Pietro Pagliardini
Un riferimento al Corviale fatto da E.M. Mazzola in un commento al precedente post, mi fornisce l’occasione per raccontare l'intervento di un collega alla presentazione del libro dello stesso Mazzola ad Arezzo, presso l'Ordine, La città sostenibile è possibile, Gangemi. Il collega, architetto Franco Lani, che è un amico, un ragazzo più vicino ai 70 che ai 60 anni che ha fermato l’orologio del tempo alle sue idee giovanili, e quasi una istituzione tra gli architetti aretini, ex direttore tecnico dell'Istituto Autonomo Case Popolari (o come diavolo si chiama oggi), giustificava ideologicamente quel transatlantico che, proprio come una nave, relega gli esseri umani in una dimensione diversa da quella terrestre, quale esempio di ingegneria sociale. C'è senza dubbio una forma di utopismo tragico, come in tutte le utopie sociali, in quel progetto, espresso nel bisogno o nella volontà di creare un mondo nuovo e, naturalmente, migliore.
Poi Lani, che è persona intelligente, riconosceva che qualcosa non ha funzionato a dovere e affermava che succede spesso nel passaggio dall'idea alla sua concreta applicazione che si commettano errori. Siamo però al vecchio discorso dei compagni che sbagliano: si condannano i singoli errori per tentare di salvare l’idea.
In verità non è l'applicazione del metodo ad essere sbagliata ma il metodo stesso, è il principio di ingegneria sociale applicato all'architettura e all'urbanistica ad essere profondamente anti-umano, e giustificarne il fallimento come un semplice incidente di percorso vuol dire nascondere la testa sotto la sabbia, non voler vedere l’errore che sta alla base, non fare i conti con la storia e con la realtà, non voler capire che l’uomo non può essere preso a semplice cavia di laboratorio avendo deciso, già da prima, che se l’esperimento fallisce la colpa non è della finalità dell’esperimento ma della mancanza di qualche ingrediente e quindi predisporsi l’alibi per procedere con un altro tentativo e altre cavie.
Avviene sempre così: lo Zen sarebbe un progetto corretto e Gregotti caparbiamente afferma ancora oggi che lo rifarebbe uguale perché la responsabilità è di altri (Comune, IACP, ecc) che non hanno completato il tutto con i necessari servizi.
Continua l’illusione e si perpetua nel tempo con nuove giustificazioni: tutto fuorché ammettere lo sbaglio madornale che sta alla base del problema, e cioè l’adesione incondizionata ad un progetto utopico e scellerato di trasformazione della società contro l’uomo, partorito nel cervello di pochi e di cui ancor’oggi le nostre città, e soprattutto i loro abitanti, pagano le conseguenze. E il metodo continua a riprodursi tranquillamente anche se si ammanta di forme architettoniche diverse, non immediatamente riconoscibili e assimilibili direttamente a quelle tipiche dell'origine e che fa dire a molti che c'è una grande differenza tra le avanguardie del novecento e quanto accade ai nostri tempi.
Continua nella dimenticanza della storia della città, nel considerare gli uomini un accessorio dell’architetto, quasi fossero le figurine che affollano maquette e rendering, nei quali quelle assumono lo stesso ruolo della mongolfiera o dell’aereoplanino che vola gioioso in cielo, parodia della vita vera.
Continua nella produzione di oggetti unici e singolari privi di contesto, in realtà tutti identici a se stessi nella loro banalità, monotonia e mancanza di ogni significato.
Continua nella presunzione di poter trascurare gli elementi reali di una città quali la geografia, le preesistenze naturali o artificiali, le stratificazioni che si sono succedute nei secoli che la rendono così ricca di significati, l’esistenza di una comunità di persone che sono considerate come semplici utenti e non come un corpo sociale che ha memoria, sentimenti, sensibilità.
Sovrapporre a quelle stratificazioni delle astronavi, piccole o grandi, prive di attinenza alcuna con ciò che esiste per materiali, tipi, senza relazioni tra le parti, vuol dire considerare la città da un punto di vista puramente astratto, al pari di una tela pittorica da riempire, trascurandone del tutto la complessità che costituisce la condizione stessa per la vita dell’organismo urbano. Una tela per quadri, per quanto sia arduo l'accingersi a riempirla di forme e contenuti che abbiano la capacità di assurgere all'arte, è pur sempre il frutto della mente del solo suo autore e non incide mai sulle vite altrui né sulla ricchezza dei rapporti sociali tra le persone.
La povertà anti-urbana, ma direi la miseria, di operazioni come il Corviale, figlio dell’Unitè d’habitation e dei vari falansteri del secolo ad essa precedente, rispetto alla ricchezza della città di cui abbiamo esempi e tracce sotto gli occhi, basta volerli vedere, giustificherebbe da sola il desiderio ricorrente di vederlo cadere sotto i colpi del martello demolitore o dell’esplosivo, non diversamente da quanto accadde per Punta Perotti.
Peccato che quel lavacro purificatorio collettivo in diretta web abbia assunto solo una valenza legata al ripristino della legalità, cosa peraltro non del tutto esatta perché una concessione edilizia era pure stata rilasciata, invece che come simbolo di un genere di architettura, di un'idea stessa nata contro l’uomo, la geografia, l’ambiente, la storia dei luoghi.
P.S. Ho pensato dopo averlo pubblicato che il sottotitolo di questo post avrebbe potuto essere: Antiarchitettura e demolizione, cioè il titolo del primo libro pubblicato in italiano da Nikos Salìngaros, editrice LEF.
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