Pietro Pagliardini
Interrompo la sosta estiva perchè solleticato da una bella discussione.
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Sul blog Archiwatch nei giorni scorsi si è sviluppata una, per me, piacevole e ricca discussione sulla eventuale, temuta, odiata, necessaria, auspicata, rifiutata partecipazione dei cittadini al progetto.
Intanto chiarisco la mia terminologia:
Cittadini: uso questo termine non nel senso usato dalla Rivoluzione Francese, ma solo nel senso di coloro che abitano e vivono nella propria città e che, in linea di principio, poi vedremo se e a quali condizioni, hanno il diritto di decidere sulla sua crescita, trasformazione, demolizione, alterazione, restauro, riqualificazione. Uso cittadini perché li ritengo, ma è ovvio che sia così, i padroni della città. O almeno dovrebbero esserlo. Cittadini è cioè termine che ha una forte connotazione territoriale.
Gente: uso questo termine con un significato più esteso, meno specifico, per indicare quello che io ritengo sia il recettore del “comune sentire”. In genere uso gente per indicare il corpo sociale complessivo dell’opinione pubblica non strettamente legato ad uno specifico territorio.
Tutto è iniziato da una lettera di Cristiano Cossu, in risposta ad un mio commento, in cui esprimeva seri dubbi sulla possibilità di coinvolgere la “gente” nella fase decisionale del progetto.
E’ intervenuta, infine, Vilma Torselli. Ho detto infine ma solo come espressione temporale, non di merito, perché Vilma, in genere, solleva problemi e questioni, suscita dubbi, stimola il confronto; questa volta, però, è stata più categorica e, nel caso della partecipazione, direi quasi tranchant, ha usato espressioni molto poco diplomatiche che non lasciano spazio ad interpretazioni. Non è stata demagogica (non lo è mai, in realtà) non ha giocato con le parole, non è stata politically correct e ha detto, semplificando e brutalizzando il suo pensiero, che la partecipazione è una stronzata.
Però…sto esagerando, perché Vilma ha anche detto che l’architetto “non può né deve operare da solo per conto di Dio” e non deve e non può decidere da solo. Ha portato ad esempio “la rivincita del pedone” che è quel sistema, non sappiamo se reale o mitico, per cui in Giappone prima si realizza un parco e poi si fanno i percorsi seguendo i sentieri tracciati dai pedoni sull’erba. In realtà ho visto anni fa un servizio TV in cui, sempre in Giappone, hanno messo, credo come esperimento, le strisce pedonali agli incroci anche lungo le diagonali, perché quello è il percorso che ogni pedone “naturalmente” predilige, per il semplice fatto che la diagonale ha lunghezza minore della somma dei due cateti necessari per andare da un angolo dell’incrocio all’opposto: una importante dimostrazione che la geometria non è solo un’astrazione dei libri di scuola ma risiede naturalmente nella mente della “gente” anche se non l’ha studiata o non la ricorda.
Dalla rivincita del pedone Vilma ne ricava, giustamente, l’esito che l’architetto deve comportarsi come un “cacciatore di tracce, un segugio che scopre i segni…”.
Eduardo Alamaro ha detto, sempre su Archiwatch, che questa parte del testo di Vilma ha qualcosa di poetico, ed è vero, ma è anche, secondo me, la palese dimostrazione del fallimento del nostro lavoro di architetti. Chi, infatti, vuole o può o sa che il metodo indicato da Vilma è esattamente quello che dovrebbe essere seguito per la preparazione e la redazione di un progetto? Vilma ha descritto molto bene, e direi d’istinto, come un segugio, nient’altro che il Genius Loci, che è tutto ciò che lei dice con qualcosa di più. Potrei essere in disaccordo? Ma oggi questa espressione è molto usata, anche troppo, come tutto ciò che dà suggestioni, ma raramente compresa e applicata.
Se dovessi indicare il metodo progettuale che va per la maggiore parlerei di “creatività”, di “libertà di espressione”, di innovazione e sperimentazione, insomma di tutto ciò che consente all’architetto di esaltare solo se stesso e poco il progetto.
E non mi si venga a dire che questo metodo vale solo per gli archistar, per i grandi, perché il dramma sta proprio qui, nel fatto che è una mentalità diffusa alla base, laddove si progetta la massa degli edifici e si fanno i veri danni alle città e al territorio. Poco c’entra il fatto che il cliente intervenga pesantemente sul progetto originario e il povero architetto sia costretto, dai rapporti di forza impari e dalla necessità di sbarcare il lunario, a modificare, aggiungere, togliere in genere. Intanto in molti casi hanno ragione i clienti e comunque quello che conta è l’atteggiamento con cui l’architetto si pone nei confronti del progetto che è sempre lo stesso, con la differenza che gli archistar fanno (quasi) sempre ciò che vogliono, noi architetti condotti subiamo molto di più le ingerenze pesanti dei nostri clienti.
Tuttavia io sono personalmente molto più ottimista nel buon senso della gente di quanto non lo sia Vilma e anche altri che sono intervenuti nello scambio di commenti e sono invece molto pessimista sull’atteggiamento degli architetti , perché questi hanno davanti a sé modelli troppo glamour per non adeguarvisi: soldi, potere, successo mediatico, a chi non piacciono? Un grattacielo a Dubai, che gira, che si allunga, che si piega, isole create dal nulla a forma di…tutto, la tabula rasa, liberi di creare dal nulla. E’ se è vero che a Dubai c’è poco di storia (c’è tuttavia il deserto, il mare, la natura, una cultura) in Italia e in Europa l’atteggiamento è il medesimo.
Il delirio di onnipotenza, il poter dire: “tutto questo l’ho creato io”, come si concilia con il ricercare le tracce, leggere i segni presenti ma non sempre facilmente visibili?
E’ il fascino del reality che prende molti giovani, il bisogno di uscire dall’anonimato di provincia, di essere al centro dell’attenzione. Gli Archistar sono solo la punta dell’iceberg (e in genere è ovvio che sono molto meglio dei loro emuli) il simbolo su cui mirare, la bandiera da conquistare per demoralizzare l’esercito ma non sono loro il problema, il problema è la truppa, numerosa e guidata da abili ufficiali e sottufficiali che hanno i loro quartier generali nelle università, nel mondo dei media, nell’ambiente culturale mondano, nelle amministrazioni comunali a fare PRG senza disegni, con norme assurde e funzionali quasi sempre a quel sistema che rifiuta la storia, la città, il contesto.
Questa situazione, che non è solo italiana ovviamente, ma è globale, da noi è tuttavia aggravata da due fattori:
- l’essere il nostro paese quello con più storia, con più patrimonio artistico e naturale di tutti gli altri;
- l’avere il nostro paese un’università fatta di caste, grandi e piccole, che se la giocano con altre caste, grandi e piccole, nel mondo dell’editoria e dei mass media.
Di qui la mia piccola, modesta, circoscritta proposta di fare giudicare i concorsi anche ai cittadini, gli unici titolari delle decisioni sulla città. Se gli architetti sono, siamo, quelli che ho sopra descritto, perché gli esperti, i professori dovrebbero essere migliori, essendo proprio loro che hanno formato la truppa? Di più: se anche tutti noi architetti fossimo bravi e i professori membri di giuria fossero bravissimi, perché dovrebbero essere loro a decidere le sorti di una città? Quando è mai successo storicamente? Quando mai l’architetto non ha avuto un rapporto conflittuale, se va bene di amore-odio, con il proprio committente, quando mai non ha risposto agli ordini del padrone e del proprio cliente? Chi ha messo in testa agli architetti una simile storia, talché tutti pensano di fare il proprio comodo e di essere portatori di verità? La repubblica platonica dei filosofi, cioè degli esperti, di quelli bravi, è l'esatto contrario della democrazia, è la tirannia.
Oggi non c’è il Principe, lo sappiamo tutti e ne siamo quasi tutti felici ( a Dubai c’è il Principe, in Cina c’è il Principe, andateci voi a godervelo). Amen. Inutili i lamenti di coloro che dicono: la classe politica è incolta; è probabilmente vero ma spostare il problema su altri soggetti non aiuta a migliorare sé stessi.
Da noi ci sono i cittadini che votano i propri amministratori; non è detto che scelgano i migliori ma è il meglio che ci possiamo permettere e, poiché la città è di tutti, come l’acqua, come l’aria, come l’ambiente naturale di cui tanto ci preoccupiamo; la città è una somma di proprietà private disposte su un tessuto che appartiene a tutti, alla collettività, per questo i cittadini, che costituiscono la civitas la quale esiste, è una cosa vera non un’astrazione intellettuale, devono decidere e avere voce in capitolo sulla costruzione dell’urbs.
Che poi decidano per delega, nella maggior parte di casi e per ovvi motivi di organizzazione sociale e politica, o per democrazia diretta, in pochi ma significativi casi, poco importa: ma il principio è questo. Sulle forme concrete non sta certo a me o a noi decidere.
Questo principio è il fondamento storico dell’essere delle nostre città occidentali; se esiste la pianificazione urbanistica (brutto nome), se esistono i Piani Regolatori, se esiste una normativa (snella o voluminosa è un diversivo ai fini di questo discorso), è perché nella città si devono esprimere valori collettivi e condivisi. Questo è l’unico, vero, profondo motivo che giustifica e ha sempre giustificato l’urbanistica come disciplina, da quei paesi in cui, per ovvi motivi geografici come l’Olanda, è più avanzata a quelli come il nostro in cui, per motivi geografici opposti, è più problematica, frammentaria, meno centralizzata e quindi più disarticolata. I colonizzatori hanno portato l’urbanistica in America del nord, terra sconfinata e con poca popolazione e ciò vuol dire che non è proprio possibile che ognuno disponga del territorio a suo piacimento, che c’è bisogno di un disegno che unisca un popolo intorno a valori condivisi che li facciano sentire appartenenti ad una comunità.
