Pietro Pagliardini
Il blog UN POSTO A PARTE, di Lucio Massaro, presenta una caratteristica singolare: non prevede commenti.
E’ una scelta che ha una sua coerenza: io scrivo quello che penso, se ti va, bene, se non ti va, non devo convincerti. Niente da obiettare, se non che in testa al blog scriverei grosso: “Questo blog non prevede commenti” così uno lo sa e non perde tempo a cercarli (come è successo a me).
Visto che mi cita sul Piano casa, gli lascio qui il mio commento.
Lucio Massaro mette a confronto il mio giudizio su questa proposta di legge con quello di Stefano Boeri e, pur apprezzandoli, più o meno, entrambi ne trae la conclusione che l’uno esclude l’altro e mi sembra di capire che giudichi quello di Boeri più corretto e più coerente con le intenzioni reali del Piano stesso. Non riassumerò qui in dettaglio i due giudizi perché sono sintetizzati molto bene nel suo post a cui rimando.
Credo che Massaro abbia ragione: le prime due considerazioni di Boeri, cioè il volano economico e la sburocratizzazione, in verità, non sono affatto in contrasto con quanto penso né con quanto ho scritto. Sulla seconda, in particolare, io sono molto più estremista ed entusiasta di Boeri, perché lui interpreta l’autocertificazione dal punto di vista della responsabilizzazione dell’architetto, io sono più sensibile al gesto liberatorio, più simbolico che reale, che questo diritto del 20% comporta per i cittadini.
Ma il punto di vera diversità è il terzo di Boeri, dove lui interpreta la legge in modo sicuramente più corretto del mio, ritenendola orientata più ad atti individuali tendenti ad un rinnovamento del patrimonio edilizio in direzione del risparmio energetico, cioè una vera e propria “rottamazione” delle case, del tutto analoga a quella delle auto, mentre io accentuo un’aspetto urbanistico più ampio, forse una speranza, che nella lettera della proposta non c’è.
Certamente Boeri coglie meglio lo spirito della proposta di legge che non è, come io sostenevo, quello di permettere di dare forma a quelle aree marginali alle periferie urbane che non possiedono nessuna delle caratteristiche di urbanità senza però essere campagna, completamente prive di disegno, di servizi, di un’immagine conclusa e inscrivibile in una qualsiasi forma, cioè prive di identità.
Lo spirito e la lettera della legge è decisamente di tipo economico, fatta e pensata per attivare una grande quantità di piccoli e piccolissimi interventi di ampliamento tra i milioni di possessori di case singole, che attiveranno grandi numeri di piccole e piccolissime imprese con ricadute immediate sul territorio. Ciò risulta evidente dai seguenti elementi:
1) aumento del 20% della superficie in deroga ai PRG, che è una norma appunto per le case singole, essendo improbabile l’utilizzo nei condomini;
2) autocertificazione da parte del progettista;
3) volontà (rientrata) di procedere con decreto legge.
Se oggi fosse approvato un simile decreto, prima dell’estate l’Italia delle periferie e dei paesi vedrebbe una fioritura di gru, montacarichi e ponteggi e vi sarebbero centinaia di migliaia di occupati.
Però non è affatto detto che una legge nata con uno scopo non possa anche servire ad altro.
La demolizione con premio per la costruzione di nuovi edifici, non necessariamente nello stesso luogo, è un suggerimento e una provocazione a Regioni e Comuni spesso inerti ed incartati nella redazione di piani che si sostanziano solo in formalismi e norme, senza un’idea dietro. Ma è anche una provocazione sbattuta in faccia alla cultura urbanistica italiana, ormai sfiancata in dibattiti chiusi all’ambito regionale, quando va bene, anch’essa risucchiata nel vortice normativo in cui è difficile distinguere quanto essa ne sia vittima o suggeritrice.
Una proposta nazionale è, e rimango fermamente di questo parere, un’opportunità e un’occasione da non perdere per tornare al disegno urbano, accantonando per un attimo le procedure, molto più adatte ai giuristi che agli architetti, e al progetto, immaginando una città che cresce entro i propri limiti, con ciò ridefindendoli e disegnandoli, senza occupare nuovi territori, dando sostanza alla abusata parola sostenibilità.
Questa occasione è sempre lì, a disposizione, basta saperla cogliere, senza perdersi in farisaiche grida allo scempio urbano: sarebbe come scandalizzarsi con un uomo morente che fuma l’ultima sigaretta perché il fumo uccide.
Esiste certamente la crisi delle città ma, per ironia della sorte, le difficoltà maggiori si manifestano proprio nel momento in cui c'è un apparato pubblico di architetti e urbanisti di dimensioni imponenti diffuso nelle Regioni, nelle Province, nei Comuni, negli Enti autonomi vari, nelle Università a cui si affiancano i professionisti redattori dei piani. L'informatizzazione consente la conoscenza, la conservazione e l'elaborazione dei dati territoriali. Mai si sono verificate circostanze così favorevoli alla "pianificazione" eppure, o meglio proprio per questo, le città e le campagne non migliorano affatto, anzi scadono in qualità urbanistica e architettonica. E l'unica idea rimasta sembra quella della "rottamazione" per fare case eco-compatibili: meglio di niente ma un po' pochino, sinceramente.
Il mito della pianificazione oggi realizzato appieno con il suo bell'apparato, ha inaridito ogni idea lasciando spazio solo a leggi e procedure.
A Lucio Massaro dico, per il suo ultimo post, che il 3,5% di incremento volumetrico se lo può forse permettere la Provincia Autonoma di Bolzano, che gode di generosi contributi pubblici, ben utilizzati in verità, ma non rientra nei parametri di una normale economia di mercato.
E così ho lasciato due commenti.
31 marzo 2009
UN POSTO A PARTE
26 marzo 2009
IDEE "SULLA" CITTA' COMUNISTA
Questo post, il cui titolo è una parafrasi di quello di un libro in voga nei primi anni '70, mi è stato inviato dall’amico Pier Lodovico Rupi, ingegnere e architetto con una importante storia professionale. E' un punto di vista dichiaratamente di parte e molto fazioso, libero e dissacratorio, un’interpretazione dell’urbanistica italiana dal dopoguerra tutta in chiave storico-politica ma con lo sguardo penetrante di un architetto e urbanista che è stato testimone diretto di una parte delle vicende che racconta.
Per qualcuno, ma non per me, può essere un pugno sullo stomaco che aiuta però a capire il recente passato e ci dice anche qualcosa per l’oggi.
Caro Pietro, ti mando una “marketta sul marxismo”, tema che qui dalle nostre parti, te lo assicuro, non rende proprio niente. Ma a me, cosa vuoi che importi.
Prendi lo Zen di Palermo, le Vele di Napoli, il Serpentone di Genova e via elencando e contestualizzali quanto vuoi, non sono incidenti. E allora, parliamone.
Un caro amico, democristiano non pentito come me, ma sbarcato in luoghi diversi, mi scrive che al sacco edil-urbanistico dell’Italia hanno partecipato “geometri democristiani, architetti socialisti e sindaci democristiani”. Aggiungerei altre categorie politiche, imprenditori e privati e intrallazzatori di ogni genere.
Ma perché lasciar fuori i professoroni dell’urbanistica, che hanno suonato il trombone sempre dalla stessa parte? E perché non andare a vedere laddove si distilla il pensiero, come nasce la cultura del “casermone”? Certo, la marketta che ti racconto qui di seguito è un approccio sommario, unilaterale, parziale e sicuramente anche di parte. Ma non è una analisi montata sul vuoto.
