La lettura dell’articolo di Roger Scruton (Il Foglio, 22 marzo 2008), L’architettura tra arte e scienza, costringe ad una riflessione sul senso di questo faziosissimo blog, dedicato all’architettura tradizionale, che è poi una semplice riflessione sullo stato dell’architettura contemporanea.
Scruton, riferendosi ad alcuni autori - Salingaros, Sindler e Glazer - che scrivono contro l’architettura dell’archisystem, costringe a porsi la seguente domanda: l’alternativa alle assurdità architettoniche contemporanee è il ritorno al classicismo e al vernacolo di Krier, agli archi, alle colonne, ai timpani, o è forse possibile un’architettura “autenticamente moderna” che rappresenti la nostra società ma che riesca a conservare il senso della tradizione e della storia di millenni di civiltà urbana?
Posta così la domanda, non sembra che possano esservi dubbi: è certamente vera, e perciò preferibile, la seconda strada.
Però…. la realtà è un po’ più complessa di come appaia per diversi motivi:
1) Esistono certamente ottime architetture moderne e contemporanee che rispondono a requisiti di ordine geometrico, o matematico, come dice Salingaros, rispettose dell’equilibrio psicologico di chi le abita e di chi le frequenta nel proprio ambiente di vita, e ve ne sono anche di molti architetti italiani; qualche esempio: Adolfo Natalini, Gino Valle, il miglior Aldo Rossi, e molti altri. Il problema è che questi sono grandi architetti ma non grandi maestri, nel senso che la loro architettura è difficilmente trasmissibile sotto forma di insegnamento se non come pura replica di forme. A me sembra che loro stessi difficilmente potrebbero insegnare e trasmettere ad altri le regole costruttive che governano le loro costruzioni, a parte suggestive descrizioni letterarie stile l’architettese incomprensibile a tutti, figuriamoci a studenti di architettura (che infatti lo capiscono male e parlano sempre più architettese dei loro professori).Quando va bene la loro scuola riesce a riprodurre gli stessi elementi compostivi del maestro, a fare uso di alcuni caratteri formali che però, alla lunga, invecchiano inesorabilmente, privi come sono dello spirito creativo di quelli e senza alcuna teoria a sostenerli. Insomma, credo che quei bravissimi architetti abbiano prodotto le loro opere migliori più in forza dell’intuizione che non di una consapevolezza delle regole che stavano seguendo e questo per il fatto che anche loro erano o sono figli del disordine culturale dell’avanguardia del primo mezzo secolo scorso. Se anche avessero saputo, difficilmente avrebbero potuto dire, per non restare emarginati dal mondo accademico e professionale.
Dunque, primo problema: la non trasmissibilità delle regole attraverso l’insegnamento.
2) Attualmente l’architettura è il luogo dello scontro, del tutto impari in verità, tra un imponente sistema editoriale, pubblicitario e accademico che conosce, o meglio, riconosce solo l’architettura “creativa e geniale”e promuove le archistars dell’architettura al pari dei cantanti pop, delle dive del cinema, delle griffe della moda quali le uniche in grado di garantire risultati mirabolanti in termini di ritorno d’immagine, pubblicità, marketing, investimenti (in realtà i fallimenti non sono pochi, si legga questo link al New York Times). L’architettura tradizionale, quella che invece è la più apprezzata dai consumatori, dalla gente, quindi da coloro che pagano per averla e utilizzarla, è relegata dalla critica ufficiale, cioè quella imperante, a pura nostalgia del passato, quando va bene, a spazzatura, quando va male. Non c’è concorso di architettura che possa vedere un architetto tradizionale vincente, non c’è cattedra universitaria significativa che gli possa essere assegnata, non c’è rivista di architettura che gli dedichi, se non con giudizi sprezzanti, un articolo importante. Se è vero che proprio in questi giorni sono apparsi articoli interessanti su Libero, il Domenicale, il Corriere della Sera, il Foglio che affrontano i guasti del decostruttivismo, resta tuttavia la grande sproporzione delle forze in campo.
