di un terreno. Per questa ragione non posso comunicare date e indirizzi precisi. Non sorgerà a Tokyo ma in un’altra grande città del Giappone.. dal momento della firma, che avverrà a breve, la costruzione durerà circa un anno e mezzo”.
Il nome della rubrica è, non a caso, modarchitettura, due generi fusi in un’unica parola a rafforzare le opinioni di La Cecla.
Devo ammettere che questo magazine, che mi è stato fornito da un’amica, pensando che mi potesse interessare il servizio su quello che il presidente del CNA, Sirica, chiama, in maniera surreale, “evento epocale”, cioè il congresso mondiale degli architetti a Torino, e che io ho educatamente accettato senza manifestarle la mia totale estraneità all’evento, si è dimostrata un vero estratto di anti-architettura.
Ci troviamo di fronte, palesemente, ad un bell'oggetto di design che potrebbe essere prodotto, con l'aggiunta di ruote, come carrello o comodino da Kartell. Solo gli ometti del rendering tradiscono il fatto che domani questo carrello diventerà un edificio.La città sembra totalmente inesistente per il committente, è solo uno dei mercati possibili e così è, di conseguenza, per il progettista, Ben Van Berkel, il quale dichiara soavemente che il luogo non è del tutto sicuro. Se per caso la trattativa per l'acquisto dell'area non andasse a buon fine, quell'oggetto potrebbe andare ovunque in città e/o in qualunque altra città del Giappone (ma il discorso varrebbe per qualsiasi altro paese) oppure è studiato proprio per quel luogo ed in caso di mancata firma del contratto andrebbe riprogettato? A onor del vero dal testo sembra più probabile la prima ipotesi.
Un edificio per la città sarebbe dunque trattato alla stregua di un distributore di benzina o di un auto-grill, costruzioni queste ripetitive ed estremamente specializzate che si vanno a collocare, prevalentemente, lungo infrastrutture specializzate, non nei centri urbani. Ma qui si tratta, non nella forma ma nella funzione sì, di un vero edificio, alto 54 metri, che domani diventerà un negozio popolato da persone che lavorano e altre che comprano e che non appena sarà stato trovato l’accordo sul prezzo del terreno, andrà a collocarsi in un’area centrale di una città, indifferente all'intorno, alla città e ai suoi cittadini che sono solo semplici consumatori.
Questa condizione di indifferenza al luogo non è appannaggio solamente degli edifici-logo ma di tutta l’anti-architettura delle archistar: quale differenza c’è infatti tra il comodino e la torre di Libeskind a Milano, per fare un esempio a caso? Nessuna, se non che il primo è il logo di una società commerciale, il secondo è il logo dell’architetto stesso.
Quali considerazioni fare sul comodino dal punto di vista architettonico? Nessuna, ovviamente, perché un oggetto di design smisuratamente ingrandito e collocato nel tessuto urbano con l’unica condizione della massima appetibilità commerciale, non è architettura, anzi è architettura da fiction come dice il giornalista; eppure in chissà quante riviste farà la sua comparsa e vai a capire l’effluvio di parole che verranno sprecate per descriverne la trasparenza, la luce, la forma interna a coclea che, insieme alle foglie esterne, ne farebbero un edificio organico che si ispira alla natura, perfino il rapporto con la strada, dato che ci sono le vetrine, e tutto il solito repertorio immaginifico di critici e architetti: invece sarà solo un altro atto della commedia dell’architettura messa in scena dalle grandi firme della moda il cui spettacolo i cittadini devono subire con l’avallo e la benedizione della stampa specializzata e di buona parte delle università che alimentano il culto architettonico di cui scrive Nikos Salingaros nel suo Anti-architettura e demolizione, Libreria Editrice Fiorentina, 2007, € 22,00.
Un commento però il progetto lo merita: carino, davvero.
7 giugno 2008
PROPOSTA INDECENTE DI UN INGEGNERE
Giulio Rupi
I tecnici, in particolare gli Ingegneri, hanno la fissazione della quantificazione.
Non poteva mancare un Ingegnere che si inserisce nella controversia tra Modernisti e Tradizionalisti con una proposta a dir poco sconcertante per una valutazione numerica della validità delle soluzioni urbanistiche contrapposte.
I Tradizionalisti, sostiene l’Ingegnere, parlano sempre di “vere strade e vere piazze” con i fronti degli edifici allineati sui marciapiedi. Solo così, essi sostengono, si realizza un tessuto urbano in cui possano ripetersi quelle caratteristiche che hanno reso gradevoli i centri antichi della città europea.
Solo così, essi sostengono, si può realizzare una città in cui le funzioni più diverse (negozianti, artigiani, residenze, funzioni pubbliche etc.) si mescolano e si completano, una vera città pedonale e piacevolmente vivibile.