E la rivincita del pedone cosa c’entra con tutto questo discorso? C’entra, perché questa espressione non si riferisce solo ai giapponesi ma è la prova della distanza che c’è tra il progetto e la gente; la rivincita del pedone è appunto la libertà del pedone di non passare dai percorsi pedonali disegnati e realizzati nel verde da un architetto che ha lavorato sul foglio da disegno come si trattasse di un quadro astratto, secondo geometrie che nulla hanno a che vedere con quella che c’è in testa alle persone e che, senza ricordare o conoscere le regole dei triangoli, fa loro intuire che la diagonale è più corta dei due cateti. E così avviene che quei percorsi progettati vengono incrociati da sentieri spontanei senza erba che i pedoni scelgono naturalmente, non per maleducazione, ma per libera scelta di buon senso.
Un’altra dimostrazione sull’organicità della città, che deve consentire il massimo grado di scelte possibili, pena sentire la propria città come estranea, perché gli edifici non si possono scavalcare come i percorsi pedonali.
30 luglio 2008
LA RIVINCITA DEL PEDONE
26 luglio 2008
L'ANTICA GRECIA, LA CINA, DUBAI E REM KOOLHAAS
Pietro Pagliardini
“I greci antichi erano una civiltà che ha creato monumenti in modo comunitario, che sentiva di avere una responsabilità collettiva verso la cosa pubblica e che aveva chiara la relazione tra il pubblico e il privato. Questa civiltà ha creato un' architettura e un' urbanistica che sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”.
Chi ha scritto queste frasi? Léon Krier o il Principe Carlo o Marco Romano o qualche storico dell’architettura?
No, l’ha scritto Rem Koolhaas sul Corriere della Sera e questo è proprio l’incipit dell’articolo e il ragionamento che Koolhaas dipana successivamente è estremamente sapiente e degno di tutta l’attenzione possibile.
Dice l’architetto olandese che attualmente il conflitto tra pubblico e privato ha raggiunto il massimo e ormai volge a tutto vantaggio di quest’ultimo.
Lo strapotere della finanza, che viene sinteticamente rappresentato con le moneti forti, Yen, euro e dollaro,spinge ad una architettura “stravagante”, non vi sono più certezze, manca qualsiasi spinta ideale e siamo passati dall’eccesso di utopia alla sua mancanza assoluta, e ciò è un male.
Personalmente sono del tutto d’accordo.
Cita poi una serie di casi sintomatici, che sono incontrovertibili, in cui si manifesta in maniera esasperata questa situazione di sostanziale stravaganza, meglio, follia architettonica e urbanistica: Cina, Dubai, Florida, Singapore, Las Vegas e altri, e aggiunge che siamo alla tragedia dell’“apoteosi della città”.
Un passo dell’articolo, sulla Cina, è significativo: “Del vasto repertorio di tipologie rimangono solo il grattacielo e la baracca; questa gamma ridotta di tipologie è utilizzata in nuovi quartieri dall' aspetto caotico”.
Insomma, sembra proprio che Koolhaas si sia ricreduto, che voglia cambiare strada ma l’articolo finisce senza nulla proporre, senza dare un’indicazione, senza indicare una qualsivoglia strada, in un senso o nell’altro, si interrompe bruscamente, quasi a rappresentare l’ineluttabilità di questa tendenza, l’impossibilità e l’inutilità di opporsi al divenire delle cose e al fato.
Tale costruzione retorica è sicuramente accettabile in uno scrittore o in un filosofo che, da semplice spettatore, constata con amarezza o con lucida razionalità la fine di una civiltà urbana, la descrive con rigore, la denuncia ma non ha strumenti, o intenzione, né per fare proposte generali né per dare suggerimenti specifici; il filosofo Emanuele Severino, ad esempio, sostiene con convinzione e argomenti provenienti dalla ragione, in base alle premesse che egli pone, l’ineluttabilità del potere della tecnica sull’uomo.
Nulla importa che Severino se ne compiaccia o ne sia addolorato, perché il suo scopo è solo la comprensione, non la presa di posizione.
Rem Koolhaas, viceversa, non è solo un intellettuale che analizza la realtà urbana “dal di fuori”; la sua analisi non è esterna alla realtà che egli esamina; Koolhaas è anche e soprattutto un architetto, un archistar, uno che ha dato e continua a dare il suo bel contributo alla situazione che egli denuncia, è all’interno del gioco, è, volente o nolente, uno degli attori in scena e l’attore non si mette a fare il critico della propria commedia nel momento in cui la recita. Tra l'altro, per quello che conta, il nome di Koolhaas compare, unico architetto, nella rivista TIME tra quello dei cento personaggi più influenti al mondo, quindi si ritiene che egli abbia qualche capacità di influenzare il corso degli eventi. Non è, cioè, uno che si deve adattare a subire.
Se, per assurdo, Severino fosse anche uno scienziato che lavorasse nel campo della genetica, il suo pensiero, ancorché fosse valido, sarebbe inficiato in buona parte dal suo lavoro di scienziato. Chiunque sarebbe autorizzato a pensare che potrebbe avere un interesse di parte e soprattutto sarebbe un’analisi “dal di dentro”, cioè disturbata dalle inevitabili interferenze.
Koolhaas non sembra porsi questo problema. Lui lavora a Dubai, lui lavora a New York, lui teorizza la Junkspace e, contemporaneamente, afferma che l’architettura e l’urbanistica greca “sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”. Già in questa affermazione mi sembra di leggere una sorta di falsa coscienza poiché non è assolutamente vera, il modello dominante (quello del potere dominante intendo) essendo esattamente l’opposto e non credo che Koolhaas non lo sappia.
A me sembra che il significato dell’articolo non sia affatto un richiamo amaro alla realtà bensì quello di fare accettare la realtà così com’è perché il potere che la guida e la indirizza è talmente forte che opporvisi non solo non servirebbe ma sarebbe addirittura pericoloso.
L’articolo è, a mio parere, assolutamente funzionale a quel potere perché tende a depotenziare l’eventuale volontà di opporvisi ridicolizzandone, il velleitarismo; quindi lui che non solo non vi si oppone, con i progetti, ma anzi lo incoraggia e lo esalta, sta dalla parte della vittoria e perciò della ragione (la ragione non è mai dei vinti), tutti quelli contro dalla parte sbagliata. Inutile perciò perdere tempo e discutere: adattarsi è la strada giusta.
D’altronde in un articolo del New York Times di Nicolai Oroussuff sul progetto di Koolhaas a Dubai, il critico di architettura del NYT riassume l’atteggiamento dell’architetto in questa sua frase “cercare l’ottimismo nell’inevitabile”.
Una strategia perfetta, veramente temibile perché frutto di una notevole intelligenza unita alla scelta “vincente".
Il problema non è, tuttavia, l'atteggiamento personale di questo o quell'archistar, che interessa relativamente, il punto è l'abilità incredibile del sistema di potere economico, di cui parla Koolhaas, che riesce contemporaneamente a fare scempio di città e territori e consuetudini locali, distrugge le identità, colonizza i paesi emergenti e i paesi arabi (non esportando democrazia, che potrebbe anche andare bene, ma sostituendo una cultura con un’altra) e, contemporaneamente, riesce a criticarsi, lasciando le cose esattamente come stanno. E’ un sistema tanto diabolico da sembrare parodistico.
A chi non fosse d’accordo non resta che cercare di comprendere cosa c’è sotto, sollevare il velo e scoprire cosa si nasconde dietro la cortina di parole suggestive e intriganti perché logiche; e la logica va smontata sia con le sue stesse armi, cioè la logica stessa, sia con la realtà dei fatti, perché la logica non prevede la verità assoluta, ma solo quella relativa alle premesse da cui parte.
18 luglio 2008
GEOMETRIA DEI FRATTALI E AUTOSOMIGLIANZA
di Giulio Rupi
Fino a qualche tempo fa si pensava che qualsiasi fenomeno naturale, per quanto complesso, potesse essere rappresentato attraverso dei modelli matematici in grado di prevedere, partendo dalla conoscenza dello stato iniziale e in maniera più o meno approssimativa a seconda delle circostanze, l’evoluzione del fenomeno. E’ la capacità predittiva, quella che sta alla base di qualsiasi proposizione scientifica.
I primi (giganteschi) passi di questa capacità predittiva della scienza dei fenomeni lineari li avevano fatti le leggi di Newton e la loro applicazione alla dinamica dei corpi celesti. E infatti quei sistemi, i sistemi gravitazionali dei corpi celesti, sono praticamente assimilabili a dei sistemi lineari.
La legge fondamentale dei sistemi lineari è che a cause simili, quasi identiche, corrispondono effetti simili, quasi identici.
La legge fondamentale dei sistemi non lineari è che a cause simili, quasi identiche, corrispondono effetti assolutamente differenti e distantissimi tra loro. E questo pur nell’ambito di una visione rigorosamente deterministica, senza che entri in gioco qualsiasi aspetto probabilistico relativo all’indeterminazione delle particelle elementari.
