Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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21 novembre 2009

LE ARCHISTAR SECONDO MARC AUGE'

Pietro Pagliardini

Salvatore d’Agostino ha pubblicato su Wilfing Architettura un articolo di Marc Augé tratto da Le Monde, dal titolo L’architettura globale. Rimando al link per la lettura del testo.
L’analisi che Augé svolge sul fenomeno archistar, facendo ricorso a concetti del tutto analoghi a quelli di Nikos Salìngaros nel libro No alle archistar, LEF, 2008, e non tanto diversi da quelli ripetuti più volte in questo blog, è oggettiva; le proposte per il futuro che auspica rischiano di essere, a mio avviso, peggiori del male.
La critica all’architetto demiurgo che progetta per il villaggio globale non sembra affatto finalizzata al rispetto delle culture locali e dei luoghi ché anzi, dice Augé:
Le polemiche sull’importanza di adattarsi al contesto non hanno senso in un’epoca in cui ogni contesto locale vuole anche essere globale e in cui la firma dell’architetto diventa il simbolo di questo cambiamento di scala”.
Quindi l’autore sembra prendere atto di questa realtà giudicandola coerente con le aspettative delle comunità locali.(1)



Poi prosegue:
La retorica dei suoi discorsi (dell’architetto) serve a conquistare mercati: per questo, spesso imita l’ideologia degli imprenditori. Per lo stesso motivo incarna il cammino della storia”.
Ma dove vada la storia, per fortuna, neanche Augé si azzarda a prevederlo. Da notare che Augé non distingue la figura dell’architetto da quella dell’archistar, a riprova che sono proprio loro, le archistar, a dare il passo agli architetti in genere. E non è un caso che l’antropologo abbia colto nella mitica espressione “cultura del progetto”, che poi altro non è che la "cultura del proprio progetto”, ciò che accomuna gran parte degli architetti.

Ma a questo punto c’è il passaggio decisivo, il cambio di marcia. La disapprovazione di Augé per gli architetti che sono “più affascinati dalla possibilità di lasciare la loro impronta sui luoghi più importanti del pianeta… che dall’idea di affrontare i problemi tecnici e sociali causati dall’urbanizzazione mondiale” non è però rivolta alle loro architetture nè all'essere le archistar simbolo di una globalizzazione che rende tutti uguali “i luoghi più affascinati del pianeta” (con progetti di seconda mano dice addirittura) e che quindi dopo il loro intervento tanto affascinanti non saranno più, bensì è rivolta alla mancanza di un impegno sociale che si dovrebbe esprimere nella formulazione di proposte “sugli alloggi in città, su come affrontare l’emergenza pensando anche sul lungo periodo”.

Assolutamente incomprensibile e contraddittorio il confronto in negativo con Le Corbusier, che Augé stesso riconosce avere fatto molti danni proprio per la sua mania di risolvere il problema dell’abitare facendo tabula rasa e rifiutando la città storica!
Ebbene, cosa chiede Augé agli architetti? Di preoccuparsi del problema dell’abitare e di “tornare ad essere visionari del mondo”, esattamente quello che lui riconosce come contributo negativo di Le Corbusier! Tornare a preoccuparsi d’altro che di architettura e di città ma di problemi globali, quelli che, ad esempio, Bauman esclude possano rientrare nel campo di azione e di controllo a parte degli architetti.

L’alternativa all’archistar egomaniaca sarebbero dunque l’archistar visionaria in chiave socio-politico-utopica, un deja vue fallimentare.

Sembra che all'autore del'articolo sfugga un aspetto assolutamente elementare: che gli architetti debbono fare il loro mestiere e lasciare i problemi globali alle dinamiche della società, alla cui risoluzione possono certamente contribuire positivamente ma solo con la loro disciplina che consiste nel dare forma all’ambiente di vita dell’uomo, ciò che da decenni non sembra essere al centro dell’attenzione di molti.
Seguendo invece il suo invito si continuerebbe nella sperimentazione di nuovi modelli abitativi e urbani (e di modelli di ingegneria sociale) che hanno dato esiti catastrofici per la città e i suoi abitanti.
Ce n’è voluto di tempo per tornare a parlare di forma urbis e di disegno urbano, e adesso Augé ci propone un nuovo ’68 con l’immaginazione al potere!?


(1) Per smentire questa realtà si legga questo articolo del Corriere della Sera, I dieci edifici più brutti del mondo.