In una situazione come questa sperare di discutere di una terza via per l’architettura è assolutamente impossibile, velleitario e, soprattutto, perdente. Intanto perché chi cerca strade autonome è molto probabile che lo faccia partendo dal modernismo imperante per cercare di mitigarlo, migliorarlo o forse mascherarlo; soprattutto è probabile che conservi il mito della centralità dell’architetto, di colui che si guarda il proprio ombellico e pensa che sia il centro del mondo; invece è la strada inversa quella da seguire: partire dai valori, dalle regole universali dell’architettura tramandataci dalla storia, accettare queste regole, digerirne la sostanza e dopo, solo dopo, cercare declinazioni diverse ad una regola generale sempre valida.
Insomma è una questione di tattica, esattamente come in politica: se c’è un sistema politico che uccide la libertà di espressione è inutile tentare strade intermedie che ne addolciscano le ricadute negative: prima va combattuto quel sistema per mettere il re a nudo. Solo dopo sarà possibile ricostruire e proporre e discutere serenamente.
Se è consentito un paragone politico di attualità bisogna seguire la strada di Berlusconi nella politica italiana: per 13 anni ha combattuto aspramente (ampiamente ricambiato) quelli che lui chiamava, non senza ragione, i comunisti poi, una volta nato il partito democratico che sembra avere espulso ali radicali e “comuniste” appunto, è diventato dialogante, serio, talvolta ecumenico, alla ricerca di soluzioni condivise. Prima c’è la stata la pars destruens, adesso dovrebbe seguire la pars construens.
Per questi motivi questo blog è faziosamente di parte; di blog che discutono “democraticamente” di architettura ce ne sono a migliaia ma, guarda caso, i nomi e le opere che vi circolano sono sempre gli stessi, quelli dello star system.
Pietro Pagliardini
30 marzo 2008
BLOG FAZIOSO? SI', GRAZIE
27 marzo 2008
UNA LETTERA DI ROBERTO VERDELLI
Questa lettera dell'amico Arch. Roberto Verdelli nasce come commento ad un mio post ma mi sembra che la sua giusta collocazione sia questa. Il suo pessimismo è largamente giustificato ma una speranza c'è: in questo strano paese basta uno scossone, un fatto traumatico per cambiare il modo di pensare dell'opinione pubblica (cioè dei mass media): si guardi ad esempio come lo scempio spazzatura a Napoli abbia dato voce ad un ambientalismo più razionale e fattivo. Vedrai, Roberto, che prima o poi San Gennaro punirà anche gli architetti. Qualche segnale sulla stampa di questi giorni si è vista (Il Domenicale, Il Foglio, Libero).
Caro Pietro,
io c'ero già arrivato. Al blog, intendo. E se ci sono riuscito vuol dire che non deve essere così difficile. Penso che stai facendo una cosa buona e per me consolatoria, anche perchè sto maturando l'idea di essere dalla parte perdente. Irrimediabilmente perdente. Sconfitto da quella cultura che, rivendicando il diritto di poter esprimere il presente crede di poter fare tutto ed il contrario di tutto, senza dover rendere conto di nulla. Una lobby potente, fatta di pochi adepti, ma che ha una grande capacità di attrazione. Una lobby che predica: il diritto alla creatività, alla libertà di espressione e, sopratutto, il dovere di trasgredire le regole. In breve, o forse meglio, il diritto all'ignoranza. E quale sirena può sedurre di più, in un mondo sciatto, superficiale ed incolto, di quella che libera dalla conoscenza delle regole?
Alcuni studenti vengono bocciati all'esame perché, nel centro storico di Firenze, si azzardano a presentarsi col progetto di un edificio con il tetto a falde inclinate, in concorsi di progettazione su piazze storiche si premiano progetti che assomigliano a negozi di mutande con pedane in legno wengé e passerelle fisse per sfilate di mode.Infine, anche la chiesa secolare, reclama progettazioni moderne di edifici religiosi, di modo che, fra qualche anno ritornando a Scicli mi invierai la foto di un bel palazzo barocco con accanto una brutta chiesa moderna.Tu che hai la volontà e ne sei capace insisti con il tuo "blog". Bravo!
Roberto
ALLE RADICI DELL'ARCHITETTURA, un libro di Giulio Rupi
Un libro pubblicato da Giulio Rupi qualche anno fa, “Alle radici dell’Architettura”, Alinea editore, è una interpretazione originale dell’architettura quale figurazione e rappresentazione della complessità dell’ordine della natura, come dice Salingaros. Ho chiesto a Rupi di fare uno sforzo impossibile per sintetizzare il contenuto del libro in una delle sue divertenti vignette e lui, re-interpretando l’uomo di Leonardo e uno dei noti schizzi di Leon Krier, mi ha fornito questo disegno.