Gli orridi modernisti, al contrario, con le loro archistar, anche quando (ahimé) si mettono a fare gli urbanisti, finiscono sempre con il realizzare monumenti di architettura, più o meno gradevoli, ma sempre autoreferenziali, sempre isolati dalla strada, e finiscono con il concentrare tutte le funzioni non residenziali nei centri commerciali. Cosicché la strada e la piazza divengono luoghi degradati, poco frequentati dai pedoni, ostili al cittadino.
“Ma allora - esclama in un Eureka! il nostro - c’è un parametro che può darci l’idea del successo di uno spazio urbano, di una strada di una piazza, di un piano urbanistico, e tale parametro è quantificabile (udite!) in una nuova unità di misura: il b.a.r./ml, dove b.a.r. sta per bar e ml sta, ovviamente, per metro lineare. Infatti la presenza e la sopravvivenza di un bar è l’indice più sicuro dell’esistenza delle suddette caratteristiche!”
Secondo l’Ingegnere basta quindi misurare il numero dei bar presenti sul fronte di una strada o di una piazza, dividerlo per la lunghezza del suddetto fronte, ed ecco quantificato il grado di pedonabilità, di vivibilità e di gradevolezza di quella strada, di quella piazza, di quel tessuto urbano.
Chissà!
A questo punto ai volenterosi non resta che passare alla verifica sperimentale dell’enunciato, calcolare strada per strada e piazza per piazza il relativo b.a.r./ml e constatare se la graduatoria che ne deriva corrisponde a quanto previsto dalla teoria dell’Ingegnere. Buon lavoro!
CIRO LOMONTE SUL GENIUS LOCI CRISTIANO
Dall’amico Ciro Lomonte, architetto palermitano, ho ricevuto la recensione del seguente libro: Frédéric Debuyst, Il genius loci cristiano, Sinai, Milano 2000, pp. 111, €18.50, che posto con grande piacere.
Il tema è l’architettura sacra, di cui Ciro Lomonte è profondo ed apprezzato conoscitore e teorico e su cui ha scritto e pubblicato articoli su diversi siti internet e riviste, tra cui Il Covile, curato da Stefano Borselli, il Domenicale, direttore Angelo Crespi, e molti altri, dei quali allego di seguito una selezione di link, oltre a tenere conferenze e lezioni, l’ultima delle quali questa settimana a Roma presso l’Accademia Urbana delle Arti. Come architetto ha curato numerosi adeguamenti liturgici.
Note biografiche di Ciro Lomonte
Il Covile: L’ornamento architettonico dopo il diluvio, di Ciro Lomonte - 1998
Il Covile: Architettura sacra contemporanea: religione o nichilismo? di Nikos Salingaros - Cura linguistica di Ciro Lomonte
II Domenicale: Perché le chiese moderne sono brutte, di Ciro Lomonte
Ridisegno dell’area presbiteriale nella Parrocchia di Maria SS. Immacolata - Sancipirello(PA), di Ciro Lomonte
Architettura Moderna: Ciro Lomonte presenta Nikos Salingaros
Nell’architettura sacra si misura, meglio che in altre tipologie specialistiche, la distanza che separa l’architettura moderna da quella tradizionale e la differente scala di valore e di valori tra le due.
Se è vero che per fare il progetto di una chiesa cattolica occorre una profonda conoscenza della liturgia, della sua evoluzione nella storia, che continua sino ai giorni nostri, e del diverso significato che essa assume in relazione a interpretazioni dottrinali, è altrettanto vero che la percezione dello spazio sacro è esperienza comune a tutti gli uomini, credenti e non, e chiunque apprezza la grande differenza che corre tra l’emozione di entrare all’interno di una qualsiasi chiesa storica delle città italiane ed europee rispetto e quella che si prova in una qualsiasi chiesa moderna o contemporanea le quali, con rare eccezioni, potrebbero essere utilizzate indifferentemente come palestre, auditorium, sale convegni.
L’edificio chiesa è un luogo speciale, denso di molti significati che Ciro conosce bene e che sa magistralmente trasmettere.
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Ciro Lomonte
Secondo gli antichi romani ogni luogo, naturale o artificiale che fosse, era protetto da una specie di nume tutelare. La credenza pagana nel genius loci è riconducibile a quell’aura peculiare che rende unici molti contesti. A tale fenomeno si riferisce un’opera di Christian Norberg-Schulz (Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura) apparsa nel 1979 e divenuta subito importante nell’ambito del dibattito architettonico contemporaneo. Il genius loci, lo spirito del luogo, sarebbe la sua identità perenne, caratterizzata da orientamento, riconoscibilità e carattere. L’autore norvegese indaga i rapporti tra l’architettura e l’ambiente e, più in particolare, le implicazioni psichiche ed esistenziali dell’abitare.