Ci spieghiamo: ho un sistema complesso non lineare e ne conosco alla perfezione tutti i dati che lo descrivono all’ora X. Per prevedere lo stato del sistema all’ora “X più dieci giorni” dovrò realizzare un modello matematico altrettanto complesso del mio sistema, implementarlo in una macchina simulatrice (il calcolatore) e far girare questa macchina esattamente dieci giorni! Si salva così il determinismo ma non si salva la capacità predittiva del modello, perché il modello, l’abaco, è il sistema stesso!
E infatti provatevi a prevedere i terremoti, o il clima da qui a un mese, o, più semplicemente, l’esatta evoluzione del più elementare tra i sistemi biologici, o l’andamento delle borse da qui a tre giorni!
La scoperta più sconcertante è che la quasi totalità dei sistemi naturali è fatta di sistemi non lineari e che i sistemi lineari sono delle eccezioni, sono delle schematizzazioni molto rozze che si applicano a pochi aspetti della realtà.
Sono ad esempio sistemi non lineari tutti i sistemi legati alla vita: e da qui la difficoltà di applicare modelli matematici a tutte le scienze umane e della vita, dalla medicina, alla biologia, all’economia.
Tutto quello che vediamo intorno a noi e dentro di noi è dunque regolato da sistemi non lineari e segue le leggi della matematica del Caos e della geometria dei Frattali, geometria di notevole complessità, di cui si può pero enunciare e comprendere anche da profani almeno la caratteristica fondamentale: quella dell’autosomiglianza.
E’ una parola chiave che si definisce da sola e che essenzialmente indica l’indifferenza di alcune caratteristiche dei fenomeni non lineari nei confronti del cambiamento di scala.
E’ appunto da qualche decennio che abbiamo cominciato a osservare la realtà attraverso questa struttura interpretativa, una struttura concettuale estremamente potente, perché è in grado di allargarsi dall’interpretazione dei fenomeni naturali più semplici a quelli più complessi, stabilendo una mirabile legge di continuità e di armonia tra i fenomeni della Natura “inanimata” (le forme di una costa o di una catena di montagne), i fenomeni della Natura “animata” (la forma di un cavolfiore e quella di un albero), fino alle creazioni più nobili dell’attività umana, quali l’Architettura e l’Arte.
Così le forme di una costa frastagliata sono simili tra loro anche se si varia la scala a cui si osservano.
Così le creste di una catena montuosa hanno un profilo simile a quello di un segmento di essa.
Così se da un cavolfiore si stacca una parte, quella parte sarà simile al cavolfiore intero, e via frazionando.
Così le ramificazioni di una querce saranno simili alle venature delle sue foglie.
Così, passando con continuità dalle forme della Natura alle costruzioni tradizionali dell’Uomo (il che farà sobbalzare sulla sedia i lettori modernisti di questo scritto) le forme dell’Architettura saranno autosomiglianti e indifferenti al cambiamento di scala.
Come una querce ha una base che si allarga sulle radici, un fusto che si eleva e una chioma a forma di cupola che si confonde con l’aria e il cielo, così una colonna ha una base che la collega a terra, un fusto che si eleva, un capitello che la conclude in alto.
Così un tempio avrà una gradinata che lo appoggia sul terreno, un colonnato e infine un timpano che con la sua punta lo conclude in alto.
Così la forma di una cattedrale gotica si ripeterà nella forma del suo portale e così ogni apertura di un qualsiasi edificio di qualsiasi epoca si poggerà su una soglia, sarà contenuto da stipiti e sovrastato da un timpano, una cornice o quant’altro.
Di più: in una cittadina collinare d’Europa le mura rappresenteranno la base di appoggio al terreno, il tessuto delle case il levarsi verso l’alto di questa struttura urbana, i campanili e le torri in cima la conclusione verso l’alto di una struttura che anche a quella scala resta autosomigliante.
Ma quanto esposto alla scala massima (la città collinare nella sua interezza) vale, rifacendo tutto il percorso all’indietro, anche alla scala minima perché in questa ottica trova ragione, e anzi necessità, il tanto detestato (dai modernisti) ornamento e la tanto detestata decorazione, elementi che (come nelle forme delle cose naturali) ripetono anche alla scala più piccola, anche all’interno dell’elemento architettonico minimo, la tessitura della complessità.
Dalla geometria dei Frattali e dalle sue leggi di autosomiglianza ci viene quindi la conferma che l’ovvia continuità tra la natura e l’uomo si traduce anche in una sostanziale continuità tra le forme della natura e le opere dell’uomo.
Ci viene la conferma che le antiche leggi del costruire hanno da sempre applicato questi principi e queste strutture, creando ambienti in cui ci sentiamo a nostro agio non per ragioni di adesione intellettuale o culturale, ma per i motivi più profondi dell’adesione a una reale continuità tra l’ambiente naturale, il nostro corpo, la nostra mente.
Quando si è voluto spezzare il filo della Storia, quando Marinetti e Le Corbusier hanno proclamato un’Architettura creativa che si concretizzasse in forme geometriche non più autosomiglianti, staccate dalle precedenti forme della Tradizione, non si è consumata soltanto una rottura dell’uomo con il suo passato: si è consumata la rottura dell’uomo con la natura, cioè dell’uomo con se stesso. Ci si è preclusa l’attitudine a ricreare una qualsiasi forma di armonia tra la nostra mente e il nostro ambiente.
Allora, la contrapposizione che noi poniamo non è tra le forme del passato e quelle del presente, o simili scempiaggini.
La vera contrapposizione è tra noi che sosteniamo la necessità per la mente e il corpo dell’uomo di un rapporto di continuità con le forme della natura e dell’ambiente e tra quelli che sostengono l’autosufficienza di una artificialità completamente astratta dalle leggi di natura quali risultano essere dalle più recenti acquisizioni della Scienza, tra noi e quelli che sostengono una artificialità che, anzi, si oppone coscientemente a queste leggi per contestarle e decostruirle.
I risultati del verbo modernista, questi sì prevedibili deterministicamente, non potranno che continuare ad essere il degrado delle periferie, lo spaesamento degli abitanti, il disagio e la sofferenza dei cittadini.
13 luglio 2008
CITTA'-ORGANISMO o CITTA'-MACCHINA
Questo lungo post nasce da un commento di Vilma al post precedente.
Visto che, come dice lei stessa, non ci conosciamo personalmente ma io so chi è, e anche lei sa che io so, mi piace scrivere in forma epistolare, per accentuare ancora di più la finzione in cui Vilma sembra voler credere, a giudicare dalla citazione in testa al suo commento.
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Cara Vilma
Tu cominci il tuo commento con una citazione che condiziona inesorabilmente tutta la lettura del testo e sembra arrivare subito alle conclusioni, contrariamente alle tue abitudini che sono, il più delle volte, aperte e problematiche. In genere quello che mostra sicurezze e conclusioni definitive sono io, per carattere o per scelta razionale.
Con un inizio del genere non potevi che arrivare al web e alla realtà virtuale, e infatti ci sei arrivata.
Concludendo la lettura del commento mi sono reso conto che mi hai – bonariamente - preso in giro, facendomi il verso, hai rimesso in discussione tutto e sei tornata grande.
Tuttavia, ho l’impressione che quella citazione non ti sia scivolata addosso come l’acqua.
Vengo alla metafora della città-organismo.
Città-organismo e città-macchina sono le due polarità opposte alle quali tutti gli altri modelli sono riconducibili; la città-giardino, la città lineare, la città dormitorio, la città degli utopisti, la città dei filosofi, sono varianti ad uno dei due casi: o una città si comporta come un organismo o si comporta in base ad un progetto, per sua natura autoritario, in cui qualcuno decide per tutti e assegna funzioni, compiti, ruoli; per cui sediamoci pure ad aspettare “chi sarà in grado di proporre nuove grandi sintesi” ma sapendo che queste potranno essere trovate nell’ambito d queste polarità e nel frattempo le città-macchina continuano a crescere male.
Credo infatti tu possa convenire sul fatto che la città-macchina - il modello attuale- costruita, nei migliori dei casi, mettendo i vari pezzi al posto giusto dopo calcoli giusti, non funziona. Perché non funziona?
Perché l'uomo non è un prodotto che si possa muovere a comando in un grande meccanismo metallico, come le bottiglie nella macchina imbottigliatrice, senza perdere un requisito fondamentale, cioè la sua umanità, fatta di sentimenti e istinti ma anche di libertà di scegliere e nella città-macchina le scelte apparenti sono tante, quelle reali sono poche: per andare da un luogo all’altro hai efficienti strade di scorrimento veloce ma sei costretto a prendere l’auto e a sottoporti allo stress del traffico; per trovare casa di un conoscente non ci riesci senza navigatore, pena restare bloccato in strade a cul de sac da cui non sai come uscire e che ti fanno perdere l’orientamento; per incontrare persone non hai altra scelta che pagare per entrare in locali specializzati oppure andare a spendere in un ipermercato.
Non hai la libertà di lasciare soli i tuoi figli a giocare davanti a casa, a meno che tu non possieda un giardino privato; non hai la libertà di mandare a scuola i bambini piccoli da soli; non hai la libertà di uscire le sere d’estate a prenderti un gelato in mezzo alla gente senza essere costretta a prendere l’auto, a meno che tu non abiti in centro (storico) o ti rassegni ad un cono consumato lungo una squallida strada piena di auto.
La città-macchina prevede movimenti meccanici e programmati e ha pochi gradi di libertà perché poche sono le scelte di movimento sia per quanto riguarda i percorsi da fare che per quanto riguarda i mezzi con cui farle.