Paragoniamo questo disegno con questo progetto realizzato di Libeskind ed ecco schematizzata una teoria dell'architettura.
Per chi fosse interessato ecco un link dove è ancora possibile trovarlo:
http://www.internetbookshop.it/code/9788881250509/rupi-giulio/alle-radici-dell.html
19 marzo 2008
IDENTITA' E MODERNITA'
di Pietro Pagliardini
L’architettura moderna prodotta dallo star system dell’architettura, e dagli emuli di provincia, distrugge l’identità delle città, le omogeneizza, le rende tutte eguali l’una all’altra.
Le città perdono, con pochi interventi mirati, quel patrimonio di cultura accumulato nel corso dei secoli. Il tutto in nome della modernità: ma la modernità non ci dice niente sulla forma che essa dovrà assumere.
Modernità significa rispondere ai bisogni della società contemporanea, significa ad esempio, che se una città ha bisogno di collegamenti veloci si devono fare collegamenti veloci, se ha bisogno di un centro per la cultura giovanile, si deve fare un centro per la cultura giovanile, ma non ci dice nulla sulla forma che queste opere dovranno assumere. Chi l’ha detto che il collegamento deve essere una monorotaia che passa sopra una città e chi l’ha detto che il centro per la cultura deve essere una forma ameboide di metallo e vetro? L’architettura non è un abito che cambia con le stagioni e le sfilate di moda, non risponde al bisogno di cambiamento che nasce dalla necessità di vendere sempre nuovi prodotti e alimentare il mercato; e la città non è un negozio che deve cambiare sempre per reggere il confronto del mercato.
In una società matura inserita nel mercato globale l’identità culturale di ogni popolo, di ogni nazione, di ogni città deve essere salvaguardata, non fosse altro perché è un valore economico, tanto maggiore quanto più grande e nobile è la sua identità.
Su Wikipedia, per restare nel mondo di Internet, alla voce identità c’è scritto:
In sociologia, nelle scienze etno-antropologiche e nelle altre scienze sociali il concetto di identità riguarda, per un verso, il modo in cui l’individuo considera e costruisce sé stesso come membro di determinati gruppi sociali: nazione, classe sociale, livello culturale, etnia, genere, professione e così via; e, per l’altro, il modo in cui le norme di questi gruppi consentono a ciascun individuo di pensarsi, muoversi, collocarsi e relazionarsi rispetto a sé stesso, agli altri, al gruppo a cui afferisce ed ai gruppi esterni intesi, percepiti e classificati come alterità.
Se questo è vero, è vero sempre, è vero anche oggi a meno che non si pensi davvero che l’uomo “contemporaneo” sia antropologicamente diverso da quello di cent’anni fa. Quando appare diverso è solo perché condizionato dai modelli culturali inoculati dai media.
Dunque l’identità ha un valore fortemente positivo perché favorisce l’integrazione dell’individuo nel gruppo anche se, portata agli eccessi, se le identità etniche diventano troppo forti, può portare allo scontro tra diverse identità. Ma questo ci dice molto anche su come l’architettura e l’urbanistica possono favorire, chiamiamola così, l’identità buona, quella che integra e accoglie, quella che aiuta l’individuo a sentirsi sicuro all’interno del proprio ambiente senza per questo temere altre identità. Ad esempio una città separata in quartieri caratterizzati ciascuno da una nazionalità diversa è una città che non comunica, in cui ognuno vive chiuso nella propria zona. E’ la fine della città europea e certamente la fine di quella italiana. Ma la fine della città europea è segnata anche da organismi edilizi ad essa estranei che nulla hanno a che fare con la tradizione architettonica, che creano una “rupture” nell’ambiente dell’uomo.
Le rivolte delle banlieue dovrebbero fare riflettere perché sono un esempio di scuola: luogo della divisione e dell’emarginazione sociale e di un ambiente urbano disumanizzante perché privo di qualsiasi identità cosicchè i suoi residenti non appartengono a nessun gruppo sociale, né a quello di origine né a quello di adozione.