Debuyst, teologo e liturgista, restringe il campo di osservazione a chiese e monasteri. Il benedettino belga individua le proprietà specifiche dell’autentico luogo cristiano nelle domus ecclesiæ del III-IV secolo e nell’aggregazione di semplici case tipica dei monasteri, ben inseriti nella natura. Considera pertanto spurie tutte le architetture monumentali, in cui predomini la decorazione oppure un linguaggio troppo individualista (nel caso dell’architettura moderna). Risulta un po’ misterioso l’apprezzamento di Debuyst per le basiliche paleocristiane, che hanno assunto l’aspetto di case disadorne e spoglie a lui tanto caro soltanto dopo i pesanti restauri subiti nell’Ottocento e nel Novecento.
L’autore mostra grande interesse per le chiese di Emil Steffann e per l’opera del grande teologo italo-tedesco Romano Guardini, che anticipò la Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Guardini ispirò la sistemazione del castello di Rothenfels sul Meno, il grande centro della Gioventù cattolica tedesca di Quickborn. Il restauro venne completato nel 1929 dall’architetto Rudolf Schwarz, insieme ai suoi amici del Bauhaus. L’amore per il rigore e la scarnificazione da ogni ornamento, criteri propri della scuola diretta da Gropius, guidarono le scelte relative sia all’edificio che all’arredo.
Debuyst continua la sua analisi fino ai giorni nostri, sottolineando la qualità di alcune architetture moderne (abbazia di Mount Angel, nell’Oregon, di Alvar Aalto; monastero di Clerlande, in Belgio, di Jean Cosse; ecc.) e i difetti di altre (per es. il convento di La Tourette, opera famosa di Le Corbusier).
Le opinioni del monaco belga suscitano numerose perplessità. Il nocciolo della questione è la riconoscibilità di un luogo cristiano. Dato che la fede cattolica è fondata nella storia, scritta da Dio e da uomini in carne ed ossa, essa richiede un’arte narrativa. La decorazione simbolica ha questa ragion d’essere, non è questione di monumentalità. Nelle architetture esaltate nel libro non è affatto netta l’identità cristiana, tant’è che sarebbe facile sostituire la loro funzione religiosa con una civile.
Il genius loci cristiano di Debuyst corrisponde ad un gusto minimalista per l’austerità e il nascondimento nel contesto, ma non è condiviso universalmente. Peraltro egli sembra non rendersi conto che il barocco di Borromini è molto più semplice e rigoroso del razionalismo di Steffann. Se il genio del luogo è muto oltre che invisibile, chi ne può percepire la presenza? Un nume neopagano, come quelli prodotti dal Bauhaus, è silenzioso perché non esiste non perché immateriale. Se invece il genio è l’angelo posto a guardia di un luogo reso sacro dall’iniziativa di Dio, allora ha molte cose da annunciare ed è veramente un genius loci cristiano.
È vero che in certe chiese riccamente decorate l’abitudine confonde lo sguardo, che può disperdersi nei dettagli perdendo di vista l’essenza della preghiera. Ma la soluzione è forse quella di eliminare del tutto l’ornamento? Non possiamo dimenticare che l’amore si nota nei particolari, anche nel caso dell’arte e della liturgia.
Qualche dubbio nasce, infine, sull’uso improprio nel volume del termine frate al posto di monaco, forse dovuto alla traduzione dal francese.
5 giugno 2008
LEGGE URBANISTICA TOSCANA vs DISEGNO URBANO
Pietro Pagliardini
Questo post fa riferimento a fatti della mia città solo per comodità di miglior conoscenza diretta dei fatti, ma non credo che la condizione dell’urbanistica sia poi molto diversa da quella di altre città, specialmente della Toscana, dove c’è una legge urbanistica che, dove più, dove meno, alimenta i comportamenti di seguito descritti.
Se qualcuno si riconoscesse su quanto scritto di seguito è bene che sappia che, come nei film di una volta:
ogni riferimento a persone reali o fatti realmente avvenuti è puramente casuale.
Dico ciò perché la polemica, che c'è, è con un metodo generalizzato, non esclusivo della mia città, e non con qualcuno in particolare.
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Domenica di Fiera Antiquaria. Consueta passeggiata tra i banchi alla ricerca di qualche oggetto per la mia collezione di gadgets Coca-Cola. La città è particolarmente bella, animata com'è da turisti alla ricerca dell’affare straordinario: si aggirano lentamente nelle strade del centro antico e, in un modo o nell’altro, porteranno a casa qualcosa di importante, forse un mobile o un soprammobile, certamente la scoperta di una città austera e attraente allo stesso tempo che sarà ricordata per lungo tempo.
L’occhio va però alla locandina del giornalaio dove c’è l’immagine ripetuta della città ideale (Laurana? Pier della Francesca?Ignoto?) ma un istante dopo è il titolo “forte” ad attirare la mia attenzione:
Caspita, cosa ci sarà scritto nelle pagine interne e cosa c’entra Gomorra con Arezzo? E’ vero che c’è in corso un processo chiamato variantopoli (che non richiede alcuna spiegazione) ma, insomma, qui non ci sono stati mica morti ammazzati, o minacce, o intimidazioni fisiche! Semmai il solito sistema bloccato, comune a molte città toscane, in questo caso imitato, con caratteri un po’ troppo sguaiati e disinvolti, da una maggioranza di centro-destra.