Non tirarmi fuori le piste ciclabili, per favore, perché la cittadinanza non è fatta di ciclisti professionisti che possano fare chilometri al giorno. Soprattutto una città non dovrebbe avere troppe piste ciclabili ma dovrebbe garantire la convivenza e la compresenza di pedoni, auto e bici, senza particolari specializzazioni, a parte, è ovvio, casi particolari. E non mi citare “ l’esemplare” caso olandese perché non esiste strada più insicura per il povero pedone che la piste ciclabile, dove rischia di essere travolto se si azzarda ad infilarci un piede; quanto è “macchinosa” la strada che ad Amsterdam porta dalla stazione al Dam: marciapiede, pista ciclabile, tram, auto, tram, pista ciclabile, marciapiede. Prova ad attraversare ”liberamente” la strada e dimmi quante probabilità hai di sopravvivere.
Questi sono solo alcuni esempi semplici, se vuoi ingenui, ma adatti però ad uno scambio epistolare. Se preferisci invece discorsi più seri ti dico che la città-macchina manca di connessioni diffuse e gerarchizzate e, generalmente, dati due quartieri confinanti vi è una strada che li unisce e un’altra strada, perpendicolare alla prima, che li divide, e allora accade che:
1) lo spostamento tra una zona all’altra è obbligato, e hai l’ingorgo;
2) pedonalmente devi attraversare un’arteria che nulla ha di urbano e rinunci.
Ma chi l’ha detto che questa affermazione sulle connessioni è vera?
Per spiegarlo basterebbe leggere la teoria delle reti di Nikos Salìngaros, che sono certo tu conosci meglio di me. Da parte mia ti parlerò delle reti piccolo mondo, small word network, e lo farò riprendendo parte di un mio testo scritto tre anni fa per un’altra occasione; è ovviamente la sintesi di un libro che non posso citarti non ricordandone né titolo né autori in quanto a me prestato da un amico, ma te lo dirò presto, se già non lo conosci:
Inizierò perciò da un singolare e incredibile esperimento scientifico eseguito in più occasioni da soggetti diversi e con diverse modalità: è stato dimostrato che il grado di separazione tra due individui qualsiasi che non si conoscono e che vivono in ambienti geografici e sociali totalmente diversi è pari a sei; cioè chiunque volesse mettersi in relazione con una persona qualsiasi nel mondo riesce ad arrivare ad essa attraverso altre sei persone solamente. Questo curioso dato ha fatto riflettere gli studiosi, in genere matematici, della teoria delle reti e ha rivoluzionato le certezze acquisite fino a quel momento.
Il nocciolo del problema è: se è possibile che tra miliardi di individui se ne possa raggiungerne uno qualsiasi in così pochi passaggi allora le relazioni tra le persone potrebbero essere non molto diverse da quelle del World Wide Web dove, con pochi links, è possibile raggiungere una pagina qualsiasi tra le oltre un miliardo esistenti e, se ciò è vero, cosa hanno in comune le relazioni tra computers e quelle tra persone? E’ forse possibile creare un algoritmo dei rapporti sociali? Esiste forse un determinismo sociale?
E’ stato esplorato il web tracciandone una mappa che gli esperti chiamano grafo e si è osservato che esso ha un ordine casuale, in quanto non programmato da nessuno (il WWW è, per costituzione, spontaneo e non programmabile da nessuno). Il grafo ha molte connessioni casuali dette anche deboli, perché poco frequentate, ma anche una certa quantità di HUB cioè quelle pagine più frequentate che sono connesse con un numero grandissimo di altre pagine. Dunque l’ordine è casuale, perché non predeterminato, ma non necessariamente caotico anzi è fortemente strutturato e le connessioni deboli sono proprio quelle che consentono di mettere in contatto siti che sarebbero, diversamente, slegati l’uno dall’altro.
Analoghi comportamenti si rilevano nella biologia, nell’ecologia, nell’urbanistica ecc. Sembra che molti sistemi funzionino come la rete dei neuroni del nostro cervello dove non meraviglia tanto l’enorme numero di questi ma la straordinaria capacità di connessioni tra essi che permettono, in caso di malfunzionamento di qualche parte, dovuto a malattia o trauma, di non interrompere del tutto la rete e di avere una funzionalità accettabile. (Pensa ad uno che batte la testa e perde la memoria! Senza memoria si va malino ma si vive, si hanno sentimenti, si ragiona e, con le tempo, si può ricostruire un po’ di passato. Ora che ci penso lo smemorato sarebbe il cliente ideale per gli archistar!).
Ma allora cosa lega una rete informatica, l’economia di un paese, l’ecologia, la città, il nostro cervello e le relazioni sociali tra gli uomini? E’ probabile che vi siano leggi che governano le relazioni tra oggetti, animali e persone: dico probabile perché ancora non sono state individuate e, soprattutto, sistematizzate in forma matematica. O almeno io non ne sono al corrente. Una di queste possibili leggi è quella delle reti “piccolo mondo”.
Una rete piccolo mondo è caratterizzata dalla presenza di molti legami forti e di pochi legami deboli (come la città-macchina). Ad esempio: i legami che si creano in un villaggio, diciamo di 100 abitanti, in cui ogni individuo conosce tutti gli altri sono decisamente forti perchè se si disegna un grafo praticamente tutti gli individui sono legati gli uni agli altri da legami di amicizia, conoscenza o parentela; poi vi sono alcuni individui che hanno legami con altri soggetti di altri villaggi, ciascuno dei quali conta sempre 100 abitanti; questi sono meno numerosi e frequenti, più occasionali: sono cioè legami deboli. Ma se, ad esempio, un giovane cercasse lavoro, lo troverebbe più facilmente affidandosi ai legami forti o a quelli deboli? Certamente a questi ultimi, perché, attraverso essi entra in contatto con un numero infinitamente superiore di persone: all’interno del suo villaggio il numero di contatti è al massimo di 99 persone, mentre basta conoscere 1 persona in un secondo villaggio che il numero di contatti aumenta a dismisura, non solo per i nuovi 100 abitanti dell’altro villaggio ma per quelli di altri villaggi con cui il soggetto del secondo villaggio può essere legato da altri legami deboli. Dunque i legami deboli sono proprio quelli che fanno in modo di avere un grado di separazione pari a 6 nel mondo, cioè una rete è un mix di ordine e caos: l’ordine dei legami forti e il caos dei legami deboli. Il caos, dunque, non sarebbe così caotico come sembra, ma piuttosto creatore di un ordine di tipo diverso. I legami deboli sono alla base della comunicazionesono “distributori” di informazione, .
Scusami la lunghissima citazione ma era necessaria per alzare il tono di questa lettera, per capire quanto i matematici abbiano da dire in campo urbanistico e, soprattutto, per spiegare il dato essenziale dell’importanza delle relazioni deboli che non sembra affatto generino caos, come tu pensi.
In urbanistica è esattamente la stessa cosa ed è facilmente verificabile in molte città quando ci sono lavori in corso. Ti faccio un esempio: nella mia città il traffico attraverso il centro storico in direzione ovest-est è assicurato da due sole strade: una, ottocentesca, più importante e più scorrevole, l’altra più stretta, lungo il tracciato delle vecchie mura, con una strozzatura, con soste selvagge, abbastanza marginale: ebbene se per fiere di Natale o altro viene chiusa questa strada, scoppia il caos e le ripercussioni si estendono a tutta la parte bassa del centro storico, perché la strada principale non ce la fa più; eppure sembra impossibile che una stradina del genere possa assolvere ad un compito tanto importante. Se ce fosse un’altra di quelle stradine le cose andrebbero ancora meglio e, contrariamente a ciò che dici te, vi sarebbe più ordine e non più caos.
Questa è la permeabilità, dal punto di vista automobilistico, ma anche dal punto di vista delle relazioni sociali e personali, del funzionamento generale della città con le sue innumerevoli attività.
La città deve garantire il maggior numero di gradi di libertà all’uomo.
La città-macchina è l’esatto opposto della scelta.
La città-organismo è, invece, qualcosa più di una metafora; una città costituita da una rete strutturata si avvicina sempre meno metaforicamente ad un organismo perché aumenta il grado di complessità.
La città-macchina è una strumento rudimentale: basta prendere un piano razionalista e affiancarlo alla pianta di un centro storico e non si può non percepire il dato, spontaneo, di bellezza di questo e di povertà di quello. E’ un po’ la stessa differenza che passa tra la piastra madre di un computer, piena di innumerevoli e microscopiche connessioni attraverso cui circolano milioni di informazioni e il gioco dell’oca cha ha molte variabili ma sempre lungo la stessa strada. Non farò paragoni con l’arte perché non voglio essere impallinato da te.
Nel disegno urbano la vera difficoltà sta nel riprodurre, o meglio nell’avvicinarsi il più possibile alla riproduzione del livello di complessità di un organismo. Certamente il linguaggio è metaforico: le strade sono le arterie, le arterie convergono in determinati organi fondamentali (le nodalità) e li alimentano, il tessuto connettivo è costituito dall’edilizia di base.
Rappresentare un organismo del genere non è molto difficile: io ci vivo tutti i giorni, lo frequento ed è il centro storico della mia città che è simile ai centri storici di migliaia di città e borghi europei. Il difficile non è vederlo e rappresentarlo, il difficile è riprodurlo ex novo ogni volta che qualcuno redige un Piano regolatore, una lottizzazione, perfino una singola abitazione. Perché è così difficile riprodurre ciò che crediamo di conoscere così bene? E perché sembra che "prima" sia stato così facile "inventarlo"?