L'identità di una città significa dunque che quella città deve informare, comunicare i propri segni distintivi a chi vi abita; deve dire loro: "Io sono la tua città e non un'altra, tu sei nel luogo giusto perchè mi riconosci, perchè mi sono identificata, perchè tra quello che hai visto nel centro storico e quello che vedi qui, in periferia, non c'è molta differenza, hai visto segni omogenei anche se con alcune variazioni; stai tranquillo, non ti sei perso". E quando gli abitanti di una città vanno a visitarne un'altra, questa dirà loro: "Hai visto come sono bella? diversa dalla tua città ma ugualmente bella. E' bello conoscere città diverse, come è bello conoscere persone diverse. Pensa che noia se tu incontrassi persone tutte uguali!"
17 marzo 2008
PREGHIERA, di CAMILLO LANGONE
Camillo Langone, scrittore e giornalista de Il Foglio, si occupa di vini e cibo, Messe (plurale di Messa), tradizioni, donne, architettura - l’ordine non è necessariamente gerarchico- insomma del bello della vita. Non lo conosco personalmente, ma mi ha consentito, nel giro di venti minuti, tramite mail, di poter pubblicare come post questa sua Preghiera, rubrica quotidiana, dedicata all’identità delle nostre città.
Grazie
Pietro Pagliardini
Web site di Camillo Langone: http://www.camillolangone.it/
Preghiera
di Camillo Langone - da Il Foglio di mercoledì 5 marzo 2008
Dio che accechi chi vuoi perdere, perché proprio i sindaci italiani? Non potresti abbagliare i sindaci del Burkina Faso, dove tanto non andrò mai? Il City Brands Index 2008 ha decretato che la città più riconoscibile del mondo è Sydney. Anno dopo anno le città italiane declinano verso l’irriconoscibilità, tiene soltanto Roma (grazie a San Pietro e al Colosseo, nonostante Richard Meier). Ovvio, non c’è un nostro sindaco che abbia aperto gli occhi sul concetto di “site specific”. A Milano chiamano Libeskind per costruire un grattacielo che la renda simile a Busan, Corea del Sud. A Reggio Emilia vanno fieri di Calatrava col suo ponte seriale che fa tanto Argentina e Wisconsin. A Salerno il nuovo tribunale di Chipperfield mette i brividi, siccome formato dagli stessi parallelepipedi che l’architetto inglese ha piazzato ad Anchorage, Alaska. Con grande spesa le città italiane si camuffano, cercano di sfuggire all’identificazione, come fa chi ha commesso un crimine, chi vuole farsi dimenticare.
EQUIVOCI, scritto per il foglio dell'Ordine Architetti Arezzo
Vecchio e Nuovo.
I due aggettivi richiamano alla memoria altri opposti di uso comune:
Riformista - Conservatore
Bello - Brutto
Buono - Cattivo
Giusto - Sbagliato
ecc., ecc.
Questi termini così categorici non servono solo a collocare noi stessi rispetto al mondo e a far capire agli altri cosa e come pensiamo ma servono soprattutto alla nostra mente per semplificare, discernere e catalogare comportamenti, situazioni, oggetti, individui.
La cultura della modernità tende a farci attribuire a Vecchio una valenza prevalentemente negativa e a Nuovo una prevalentemente positiva; per Riformista-Conservatore vige la stessa regola.
Gli altri opposti, invece, non si discutono, rappresentano un valore assoluto, non relativo alle circostanze e il giudizio di valore non è dipendente dal periodo storico, culturale o sociale.
Dunque:
Bello, Buono e Giusto ......... sono termini ....... sempre positivi.
Vecchio e Conservatore ...... sono termini ....... quasi sempre negativi.
Qualche esempio:
-Conservatore, usato come sostantivo, è anche l’iscritto al nostro Ordine che si occupa della Conservazione dei monumenti e dei beni artistici e perciò si suppone abbia valore positivo;
-Vecchio attribuito a certe qualità di vino ha un valore (anche economico) fortemente positivo.
-Muore un anziano politico di “destra” molto stimato in quanto onesto, retto e coerente nelle sue scelte di vita e amici e avversari - in vita - gli rendono omaggio - in morte - definendolo “un esempio di Vecchio conservatore”: usati insieme i due negativi diventano “molto” positivi (tanto è morto e non da noia a nessuno)
-Però “Vecchio conservatore!!!” gridato alla stessa persona in vita durante una discussione politica sarebbe suonata come “molto” negativa anzi dispregiativa.
-Il Riformista è anche il titolo di un giornale: mica avranno dato un titolo negativo ad un giornale!