Compro il giornale, un settimanale locale che tratta un po’ tutti i temi della città, con particolare riguardo, ovviamente, all’urbanistica.
Il titolo e le foto mi inducono alla speranza di vedere qualche disegno che illustri questo nuovo corso per una città ideale; le premesse ci sono tutte e le aspettative anche, visto che sono ormai 6 o 7 anni che è iniziato l’iter del PRG, che qui in Toscana è diviso in due fasi: Piano Strutturale (mappe tematiche, roba da geologi, ingegneri idraulici, informatici, economisti, storici, agronomi, ambientalisti, rilevatori, ecc., milioni di parole dal significato generico e spesso controverso, calcoli numerici sul fabbisogno abitativo) e Regolamento Urbanistico (qualcosa che assomiglia di più al sempre troppo poco rimpianto, vecchio PRG). Adesso saremmo vicini all’adozione del R.U., quindi sembrerebbe proprio il momento della produzione di disegno urbano, almeno per illustrare il metodo, l’approccio culturale.
Sfoglio il giornale ma trovo le solite notizie sulle procedure.
La delusione è profonda, non tanto per colpa dei giornalisti che riportano i fatti, quanto per i fatti stessi che ormai sono solo questi: procedure, procedure, procedure, norme, leggi.
Ormai le leggi hanno preso il sopravvento su tutto, la legge produce la realtà e non l’inverso. Una legge, quella toscana, nata per semplificare, ovviamente, e dare più autonomia ai comuni, ovviamente, nell’ambito di una griglia di possibilità, o meglio di impossibilità, date, a cascata, dalla Regione e dalla Provincia, ma che ha prodotto invece esattamente l’effetto opposto: i tempi sono dilatati, i comuni sono sottoposti a doppi controlli, le procedure sono incomprensibili agli stessi tecnici che dovrebbero applicarle, (c’è ciccia per gli avvocati del diritto amministrativo) figuriamoci ai progettisti e ancor più ai cittadini.
Ma soprattutto, che fine ha fatto l’urbanistica e il disegno urbano? Inesistenti, totalmente. Semmai è tornata di moda la “pianificazione”, termine a mio avviso illiberale, certamente minaccioso, che fa tornare in mente i piani quinquennali di sovietica memoria.
Qualcuno sarà portato a pensare che io esageri ed è anche giusto, visto che definisco questo blog volutamente fazioso, ma non è così: in questo caso credo di aver minimizzato la realtà che, per apprezzarla veramente, bisognerebbe averla vissuta mentre io sono incapace di trovare le parole adatte allo scopo, il mio è un racconto sbiadito ed edulcorato della realtà vera.
Se qualcuno crede che io stia esagerando cercherò di far parlare i fatti:
Comincio con una foto, che di seguito riporto, di parte di una carta del Piano regolatore della stessa città del 1935.
Si possono osservare le nuove strade, le parti da demolire e le parti da costruire. Questo, giuste o sbagliate che siano state le scelte, è disegno, è un piano che rappresenta una città.
Questa tavola riporta in dettaglio il disegno delle cose da fare, le strade da eseguire, le parti da demolire e quelle da ricostruire e il bello è che sono state eseguite proprio in quel modo.Non ho la sveglia al collo e so che oggi la realtà è più complessa, che la realtà economica è ben più vivace di un tempo, che le spinte individuali sono infinitamente più forti e quantitativamente numerose, che ci sono altri bisogni da soddisfare, che c’è da ridurre l’inquinamento e il rumore, che il traffico automobilistico è il primo problema da risolvere per città grandi e piccole, che non c’è solo la città ma c’è il patrimonio delle aree non urbanizzate, colline, pianure, boschi, zone agricole; capisco bene che il SIT costituisce una base dati essenziale per conoscere, e tenere sotto controllo, una realtà vasta e varia ma questo non può diventare un mito dal quale, alla fine, sembra quasi che il progetto di piano debba venire fuori automaticamente, dopo aver sottratto tutte quelle parti su cui non è possibile costruire.
Un linguaggio astruso, che sembra immaginifico ma è solo burocratico, si è sostituito ai pochi vacaboli dell’urbanistica conosciuta prima: per dire nuove costruzioni ora si dice “consumo di suolo” ma che non è consumo di suolo se si costruisce in aree urbanizzate; e poi abbiamo i sistemi ambientali, i sottosistemi ambientali, gli ambiti funzionali, le tutele strategiche, le UTOE, gli schemi direttori, le invarianti strutturali, i geotipi e poi tutto il linguaggio dell’ambientalismo politically correct. Ma disegni, niente.