Perché non è stato inventato proprio niente, è stata seguita nel costruire le città quella che viene definita la "coscienza collettiva spontanea", la quale derivava certamente da una società chiusa e quindi meno complessa e sono state seguite regole in armonia con la natura, direi meglio con la geografia, rispondendo dapprima ad esigenze elementari (la difesa, la presenza di acqua, il porsi lungo strade di collegamento, un retroterra agricolo, ecc), dopo a esigenze più alte e urbane (il commercio, l'organizzazione politica, quella religiosa, ecc).
Le città erano fortemente identitarie, il senso di appartenenza alla città era forte e per essere cittadini, come dice Marco Romano, occorreva avere casa in città. Non sono fantasie romantiche ne’ nostalgie mie o di altri, sono studi molto seri effettuati dai cosiddetti muratoriani, dai territorialisti e basta leggere "Lettura dell'Edilizia di base" di Caniggia e Maffei, per averne un’idea.
D'altronde andando su Google Earth ho trovato questa immagine di una favela ovviamente spontanea, ma ripeto spontanea, di Rio de Janeiro dove potrai osservare che il tessuto di base funziona molto meglio di quelli progettati da architetti.
Questa favela, a parte i problemi sociali, urbanisticamente è risolvibile in maniera semplice ma non altrettanto si può dire di interi quartieri di case popolari o di edilizia privata progettati da architetti e citati in libri e riviste. Certamente le case non sono case e mancano del tutto gli edifici collettivi e pubblici e i servizi minimi che sono essenziali a definire città un insieme di case, ma questo è normale perché non siamo in presenza di una società autonoma ma di cittadini marginalizzati, all'interno di una società organizzata e strutturata.
Questa coscienza collettiva non c'è più e non può più esserci. Rassegnamoci e basta.
Io credo (ma faccio una grande semplificazione) che il crescere della libertà abbia determinato la crescita dell'individuo rispetto al gruppo sociale, con l'inevitabile perdita di alcuni valori a vantaggio di altri.
Naturalmente questa trasformazione la considero positiva ma una delle conseguenze negative è proprio la fine di quella città fondata su valori collettivi condivisi.
E’ a questo punto che avviene la divisione sul che fare.
C'è chi ritiene che cambiata la società occorra prendere atto che anche la città si deve adeguare e chi invece ritiene che quei valori urbani siano da riscoprire, perché in gran parte validi, non più come coscienza collettiva ma come "disciplina" che gli architetti, gli urbanisti, gli storici studino e applichino criticamente, adeguandola ai tempi. Ci vantiamo di vivere in una società matura ed evoluta, ed in parte è vero, e ci possiamo permettere il lusso di fare una scelta critica e consapevole di studio e recupero delle regole che hanno determinato città belle e funzionali e applicarle.
Il problema non è se queste regole sono “antiche” ma se sono “valide”.
D'altronde se la stragrande maggioranza della gente (gli architetti non fanno statistica) non è soddisfatta della città vorrà pur dire qualcosa? Se i centri storici hanno valori immobiliari altissimi un motivo ci sarà! E i rapporti di vicinato, come ho scritto un po’ ingenuamente io, sono in realtà relazioni personali e fisiche di cui l'uomo ha bisogno, non sostituibili dal web, che è semmai una risorsa in più, un modo in più per conoscerci in maniera diversa, ma non un’alternativa a quella del contatto fisico e carnale di cui l’uomo non può fare a meno. Come spieghi che i giovani chattano, fanno blog in cui si scambiano sentimenti ma, alla fine, si ritrovano in luoghi deputati, vecchi o nuovi, strusci paesani e/o località balneari a cercare fisicamente i coetanei?
L'uomo non ha perso la sua umanità, ancora la tecnica non c'è riuscita del tutto, anche se ci sta provando fortemente in nome di un'ideologia (prodotto questo molto umano).
Concludo questa lunghissima lettera con il problema, per me, più difficile che tu poni, e che esemplifichi con il grande centro commerciale.
Certamente qui si combattono due diverse libertà in contrasto tra loro: quella di scegliere come spendere al meglio i propri soldi e quella di godere di una città migliore e con maggiori scelte. Intanto osservo la tendenza a piccoli centri commerciali diffusi in città che pare funzionino economicamente molto bene, se ne nascono così tanti, tuttavia è chiaro che il problema resta.
Me la caverò dicendo che ogni teoria ha qualche contraddizione e nodo irrisolto ma questo non giustifica affatto gli sprezzanti giudizi - non tuoi - da superiorità antropologica data da Bilò verso i "millenarismi" e i "pittoreschi impressionismi".
C’è chi vuole aspettare e guardare e chi è contento di come vanno le cose; meglio però i "pittoreschi impressionisti" che cercano di cambiare per fare contento anche Bilò.
Saluti
Piero
11 luglio 2008
MORE ETHICS OR MORE AESTHETICS?
Pietro Pagliardini
E’ un po’ di tempo che si è tornati a parlare di edilizia sociale. L’ultimo articolo di un certo interesse l’ho trovato sul Corriere della Sera del 5 luglio, a firma di Armando Stella.
Intervengono, oltre al Presidente del’Azienda lombarda di edilizia residenziale, alcuni politici e due architetti: Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri.
Fuksas in particolare, come suo solito, non va per il sottile e dichiara, lapidario, che bisogna demolire e ricostruire alcuni quartieri di edilizia popolare perché “il cancro va asportato”.
Senza conoscere troppo la realtà milanese non dubito che abbia, in questo caso, ragione, essendo molti quartieri ex IACP inemendabili e nelle grandi città il quadro è sicuramente più drammatico che altrove.
Stefano Boeri punta il dito contro “I dinosauri di edilizia popolare(che) hanno fallito nella concentrazione e nei servizi, costringendo all' omologazione sociale” .
L’assessore Masseroli parla di creare un mix sociale vero; anche Boeri propone l’eliminazione del vincolo di destinazione nei nuovi edifici, per fare in modo che vi sia mix sociale e funzionale, di residenze, uffici, artigianato, studenti ecc.
Da queste poche frasi per ciascun soggetto riportate nell’articolo risulta chiara la presa d’atto da parte di tutti di un modello sociale e urbano fallito e la affermata volontà di porvi rimedio.
Contemporaneamente a questa presa d’atto del fallimento delle periferie, e dell’edilizia sociale in particolare, si fa strada anche una visione , della professione di architetto,che definisco “etica”, per semplificare, ma forse direi più opportunamente “politica”.
A favore di questo ritorno alla dimensione etico-politica si esprime , ad esempio, Nicola Emery, sempre secondo il Corriere della Sera in un articolo di Pierluigi Panza.Non ho letto i libri di Emery quindi non mi posso esprimere sul suo pensiero, ma uno spunto di ragionamento sul tema è possibile.
Intanto segnalo il fatto che quelle squallide periferie che oggi si vogliono addirittura abbattere sono state progettate da architetti spesso molto “impegnati” politicamente. Se si pensa a tutti i PEEP dalla 167 in poi, occorre tenere conto che dietro ad ogni progetto c’è, prima la volontà di amministratori di realizzarlo, e dopo il disegno del piano ed il progetto architettonico di qualche architetto.
Dunque, alla scelta politica di assicurare una casa a bassi costi, di affitto o di acquisto, a chi la casa non ce l’ha, segue la scelta urbanistica e architettonica.
Non credo si possa negare esserci stata una relazione talmente solida e organica tra l’ideologia della politica e quella del mondo professionale degli architetti da risultare anche difficile stabilire chi sia stato il primo soggetto a dare il fischio d’inizio ad una partita urbanistica che ha dato origine ad interi quartieri che oggi sono riconosciuti essere luoghi di degrado urbano, di bassissima qualità architettonica e convivenza sociale ma, certamente, gli architetti hanno avuto una responsabilità grande che, col passare del tempo, è diventata addirittura prevalente su quella dei politici fino ad influenzarne le scelte.
Si pensi alla mole immensa di leggi nazionali, prima, e regionali, poi, che vedono gli architetti in prima linea nella determinazione delle scelte di fondo, nella loro pervicacia di seguire un modello urbano basato sul lotto con casermone centrale, l’assenza della strada come elemento ordinatore e di relazione per la città, le norme edilizie che hanno portato a limitazioni di ogni genere impostate sul principio di dare un “tetto” e non una “casa” avendo come riferimento e obiettivo per il progetto proletari con “bisogni” piuttosto che uomini con “sentimenti”.
Da qui la scelta di blocchi anonimi e “funzionali” senza il minimo richiamo alle proprietà essenziali di una casa, i progetti eseguiti con la calcolatrice, per verificare le superfici di ogni singolo vano in base al “bisogno” predeterminato per legge da una casta che ha deciso per tutti, e i volumi, rigidamente contenuti da un’altezza massima e inderogabile dell’alloggio di metri 2,70, giustificata da falsi motivi economici ed energetici, in realtà frutto di una visione del mondo oppressiva e occhiuta che non solo interferisce ma addirittura decide ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per “l’uomo proletario”, ne fissa gli stili di vita ed i comportamenti, lo incasella in una condizione sociale di dannazione perenne sia nel luogo di lavoro che nella vita sociale e privata, gli impone, nei casi più estremi, ma non rarissimi, servizi condominiali con logica di tipo collettivista.
L’elemento urbanistico qualificante è costituito dalle parole più utilizzate al tempo e cioè “standard” e “servizi”, in una visione puramente quantitativa e massificante e in una logica di funzionamento meccanicista che li distribuisce nei quartieri mediante lo strumento della calcolatrice, per misurarne il valore pro-capite, e del compasso, per tracciarne i raggi d’azione, ma tutto al di fuori delle regole necessarie ad “innestare la rete”, di relazioni, come dice Salìngaros, o a creare gerarchie stradali e spaziali, come dice la parte migliore della cultura urbanistica italiana.