Nel primo dopoguerra, quando spirava forte il vento dell'ideologia marxista, la lobby politico-culturale degli urbanisti usciti dal fascismo si omologò rapidamente alla sinistra con il cui appoggio, e con l'insipienza dei cattolici, assunse rapidamente il potere nelle università, nelle istituzioni culturali, nell'editoria, nelle professioni, nei rapporti con lo Stato. Da allora, questa lobby ha dominato in modo totalizzante l'urbanistica nella teoria e ha avuto il monopolio nella prassi a tutti i livelli, nazionale, regionale e comunale.
Dal dopoguerra ad oggi, in poco più di cinquant'anni, le nostre città, che per formarsi avevano impiegato mille, duemila anni, hanno triplicato o quadruplicato la loro superficie, mentre i vani di abitazione sono passati da 35 milioni a 115 milioni. Ma dovunque, questa eccezionale espansione ha avuto risultati disastrosi : le nostre splendide città appaiono oggi avvolte da abnormi, informi, squallide periferie.
Prendiamo atto del fallimento dell'espansione delle città negli ultimi cinquanta anni e interroghiamoci sulle cause che l'hanno determinato.
Il fatto è che l'urbanistica dominante fu impregnata di una particolare idea di città che aveva i suoi riferimenti originari nell'Unione Sovietica e nell'ideologia collettivista. Quest'idea di città, rimbalzando dall'Unione Sovietica, variamente rimuginata da alcuni paesi europei, l'Inghilterra laburista, la Svezia socialista, i paesi dell'est, si impone anche in Italia, nel vuoto lasciato dalla caduta del fascismo.
Per chiarire meglio l'origine di questa idea di città che l'urbanistica dominante ha imposto in Italia, occorre rifarsi alla storia dell'Unione Sovietica.
Quando Stalin incaricò Andrei Alexandrovich Zhdanov di implementare in una visione alternativa globale la cultura del realismo socialista, fu posta all'indice l'impalcatura scientifica della civiltà "borghese", dalla psicanalisi alla meccanica quantistica e non si salvò nemmeno l'urbanistica. Gli architetti russi, guidati dal gruppo di Ernst May, teorizzarono la nuova città derivata dai principi del collettivismo: la città proletaria contrapposta a quella borghese. Una città composta da grossi contenitori dove assemblare, in spazi strettamente essenziali, la popolazione e dai "servizi sociali" nei quali si sarebbe dovuta svolgere tutta la vita collettiva, mentre alloggi senza identità avrebbero dovuto togliere alla casa tradizionale il ruolo di riferimento dell'individuo e della famiglia.
Nell'Unione Sovietica, questa città teorica si materializza in modelli concreti, come la città nuova di Magnitogorsk o quella di Elektrovoz, dove vengono eliminate dalle abitazioni perfino le cucine.
Contenitori a "stecche" ripetute, solo abitativi, perché il propagarsi dei negozi è considerato segno del decadentismo occidentale. Grossi interventi ossessivamente ripetitivi, senza una qualsiasi ricerca di qualità, le categorie estetiche essendo considerate pregiudizi borghesi, alloggi tutti uguali, secondo schemi modulari, con le forme irrigidite della prefabbricazione pesante, secondo il mito dell'economia di scala. La nostra cultura dominante ha potuto applicare compiutamente i principi degli architetti sovietici nei "quartieri popolari", dove ha avuto l'affidamento della gestione dell'intero processo urbanistico, fino alla realizzazione degli edifici. Cosicché nei "quartieri popolari" l'impronta collettivista emerge con assoluta chiarezza. Per richiamare un modello, lo ZEN di Palermo, esempio limite di aberrazione e degrado urbano, progettato da un campione di questa cultura, riassume tutti i principi dell'urbanistica collettivista. E per capire tale cultura, basta richiamare quell'architetto che, per promuovere la propria immagine professionale, progettò di trasformare il lingotto torinese in un enorme contenitore di alloggi.
Ma questi caratteri non sono presenti solo nei "quartieri popolari". Tipologie e forme urbane, piani urbanistici e norme di attuazione sono sempre di derivazione della stessa cultura dominante. Anche negli agglomerati di edilizia privata che negli ultimi cinquant'anni hanno avvolto le nostre città riemerge il principio urbanistico primario, la dottrina del collettivismo: grossi blocchi ad intasare ogni spazio, ripetitivi, tutti della stessa altezza, informi e senza qualità, solo abitativi.
Principi cui ha sicuramente fatto da sponda il funzionalismo del "Movimento moderno" nato nell'ambito della repubblica socialista di Weimar e anche l'immediato interesse di stuoli di costruttori improvvisati. Ma scava, scava, viene sempre alla luce quello che fu il mito originario, il programma di collettivizzazione della società.
Per perseguire queste teorie, la cultura dominante prende a modello le città dove impera l'ideologia comunista. Gli interventi edilizi dei paesi ex satelliti dell'Europa orientale vengono presi ad esempio e si intensificano le missioni di studio verso di essi.
Muovendo dai modelli di una società chiusa e ingessata, la cultura urbanistica dominante non riesce a comprendere quello che sta accadendo nelle città dell'occidente; e non riesce nemmeno a presagire, perché in contraddizione con i suoi preconcetti ideologici, le radicali trasformazioni economiche e l'evoluzione civile che avrebbero accompagnato questa grandiosa espansione urbana.
La cultura dominante, ancorata a questi riferimenti, si impantana in visioni pauperiste, in dottrine minimaliste, arriva a teorizzare lo "sviluppo zero". Mettendo su pezzi di città fatti di agglomerati di celle si immagina di costruire il nuovo modello di "città del popolo". Ma i "villaggi popolari" invece di rappresentare "la città del popolo" saranno il monumento al fallimento della cultura urbanistica dominante. E le nostre splendide città, fino ad allora coerenti ed organiche, vengono accerchiate da squallidi agglomerati, metafore rabberciate del principio collettivista.
Eppure, negli anni appena precedenti, si erano realizzati modelli urbani di ben diversa qualità. Basta richiamare città come Latina o la Montecatini degli anni 20-30, quartieri come 1"'EUR", parti di città come il centro di Bergamo, o vaste sistemazioni come quella del viale lungo¬mare della Versilia.
Per mascherare risultati così disastrosi, la cultura urbanistica dominante affiancata dalla vulgata della sinistra cerca un capro espiatorio e lo trova nella "speculazione edilizia", accusata come "la madre di tutti mali" della crescita sfigurata della città. Pur con tutte le collusioni e corruzioni e con tutti gli intrecci che hanno cadenzato l'espansione della città, non si capisce come chi guadagnava nella compravendita dei terreni, prevedendo quello che gli urbanisti non sapevano prevedere, o chi guadagnava costruendovi sopra, vincolato ai limiti dei Piani Regolatori e delle relative norme di attuazione, avrebbero potuto decidere la forma urbana, la larghezza delle strade, l'altezza degli edifici, le tipologie edilizie e ogni altra sistemazione urbanistica. Modellare e regolamentare la crescita urbana spettava agli amministratori comunali che ne avevano il potere e il dovere e alla cultura urbanistica che fu investita, in assoluta esclusiva, del compito di produrre modelli e regole, Piani Regolatori e norme attuative. Non si comprende quindi come sia possibile salvare dalla responsabilità dello sfascio del territorio italiano gli amministratori comunali (democristiani, socialisti o comunisti) e con essi la cultura urbanistica dominante, questa solamente comunista.
Politica e cultura, invece di dare risposte adeguate, si trastullavano in vaniloqui ancora una volta di matrice ideologica, sull' "esproprio generalizzato" e sulla "proprietà pubblica dei suoli".
Per decenni si è fatto credere che tutti i problemi dell'urbanistica si sarebbero brillantemente risolti e le città si sarebbero sviluppate belle e amene se solo si fosse applicato l'esproprio generalizzato.