-Però “Riformista!!!” detto fino agli anni ’70 (e oltre) da un comunista ad un socialista era molto più di un’offesa (a parere del comunista, non del socialista che però s’incazzava lo stesso).
Dopo questo delirio verbale che neanche il Prof. Alberoni (che peraltro non leggo perché il lunedì non compro mai giornali e comunque non compro quasi mai il Corriere della sera) veniamo al dunque: come la mettiamo con l’architettura?
Per capirsi: semplificherò attribuendo a Vecchio il significato di Antico e a Nuovo quello di Moderno e che mi riferirò all’architettura moderna, con significato esclusivamente temporale e non stilistico. In campo architettonico l’ambivalenza nel significato di Vecchio e Nuovo è ancora più in relazione alla fonte di provenienza. Vi sono sostanzialmente due gruppi sociali diversi che utilizzano i due termini con valore diverso:
Gruppo A
E’ quello che ha la voce più forte, è l’establishment dell’architettura, cioè il mondo accademico, che trova sponda nel mondo dell’editoria (per pochi intimi), che dirige senza alcun controllo i concorsi, facendo ben attenzione a non premiare i migliori ma ad alimentare le proprie opinioni e a fare favori che saranno restituiti quando si invertiranno le parti. Se la suonano e se la cantano. Per questa “casta”, Vecchio ha connotazione fortemente negativa; anzi, per una consolidata tecnica egemonica, Vecchio non esiste proprio: ignorare per discriminare; chi lo predica non ha neanche diritto d’asilo culturale, non ha voce, non si discute con questi ignoranti. Solo il Nuovo esiste. E l’altra “casta” che con essa dialoga, quella dei politici, l’ha accontentata, inserendo nella legge Merloni un bel punteggio per premiare la “sperimentazione” nei concorsi. Sperimentazione è sinonimo di Nuovo e poiché, notoriamente, siamo agli albori di una civiltà urbana, dato che viviamo in villaggi decrepiti di capanne e visto che il territorio della selvaggia Italia ed Europa è una tabula rasa in cui architetti d’estro devono inventare città e case, la legge è Riformista e premia le invenzioni.
Gruppo B
E’ il gruppo della massa (che paga) di utenti, cittadini, fruitori dei singoli beni e della città nel complesso, i quali non sono addetti ai lavori, non conoscono tutte le sfumature del linguaggio architettonico, non hanno necessariamente cultura storica o artistica, esprimono più un bisogno di pancia che una riflessione critica consapevole ma chiedono “segni” evocativi di quella civiltà urbana o rurale che viene, dalla contro-parte (che riscuote), ritenuta tanto indegna da essere ignorata con la sperimentazione. E allora per soddisfare chi apprezza (e paga) quei “segni” di Vecchio, ecco che il mercato si attrezza con un repertorio di archetti e capitelli in c.a., tetti di svariata tipologia, timpani, colonne, ecc. insomma quanto di meglio noi tecnici riusciamo a fare per soddisfare quel bisogno, con i pochi mezzi culturali di cui disponiamo, visto che all’università ci hanno insegnato solo forme astratte nello spazio vuoto con cui si vincono i concorsi ma non si mura un metro cubo che uno. E le nostre città diventano le sommatorie di Nuove lottizzazioni, con case che sono un simulacro e una parodia del Vecchio e che finiscono per fare il gioco di coloro che aspirano al Nuovo.
In realtà questo è il solito gioco di potere di una minoranza che riesce a imporre alla maggioranza il proprio punto di vista mediante legami forti di casta e fra caste. Io penso (se non si fosse ancora capito) che il Gruppo A, che predica il Nuovo, sia Vecchio e Conservatore (in senso negativo) e il Gruppo B che aspira al Vecchio sia Nuovo e Riformista (in senso positivo), perché penso che l’architettura Vecchia sia prevalentemente Positiva, mentre quella Nuova prevalentemente Negativa.
L’equivoco sta nel fatto che l’architettura che si professa Nuova è Vecchia, quella Vecchia è Nuova.
Come tema per il prossimo numero di questo foglio consiglierei di prendere in esame una delle seguenti coppie di opposti:
mondo accademico - mondo professionale
disegni - realizzazioni
architettura delle riviste - architetture della gente
che è poi come dire, in altro campo:
stato - mercato
istituzioni - società civile
Sarebbe un modo utile per capire, non rassegnarsi e cominciare, per esempio, a discriminare i falsi cultori del Nuovo.