Inoltre si dà parvenza scientifica ad una massa di dati il più delle volte abborracciati e messi insieme per soddisfare la necessità, molto poco rispettosa dell’ambiente, di produrre quintali, forse tonnellate, di carta, a garanzia della serietà della cosa: chi mai potrà controllarle e verificare la loro attendibilità e, soprattutto, la loro reciproca relazione e il loro coordinamento?
Le norme tecniche di attuazione del Piano Strutturale (cioè della prima fase del PRG) hanno un articolato di ben 225 articoli, il cui lessico è quasi tutto come il seguente:
1. Le condizioni alla trasformabilità relative al sistema della Residenza sono esplicitate attraverso degli indirizzi che si riferiscono a due categorie di azioni:
-la prima categoria riguarda le azioni di compensazione ambientale per contenere gli effetti sul territorio e sulle risorse e quindi: l’applicazione dei parametri ambientali, il mantenimento delle principali prestazioni ambientali quali il deflusso delle acque superficiali e l’officiosità idraulica, il mantenimento dei corridoi ambientali di supporto alla rete ecologica urbana, la regolamentazione e la compensazione dei fattori di inquinamento (traffico, isole di calore, attività rumorose, ecc); l’abbattimento degli effetti inquinanti prodotti dalle aziende a rischio rilevante nonchè insalubri;
-la seconda categoria riguarda le azioni preliminari necessarie per rendere possibile il processo edificatorio quali: la bonifica dei siti inquinati e la riqualificazione delle aree soggette a degrado, le modalità di approvvigionamento idrico e di smaltimento; le canalizzazioni di servizio; la separazione delle acque reflue dalle acque piovane; la raccolta differenziata e lo smaltimento dei rifiuti, l’utilizzo di fonti energetiche alternative ed eco-compatibili, l’utilizzo di tecnologie legate alla bio-architettura.
Chi fa Piani Strutturali con una certa continuità mi dice che l'ulteriore, nuova legge urbanistica(con l'enciclopedico cascame successivo dei decreti applicativi), la summa di tutta l’urbanistica regionale, che non a caso porta il n° 1, ha ulteriormente incarognito le procedure.
Esaurite le energie in una montagna di procedure, che spazio rimane per disegnare la città e il territorio?
E pensare che, ironia della sorte, all'inizio il disegno del piano era stato impostato dall'Arch. Peter Calthorpe, uno dei massimi esponenti del New Urbanism americano, il quale, dopo qualche anno in cui si era fatto apprezzare, è stato liquidato, probabilmente perchè inutile in una montagna di procedure che definire bizantine è un eufemismo.
Un sistema come questo cui prodest?
Tutto questo armamentario pseudo-scientifico ha prodotto in Toscana qualità architettonica migliore o, per dirla in italiano, ha prodotto un’urbanistica più bella, da città ideale, come preannunciava il giornale?
Certo che no, e la causa risiede sicuramente nel fatto che la legge precedente che l’ha prodotta era troppo liberale e liberista ma, d’ora in poi, con la mitica N° 1, il Laurana diventerà rosso di vergogna!
3 giugno 2008
I MATTI TRADIZIONALISTI VISTI DAL TIMES
Su TimesOnline, edizione on line del Times di Londra ho trovato un divertente e rivelatore articolo del 2005 che fa previsioni sulla conquista del Premio Stirling.Il giornalista intervista non so chi e insieme fanno una carrellata sui vari, possibili candidati.
La forma è scherzosa e molto efficace.
Dopo i vari, Rogers, Zaha Hadid, insomma i soliti noti, viene infine la volta di un gruppo di candidati seguaci del Principe Carlo e della sua architettura. E’ chiaro che non proprio tutti sono tali, almeno in senso stretto, ma viene detto così un po’ per semplificare e un po’ per aggiungere colore dispregiativo visto che, come è noto, le posizioni del Principe in materia di architettura non sono molto apprezzate dal Times e probabilmente neanche il Principe stesso è molto apprezzato.
Ogni gruppo in gara viene classificato in base al “genere” di architettura che produce: ad esempio Rogers è classificato tra I CAVALIERI DELL’HIGH-TECH.
Ho cercato di tradurre al meglio delle mie capacità la parte che riguarda proprio il gruppo del Principe:
I MATTI TRADIZIONALISTI
Chi sono?
Quinlan Terry, Leon Krier, Robert Adam, John Simpson, Demetri Porphyrios. Il loro (molto) spirituale leader è, naturalmente, il Principe del Galles.
Famosi per?
Uno odio stoico (stoico, non storico) del modernismo. La recente disputa tra gli sparring partners Rogers e Terry in merito all’ampliamento dell’Ospedale di Chelsea dimostra che le ferite sono ancora aperte. I loro più grandi successi potrebbero essere vecchi un decennio – Poundbury, sulle rive del Richmond- ma il Principe gode dell’attenzione di John Prescott (vice Primo Ministro di Blair) e il loro New Urbanism è forte in America.