A parte i risultati disastrosi nei paesi dell'est europeo, negli ultimi cinquant'anni, in Italia gli interventi più invasivi si sono avuti soprattutto nelle aree di proprietà pubblica. Spesso preziosi piccoli paesi appaiono sfigurati da "case popolari", o anche altri edifici pubblici che impattano volgarmente lo sky-line urbano. Per non dire dei quartieri di edilizia pubblica delle grandi città.
Per riportare un caso emblematico visto da tutti, basta richiamare l'immagine di Orte dall'Autostrada del Sole, con il profilo dell'acquedotto romano e, in oscena sovrapposizione, un grosso volume di edilizia residenziale pubblica. (1)
Come succede nella psicologia individuale, frustrata da questi insuccessi l'urbanistica dominante ha riversato sui cittadini un atteggiamento punitivo. Sono stati importati in Italia e sponsorizzati fino a farli divenire leggi, modelli normativi ispirati a principi di collettivizzazione, come il "diritto di superficie" e la "proprietà indivisa".
Visto l'insuccesso anche di questi dispositivi, che, oggi, quasi tutti sono d'accordo essere da buttare a mare, l'urbanistica dominante si è successivamente indirizzata verso una vecchia idea dell'ideologia collettivista, l'idea che con le norme si possa sistemizzare e dirigere tutto. Ed ha promosso e proliferato ai livelli regionale e comunale un immane apparato di leggi, regolamenti, direttive, procedure, in un inestricabile viluppo di commi, contro-commi, richiami eccetera, del quale possono spesso ricavarsi le più contraddittorie interpretazioni.
L'appropriazione burocratica dell'urbanistica è così divenuta la nuova frontiera dell'ideologia.
La foto del Manifesto che illustra i "vantaggi" della città-giardino sovietica è stata tratta dal blog The Measures Taken.
Nota (1) - Su Orte è rimasta famosa la denuncia di Pier Paolo Pasolini il cui video è visionabile su YouTube
23 marzo 2009
Quando il centro storico non era Centro Storico
Pietro Pagliardini
Sembra impossibile ma il centro storico prima di diventare Centro Storico era una città. Anzi era la città. In campagna, quando c’era da andare al mercato, dicevano: oggi “vado in città”; e andavano nel centro storico. Questo, almeno dalle mie parti, accadeva fino a poco prima della seconda guerra e per un certo periodo anche dopo. Io non c’ero, in effetti, però me lo hanno raccontato e ho visto le foto.
Fino ad un certo momento il centro storico era semplicemente tutta, o quasi, la città. Non era una parte separata, una zona preziosa da salvaguardare, al pari di una riserva naturale, un pezzo di città alienata, nel senso di qualcosa di diverso da una città vera e propria, qualcosa che, per essere oggetto di particolari cure e attenzioni, deve necessariamente sentirsi come un malato grave e quindi estranea alla città stessa.
E’ diversa perché più bella, è diversa perché non ci si può andare in auto e perché ha un valore immobiliare più alto che altrove, perché è molto murata e molto densa senza essere opprimente, perché è omogenea eppur varia, perché vi si concentra l’arte e la storia di molte epoche, perché ci sono i migliori negozi, perché non è costruita con indici e standard fissati per legge ma con molte regole spontanee e per mille altri motivi.
Forse è troppo diversa dal resto di gran parte dell’insediamento urbano ma, dato che nella sua condizione di solitudine è essa ad essere diversa dal resto e non piuttosto il resto da essere diversa da lei (a proposito, ma il centro storico è maschile o femminile? a me piace s-grammaticalmente considerarla, in quanto città, femminile), il centro storico vive, in fondo, una condizione di isolamento. Ironia della sorte: il centro storico si colloca geograficamente ed idealmente al centro di un insediamento urbano ma è marginale e sola.
Ma prima non era così. Prima delle salvaguardie e della messa sotto tutela, la città (il centro storico) viveva la sua vita come la vivevano tutte le città che erano tutte centri storici, nel senso che stavano in luoghi nodali o centrali (di un territorio) ed erano tutte storiche (nel senso che non erano giovani). Ci abitavano e vi producevano persone, vi si scambiavano merci, c’era il mercato settimanale, ma non l’odierno circo commerciale itinerante da una città all’altra.
Le persone che vi abitavano avevano gli stessi bisogni reali di oggi: ampliare il fondo artigiano, aumentare sopra una stanza per farne una camera e specializzare o migliorare la propria casa, Quando si manifestava questo bisogno lo si soddisfaceva ampliando dietro, sul lotto di pertinenza. Lo stesso facevano i vicini e i dirimpettai. E, a poco a poco, in base ai bisogni, il lotto si intasava, e così il lotto accanto, e alla fine l’isolato intero. Restavano, talora, solo poche parti libere e scoperte: orti, corti, chiostrine.
E la città cresceva dentro e sopra sé stessa.
Osserviamo in alto la ricostruzione della pianta nel 1600 di San Giovanni Valdarno (AR) e confrontiamola con la situazione odierna tratta da Google Earth: San Giovanni è una città di fondazione su progetto di Arnolfo di Cambio, dunque la città di un architetto ma, una volta progettata è, in modo naturale e senza scandalo, sfuggita di mano al suo autore ed è cresciuta fino a coprire praticamente ogni spazio libero all’interno degli isolati.
Eppure la città di San Giovanni Valdarno è oggi salvaguardata come un bene prezioso ed è diventata il Centro Storico di San Giovanni Valdarno, con norme rigorose che la proteggono come un patrimonio collettivo da trasmettere ai posteri.
La città cresceva e si riproduceva come cresce e si riproduce un organismo, come cresce e si riproduce una vita. L’architettura e l’urbanistica tradizionale permette la modificazione, l’aggiunta e la crescita in maniera armoniosa in quanto è basata fin dalla sua origine sulla complessità delle parti e delle relazioni, contrariamente all’urbanistica e all’architettura moderna tutta imperniata sul rigore geometrico astratto, sulla pulizia e purezza delle linee accompagnate dalla purezza ed essenzialità dei materiali, e non tollera aggiunte e crescita se non con elementi che siano di forte contrasto con essa.
Invece l’edilizia tradizionale accetta proprio una crescita ad essa omogenea e respinge la dissonanza. E’ simile ad un albero che cresce e che riproduce nei rami giovani e nelle nuove foglie le stesse forme delle parti adulte; è, insomma, una crescita di tipo frattale.
Poi è successo qualcosa che ha interrotto bruscamente questo metodo di crescita. E’ accaduto che è intervenuta la modernità, cioè il progresso, quindi un fatto positivo per tutti i vantaggi che esso ha portato alla vita delle persone.
Nella corsa alla modernità sono intervenuti fattori nuovi ed anche i numeri in gioco sono cambiati.
E’ andata perduta la memoria di come cresceva la città e si è sostituita ad essa la teoria.
Il ragionamento era che cambiando la società dovesse cambiare anche la città, e questo aveva una sua razionalità, solo che si è ritenuto di poter fare a meno della memoria di come era avvenuta la crescita fino ad allora e di potere e dovere ricominciare tutto daccapo. Tutto avrebbe dovuto essere diverso, senza un ragionevole perché, solo in nome della modernità.
I fondamenti della scienza, che hanno permesso quel grande progresso, non sono stati accantonati, altrimenti non ci sarebbe stato nessun progresso ma i fondamenti di crescita della città, incredibilmente, consapevolmente e colpevolmente sì.
Si è ricominciato dall’inizio, si è inventata, tenendo conto solo dei nuovi elementi intervenuti ( la mobilità nelle sue varie forme, la grande industria, l’energia elettrica diffusa, ecc), una nuova teoria, immaginando e imponendo che anche l’uomo dovesse cambiare in base a quella teoria. Non ci si è limitati, cioè, a modificare e trasformare la città per accogliere e far funzionare al meglio quelle dirompenti novità ed integrarle nella crescita della città, si è voluto trascinarvi, reinventandolo, anche l’uomo, attribuendogli dall’alto bisogni diversi da quelli di prima.