UNA CITAZIONE DI LUCIEN STEIL
La contemporaneità non può essere ridotta a una permanente umiliazione del nostro giudizio morale e del nostro buonsenso estetico!
La contemporaneità non é una qualità, non é uno stile, non é una religione, non é una saggezza, non é un'abilità, non é una estetica, non é una promessa, non é un ideale e neanche una delusione!
Quello che é semplicemente la contemporaneità, é il fatto di essere qui, adesso!
RISPOSTA ALL'ARCH. MARIO MASCHI
di Pietro Pagliardini – Luglio 2007
Dopo le considerazioni dell’arch. xxxxxxx sul recente convegno dell’Ordine, avevo preparato un mio contributo “ad adiuvandum” le relazioni dei colleghi Grifoni e Verdelli. Devo dire che il testo dell’amico Mario è stato provvidenziale e mi ha fermato in tempo, togliendomi dall’imbarazzo di dare inizio ad uno scambio polemico, sul piano culturale, con xxxxxxx.
Non posso fare a meno di cogliere nella lettera di Mario un tono molto diverso dal solito, più riflessivo, a volte quasi malinconicamente pensoso e meno carico di quelle certezze sull’architettura e sulla professione che lo hanno caratterizzato nel recente passato. Non solo: l’analisi che compie sulla qualità dell’architettura legata alla qualità della società e non ingenuamente figlia di una generica “cultura del progetto”, quasi che il progetto fosse la religione dell’umanità e gli architetti i suoi sacerdoti (questo non lo dice lui ma è una mia interpretazione) è condivisibile e mostra una notevole maturità nel valutare il fenomeno nella sua complessità, non riducendolo a sterile discussione interna ad una categoria professionale.
Se questo è vero mi viene da domandarmi: non sarà mica possibile, d’ora in poi, esporre le proprie idee con serenità, apertura e attenzione alle ragioni altrui? Sarà veramente possibile stare dalla parte della tradizione senza essere vilipesi e offesi (sempre culturalmente, intendo) e non essere spregiativamente e banalmente definiti “conservatori-storicisti”?
Sarà anche possibile che si riconosca che il pensiero unico, in qualunque campo, è sempre e comunque un male perché ogni manifestazione dell’uomo, compresa la fede religiosa (basti pensare alle diverse interpretazioni teologiche), è complessa e, senza cadere nel relativismo, si danno spesso verità molteplici?
A leggere Mario sembrerebbe proprio di sì.
Stia tranquillo, Mario, non voglio rovinare la sua reputazione arruolandolo abusivamente nella pattuglia degli antichisti. Anzi, ad interrompere l’idillio, dico subito che l’atteggiamento dialogante è la cornice, ma è il quadro che conta e su questo ho alcune osservazioni da fare.
Al convegno io ho seguito le sole relazioni di Grifoni e Verdelli. Da Grifoni ho ascoltato una lezione di alto livello sulla storia del territorio, condensata in quattro pagine; è partito dai primi insediamenti umani ed è arrivato ad individuare alcuni criteri per il presente e il futuro, con raro rigore logico e senza nulla concedere alla politica e alla platea, dissenziente ma silenziosa perché priva di risposte adeguate a quel livello.
Citerò sinteticamente alcune proposte di Grifoni:
1) La strada è l’elemento ordinatore e fondativo dello sviluppo
2) Continuità del tessuto costruito (quindi niente coul-de-sac, o strade interrotte)
3) Coincidenza tra facciate e limite dello spazio stradale
Siamo d’accordo su questi tre punti essenziali?
Se sì, è necessario trarne le conseguenze e ammettere che l’urbanistica moderna con il suo puntare tutto sull’architettura (magari ottima architettura) come oggetto isolato dal contesto, senza relazione con la strada e il tessuto, che trova solo in sé la propria ragione di essere, trascura completamente i tre principi sopra esposti e il risultato è un non luogo che nasce dall’astrattezza del disegno e completamente ignorante delle regole di crescita della città.
Si prenda, ad esempio, il recente villaggio olimpico di Torino che, esaurita la funzione sportiva, dovrebbe diventare un normale quartiere residenziale. Indubbiamente vi sono architetture di qualità ma cos’ha a che vedere con la città? Lo si guardi in pianta e sembrerà un bel quadro ma una città non segue le regole della pittura.