Riconoscibili per?
Colonne, timpani, clienti molto ricchi.
Punti di forza?
Se la gente vuole costruire colonne, lasciamogli costruire colonne. Oggi è molto più conveniente economicamente.
Punti di debolezza?
Uniti dalle teorie cospiratorie su Rogers in grado di controllare l’universo.
Età media?
300 anni. Scherzo. 55 anni
In gara per il premio?
Nessuno. C’è una cospirazione.
Sottolineo solo il fatto, non insignificante, che l’intervistato ammette che “la gente vuole costruire colonne” e che è anche “più economicamente conveniente”.
La domanda è la seguente: chi paga per avere le colonne, le multinazionali della moda o le persone comuni che vogliono farsi casa?
Ora, i clienti dei matti tradizionalisti saranno anche molto ricchi (non risulta che i clienti di Libeskind, Zaha Hadid, Gerhy appartengano al sottoproletariato urbano) ma la gente che vuole le colonne, letteralmente the people, sarà più o meno come da noi, middle class, I suppose.
Sarà esagerato dire, con linguaggio da ’68, che l’architettura tradizionale è democratica e quella de-costruttivista imperialista?
Pietro Pagliardini
P.S. Consiglio di cliccare sul link di Demetri Porphyrios per apprezzare un pò di architettura classica che fa uso sapiente di elementi tradizionali e moderni.
Dimenticavo... volete sapere chi ha vinto quell'anno 2005? Ecco l'elenco:
Vincitore:
EMBT/RMJM: Scottish Parliament building, Edinburgh
Finalisti:
Bennetts Associates: Brighton Library, Brighton
Zaha Hadid: BMW Central Building, Leipzig
Foster and Partners: McLaren Technology Centre, Woking
O'Donnell & Tuomey: Lewis Glucksman Gallery, Cork
Alsop Designs: Fawood Children's Centre, Harlesden
Se siete curiosi vi dico anche chi ha vinto l'anno sucessivo, 2006:
Vincitore:
The Richard Rogers Partnership: Aeroporto di Madrid-Barajas, Madrid
Finalisti:
Adjaye Associates: The Whitechapel Idea Store
Hopkins Architects, Buro Happold: The Evelina Children's Hospital
Caruso St John Architects: Brick House
The Richard Rogers Partnership: The Welsh Assembly Building
Zaha Hadid Architects: The Phaeno Science Centre, Wolfsburg
Sempre volti nuovi. Vabbè, ma sono i più bravi!
2 giugno 2008
CATTIVI MAESTRI
Pietro Pagliardini
In questi giorni mi ha preso una specie di crisi di coscienza: credo che, in base a quanto ho scritto nei miei post, se qualche collega mi desse del “rinnegato” avrebbe qualche ragione. In effetti un architetto che fa la professione e che, contemporaneamente, spara ad alzo zero sugli architetti sembra meritarsi questo appellativo.
Ma io in realtà non ho niente contro gli architetti: il fatto è, semplicemente, che mi interessa l’architettura mentre mi interessano assai meno i suoi autori; o meglio, non sono tentato dalla mitizzazione per i progettisti perché mi piace considerarli professionisti che lavorano, che si sforzano di fare il loro lavoro al meglio, che sono ovviamente interessati alle parcelle, cioè ai soldi, che aspirano, come è umano, al successo e alla gratificazione personale oltre che economica, al pari di qualunque altro professionista. Però tutta la mia ammirazione si ferma qui.
Il fatto è che veramente non mi piacciono i maestri e soprattutto, non mi piacciono i loro discepoli-emuli-imitatori. Mi disturba il termine maestro usato per gli architetti, al massimo lo ritengo adatto ad un musicista, un pittore, uno scultore. Non che sia scorretto l’uso in sé, perché maestro è colui che sa più o fa meglio di altri e quindi se c’è un architetto con questi requisiti è pertinente appellarlo maestro.
Ma l’uso che ne viene fatto e, soprattutto ciò che esso sottintende è fuorviante per almeno tre motivi:
1) maestro esprime una capacità assolutamente individuale, personale di conoscere una disciplina e di saperla applicare. Ora è evidente che chiamare “maestro” uno come Michelucci ha un senso perché il suo era un lavoro di tipo artigianale, matita, carta, tecnigrafo e, al massimo, qualche collaboratore; il processo di progettazione prima e produzione dopo non sfuggiva al suo controllo. Ma che senso può avere chiamare maestro un’archistar il quale, partendo da un’idea, che voglio ammettere sia da lui stesso rappresentata con un disegno a schizzo, viene poi elaborata al computer (diversamente sarebbe irrappresentabile), modificata e trasformata, perché i software modellatori di forme tridimensionali possono offrire spunti “autonomi” casuali di forme diverse da quelle pensate? Successivamente questa serie di risultati ottenuti, immagino e spero dopo essere stati selezionati dall’architetto, passano, il più delle volte, ad altra sede, in altro studio per l’ingegnerizzazione dove comincia il processo per dare corpo ad un’idea in parte condivisa con il PC. In questo senso gli architetti sono avanzatissimi nello studio dell’intelligenza artificiale).