Sull’onda delle varie teorie filosofiche e politiche dell’ottocento si è voluto creare “l’uomo nuovo”, parcellizzato nelle varie funzioni che qualcuno ha deciso di imporgli: lavorare, abitare, riposarsi.
E il ritmo della fabbrica è diventato il ritmo della città. La casa è diventata la macchina per abitare. La città è stata divisa in reparti come nel processo produttivo. La divisione del lavoro è diventata la divisione della città: c’è stata cioè coerenza ma una coerenza non giustificata e soprattutto sbagliata.
E’ possibile oggi ricostruire la memoria a livello generalizzato (che a livello specialistico e di nicchia ve ne sono di coloro che ne conoscono i “segreti”) e ricostituire un tessuto strappato per trasformare le nostre periferie in una espansione del centro storico in continuità con esso e cercare di fare del centro storico la città e viceversa?
Io credo che questa debba essere l’aspirazione, il principio guida, la stella polare nella redazione di piani e norme in modo che si possa dire: quel piano e quelle norme sono coerenti con quei principi? Se sì può darsi sia un buon piano, se no è quasi certo non lo sia.
Ad esempio: il Piano casa in discussione in questi giorni è un buon piano? Potenzialmente sì, perché i principi sono semplici ma coerenti con la crescita naturale della città dentro e sopra sé stessa.
N.B. La foto in testa è tratta dal sito: Arnolfo di Cambio, che accoglie le Celebrazioni nel VII centenario della sua morte.
19 marzo 2009
LETTERA A "IL FOGLIO"
Il post che segue è una lettera pubblicata su Il Foglio del 19 marzo 2009, scritta da Carlo Maria Acerbi che mi ha gentilmente autorizzato alla pubblicazione. Mi è sembrata particolarmente pregevole per capacità di sintesi e per rigore argomentativo.
di Carlo Maria Acerbi
Il politico inglese Ebenezer Howard, alla fine del XIX secolo, in un pamphlet illustrato, "Garden city of Tomorrow", sogna e pubblicizza una città perfetta, una città nuova, una città verde, una città non densa.
E' un utopista urbano come ce ne furono tanti all'epoca, ma le sue teorie purtroppo fecero breccia nel cuore dei grandi architetti modernisti.
La teoria di Howard si basa sull'analisi della qualità del vivere nella città e nella campagna, unendo gli aspetti positivi dei due mondi opposti si ricava la città-campagna. Un programma che, da visione poetica e romanzesca, viene studiato e proposto come modello politico e amministrativo di controllo del territorio multicentrico, economicamente efficiente. A chi non piacerebbe vivere in campagna con i servizi e le opportunità della città, si chiede il politico. Già, a chi non piacerebbe?
A vedere gli effetti di questa teoria ci sarebbe da mettersi a piangere, non c'è città europea non toccata da questo sogno. Il fenomeno della città giardino ha portato a edificare in larghezza, ed espandere città all'infinito, a non progettare più spazi veramente pubblici. Un piccolo giardino per tutti, villette, condomini, palazzoni costruiti al centro di giardinetti, inquietanti, rifugio di drogati, stupratori, cani incontinenti.
Dove sta la fine della città? Dove inizia la campagna? Non si può definire, c'è sempre qualche edificio residenziale tra un comune e l'altro. Ecco cos'è la città-giardino, il sogno del verde che da solo dà qualità alla città, ed è finito che la campagna e il verde si stanno estinguendo.
Progettisti illuminati, pensano ancora a questo mondo incantato, la verità è che il sogno della città verde è un incubo.
L'idea di aumentare la densità della città a Milano è tanto criticata, sembra ancora un tabù parlare di densità, di concentrare. Ma guardiamo agli esempi di città veramente dense, alla loro efficienza, alla loro bellezza. Ritorniamo a parlare di città come paesaggio veramente antropomorfo, come è sempre stato. Sembrerebbe impossibile a sentire le polemiche di chi lancia allarmi di cementificazione che la città più visitata al mondo sia proprio New York, è una bella città.
Per non parlare di Venezia, città piuttosto costruita, una laguna cementificata, ma chissà, forse se fosse rimasta una palude com'era una volta oggi avrebbe lo stesso tanti turisti.
Di cosa si sta parlando veramente, cosa sognano gli anti-cementificatori, forse un attico a Gratosoglio? O a Rozzano? Scommetto che questi progettisti vivono tutti in centro città dove la densità è più alta.
Perché non si coglie l'occasione, dopo cinquant'anni di scempi urbani, per parlare veramente di città, di infrastrutture, di densità! Ridisegnamo la città, ripensiamo ai suoi limiti, decidiamoli, e costruiamoci dentro, e costruiamoci tanto. Così si è sempre fatto, così si sono costruite le città antiche, le città medioevali, le città belle.
Solo così si può veramente salvare il verde, solo così si può parlare di campagna, di città, di paesaggio.
E non c'è occasione migliore per abbattere pure qualche mostro.
16 marzo 2009
LA PERDITA DEL LIMITE
Pietro Pagliardini
Una caratteristica comune a molta architettura ed edilizia contemporanea è quella di essere esagerata, scomposta, priva di senso della misura e del limite.
Certa architettura non solo è enfatica ma fa di questa caratteristica un vanto, un tratto distintivo giudicato fortemente positivo.
Tendenze apparentemente analoghe a queste non sono certamente nuove nella storia dell’arte e in quella dell’architettura e, generalmente, seguono fasi di regole più composte, di classicità, quasi fossero reazioni e risposte a canoni sofferti come troppo stretti e oppressivi.
La cultura ellenistica ne è l’esempio più noto e basta confrontare l’esasperazione del movimento nel gruppo del Laocoonte rispetto alla compostezza dell’Hermes di Prassitele per comprendere la differenza di sensibilità dei due diversi momenti storici e culturali.
Ma anche in architettura questo processo non è nuovo, basta considerare il Barocco, con la dinamica delle sue facciate che si incurvano lungo la strada e degli interni plastici che creano una tensione continua che si estende fino alle cupole, e metterla a confronto con la misura e il controllo geometrico della prospettiva nel Rinascimento, per afferrarne la evidente differenza che sa addirittura di rivolta e di messa in discussione di vincoli ritenuti soffocanti, se riferiti agli autori, e statici, se riferiti all’oggetto architettonico.
Dunque, verrebbe da dire, nihil sub sole novi; e quindi, in una logica storicistica di corsi e ricorsi non ci sarebbe scandalo e tutto si riassorbirebbe e rientrerebbe in una visione più ampia che farebbe accettare l’attuale fase come una normale evoluzione del processo di crescita e sviluppo della creatività umana e ci porterebbe a concludere che è sufficiente aspettare e anche questa passerà. Se così fosse le scomposte e debordanti, quanto ripetitive fino alla noia, architetture di Zaha Hadid, per prendere l’esempio attualmente più eclatante e vistoso, alla fine dovrebbero lasciare spazio a qualcosa d’altro di più controllato, di più rispettoso del contesto e tutto rientrerà nei ranghi normali e seguirà una fase più misurata.
Può darsi che in ciò ci sia del vero (e chi può saperlo?) ma, a parte il fatto che la fatalistica rassegnazione ad eventi ritenuti negativi non appartiene alla cultura occidentale, il fenomeno è oggi del tutto differente ed anche singolare per i seguenti motivi:
1) nello sviluppo temporale di questo processo e nella diversa dimensione del fenomeno stesso;
2) ma soprattutto nella profondità dell’humus in cui questo fenomeno affonda le proprie radici.