Anche i deprecati archetti e le colonnine sono un problema di secondo ordine, il primo essendo il metodo di crescita dell’insediamento. Una corretta urbanistica può avere la forza di riscattare una pessima edilizia ma è molto difficile il contrario.
Se invece non si è d’accordo, pazienza, però, una volta tanto, se ne spieghi il perché e si proponga l’alternativa. Condivido anch’io l’auspicio di xxxxxxx che nei nostri incontri e convegni si possano sentire voci e proposte diverse ma mi domando come mai, visto che “la contemporaneità” è egemone nel mondo dell’editoria, specialistica e non, in quello dell’università e, soprattutto, in quello dei tanto mitizzati concorsi, come mai, dicevo, non si riescono ad ascoltare tesi argomentate e credibili a difesa dell’architettura e dell’urbanistica contemporanea nel nostro territorio?
Mi domando: sarà mai possibile che si alzi un collega e contesti punto per punto quanto esposto da Grifoni e proponga una lettura diversa e, perciò, una proposta diversa, non basata sulle parole d’ordine modernità, sperimentazione, cultura del progetto ma su fatti, analisi e proposte?
Infine mi domando: qualcuno mi vuole spiegare per bene che cazzo è ‘sta “cultura del progetto” di cui parla xxxxxx? di quale progetto, per fare quale progetto? Me lo dite, per piacere, con parole vostre, tali da risultare comprensibili a persone di media intelligenza?
In effetti i sostenitori della modernità in urbanistica raramente, per non dire mai, riescono a dimostrare, in maniera altrettanto logica, colta e profonda di quanto abbia fatto Grifoni, i loro teoremi, i quali, in effetti, risultano puri atti di fede nel progresso con lo strano sillogismo che, se tutte le arti e le scienze progrediscono, altrettanto devono fare l’urbanistica e l’architettura, le quali dovrebbero diventare “testimoni del loro tempo”. Vorrei osservare che, nel campo scientifico, ad esempio nella medicina, il progresso ha un fine preciso: curare le malattie degli uomini e, perciò, migliorarne la qualità della vita. Qual è il fine dell’urbanistica? Se ne potrebbero trovare una molteplicità ma, stringi, stringi lo scopo ultimo è sempre lo stesso: migliorare la qualità della vita dell’uomo attraverso la creazione di un ambiente urbano, che è quello naturale per l’uomo, in cui sentirsi a proprio agio, che abbia e che crei identità, che non sia straniante, che consenta di abitare, lavorare, muoversi, amare, morire, discutere, soffrire, cioè vivere, nel miglior modo possibile. Ora mi sembra che, semplificando per modelli, quello dei nostri centri storici, abbia dalla sua i punti maggiori per soddisfare quei requisiti. Non vi è dubbio che non può essere riproposto tal quale, non foss’altro perché c’è la novità dell’automobile ma, per il resto, si crede davvero che l’uomo, dal Movimento moderno in poi, sia così antropologicamente cambiato da avere bisogno di luoghi così diversi da quelli di sempre? Internet funziona benissimo anche in via Cavour, la televisione lo stesso, passeggiare sotto i portici per mostrare gli ultimi capi griffati è molto più appagante che farlo al multisala, il Martini Point funziona ai Bastioni ancor meglio di come funzionasse in fondo a via Romana.
Piuttosto io credo che il vero nemico delle nostre città e delle nostre campagne sia, nel presente e ancor più nel futuro, il modello di casa dei sogni cui ognuno aspira e che tutti hanno in testa e cioè la casa singola, cioè l’elemento base di una città atomizzata all’ennesima potenza. E’ facile comprendere questa tendenza, che è di carattere sociale e che esprime la rivincita dell’individuo sul gruppo; difficile è contrastarla, escludendo la via autoritaria del “decido io” dell’architetto.
Il ripensamento di questo modello insediativo che anche negli USA, patria dell’individualismo, sta maturando ci può far ben sperare ma nel frattempo resterà ben poco del nostro territorio. L’unica proposta (non è un granché, mi rendo conto) è quella di un’azione costante di convincimento e di ripetizione degli stessi concetti detti da Grifoni e da Verdelli (Giulio Rupi dice che bisogna battere sempre sullo stesso chiodo) ma il punto è, e qui concludo, caro Mario: se l’alternativa che viene offerta al cittadino è quello di un’urbanistica astratta, senza altra regola che non sia la genialità dell’architetto, senza legame con il territorio e la propria storia, senza radici; se si deve scegliere tra la creatività dell’architetto e la casetta singola immersa nel verde, cosa pensi che andrà a preferire la gente?