Quella parte della disciplina che è squisitamente tecnica, che si occupa di standard, utili a determinare, sulla base delle esperienze passate e delle difficili previsioni in una società in perenne cambiamento, una ragionevolmente corretta quantità di certi necessari elementi urbani, fa un salto qualitativo e, con una mutazione genetica, diventa il criterio generatore del progetto.
Non vi è più traccia di fronti stradali continui creati da edifici in diretto rapporto con la strada stessa ed abitazioni affiancate le une alle altre - e ovviamente niente più isolati- in modo tale che non è più possibile alcuna relazione sociale orizzontale di vicinato, sostituta dalla relazione verticale di vano scala o dai “locali condominiali” appositamente deputati alla “funzione”, capaci solo a creare indifferenza, paura, alienazione e conflitti.Gli edifici pubblici (i servizi) non riescono più a diventare “temi collettivi”, per dirla con Marco Romano, privi come sono di ogni valenza simbolica o estetica condivisa, perché calati dall’alto in base ai “bisogni” stabiliti dal potere o dagli architetti o dal potere degli architetti, e collocati nei quartieri senza alcuna possibilità di diventare poli attrattivi nel tessuto della città.
Questi quartieri che gli abitanti non possono riconoscere come luoghi familiari in cui identificarsi, oggi misconosciuti da tutti o quasi, che non hanno niente in comune con la città europea e italiana così come la si conosceva prima, al pari delle periferie della speculazione edilizia, sono stati progettati, esaltati, pubblicizzati, studiati nelle università, inculcati agli studenti , da architetti che hanno trasfigurato una visione “etica” in una dimensione “estetica”, che è un mix diabolico di razionalismo e ideologia politica.
Oggi si rinnega tutto, e questo è un bene perché occorre guardare avanti, ma senza una vera revisione critica delle cause che hanno determinato il disastro delle periferie, e si rischia di battere la stessa strada in forma diversa perché:
• si ripropone da parte di molti la figura di un architetto “impegnato” in prima persona a combattere i mali della società, scaricando le colpe passate e presenti sulla politica, che certo non ne è indenne, ma che ha attinto alla teoria e alla ideologia degli architetti post- sessantotto;
• si continuano a progettare modelli urbani lontani anni luce da quelli delle nostre città storiche, con progetti del tutto simili nella sostanza a quelli che si vogliono demolire, nobilitati apparentemente da un’architettura un po’ più “ricercata”che oggi è di tendenza ma che alla prossima stagione diventerà fuori moda, arricchiti del nuovo simbolo, non si sa bene di cosa, che è il grattacielo, che ogni sindaco che si rispetti desidera, con la copertura ideologica della nuova parola d’ordine dell’urbanisticamente corretto, cioè”sostenibilità”, sostituzione di facciata di quella vecchia, cioè “servizi”. La sostenibilità diventa l’elemento generatore del progetto, in modo del tutto strumentale e sostanzialmente falso, vedi il grattacielo che viene spacciato come tipologia sostenibile, quando è invece l’esatto contrario.
• anche il mix sociale, sostenuto da Boeri, sembra più orientato ad un’operazione di ingegneria sociale (da stato etico appunto) che ad un’idea supportata da un disegno urbano che lo renda effettivamente possibile, dall’unico possibile, cioè quello mutuato e attinto dalla città storica europea.
E non è questione “stilistica” né romantica nostalgia del passato di quattro vecchi babbioni, come vogliono far credere gli architetti appassionati della “modernità”, con lo scopo di relegare ai margini del dibattito culturale, e soprattutto del lavoro professionale e universitario, i sostenitori di un approccio alla città e all’architettura che definisco "antichista" per semplicità e provocazione.
Non si tratta di archi, colonne e timpani, si tratta di disegnare parti di città (che possiamo anche chiamare periferie solo per motivi di distanza dal centro storico) secondo i criteri, ad esempio, dei muratoriani e del loro studio tipologico, della gerarchia delle strade secondo i principi di Caniggia e Maffei, della rete urbana di Salìngaros necessaria ad innescare la complessità dell'organismo urbano, della teoria delle “reti piccolo mondo” in base alla quale le grandi relazioni tra persone partono dalle piccole relazioni ravvicinate, per cui, ad esempio in campo urbanistico, un’unica strada ad alta capacità che unisce due quartieri diversi crea pochissime relazioni mentre un insieme di strade gerarchizzate tra gli stessi due quartieri crea un numero indescrivibile di relazioni.
Il mix sociale si ottiene prima di tutto con un disegno urbano che lo consenta.
Approcci diversi ma tutti convergenti verso una città che riporta alla grande tradizione urbana europea.
Di questo si parla, prima che di archi e colonne. Risolto quel problema del primo ordine la città può sostenere gli archi, le colonne o le espressioni più ragionate della modernità in un mix architettonico che contribuisce alla ricchezza e alla varietà dell’ambiente urbano.
Domanda: che cosa c'entra il post con il titolo?
Niente, è ovvio, esattamente come More Ethics and Less Aesthetics.
N.B. Le immagini aeree sono tratte da Live Search Maps di Microsoft . La scelta delle foto è esemplificativa di due culture e quella della città è del tutto casuale.
7 luglio 2008
UN COMMENTO DI SERGIO PORTA SU NIKOS SALÍNGAROS
Qualche settimana fa Nikos Salìngaros è stato in Italia per presentare il suo nuovo libro ANTIARCHITETTURA E DEMOLIZIONE, traduzione italiana di Anti-Architecture and Deconstruction.
È stato a Milano, Roma, Firenze e Palermo, salvo altre città delle quali non sono al corrente.
Nikos Salìngaros, insegna matematica a San Antonio presso l’Università del Texas e, proprio in virtù di queste sue radici scientifiche, ha sviluppato una teoria urbanistica, legata allo studio delle reti nel suo libro Principles of Urban Structure, e una teoria architettonica nel suo libro A Theory of Architecture, legata allo studio dei frattali.
Ha contribuito alla stesura dell’opera The Nature of Order di Christopher Alexander, edita in quattro volumi, collaborando a tutti i volumi nel ruolo di editore, come ha tenuto correttamente a precisare lui stesso a Firenze.
Salìngaros, pur avendo stretti legami con il mondo culturale che ruota intorno a Léon Krier e al Principe Carlo d’Inghilterra e la sua fondazione, a Andrés Duany e al New Urbanism americano, per citare solo i più famosi, non è portatore, al pari di Alexander, di uno “stile” architettonico particolare ma conduce una sua battaglia, rigorosa e difficile proprio perché priva di un modello stilistico da sbandierare, per l’affermazione di un’urbanistica e di un’architettura in armonia con la natura e con l’uomo, avendo riconosciuto nel modernismo e soprattutto nel de-costruttivismo un virus che mina alla base il rapporto percettivo dell’uomo con il suo ambiente.
Salìngaros non sottovaluta affatto la potenza attrattiva esercitata nella mente umana prima dal modernismo e poi, con potenza amplificata, dal suo esito finale, il decostruttivismo, e ne conosce anche il potere di influenza a livello mediatico globale, ma non rinuncia per questo a denunciarne le false idee scientifiche sulle quali questo basa il suo “culto”. È anche perfettamente consapevole del fatto che l’ironia e la supponenza che spesso riceve da parte del mondo accademico (non tutto però) fa parte appunto del "culto" creato ad arte per non dare spazio alla razionalità. Ma egli sa che, se sottoposto ad un’analisi razionale basata su basi matematiche e biologiche, il culto decostruttivista perde il suo fascino “scientifico” e mostra quello che effettivamente è: un fenomeno mediatico-economico, governato dall’alto e totalmente lontano dai bisogni della gente e per questo il termine “battaglia”, che sembra eccessivo per portare avanti un’idea di architettura, è invece adeguato in quanto l’obbiettivo è del tutto simile all’estirpazione di una malattia dal corpo umano, diffusa a livello planetario.
Prima del suo viaggio in Italia sono apparsi suoi articoli nel Corriere della Sera, Il Domenicale, Il Giornale e Libero. Una gran parte del bel saggio del filosofo Roger Scruton contro gli archistar apparso su Il Foglio è dedicato proprio alle teorie di Salìngaros.
Nel mondo dei blog si è interessato a lui, oltre a questo naturalmente, Archiwatch del prof. Giorgio Muratore con una serie di commenti e scritti, alcuni dei quali appunto ironici, altri supponenti ma, guarda caso, proprio da parte di chi ha potuto e voluto andare ad ascoltarlo, anche di grande attenzione e interesse.
Perciò, dopo questa necessaria premessa, riporto di seguito un commento lasciato da Sergio Porta, ricercatore di ruolo al Politecnico di Milano proprio nel blog Archiwatch, perché ha il merito di sintetizzare in poche righe gran parte dei problemi cui Salìngaros intende dare risposta.
Sergio Porta
Cari tutti, un paio di parole su Salìngaros, visto che è stato ospite al mio laboratorio di progettazione urbanistica a Milano prima di venire a Roma.
Esiste una intera area della ricerca in architettura e, specialmente, in urban design, che si occupa da molti anni di costruire un effettivo superamento del moderno, visto che la storia dei molti post-moderni architettonici non ha fatto altro che replicarne alcune caratteristiche di fondo trovando, infatti, esiti del tutto conseguenti.
Quali sono queste caratteristiche di fondo?