1) Cercando un periodo precedente di ordine e di regole cui questo si contrapporrebbe, faccio fatica a non risalire almeno all’800, diciamo verso la seconda metà, all’epoca della seconda industrializzazione e delle prime Esposizioni Universali. La reazione vera e propria scoppia poi con l’avanguardia e tutti i vari movimenti e ismi. Quindi un periodo di poco meno di un secolo e mezzo.
Osservo intanto che per essere, la nostra, la decantata epoca della velocità e dei cambiamenti ce n’è voluto di tempo per giungere a maturazione, esattamente quanto e forse più che nel passato. Ma con una grande differenza: se, per assurdo, con una macchina del tempo un signore del 1887, nemmeno uno qualsiasi ma Gustave Eiffel, potesse essere catapultato nella attuale Pechino, sarebbe colto da panico, tanto poco vi troverebbe in comune con le città e l’architettura a lui conosciuta.
Viceversa, se Filippo Brunelleschi, con lo stesso sistema, si ritrovasse improvvisamente nella Roma del seicento sarebbe certamente meravigliato e disorientato dal diverso e dinamico nuovo impianto urbanistico ma girando per la città e osservando le varie architetture forse non ne potrebbe afferrare l’essenza, forse si indignerebbe anche, ma vedrebbe elementi architettonici e costruttivi a lui conosciuti; potrebbe farne una analisi, comprenderebbe sia la statica che le varie parti di cui si compone un edificio, potrebbe mettere a confronto la sua cupola con quella di Sant’Ivo alla Sapienza, diverse come concezione spaziale e strutturale ma pur sempre riconoscibili come cupole.
Soprattutto riconoscerebbe la maggior parte dell’edilizia di base, il corpo della città, cosa che non sarebbe possibile a Gustave Eiffel, perché l’architettura e l’edilizia contemporanea, avendo perso il senso del limite, non attribuiscono alcun valore all’omogeneità dell’insieme, pur nella diversità dei singoli gesti, avendo affidato il progetto esclusivamente nelle mani e nella mente del progettista il quale si pone nella condizione mentale di svolgerlo libero da ogni vincolo geografico, storico, di legame con il contesto, libero, talora, di ignorare e prevaricare i desideri e le volontà stessa del committente: come paragonare una strada della Parigi dell'800 con una qualsiasi strada costruita 10 anni fa? Cosa avrebbero in comune i fronti edilizi, ammeso che nella seconda vi fossero fronti edilizi?
Tale atteggiamento non si riscontra solo nelle opere delle archistar ma, entrato nel bagaglio culturale degli architetti fin dall’università, produce i suoi effetti nella gran parte dei progettisti e, di conseguenza, nell’edilizia corrente.
Paradossalmente sembra che gli unici limiti accettati o subiti siano quelli imposti dalle norme di legge le quali, per eterogenesi dei fini, nella maggioranza dei casi riuscirebbero da sole a produrre oggetti estranei a quei luoghi per i quali invece esse sono appositamente scritte.
La somma di queste due spinte, quella volontaria dell’architetto e quella indifferente dell’ente pubblico, riesce a produrre un campionario di edifici l’uno diverso dall’altro, senza un filo conduttore che li leghi tra sè e tra loro e il territorio.
2) Ma la vera e profonda differenza che caratterizza questa fase da altre apparentemente analoghe è il predominio incontrastato della tecnologia, cioè la scienza applicata alla tecnica, quella che il filosofo Emanuele Severino chiama la tecno-scienza di cui egli giudica ineluttabile l’affermazione se unita al risultato essenziale della filosofia contemporanea cioè “la coscienza inevitabile dell’assenza di ogni limite e di ogni verità assoluta”.
Dice E. Severino in Tecnica e Architettura, R.Cortina Editore, 2003:
“La tecnica è un apparato a cui appartengono i tecnici, cioè individui umani che hanno certe convinzioni, per esempio convinzioni religiose, cioè credono che esista il limite stabilito dalle leggi della verità e di Dio. Le “leggi di natura”, la “morale naturale”, il “diritto naturale” appartengono a quelle leggi. [Omissis] E anche per l’arte tradizionale esiste una legge naturale eterna del bello, che l’artista non deve violare.
Ma poi compare , nella storia dell’Occidente, il pensiero filosofico del nostro tempo, cioè la negazione più perentoria di ogni verità assoluta e di ogni Dio immutabile: la negazione dell’esistenza di ogni limite che alla tecnica sia impossibile oltrepassare in linea di principio. Il pensiero filosofico del nostro tempo mostra alla tecnica l’infinità della potenza di cui essa può disporre.[Omissis] Una tecnica legata al passato è più debole della tecnica che del passato si è invece liberata; ed è invece inevitabile che la forma più potente prevalga sulla forma meno potente della tecnica”.
Appare con ciò evidente la assoluta peculiarità e novità di questo fenomeno che non trova riscontro nella storia: è il paradigma filosofico su cui si è basato l’Occidente ad essere completamente messo in discussione.
Paragonare, come spesso accade, la rottura delle regole dell’architettura contemporanea rispetto a quella precedente alle evoluzioni avvenute in passato nell’architettura e nell’arte significa non comprendere che in gioco c’è la perdita definitiva del senso del limite, delle “leggi di natura”, della “morale naturale”, del “diritto naturale” a vantaggio di un “diritto positivo” che, in quanto prodotto storico che promana dalla volontà del legislatore, viene, di volta in volta, adeguato alla e dalla società e spostato sempre più avanti non in base a quei principi citati da Severino e che hanno guidato la società occidentale, ma basato sostanzialmente sulle dinamiche sociali determinate dall’evoluzione dei costumi, dalla politica e in gran parte dalla macchina della formazione del consenso, oggi prevalentemente in mano ai mezzi di comunicazione.
Se dunque il ragionamento di E.Severino è rigoroso e logico, ed è difficile ammettere che non lo sia, la posta in gioco è tutt’altro che stilistica o formale bensì filosofica e di visione globale del mondo e quando egli scrive: “ La filosofia contemporanea ha ferito a morte la grande tradizione dell’Occidente, che però è ancora viva e lotta per sopravvivere il più possibile, tanto da far credere a volte nella sua capacità di respingere l’attacco della modernità e di uscire vincente dallo scontro” personalmente mi auguro e spero che si avveri la seconda parte della sua ipotesi.
11 marzo 2009
DALLA PARTE DELLA CITTA’ E DEI CITTADINI
Pietro Pagliardini
Esco dall’autostrada e seguo le indicazioni per il centro-città. In un intrigo di rotatorie mi infilo in una strada che sembra essere quella giusta. Ai lati vedo qualche azienda agricola semi-abbandonata, case di abitazioni non rifinite esternamente, qualche capannone con il fronte lungo strada vetrato che mostra mobili e lampadari. Passando velocemente si riesce a percepire che dietro il fronte pieno di insegne e cartelli, a suo modo sfavillante, si nasconde un edificio vecchio e fatiscente, il più delle volte privo di parcheggi.
Continuo e incontro gruppi di case che mostrano qualche pretesa architettonica ma tra un gruppo e un altro ci sono campi abbandonati o mal coltivati. Attraverso un piccolo aggregato dall'edilizia modesta ma più strutturato: una chiesa con uno slargo sulla strada a mò di sacrato, un bar-edicola-tabacchi, qualche casa raccolta intorno.
Altri campi, un campo con auto usate, altri campi ancora, un distributore di benzina, un deposito di camion con accanto materiali edili, qualche edificio in linea, parallelepipedi senza tetto dall’intonaco degradato, forse di edilizia pubblica, un albergo-ristorante con il pranzo a prezzo fisso.
Altri campi. Una zona industriale più recente, capannoni prefabbricati in cemento, pannelli orizzontali e finestre a nastro; nonostante tutto c’è più ordine.