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17 marzo 2008

RISPOSTA ALL'ARCH. MARIO MASCHI

di Pietro Pagliardini – Luglio 2007

Dopo le considerazioni dell’arch. xxxxxxx sul recente convegno dell’Ordine, avevo preparato un mio contributo “ad adiuvandum” le relazioni dei colleghi Grifoni e Verdelli. Devo dire che il testo dell’amico Mario è stato provvidenziale e mi ha fermato in tempo, togliendomi dall’imbarazzo di dare inizio ad uno scambio polemico, sul piano culturale, con xxxxxxx.

Non posso fare a meno di cogliere nella lettera di Mario un tono molto diverso dal solito, più riflessivo, a volte quasi malinconicamente pensoso e meno carico di quelle certezze sull’architettura e sulla professione che lo hanno caratterizzato nel recente passato. Non solo: l’analisi che compie sulla qualità dell’architettura legata alla qualità della società e non ingenuamente figlia di una generica “cultura del progetto”, quasi che il progetto fosse la religione dell’umanità e gli architetti i suoi sacerdoti (questo non lo dice lui ma è una mia interpretazione) è condivisibile e mostra una notevole maturità nel valutare il fenomeno nella sua complessità, non riducendolo a sterile discussione interna ad una categoria professionale.
Se questo è vero mi viene da domandarmi: non sarà mica possibile, d’ora in poi, esporre le proprie idee con serenità, apertura e attenzione alle ragioni altrui? Sarà veramente possibile stare dalla parte della tradizione senza essere vilipesi e offesi (sempre culturalmente, intendo) e non essere spregiativamente e banalmente definiti “conservatori-storicisti”?
Sarà anche possibile che si riconosca che il pensiero unico, in qualunque campo, è sempre e comunque un male perché ogni manifestazione dell’uomo, compresa la fede religiosa (basti pensare alle diverse interpretazioni teologiche), è complessa e, senza cadere nel relativismo, si danno spesso verità molteplici?
A leggere Mario sembrerebbe proprio di sì.
Stia tranquillo, Mario, non voglio rovinare la sua reputazione arruolandolo abusivamente nella pattuglia degli antichisti. Anzi, ad interrompere l’idillio, dico subito che l’atteggiamento dialogante è la cornice, ma è il quadro che conta e su questo ho alcune osservazioni da fare.

Al convegno io ho seguito le sole relazioni di Grifoni e Verdelli. Da Grifoni ho ascoltato una lezione di alto livello sulla storia del territorio, condensata in quattro pagine; è partito dai primi insediamenti umani ed è arrivato ad individuare alcuni criteri per il presente e il futuro, con raro rigore logico e senza nulla concedere alla politica e alla platea, dissenziente ma silenziosa perché priva di risposte adeguate a quel livello.

Citerò sinteticamente alcune proposte di Grifoni:

1) La strada è l’elemento ordinatore e fondativo dello sviluppo
2) Continuità del tessuto costruito (quindi niente coul-de-sac, o strade interrotte)
3) Coincidenza tra facciate e limite dello spazio stradale

Siamo d’accordo su questi tre punti essenziali?
Se sì, è necessario trarne le conseguenze e ammettere che l’urbanistica moderna con il suo puntare tutto sull’architettura (magari ottima architettura) come oggetto isolato dal contesto, senza relazione con la strada e il tessuto, che trova solo in sé la propria ragione di essere, trascura completamente i tre principi sopra esposti e il risultato è un non luogo che nasce dall’astrattezza del disegno e completamente ignorante delle regole di crescita della città.
Si prenda, ad esempio, il recente villaggio olimpico di Torino che, esaurita la funzione sportiva, dovrebbe diventare un normale quartiere residenziale. Indubbiamente vi sono architetture di qualità ma cos’ha a che vedere con la città? Lo si guardi in pianta e sembrerà un bel quadro ma una città non segue le regole della pittura.
Anche i deprecati archetti e le colonnine sono un problema di secondo ordine, il primo essendo il metodo di crescita dell’insediamento. Una corretta urbanistica può avere la forza di riscattare una pessima edilizia ma è molto difficile il contrario.