Poi il progetto, o parti di esso, vanno alle varie aziende produttrici per la cantierizzazione. In fase di direzione dei lavori non ne parliamo nemmeno di maestro perché qui il progettista, parlo dei progetti importanti ovviamente, non mette neanche piede se non per pubbliche relazioni o al massimo per dettagli. Il processo produttivo è talmente complesso e sono così numerose e molteplici le figure professionali, tecniche ed economiche che entrano in gioco che individuare nel progettista il “maestro” è come immaginarlo dotato di poteri divini, un demiurgo che tutto regola e controlla. Una visone più che romantica dell’architetto, addirittura ridicola.
2) Maestro significa non solo avere conoscenze e capacità superiori ad altri ma soprattutto saperle trasmettere agli altri, perché queste non vadano perse. Se uno tiene tutto per sé e le sue conoscenze muoiono con lui di tutto si può parlare fuorché di “maestro”. Uno scienziato che fa una scoperta eccezionale, la mostra e non la spiega, tantomeno la scrive, è totalmente inutile. Tornando alle nostre archistar vorrei sapere che cosa sono in grado di trasmettere. Forse che il prendere un foglio di carta, accartocciarlo ed entrarvi con una micro telecamera per vederne gli esiti spaziali è una lezione di qualcosa? Al massimo è un happening, uno show adatto alla TV, fatto per stupire ed alimentare un mito per menti deboli, ma di maestria neanche l’ombra. L’unica cosa che può lasciare è l’opera; sarebbe già tanto, anzi, sarebbe tutto per un architetto se da quell’opera se ne potesse trarre un metodo, un criterio, una regola. Ma in realtà l’unica regola che si può trarre dall’architettura dello star system contemporaneo non è diversa da quella di Carlo Verdone: famolo strano. Fate quello che volete, basta che sia fuori del comune , fuori da ogni regola; il contesto non ha importanza, la storia di meno, conta solo l’egocentrismo del progettista. Cosa volete che insegni la Zaha Hadid! Neanche le sue opere contano molto, visto che nel passaggio dal progetto alla realtà perde anche, nella maggior parte dei casi, quell’effetto di dinamismo che può esercitare un certo fascino e restano solo forme brutaliste prive della levigatezza delle figure renderizzate.
3) Ma il motivo più importante per cui diffido dell’appellativo di maestro è l’uso che ne viene fatto dagli architetti. Vi sono moltissimi di questi che si creano il mito e, di fronte ad un nuovo progetto o al progetto di altri, giudicano e progettano acriticamente sulla base di quanto avrebbe fatto il maestro. Si pensi a quanti hanno progettato o approvato progetti alla Le Corbusier, applicando tutte le “regole” canoniche di questo: pilotis, finestre orizzontali, tetti piani, corridoi interni da vagoni ferroviari. Tuttavia, Le Corbusier aveva almeno le caratteristiche del maestro perché era anche e soprattutto un teorico che aveva fissato delle regole, anche se sbagliate. Ma uno come Mario Botta, che pure ha grandissime qualità, che viene preso come maestro e ne vengono replicati i mattoncini di cemento in ogni dove con l’inevitabile grande arco di corredo (si osservino i risultati nella pubblicità dei vari produttori) quanti danni produce, senza alcuna sua colpa? Ancora: adesso vanno di moda i tagli delle finestre alla Zucchi e state tranquilli che nei concorsi minori se non ci sono le finestre ritmate da tagli verticali ed orizzontali, non c’è verso di vincere. Il punto è questo: senza entrare nel merito della qualità dei maestri, sono gli allievi che ad essi si ispirano a fare danni diffusi nel territorio.
Il primo luogo dove abolire tale parola, o almeno farne un uso più moderato, limitandolo a coloro che esprimono con la loro architettura valori assoluti e non mode temporanee, dovrebbe essere l’università.
Questo blog tratta di architettura tradizionale ed è naturale che, dovendo riferirmi ad un maestro, il riferimento indiscutibile è Leon Krier. Ebbene credo che anche nei suoi confronti debba valere lo stesso atteggiamento di “distacco” che vale per gli altri. Krier è un grande teorico, è una bandiera per chi crede che si debba tornare ad un’urbanistica e ad un’architettura che sia più in armonia con la storia; per certi aspetti Krier rappresenta nel campo dell’architettura quello che un leader politico rappresenta per un partito di minoranza: la capacità di dare vita e voce ad un’idea molto vicina ai sentimenti e ai gusti della gente e del tutto negletta e disprezzata dal pensiero unico dominate ma, imitarne le architetture sarebbe un grave errore, perché esse sono uniche e frutto di una mente visionaria che reinterpreta la classicità in modo fortemente personale. Imitarle vorrebbe dire falsificare un classicismo già filtrato da una personalità creativa e il risultato potrebbe essere un banale raccogliticcio di colonne, archi, timpani privo delle regole classiche e dell’impronta geniale del “maestro”.