Un ipermercato, non faccio il nome per non fare pubblicità, con una enorme insegna pubblicitaria sul fronte; subito dopo colpisce l’enorme spazio del parcheggio. Proseguendo intravedo, oltre un cancello, un lungo viale alberato in fondo al quale c’è una bella villa antica dalle finestre sbarrate.
La strada è costellata di insegne pubblicitarie e di segnaletica, senza la quale difficilmente se ne verrebbe a capo. E’ infatti impossibile riuscire a leggere segni che facciano presumere, intuire l’approssimarsi del centro. Arriverà la città o sarà tutta in questo modo?
Poi la strada si fa alberata, compaiono fasce di verde laterali che hanno il sapore di progettato e intorno edifici alti tutti disposti a pettine, ordinati ma sgradevoli. Questo è sicuramente un PEEP. Sul lato opposto un altro quartiere residenziale con villette singole e case a schiera. Non si riesce, scorrendo velocemente in auto, a decifrarne l’ordine, ammesso che ci sia.
La strada che percorro non ha connessioni con l’abitato. E’ una linea di confine che divide due mondi vicini ma separati. Ogni casa ha il suo giardino davanti e dietro. In molte di esse si è persa la percezione del rigoroso disegno originario sotto l’aggiunta di tende, gazebo, logge chiuse con vetrate, tetti dove c’erano coperture piane, aggiunte di garage in legno o lamiera. La vita ha, insomma, ripreso il sopravvento.
Qua è là si vedono resti di vecchi edifici abbandonati: un’abitazione cadente, un magazzino con tetto in eternit.
Finalmente entro in città e si comincia ad intuire, dalle dimensioni delle strade, dai negozi e dall’importanza degli edifici che vi affacciano, l’approssimarsi del centro, ma la segnaletica comanda ancora, a causa degli assurdi giri cui costringono i sensi unici che fanno perdere l’orientamento.
Non sono un buon narratore ma ho solo inteso dare un’impressione della varietà di situazioni che esistono nella fascia di transizione tra la campagna e la città.
Ho detto fascia ma il termine non è corretto perché fascia potrebbe far pensare ad una forma geometrica, a qualcosa di ordinato, regolare, definito ma non è quasi mai così, è piuttosto una vasta area a nastro sfilacciato lungo le strade, con ampie propaggini laterali, molte delle quali si saldano con frazioni a aggregati pre-esistenti, inglobandoli e rendendoli indistinti.
Questa zona è non-città e non-campagna, un po’ zona commerciale, un po’ produttiva, magari dismessa, un po’ residenza, ogni parte disconnessa dall'altra. Non vi è alcuna possibilità di pedonabilità e l’unica mobilità possibile è quella dell’automobile, al massimo qualche mezzo pubblico. Molte sono aree predestinate a futura edificazione ma che, con quelle pre-esistenze, difficilmente potrebbero essere integrate in un coerente disegno urbano.
Ebbene, queste aree peri-urbane, sono il territorio su cui potrebbe operare il nuovo disegno di legge del governo, su cui, incredibilmente, alcuni architetti di fama (alcuni……tre) forse per cercarne altra, hanno gridato allo scandalo, firmando un malinconico appello al “sussulto civile delle coscienze”, manco fosse l’8 settembre.
Molti però, evidentemente più accorti, attendono e qualcuno invece, come Stefano Boeri, non ha aderito all’appello e ha spiegato il perché sulla Stampa, dichairandosi in parte favorevole alla legge, pur avanzando alcune perplessità.
Io credo che la proposta abbia potenzialità grandi e sia la scelta giusta al momento giusto.
Prima di tutto va detto, paradossalmente, che, nel merito, non c’è nessuna novità sconvolgente: vi sono già casi di ampliamenti una tantum e vi sono casi, ad esempio nella mia città, in cui si daranno premi volumetrici a chi abbatterà edifici impropri per ricostruirli ex-novo e altrettanto leggo si sta facendo a Milano.
Quindi dove sta lo scandalo?
Lo scandalo c’è, eccome se c’è, e risiede nel fatto che questi premi, così come si presentano al momento, non sono “contrattati” dai cittadini né “mediati” da politici, architetti e tecnici comunali, ma diventano un “diritto” di quella sterminata massa di cittadini proprietari di una casa i quali, ogni volta che hanno il bisogno, o il desiderio, di ampliare per sé o per propri figli devono “sperare” che qualcuno si prenda a cuore il problema, devono fare domande, andare ad assemblee pubbliche, chiedere, pietire, protestare, rivolgersi al politico o all’amico, all’architetto o al geometra influente in comune, insomma devono comportarsi come sudditi verso il sovrano ed in più sopportare anche il moralismo di sentirsi dire che costruire è male, che occorre verificare le compatibilità, ecc. ecc. E quelli vogliono solo un paio di stanze.
Alla fine forse ce la faranno ma solo dopo anni, quando i figli se saranno andati in una nuova casa e loro saranno rimasti in due in una casa diventata troppo grande; e dopo avere allontanato del tutto il cittadino dalle istituzioni, viste giustamente come un nemico da fregare alla prima occasione con un bell’abuso edilizio.
Oggi questo potrebbe, dico potrebbe, finire e da qui nasce lo sconcerto di alcuni.
Ma l’altro merito, più propriamente culturale, sta nell’aver portato all’attenzione degli architetti, degli urbanisti e del mondo della cultura in genere un problema (offrendo uno strumento per l’inizio della soluzione) come quello del rinnovamento urbano di aree degradate come quelle da me malamente descritte all’inizio ed anche di altre, ovviamente.
Poter ridefinire i limiti della città, poter ridare un’immagine compatta e leggibile alla città nel suo complesso, riuscire a distinguere tra città e campagna potrebbe essere possibile con il metodo della demolizione e della ricostruzione con un disegno urbano appena decente e, aggiungo io, orientato all’urbanistica della strada e dell’isolato, della connessione e delle reti.
Potrebbe esser possibile dare inizio ad una vera politica ambientale non andando ad occupare nuovo territorio agricolo o comunque libero da costruzioni, fermare l’espansione delle aree urbanizzate mediante la “densificazione” della città, cioè far crescere la città entro se stessa.
E’ vero, se ne parlava nei vari comuni e nelle regioni anche prima dell’attuale proposta di legge, ma vogliamo mettere la forza di un messaggio nazionale rispetto alle cerchie ristrette e spesso incomunicabili delle nostre migliaia di comuni?
Questa proposta ha dato la possibilità, dopo anni di silenzio, di riportare al centro del dibattito politico l’urbanistica ed è una proposta che sta dalla parte della città e dei cittadini.
Spetta ora agli architetti saper cogliere la sfida e trovare l’energia per riuscire a cogliere il buono che c’è.
Se non lo faranno, se , a parte gli eccessi delle solite prefiche, si limiteranno a guardare con una certa aria di sufficienza, allora tutto rimarrà come adesso.
Se faranno sentire la loro voce con proposte che sappiano individuare strategie democratiche e non trucchi per riprendersi il potere, anche le Regioni contrarie, e si sa quali siano, dovranno ascoltare.
Altrimenti è possibile che tutto si risolva con qualche intervento di tipo esclusivamente speculativo.
Ma dopo non vorrei sentire il solito lamento sulla cementificazione, sul potere del mattone, sulla cattiva politica.
Questa proposta ha dato agli architetti e agli urbanisti una responsabilità: speriamo di esserne all’altezza.
NOTE:
La proposta di legge non avrà un effetto operativo immediato, anche nel momento in cui verrà approvata, essendo una legge cornice, un indirizzo, una possibilità di cui le Regioni, che hanno competenza in materia urbanistica, potranno approffittare in tutto, in parte o, addirittura, non farne uso.
Le immagini tratte da Virtual Earth di Microsoftsono solo illustrative di aree peri-urbane e non direttamente correlate allo scritto.
