Pietro Pagliardini
“I greci antichi erano una civiltà che ha creato monumenti in modo comunitario, che sentiva di avere una responsabilità collettiva verso la cosa pubblica e che aveva chiara la relazione tra il pubblico e il privato. Questa civiltà ha creato un' architettura e un' urbanistica che sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”.
Chi ha scritto queste frasi? Léon Krier o il Principe Carlo o Marco Romano o qualche storico dell’architettura?
No, l’ha scritto Rem Koolhaas sul Corriere della Sera e questo è proprio l’incipit dell’articolo e il ragionamento che Koolhaas dipana successivamente è estremamente sapiente e degno di tutta l’attenzione possibile.
Dice l’architetto olandese che attualmente il conflitto tra pubblico e privato ha raggiunto il massimo e ormai volge a tutto vantaggio di quest’ultimo.
Lo strapotere della finanza, che viene sinteticamente rappresentato con le moneti forti, Yen, euro e dollaro,spinge ad una architettura “stravagante”, non vi sono più certezze, manca qualsiasi spinta ideale e siamo passati dall’eccesso di utopia alla sua mancanza assoluta, e ciò è un male.
Personalmente sono del tutto d’accordo.
Cita poi una serie di casi sintomatici, che sono incontrovertibili, in cui si manifesta in maniera esasperata questa situazione di sostanziale stravaganza, meglio, follia architettonica e urbanistica: Cina, Dubai, Florida, Singapore, Las Vegas e altri, e aggiunge che siamo alla tragedia dell’“apoteosi della città”.
Un passo dell’articolo, sulla Cina, è significativo: “Del vasto repertorio di tipologie rimangono solo il grattacielo e la baracca; questa gamma ridotta di tipologie è utilizzata in nuovi quartieri dall' aspetto caotico”.
Insomma, sembra proprio che Koolhaas si sia ricreduto, che voglia cambiare strada ma l’articolo finisce senza nulla proporre, senza dare un’indicazione, senza indicare una qualsivoglia strada, in un senso o nell’altro, si interrompe bruscamente, quasi a rappresentare l’ineluttabilità di questa tendenza, l’impossibilità e l’inutilità di opporsi al divenire delle cose e al fato.
Tale costruzione retorica è sicuramente accettabile in uno scrittore o in un filosofo che, da semplice spettatore, constata con amarezza o con lucida razionalità la fine di una civiltà urbana, la descrive con rigore, la denuncia ma non ha strumenti, o intenzione, né per fare proposte generali né per dare suggerimenti specifici; il filosofo Emanuele Severino, ad esempio, sostiene con convinzione e argomenti provenienti dalla ragione, in base alle premesse che egli pone, l’ineluttabilità del potere della tecnica sull’uomo.
Nulla importa che Severino se ne compiaccia o ne sia addolorato, perché il suo scopo è solo la comprensione, non la presa di posizione.
Rem Koolhaas, viceversa, non è solo un intellettuale che analizza la realtà urbana “dal di fuori”; la sua analisi non è esterna alla realtà che egli esamina; Koolhaas è anche e soprattutto un architetto, un archistar, uno che ha dato e continua a dare il suo bel contributo alla situazione che egli denuncia, è all’interno del gioco, è, volente o nolente, uno degli attori in scena e l’attore non si mette a fare il critico della propria commedia nel momento in cui la recita. Tra l'altro, per quello che conta, il nome di Koolhaas compare, unico architetto, nella rivista TIME tra quello dei cento personaggi più influenti al mondo, quindi si ritiene che egli abbia qualche capacità di influenzare il corso degli eventi. Non è, cioè, uno che si deve adattare a subire.
Se, per assurdo, Severino fosse anche uno scienziato che lavorasse nel campo della genetica, il suo pensiero, ancorché fosse valido, sarebbe inficiato in buona parte dal suo lavoro di scienziato. Chiunque sarebbe autorizzato a pensare che potrebbe avere un interesse di parte e soprattutto sarebbe un’analisi “dal di dentro”, cioè disturbata dalle inevitabili interferenze.
Koolhaas non sembra porsi questo problema. Lui lavora a Dubai, lui lavora a New York, lui teorizza la Junkspace e, contemporaneamente, afferma che l’architettura e l’urbanistica greca “sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”. Già in questa affermazione mi sembra di leggere una sorta di falsa coscienza poiché non è assolutamente vera, il modello dominante (quello del potere dominante intendo) essendo esattamente l’opposto e non credo che Koolhaas non lo sappia.
A me sembra che il significato dell’articolo non sia affatto un richiamo amaro alla realtà bensì quello di fare accettare la realtà così com’è perché il potere che la guida e la indirizza è talmente forte che opporvisi non solo non servirebbe ma sarebbe addirittura pericoloso.
L’articolo è, a mio parere, assolutamente funzionale a quel potere perché tende a depotenziare l’eventuale volontà di opporvisi ridicolizzandone, il velleitarismo; quindi lui che non solo non vi si oppone, con i progetti, ma anzi lo incoraggia e lo esalta, sta dalla parte della vittoria e perciò della ragione (la ragione non è mai dei vinti), tutti quelli contro dalla parte sbagliata. Inutile perciò perdere tempo e discutere: adattarsi è la strada giusta.
D’altronde in un articolo del New York Times di Nicolai Oroussuff sul progetto di Koolhaas a Dubai, il critico di architettura del NYT riassume l’atteggiamento dell’architetto in questa sua frase “cercare l’ottimismo nell’inevitabile”.
Una strategia perfetta, veramente temibile perché frutto di una notevole intelligenza unita alla scelta “vincente".
Il problema non è, tuttavia, l'atteggiamento personale di questo o quell'archistar, che interessa relativamente, il punto è l'abilità incredibile del sistema di potere economico, di cui parla Koolhaas, che riesce contemporaneamente a fare scempio di città e territori e consuetudini locali, distrugge le identità, colonizza i paesi emergenti e i paesi arabi (non esportando democrazia, che potrebbe anche andare bene, ma sostituendo una cultura con un’altra) e, contemporaneamente, riesce a criticarsi, lasciando le cose esattamente come stanno. E’ un sistema tanto diabolico da sembrare parodistico.
A chi non fosse d’accordo non resta che cercare di comprendere cosa c’è sotto, sollevare il velo e scoprire cosa si nasconde dietro la cortina di parole suggestive e intriganti perché logiche; e la logica va smontata sia con le sue stesse armi, cioè la logica stessa, sia con la realtà dei fatti, perché la logica non prevede la verità assoluta, ma solo quella relativa alle premesse da cui parte.
26 luglio 2008
L'ANTICA GRECIA, LA CINA, DUBAI E REM KOOLHAAS
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2 commenti:
In effetti i libri di Koolhaas amOma mi piacciono (al di là di tutto sono scaltri, divertenti intelligenti ecc.), non mi piace la sua architettura e trovo che abbia un influsso negativo (le cose dei nuovi spagnoli sono troppo influenzate dalle sue cose).
E' va bè, è così, è blasè.
Cool cool cool
Yeah :-)
Te lo sai Biz, che io, per contratto con l'editore, non posso prendere in surplasse questi articoli, anche se lo farei molto volentieri. Un blog fazioso richiede sempre di essere molto in tiro, altrimenti rischio il licenziamento. Pensa a D'Avanzo su Repubblica se, per una sola volta, si facesse una bella risata sulle intercettazioni! E invece, niente, sempre molto serio. Ecco, quando lui si farà una risata sulle intercettazioni io mi farò una bella risata su questi articoli.
Saluti
Pietro
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