Se invece non si è d’accordo, pazienza, però, una volta tanto, se ne spieghi il perché e si proponga l’alternativa. Condivido anch’io l’auspicio di xxxxxxx che nei nostri incontri e convegni si possano sentire voci e proposte diverse ma mi domando come mai, visto che “la contemporaneità” è egemone nel mondo dell’editoria, specialistica e non, in quello dell’università e, soprattutto, in quello dei tanto mitizzati concorsi, come mai, dicevo, non si riescono ad ascoltare tesi argomentate e credibili a difesa dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea nel nostro territorio?
Mi domando: sarà mai possibile che si alzi un collega e contesti punto per punto quanto esposto da Grifoni e proponga una lettura diversa e, perciò, una proposta diversa, non basata sulle parole d’ordine modernità, sperimentazione, cultura del progetto ma su fatti, analisi e proposte?
Infine mi domando: qualcuno mi vuole spiegare per bene che cazzo è ‘sta “cultura del progetto” di cui parla xxxxxx? di quale progetto, per fare quale progetto? Me lo dite, per piacere, con parole vostre, tali da risultare comprensibili a persone di media intelligenza?
In effetti i sostenitori della modernità in urbanistica raramente, per non dire mai, riescono a dimostrare, in maniera altrettanto logica, colta e profonda di quanto abbia fatto Grifoni, i loro teoremi, i quali, in effetti, risultano puri atti di fede nel progresso con lo strano sillogismo che, se tutte le arti e le scienze progrediscono, altrettanto devono fare l’urbanistica e l’architettura, le quali dovrebbero diventare “testimoni del loro tempo”. Vorrei osservare che, nel campo scientifico, ad esempio nella medicina, il progresso ha un fine preciso: curare le malattie degli uomini e, perciò, migliorarne la qualità della vita. Qual è il fine dell’urbanistica? Se ne potrebbero trovare una molteplicità ma, stringi, stringi lo scopo ultimo è sempre lo stesso: migliorare la qualità della vita dell’uomo attraverso la creazione di un ambiente urbano, che è quello naturale per l’uomo, in cui sentirsi a proprio agio, che abbia e che crei identità, che non sia straniante, che consenta di abitare, lavorare, muoversi, amare, morire, discutere, soffrire, cioè vivere, nel miglior modo possibile. Ora mi sembra che, semplificando per modelli, quello dei nostri centri storici, abbia dalla sua i punti maggiori per soddisfare quei requisiti. Non vi è dubbio che non può essere riproposto tal quale, non foss’altro perché c’è la novità dell’automobile ma, per il resto, si crede davvero che l’uomo, dal Movimento moderno in poi, sia così antropologicamente cambiato da avere bisogno di luoghi così diversi da quelli di sempre? Internet funziona benissimo anche in via Cavour, la televisione lo stesso, passeggiare sotto i portici per mostrare gli ultimi capi griffati è molto più appagante che farlo al multisala, il Martini Point funziona ai Bastioni ancor meglio di come funzionasse in fondo a via Romana.
Piuttosto io credo che il vero nemico delle nostre città e delle nostre campagne sia, nel presente e ancor più nel futuro, il modello di casa dei sogni cui ognuno aspira e che tutti hanno in testa e cioè la casa singola, cioè l’elemento base di una città atomizzata all’ennesima potenza. E’ facile comprendere questa tendenza, che è di carattere sociale e che esprime la rivincita dell’individuo sul gruppo; difficile è contrastarla, escludendo la via autoritaria del “decido io” dell’architetto.
Il ripensamento di questo modello insediativo che anche negli USA, patria dell’individualismo, sta maturando ci può far ben sperare ma nel frattempo resterà ben poco del nostro territorio. L’unica proposta (non è un granché, mi rendo conto) è quella di un’azione costante di convincimento e di ripetizione degli stessi concetti detti da Grifoni e da Verdelli (Giulio Rupi dice che bisogna battere sempre sullo stesso chiodo) ma il punto è, e qui concludo, caro Mario: se l’alternativa che viene offerta al cittadino è quello di un’urbanistica astratta, senza altra regola che non sia la genialità dell’architetto, senza legame con il territorio e la propria storia, senza radici; se si deve scegliere tra la creatività dell’architetto e la casetta singola immersa nel verde, cosa pensi che andrà a preferire la gente?
Se si confondono le grandi opere simboliche, in genere legate ad eventi mediatici particolari (Olimpiadi, Esposizioni, Centenari ecc) con l’edilizia di base di tutti i giorni, come si può competere con il desiderio di vivere (apparentemente) in pace nella casetta immersa nel verde (privato) dei propri sogni? Ci possiamo limitare a demonizzare queste aspirazioni liquidandole come frutto dell’ignoranza?
Queste domande non sono formulate per avere una risposta ma per seguire la saggezza di un amico e sono, perciò, colpi di martello sullo stesso chiodo: chissà che alla fine non si riesca a conficcarlo!

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