8 marzo 2009
LA CITTA' DELLE REGOLE
Pietro Pagliardini
Si può dedicare un post a qualcuno? Perché no? Questo post è dedicato a Salvatore d’Agostino, l’autore di Wilfing Architettura, con il quale sono praticamente in disaccordo su quasi tutto ma che con una sua risposta ad un mio commento ha messo in luce una posizione ambigua, poco chiara, credo un equivoco, che esiste in alcuni miei post precedenti.
Salvatore pensa che un’urbanistica governata con le regole su cui spesso ho scritto sia una limitazione della libertà, dell’iniziativa, della scoperta personale, riferita non ai progettisti, della quale non mi sarei minimamente preoccupato, ma dei cittadini. Riflettendoci sopra un attimo mi sono reso conto del fatto che se lui l’ha pensato è a causa di un mio errore o di una mia mancanza di chiarezza. L’equivoco va chiarito.
Probabilmente nasce dal fatto che, nel mio bisogno di semplificazione, assimilo spesso l’urbanistica delle regole all’urbanistica tradizionale tout court, intendendo con questa l’urbanistica delle città storiche europee. Non che ciò non sia vero, in gran parte, ma l’insistenza su questo punto può far credere che io pensi che si tratti di una questione esclusivamente stilistica o estetica e che la città contemporanea debba essere la replica sic et simpliciter dei nostri borghi medievali, con ciò trascurando il fatto che la società è cambiata, che tutto è cambiato; ma, soprattutto, credo che l’equivoco verta sul significato di regole.
Regola è una parola che fa paura ad ogni architetto e in genere a chiunque si occupi di edilizia. Ce ne sono talmente tante in giro, per fare un grande complesso immobiliare come un modesto ampliamento ad una casetta unifamiliare, che nessuno ne può veramente più. Tra Europa, Stato, Regione, Provincia, Comune ed Enti vari nessuno può mai avere la certezza assoluta di poter serenamente affermare: sono in regola. Diciamo che fare un progetto è come puntare alla roulette. Summa lex summa iniuria.
Le regole di cui parlo non sono quelle. Quelle dovrebbero essere falcidiate drasticamente. Quelle sono sì un limite grande alla libertà e alla giustizia, degli architetti, dei cittadini e delle imprese.
Le regole di cui parlo sono quelle che stanno alla base della nascita e dell’evoluzione della città storica ma che, interpretate alla luce della realtà e delle esigenze contemporanee, conservano intatte la loro validità, vitalità ed essenza. Il difetto, l’equivoco, sembra anche essere ingenerato da quell’aggettivo "storico" che a molti fa appunto temere trattarsi di un pensiero reazionario, nostalgico, fuori dal tempo.
Premesso che a me non fa affatto paura questo aggettivo, ché è anzi ovvio che non poter esservi forma di progresso senza le conoscenze accumulate nel passato, il fatto è che quelle regole che vigevano nelle città antiche, lette e studiate dalla scuola muratoriana, sono le stesse che hanno trovato conferma per via matematica in Nikos Salìngaros, seguendo una strada autonoma, e che mostrano straordinarie analogie con la teoria delle reti.
La città è connessione, è permeabilità, è opportunità di scelta tra alternative diverse, è libertà che si sviluppa in una struttura gerarchizzata che svolge la funzione allo stesso tempo di dare diversi gradi di ordine al sistema e di permettere la riconoscibilità dei diversi luoghi. La città non deve fare sentire estranei i cittadini ma deve farli sentire in ogni luogo come a casa propria, il cui spazio di norma non presenta segreti.
Nella città questo sentimento di sicurezza è ancora più importante che entro le mura di casa, perché fuori ci sono gli altri, la maggior parte dei quali sono estranei, sconosciuti; perdersi tra gli estranei può essere una sensazione piacevole ogni tanto nella vita, in determinate situazioni e condizioni d’animo, ma non può essere una condizione permanente.
Leggo spesso molti post e commenti in cui si attribuisce una grandissima importanza agli aspetti emozionali della sorpresa e della scoperta nei confronti dell’ignoto come se queste fossero necessità generalizzate e su queste si dovesse misurare il valore dello spazio urbano.
Premesso che progettare una simile città è impossibile perché il progetto è una previsione di ciò che accadrà e prevedere l’ignoto, prevedere la sorpresa in relazione agli stati d’animo di ciascuno non è per definizione possibile, perché ognuno ha aspettative di scoperte diverse, per cui un progetto del genere altro non potrebbe essere che dettato dal caso e dall’incertezza, come in effetti avviene, ma è anche vero che io credo che queste considerazioni, che hanno il pregio di aprire nuovi scenari e opportunità, siano limitate ad un ristretto numero di individui, tra i quali ci sono sicuramente gli architetti, e a determinate città e situazioni urbane. La domanda è: per chi deve lavorare l’urbanista, per interessi limitati, vorrei dire settoriali ma è brutto, o per quelli generali?
Lo stesso Bauman, che parla appunto di società liquida, mi sembra che prenda atto di una condizione reale della società, ovviamente non dovuta all’architettura e all’urbanistica, ma che non ne decanti affatto gli aspetti positivi. L’architettura e l’urbanistica, invece, sembrano volere e per molti dovere assecondarne il flusso, con ciò incrementando il fenomeno e facendogli da cassa di risonanza.
Certamente qui siamo in presenza di due visioni opposte della società che si scontrano tra loro: una più relativista che tende a non scegliere giudicando ogni esperienza valida in sé stessa, per il fatto stesso che essa accade, e ad adattarsi a ciò che accade; l’altra invece che attribuisce importanza ad una scala di valori, che fissa delle priorità e ritiene che l’uomo possieda le risorse intellettuali e la volontà per ottenere il risultato sperato.
Voler fare prevalere la prima visione sulla seconda è una palese contraddizione perché vorrebbe dire in realtà appartenere alla seconda classe. Il che a mio avviso, e non solo mio, dimostra che è una visione errata perché ingannevole e incoerente.
Ma nonostante questo io credo che la città contemporanea sia in grado di consentire la convivenza delle due opposte concezioni. Infatti, per quanto una città, o meglio una parte di città, possa essere studiata in base alle regole studiate da Caniggia e Maffei in Lettura dell’edilizia di base e in Il Progetto nell’edilizia di base, il processo di pianificazione non è e non può essere lineare e nel passaggio dal progetto alla sua attuazione tante sono le interferenze della società (e mi riferisco a quelle legittime), almeno quante sono i soggetti in gioco e in questo processo c’è spazio per elementi di incertezza, per “errori”, deviazioni dall’idea iniziale.
Il progetto, tanto più quello urbano, è in ogni modo un processo dinamico impossibile da governare nella sua totalità e complessità.
La città ideale non esiste nella realtà, per fortuna, al massimo esiste la migliore tra quelle possibili. Una struttura urbana forte costruite con regole non teme eccezioni, una città di sole eccezioni semplicemente non è una città, non è l’ambiente dell’uomo.
Post collegati:
Le regole esistono: leggetevi questo libro
Città-organismo o città-macchina
1 marzo 2009
RICONOSCIBILITA' E IDENTITA'
Pietro Pagliardini
Mi sono riproposto, per molte e ovvie ragioni, di non entrare nel merito degli accadimenti urbanistici della mia città, Arezzo, e intendo mantenere fede a questo mio impegno.
Il presente post, pur scaturendo da un intervento tenuto ad un incontro pubblico tenuto ad Arezzo e su temi locali, ha, secondo me, una valenza generale e il prendere la mia città come esempio è solo un modo per dare corpo ad un ragionamento che altrimenti potrebbe apparire astratto. Per questo lo pubblico inserendo poche aggiunte scritte e immagini dei luoghi di cui parlo ma togliendo, per quanto possibile, ogni riferimento all’attualità dei problemi locali.