Ciò che conta in Krier è la forza delle sue idee, dei suoi studi e dei suoi progetti urbanistici, che sono capaci di creare quartieri e città omogenei con le città europee con strade gerarchizzate che formano isolati e non lotti con gli edifici che vi galleggiano dentro, i fronti degli edifici che delimitano le strade, gli interni degli isolati studiati per accogliere le auto senza farne luoghi squallidi, la commistione delle funzioni tipico dei centri storici ottenuta con un mix di tipologie edilizie, norme edilizie non quantitative ma qualitative, precise regole morfologiche.
Leggere gli scritti di Krier e guardare i suoi disegni è una cura disintossicante contro le stramberie dell’architettura modernista e de-costruttivista, è andare alle radici dell’architettura, è l’acquisizione di un metodo di approccio al problema che mette al centro del progetto l’uomo e la bellezza, ma non deve mai essere imitazione. Krier non propaganda uno stile e non fa progetti in stile, come invece dice Luigi Prestinenza Puglisi in un’intervista:
“Per Leon Krier la città ideale è fatta dalla contrapposizione tra un’edilizia vernacolare ed edifici monumentali, tutti in stile. Considerato il successo che sta riscuotendo presso alcuni architetti e le autorità che si occupano dell’Eur, abbiamo più di un motivo per preoccuparci.”
Lo “stile” di Krier è assolutamente personale e inimitabile, ma è la sua teoria che può e deve essere trasmessa, a prescindere dallo “stile”, come lui stesso afferma:
“L’idea del classico non appartiene ad un periodo specifico. Molto semplicemente è l’idea del meglio possibile. Essere classico significa: Appartiene alla classe più alta, allo standard più alto, alla forma più alta”.
E ancora:
“Trascendendo problemi di stile, periodo e cultura, l’Architettura Classica qualifica la totalità dell’architetura monumentale basata sui fondamentali principi di “ Venustas, Firmitas, Utilitas”, tradotti nel linguaggio moderno come armonia/bellezza, stabilià/permanenza e utilità/comfort”.Leggendo le sue norme per il piano di Firenze Novoli, non vi si troveranno obblighi di usare archi, colonne, ordini architettonici, lesene, timpani; vi si trovano regole di allineamento dei fabbricati lungo le strade, rapporti tra pieni e vuoti equilibrati con limitato uso delle logge, altezza dei piani gerarchizzati, terrazze posizionate nei fronti principali con precisi criteri, ma mai l’imposizione di uno “stile”, tanto meno di uno “stile krieriano”.
Se i circa 130.000 architetti italiani (oltre un quarto della popolazione mondiale di architetti) seguissero nella loro pratica quotidiana queste regole vi sarebbero meno indecenze nel bel paese; invece il più delle volte si imitano cattivi maestri che stimolano la fantasia e la creatività personale, che ti illudono di essere capace di farlo, e il risultato è sotto gli occhi di tutti. Quando Meier sbarca in Italia, a Roma, nel centro di Roma, non in un posto qualsiasi, e compie quel gesto osceno con una presunzione senza pari e con l’avallo della pubblica amministrazione, fa un atto che definirei “illegale”, perché va contro ogni legge dell’architettura; ma il danno maggiore che egli compie con l’innesto della molla imitativa negli architetti è infinitamente superiore all’esistenza stessa della teca in sé, perché questa, in fondo, può sempre essere demolita e, in questo senso, la demolizione avrebbe un grande valore di esemplare gesto riparatore.
Oggi fioriscono libri e articoli di giornali e riviste “contro gli architetti” ed è il segnale di una stanchezza verso architetture che compiono continui strappi nella cultura della città in cambio di qualche comparsata nelle patinate riviste di moda e di architettura (che ormai sono esattamente la stessa cosa); stanchezza non solo tra la critica ma, soprattutto, tra la gente che non ne può più di essere costretta a vivere in quartieri brutti e degradati mentre vengono proposti sfavillanti quanto disumane architetture che nulla fanno per migliorare la condizione delle città e sono anzi pessimi esempi perché inducono a rassegnarsi al folle sillogismo alla Koolhaas:
società spazzatura-architettura spazzatura.
Se l’architettura può fare poco per migliorare la società certamente può fare moltissimo per peggiorarla ma doversi sentire anche teorizzare queste sciocchezze vuol dire aggiungere al danno la beffa.
In questo senso Krier è un maestro, uno dei pochi viventi perché invita tutti, politici e progettisti, ad un atteggiamento di rispetto nei confronti della città, senza, per questo, rinunciare alla sua modificazione.