Un atteggiamento “eroico” verso se stessi e la propria missione nel mondo, un approccio “artistico” all’architettura, che ha trasformato un’arte pratica (e una scienza sperimentale) in una pura arte visiva, un sostanziale distacco verso l’esito sociale, ora perfino teorizzato, perfino insegnato. Questo ha contribuito, ritengo in modo essenziale, a costruire la città disumana del secondo novecento.
Nell’urban design si vede con grande chiarezza come l’insegnamento modernista abbia consapevolmente sovvertito gli elementi chiave della struttura dello spazio tradizionale (dimensione degli isolati, dimensione dei lotti, allineamento edificio strada, rapporto lotto-strada e edificio-lotto, rapporto centralità-usi, processo urbanistico congiunto invece che disgiunto, auto-organizzazione, evoluzione e complessità del tessuto…) e come questo abbia, in modo del tutto pratico, prodotto guasti evidenti.
Alcuni dei più noti disastri urbanistici del secolo scorso sono stati disegnati dai più celebrati maestri del modernismo, anzi mi pare innegabile che ci sia una sorta di progressivo ritiro della nostra disciplina in se stessa, una disciplina che ha dimenticato di operare il confronto con gli esiti dei propri principi, con la pratica dei comportamenti e con la soddisfazione degli utenti (cioè degli uomini e delle donne che abitano le città).
Questo deve fare riflettere. Questo ci deve fare riflettere. Salìngaros ci fa riflettere su questo.
Ma Jane Jacobs, Oscar Newman, Allan Jacobs, Peter Bosselmann, Jan Gehl, Chris Alexander, Peter Newman, Richard Rogers, LLewelyn-Davies, Sjoerd Soeters, tanto per andare dagli anni Sessanta ai giorni nostri, per incrociare scale e esperienze anche molto diverse e per dimenticarne altri 100, tutti NON tradizionalisti nello stile architettonico, sono compagni di strada di Salìngaros.
Poi possiamo continuare a credere alle caricature e alle semplificazioni, che è tanto più comodo perché ci divertiamo e evitiamo le sfide vere (anche intellettuali). Però non serve.
Links e bibliografia:
Nikos Salìngaros
http://www.technepress.nl/publications.php?id=5
http://www.umbau-verlag.com/SHOP2.html
http://zeta.math.utsa.edu/~yxk833/socialhousing.pdf
http://zeta.math.utsa.edu/~yxk833/arch-biologicalform.html
http://archnet.org/library/documents/one-document.jsp?document_id=10066
http://archnet.org/library/documents/one-document.jsp?document_id=10330
Chistopher Alexander
http://www.natureoforder.com/index.htm
4 luglio 2008
GEHRY E LA ROTTURA DELLA SCATOLA
In un’intervista al Corriere della Sera Frank O’Gehry parla di molte cose e risponde tra l’altro alla fatidica domanda sulle archistar.
Gehry si schermisce, dice di non sentirsi archistar e aggiunge:
“Se possono spingere un giovane architetto a migliorarsi, ad essere sé stesso, ben vengano le archistar”.
Ecco, è proprio questo il problema: essere di esempio ai giovani e anche i meno giovani!
Essere archistar, o architetto di successo globale, non è certo un delitto né una colpa; è un po’ come essere ricchi (e probabilmente lo è anche ricco), non è peccato, anzi, per me è un merito, beati loro e beato Gehry, che poi sembra anche un nonno bonario e sicuramente ha qualità fuori dal comune, anche se talvolta usate in modo perverso.
Il problema sono proprio gli allievi; non solo quei pochi che hanno la fortuna, o sfortuna, di stare accanto al maestro (in fondo può essere anche una fortuna, perché i miti visti da vicino, talvolta, possono perdere un po’ di aura) ma quei molti, troppi architetti che leggono le riviste, i giornali, guardano i film, ascoltano i professori, vedono la pubblicità, ecc. e pensano: voglio fare come lui, voglio “essere” come lui, voglio creare, questa è architettura, rompe gli schemi e, come si dice nelle motivazioni del premio della Biennale suggerito da Betsky, rompe anche “la scatola” architettonica.
Intanto chiamare, che so, Palazzo Rucellai, una scatola architettonica (perché è una di quelle che lui avrebbe rotto), mi sembra grossolano prima che irriverente, poi questo premio, oltre che imbalsamare Gehry (è alla carriera), alimenta il “mito” e allora giù altri architetti che lo vorranno imitare.
Per dirla tutta: quante opere può fare Gehry nel corso della sua vita (che ovviamente mi auguro sia lunghissima)? 100, 200, esagero 300. Di queste trecento quante saranno quelle tipiche da archistar? Diciamo 50. Ebbene il mondo può sopportare certamente 50 opere di Gerhy. Ci sono ben altri problemi: l’inquinamento, il traffico urbano, le inondazioni, i terremoti, l’incuria dei monumenti, l’abusivismo, gl i innumerevoli grattacieli senza la griffe degli architetti, le scorie radioattive, ecc. cosa volete che siano 50 opere di Gehry-archistar!
Ma, a fronte di queste 50, ci sono … 100.000? architetti che, basta che riescano una sola volta nella loro vita a fare i Gerhy e il danno diventa planetario, le città vengono inondate di pseudo-cloni (sicuramente peggiori dell’originale). Moltiplicate questo numero per ognuna delle archistar viventi, più le mini-archistar di casa nostra che hanno anche loro i proprio cloni, e si raggiungono cifre spaventose. Soprattutto danni spaventosi all’architettura, all’ambiente urbano e a quello naturale.
Eppoi non ci sono mica solo gli architetti! Ci sono anche i politici, i sindaci e gli amministratori che, in assenza di idee per la loro città, mascherano la loro pochezza con l’effetto Bilbao. Già, anche gli amministratori vanno dal dentista e leggono le riviste di moda che illustrano le meraviglie di queste architetture e sognano in un colpo solo di risolvere i problemi: passare alla storia e attirare i turisti.
L’ultima trovata è del sindaco di Salerno che avrebbe voluto incaricare Gehry del progetto del nuovo termovalorizzatore. Niente, è andata male e così anche Gehry, l’archistar, ha provato sulla sua pelle l’effetto perverso che dicevo, perché, in Italia, gli amministratori le archistar le desiderano, le evocano, le contattano anche, fanno un bell’annuncio nel giornale ma poi.. si affidano ai cloni.
Chissà se avremo un termovalorizzatore con un po’ di lattoneria luccicante aggiunta sopra!
3 luglio 2008
ANCORA SUI GRATTACIELI "SOSTENIBILI" (3)
Le radici invisibili del grattacielo: Un grattacielo succhia e depreda risorse enormi da una grande area della città, e indebolisce e debilita il tessuto urbano circostante.
Enciclopedia Treccani, definizione di sviluppo sostenibile:
"Strategia di sviluppo tecnologico e industriale che tenga conto, nello sfruttamento delle risorse e nelle tecniche di produzione, delle condizioni e delle compatibilità ambientali".
Le compatibilità ambientali di un grattacielo non sono solo quelle legate ai consumi energetici e, quindi, allo sfruttamento delle risorse naturali, del quale ho già detto nei precedenti post, ma anche e soprattutto quelle legate all’ambiente urbano, che è il luogo di vita dell’uomo.
Le disfunzioni che crea un grattacielo nella città, tanto più un insieme di grattacieli, sono ben studiate e descritte da Nikos Salingaros nella sua teoria sulle reti urbane e da Christopher Alexander nel suo A Pattern Language.
Nikos Salingaros:
“Senza una sufficiente densità e varietà di nodi, i percorsi funzionali non possono formarsi e così ci troviamo ad affrontare la segregazione, da una parte, e la concentrazione, dall’altra, delle funzioni che, nel nostro tempo, hanno distrutto la rete urbana. Semplicemente non c’è abbastanza varietà di nodi in ogni regione urbana omogenea tale da riuscire a formare una rete.
Perfino quando esistono queste possibilità, le connessioni vengono normalmente interrotte dalle leggi dello zoning.
Distinti tipi di elementi, come quello residenziale, commerciale e naturale, devono compenetrarsi per catalizzare il processo di connettività.
Le città disfunzionali concentrano nodi dello stesso tipo, mentre quelle funzionali concentrano coppie di nodi contrastanti”.
I grattacieli sono nodi straordinariamente forti, attrattivi e dello stesso tipo e creano disfunzioni nella rete impedendo il processo di connettività nella rete urbana la quale, invece, rende la città permeabile e funzionale, al pari di un organismo vivente. In questo senso un grattacielo è un pò come un tumore, cioè cellule impazzite che non rispondono più ai meccansimi fisiologici di controllo.
Il disegno all’inizio, inviatomi da un amico, sintetizza bene il concetto espresso: il grattacielo attira attività e consuma risorse ed inoltre distrugge la rete urbana.
Su Christopher Alexander rimando ad un prossimo post.
Alcuni link che sull'argomento:
http://lakis.typepad.com/city_of_the_future/2008/05/a-few-months-ag.html
http://lakis.typepad.com/city_of_the_future/2008/05/panel-discussio.html
http://zeta.math.utsa.edu/~yxk833/tallbuildings.html
1 luglio 2008
QUALCHE NUMERO INTERESSANTE SUI GRATTACIELI "SOSTENIBILI"
Pietro Pagliardini
Premessa: questo post è un pò noioso perchè ci sono numeri ma se interessa sapere qualcosa di più sui consumi energetici dei grattacieli vale la pena tenere duro e arrivare in fondo; oppure... andare direttamente in fondo.