Nel corso del convegno è stata indicata nella riconoscibilità una delle caratteristiche salienti per raggiungere l’obbiettivo della qualità urbana. Io vorrei approfondire il significato di questo termine che presenta elementi di vaghezza, fino a diventare ambiguo, se non ne definiamo i contenuti, e lo farò con alcuni esempi.
Ipotizziamo di ritrovarsi all’improvviso in una strada o piazza, poniamo di Castiglion Fiorentino. Chiunque, anche senza conoscere il luogo, anche senza vedere il paesaggio circostante, vi riconoscerebbe i caratteri di un borgo della Toscana. Stessa cosa avverrebbe nello stesso fantastico trovarsi, in una batter d’occhio, in un paese siciliano o in una città del nord Europa. Si può certo affermare che questi sono luoghi riconoscibili, anche dai non architetti. E anche senza essere architetti, chiunque può accorgersi che l’edilizia ha risentito dei diversi climi, della diversa latitudine, della diversa cultura di quei luoghi.
Ma la riconoscibilità può essere attribuita anche ad altri casi: se io mi trovassi, diciamo, al villaggio Belvedere (quartiere aretino anni ‘60) io, come qualunque cittadino di Arezzo, lo riconoscerei senz’altro, non avrei paura di perdermi. Dirò di più: un abitante del Belvedere che tornasse a casa dopo un lungo viaggio, potrebbe anche provare la piacevole sensazione di “ritrovarsi a casa”, di riconoscervi un luogo familiare, quindi ne ricaverebbe senz’altro una sensazione positiva. Ma un turista che si trovasse all’improvviso nello stesso villaggio Belvedere saprebbe dire: siamo ad Arezzo, in Toscana, siamo in Italia? Difficile, solo le targhe delle auto gli svelerebbero il segreto.
Dunque abbiamo due tipi di riconoscibilità riferite all’ambiente urbano dei due esempi: nel primo caso l’ambiente si riconosce perché ha caratteristiche dell’architettura, del tessuto urbano e spaziali che appartengono a quel luogo geografico e solo a quello, tale che tutti lo possono riconoscere, nel secondo caso, invece, a parte il paesaggio circostante, quel contesto urbano, cioè il Belvedere, potrebbe appartenere ad una città qualsiasi, del centro, del nord, del sud, ed anche alla periferia di molti stati europei, e solo chi già lo conosce lo può ri-conoscere.
Parlare di riconoscibilità è perciò parlare troppo vago perché, magari contro le intenzioni di chi la auspica, vuol dire che un luogo è certamente riconoscibile solo da chi lo conosce già, e a tutti gli altri che non lo conoscono non è possibile riconoscerlo: chi non lo conosce si sente estraneo. Quindi la riconoscibilità ha, al fondo, un significato escludente.
Riconoscibilità è un attributo necessario ma non sufficiente per la qualità di un insediamento umano. Va perciò completato con un altro attributo che lo completa e lo comprende: l’identità.
Cosa significa identità riferita ad una città, ad un quartiere, ad una strada, ad una piazza?
Significa che quella città, quel quartiere, quella strada, quella piazza appartengono a quel luogo con la sua geografia, la sua storia, la sua cultura, le sue tradizioni costruttive e solo a quello, non ad un altro luogo qualsiasi. Se un insediamento ha una identità vuol dire che gli abitanti non solo lo riconoscono come proprio ma appartengono ad esso ed esso appartiene a loro.
Identità significa, riprendendo l’esempio di prima, che un turista, uno straniero ha la possibilità di riconoscere che ci troviamo in Toscana anche risvegliandosi al villaggio Belvedere.
Tutto è ormai omogeneizzato, i negozi, la moda, la comunicazione visiva e scritta; la griffe imperversa e la noia è mortale: per quale motivo dovremmo omogeneizzare anche città diverse tra loro? L’omogeneità è certamente un valore ma all’interno dello stesso luogo, non tra luoghi diversi.
Nel corso del convegno l’ambiente è entrato con prepotenza nel dibattito e anche in maniera molto condizionante . Mi domando allora perché la bio-diversità debba essere ritenuta un valore solo se riferita alla natura e alle specie animali e vegetali e non ci si accorga di come l’uomo, che è parte integrante della natura, alla varietà e alla diversità dell’ambiente naturale in cui vive abbia sempre fatto corrispondere la varietà del suo ambiente artificiale, cioè la città.
Esiste insomma una bio-diversità naturale, cioè l’adattamento dell’insediamento umano alle condizioni geografiche del luogo, e una diversità culturale, cioè la trasmissione dei caratteri specifici della cultura di un luogo, che appartiene solo all’uomo e che fa sì che ogni area sia diversa, poco o tanto, dall’altra e che costituisce proprio la ricchezza della cultura insediativa umana.
Perché, ad esempio, il gotico, che viene ritenuto uno stile “globalizzante”, a fronte di elementi costruttivi comuni presenta architetture tanto diverse in una carrellata dal nord Europa fino a noi e persino all’interno della nostra area geografica?
Si confronti il Duomo di Arezzo con quello di Milano e si osservi che è molto più facile rilevarne la differenza che non la somiglianza sia internamente che esternamente.
La biodiversità è un processo evolutivo che ha determinato la nascita di specie diverse, ma esiste anche un processo evolutivo delle città e degli insediamenti umani che gli uomini hanno costruito e cui si sono adattati. Biodiversity in inglese significa varietà della vita e la vita dell’uomo si svolge in città.
Perché stravolgere questo processo in forma violenta e senza un motivo che non sia quello di aderire per forza ad una malintesa modernità? E’ evidente che la costruzione di città tutte eguali è un fenomeno che impoverisce perché elimina varietà e rende i cittadini estranei all’ambiente in cui vivono, toglie identità alle città ma la toglie anche ai cittadini.
Dunque l’identità urbana ha una valenza fortemente positiva ed ha un carattere preciso e determinato che non si presta a molti equivoci: è legata al luogo, ai tipi, alla morfologia, contrariamente alla riconoscibilità che ha uno angolo di apertura estremamente ampio, entro cui può trovare posto ogni cosa e il suo contrario, dal borgo antico al villaggio Belvedere.
Per questo ribadisco la proposta fatta da un collega: la qualità dei nuovi insediamenti dovrebbe essere definita in forma scritta nelle Norme di Attuazione, facendo riferimento alla identità dei luoghi e con precise regole e norme di tipo urbanistico. Non è forse la legge regionale toscana che parla di “statuto dei luoghi”? Diamo contenuto concreto a questa formula un po’ astratta.
A puro titolo di esempio, e dichiarando che io sono favorevole alla prima ipotesi, se si ritiene che l’identità sia un valore, allora si dovrà scrivere che gli edifici formeranno cortine lungo le strade, le quali strade non saranno mai a fondo chiuso, le piazze saranno collocate agli incroci delle strade principali e sempre racchiuse da edifici, non messe a caso laddove avanza un vuoto libero.
Se invece l’identità non dovesse essere ritenuto un valore allora si dovrà scrivere altro, ad esempio che l’edificio si posizionerà liberamente nel lotto, senza alcun rapporto con la strada che non sia quello puramente funzionale all’automobile, che le strade avranno fondi ciechi in modo tale che ogni insediamento sia separato dall’altro, che il tessuto connettivo della nuova città non siano più le strade ma il verde, ad esempio, con ciò configurando un ambiente che ha ben pochi caratteri della città europea, toscana e aretina in particolare.
Il “progetto” altro non è che la capacità di sapere prevedere, entro limiti ragionevoli, ciò che accadrà nella trasformazione della città.
Senza progetto non c’è previsione possibile e se queste regole non saranno scritte e predeterminate, e le regole sono parte integrante del progetto, al prossimo piano, continueremo a parlare stancamente e astrattamente di qualità e a chiederci che cosa non ha funzionato nel piano precedente.
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