A distanza di solo cinque giorni dal post “GRATTACIELI SOSTENIBILI E….SOSTENUTI", riprendo il tema perché, a proposito della presunta sostenibilità dei grattacieli “sostenibili”, ho trovato in Internet un documento assolutamente straordinario e molto ben informato sui grattacieli: è uno studio eseguito per conto di società di assicurazioni e riassicurazioni, datato aprile 2000, da una società di servizi aziendali di cui in fondo al post fornisco tutti i dati.
Questo è il link per poter scaricare liberamente il documento:
http://www.munichre.com/en/publications/default.aspx?publicationLanguage=2&category=3
(N.B. il link va ad una pagina in inglese ma, selezionando l'italiano e cliccando search si arriva al punto giusto).
Serve ovviamente alla valutazione del rischio per le compagnie assicuratrici, si compone di 164 pagine, è corredato da foto e affronta il tema grattacieli sotto ogni aspetto, da quello storico, simbolico e religioso a quello più squisitamente tecnico, strutturale, economico, impiantistico, ecc.
Togliendo la parte di commento per le assicurazioni potrebbe essere oggetto di un’ottima pubblicazione piuttosto rara da trovare. Evidentemente le compagnie di assicurazione pagano molto bene perché le risorse umane impiegate sono veramente numerose e competenti.
Qui mi limiterò a due argomenti anche se molti altri ve ne sono di significativi:
1. Gli aspetti micro e macro-economici
2. Gli aspetti sociali ed ecologici, che più specificamente sono in tema con la “sostenibilità”.
E’ stata per me una sorpresa leggere che:
“Centinaia di imprese e migliaia di persone dipendono dal buon funzionamento di un grattacielo: dall’impresa individuale di un’edicola o di un lustrascarpe alle grosse imprese con migliaia di dipendenti come le banche, i broker o i global player dal fatturato giornaliero di miliardi (la moneta di riferimento è il marco), per finire alle società radiofoniche, televisive e telefoniche, che utilizzano i tetti e le cime dei grattacieli per i loro impianti ricetrasmittenti. Poi ci sono innumerevoli altre aziende – imprese di trasporto, società di catering, aziende artigianali, ecc. con un contratto a tempo indeterminato – e lavoratori con famiglia, la cui situazione economica è legata indissolubilmente in modo diretto o indiretto al buon funzionamento del grattacielo.
Non va dimenticato inoltre che anche le amministrazioni comunali e le imprese di alimentazione smaltimento dei rifiuti risentono pesantemente del disservizio di un grattacielo. Nel peggiore dei casi gli effetti si fanno sentire a livello nazionale, se non addirittura internazionale.
Questo scenario non si presenta soltanto in caso di un collasso totale, come dopo un incendio di vaste dimensioni o un crollo. Un grattacielo è, nonostante le sue dimensioni, o proprio per questo, un sistema incredibilmente sensibile e vulnerabile”.
Da questo breve brano si comprende bene la complessità e la vulnerabilità di un grattacielo che coinvolge un numero di persone consistente e grandi numeri dal punto di vista economico. La società mette evidentemente in guardia le compagnie di assicurazione chiamate a valutare i rischi di una polizza per un grattacielo.
Ma più interessanti ancora sono gli aspetti sociali ed ecologici, trattati al punto 2.6
“Si dice – e diversi studi lo dimostrano probabilmente – che la convivenza umana in grattacieli funziona meno bene che in quartieri urbani omogenei cresciuti nel tempo e caratterizzati da un numero limitato di piccole unità abitative” Omissis.
“Strutture demografiche compatte ed omogenee, formatesi nel tempo e aventi effetti positivi sul comportamento sociale del singolo, si riscontrano solo raramente. Sotto quest’ottica non è completamente campata in aria l’accusa che i grattacieli siano un ambiente ostile per le famiglie ed i bambini”.
Si parla poi dei processi di ghettizzazione derivanti dal fatto che una cattiva manutenzione può provocare, facendo scappare le famiglie più agiate e lasciando l’edificio a famiglie più povere, con ulteriore peggioramento della manutenzione e l’insorgere del degrado.
E prosegue:
“Studi hanno dimostrato senza ombra di dubbio che i grandi caseggiati, e in particolare i grattacieli, favoriscono anche la criminalità”. Ne spiega poi le ragioni, che tralascio per non farla troppo lunga.
Viene poi affrontato il tema energetico:
“Un grave difetto dei grattacieli, che forse un giorno segnerà la loro fine, è l’enorme consumo energetico. Essi si allontanano al massimo dalla forma ideale per un ridotto consumo energetico, la sfera o, per le case, il cubo. Ciò vale sia per il riscaldamento che per il raffreddamento. Le facciate di alcuni grattacieli devono essere raffreddate di giorno e riscaldate di notte per evitare eccessive tensioni dannose. Il Word Trade Center (ricordo che questo testo è del 2000, prima dell’attentato) consuma per esempio nelle ore di forte irradiazione solare 680.000 kWh al giorno di energia elettrica per la climatizzazione, la Messeturm a Francoforte sul meno consuma mensilmente per il condizionamento dell’aria, energia pari a 40 marchi per metro quadrato di superficie utile. Per contro una casa ben isolata a basso consumo energetico consuma meno di 1 marco di energia a metro quadrato.
Il bilancio energetico di un grattacielo lascia a desiderare anche per altri aspetti, per esempio sotto quello dell’approvvigionamento idrico, che funziona in genere solo con moltiplicatori di pressione, dello smaltimento dei rifiuti e dell’esercizio degli ascensori.
In generale, sotto l’aspetto dell’economia edilizia, i grattacieli sono sempre la peggiore delle soluzioni prospettabili. Si comincia dalla costruzione particolarmente dispendiosa di energia, e quindi costosa, per finire con la demolizione dai costi altrettanto sproporzionati. Per i grattacieli vengono usati inoltre quasi solo materiali che il bioarchitetto cerca di evitare, come il calcestruzzo, l’acciaio, i metalli leggeri, le materie plastiche e le sostanze chimiche più disparate.
Gli inquilini sono soggetti senza rendersene conto a costanti influssi dannosi quali emissioni nocive ed elettrosmog. I grattacieli vengono definiti talvolta come microcosmi e i loro artefici lo intendono certamente come un complimento. Ma la realtà è diversa: le persone che vivono in un grattacielo sono completamente isolate dall’ambiente circostante, da agenti esterni come il vento e il tempo atmosferico, la temperatura, gli odori, i rumori e gli umori; essi vivono insomma in un mondo artificiale.
Anche l’ambiente circostante subisce però un influsso negativo: i grattacieli possono provocare infatti nelle loro immediate vicinanze turbolenze e venti catabatici, speso fastidiosi effetti abbaglianti, alcune zone adiacenti sono immerse costantemente nell’ombra e le facciate illuminate o con ampie superfici vetrate sono una trappola mortale per molti uccelli.
Anche la gente all’esterno si sente e spesso osservata o minacciata dalla sensazione che da un momento all’altro possano cader degli oggetti. Del tutto ingiustificato non è questo timore: è già accaduto infatti che che per il forte vento parti dell’edificio, per esempio lastre di vetro, si siano staccate dal loro alloggiamento ed abbiano ferito o ucciso persone per la strada”.
E con questo mi sembra abbastanza chiaro il fatto che parlare di grattacieli sostenibili sia effettivamente una presa in giro. Vorrei sottolineare proprio l’aspetto energetico con il dato impressionante sopra riportato: un grattacielo divora 40 volte l’energia di una casa ben isolata a basso consumo energetico.
Ma voglio ipotizzare un’esagerazione degli autori (ma non ce ne è motivo perché non riguarda un rischio assicurativo, e un miglioramento, a distanza di otto anni, delle prestazioni dei materiali e che quel grattacielo sia particolarmente sprecone. Invece non credo sia da abbassare il rapporto per il fatto che la casa presa a paragone era a basso consumo energetico, perché con le leggi odierne lo sono tutte.
Dimezziamo tuttavia la differenza e ipotizziamo solo un rapporto di 1 a 20.
Questo significa che un’abitazione normale di 100 mq consuma mensilmente per il condizionamento dell’aria (riporto in euro):
€ 0,50x100= € 50,00/ mese
mentre un appartamento della stessa superficie di 100 mq in un grattacielo (dopo la mia ipotesi di dimezzamento):
€ 0,50x20x100= € 1000,00/mese.
(Ricordo che secondo quanto indicato nello studio in realtà il valore sarebbe di € 2.000,00).
Ma se a qualche spendaccione la differenza economica a parità di appartamento non facesse sufficiente effetto, prendiamo come unità di riferimento il numero di persone.
Ipotizziamo 4 persone per ogni alloggio di mq 100:
a parità di energia
• su un grattacielo si rinfrescano n° 4 persone
• su abitazioni normali si rinfrescano n° 80 persone.
Continuiamo con questa unità di riferimento:
un grattacielo abitato da 4.500 persone
consuma tanta energia quanto
case normali abitate da 90.000 persone.
Cioè un grattacielo di 4.500 abitanti consuma quanto un capoluogo di provincia, esempio a caso, Arezzo, 90.000 abitanti.
Francamente quando ho scritto quel post non immaginavo nemmeno io un rapporto di queste proporzioni.
Che altro aggiungere? Che sostenibilità è un concetto un po’ troppo elastico per i grattacieli?
Sì, penso proprio che si possa dire con sufficiente tranquillità.
Il testo da cui ho attinto i dati è stato redatto da:
© Aprile 2000
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