Se si confondono le grandi opere simboliche, in genere legate ad eventi mediatici particolari (Olimpiadi, Esposizioni, Centenari ecc) con l’edilizia di base di tutti i giorni, come si può competere con il desiderio di vivere (apparentemente) in pace nella casetta immersa nel verde (privato) dei propri sogni? Ci possiamo limitare a demonizzare queste aspirazioni liquidandole come frutto dell’ignoranza?
Queste domande non sono formulate per avere una risposta ma per seguire la saggezza di un amico e sono, perciò, colpi di martello sullo stesso chiodo: chissà che alla fine non si riesca a conficcarlo!
LE PERIFERIE URBANE, UN FALLIMENTO EPOCALE
di Giulio Rupi
Bruciano le periferie di Parigi, ma anche in Italia c’è chi lancia l’allarme e teme analoghe reazioni di fronte al degrado delle nostre città: ecco allora che, inevitabilmente, insieme alle considerazioni sugli aspetti sociali del problema, tra le cause del malessere urbano si tirano in ballo anche gli aspetti materiali, cioè la conformazione fisica delle nostre periferie e le colpe di chi le ha così progettate.
Chi scrive si è confrontato fin dagli anni 60 con i molteplici fattori che hanno determinato il processo di costruzione delle città: l’insegnamento della progettazione urbanistica e architettonica nell’Università, una nutrita successione di leggi in materia di Urbanistica e di Edilizia Pubblica, il dibattito nazionale e internazionale degli addetti ai lavori, dal Modern al Postmodern alle polemiche sui “Maledetti Architetti”.
Ne ha tratto la convinzione che “tutto si tiene”, cioè che le teorizzazioni del Movimento Moderno, l’insegnamento del mestiere di progettista nelle scuole secondarie come nelle facoltà universitarie, la conduzione delle riviste specializzate, le scelte dei concorsi di Architettura, la mentalità dei funzionari pubblici, l’elaborazione delle leggi di settore e la loro applicazione nella costruzione della città, fossero tutti aspetti assolutamente correlati e consequenziali di un unico sistema culturale, forte e coerente, tuttora egemonico.
Di conseguenza pare improbabile che si possa far fronte al fallimento epocale nella costruzione delle periferie urbane utilizzando gli strumenti culturali di sempre, senza ripensare a fondo le teorizzazioni e i luoghi comuni che sono alla base di questo fallimento e che tuttavia si danno tuttora per scontati.
Eccoci allora ad enumerare alcuni degli aspetti di questo pensiero unico che “da sempre” hanno presieduto alla costruzione della città.
La distruzione dello spazio urbano da spazio interno a spazio esterno: dagli “interni” delle piazze e delle strade dei centri antichi alla “Ville radieuse” degli edifici isolati in mezzo alla Natura. Le Corbusier disse testualmente (e coerentemente, dal suo punto di vista) che bisognava “distruggere i Centri Storici delle città europee” e realizzò quella “Unité d’abitation” che nella sua forza teorica è paradigma e premonizione di quello che sarebbe poi successo in tutte le periferie del Mondo.
Lo spazio urbano non è più un interno, quasi un prolungamento dell’abitazione, uno spazio amichevole di strade delimitate da edifici e di piazze come “salotti”: si sfrangia e diviene un esterno, un vuoto popolato di edifici isolati: questo è voluto e teorizzato, è coerente con quel pensiero unico.
Le architetture divengono così monumenti isolati. In uno spazio di questo tipo ogni episodio architettonico è un monumento. Non si crea più un tessuto urbano di strade e di piazze, ma una serie di episodi architettonici in uno spazio non più strutturato. E’ voluto e teorizzato: in qualsiasi concorso vincerà tuttora non chi cerca umilmente di ricreare uno spazio urbano ma chi esibisce il suo particolare monumento di architettura.
Così l’Architetto diviene “Artista”, si distrugge ogni continuità con il passato, ogni regola d’arte trasmissibile e le Università sfornano ogni anno migliaia di progettisti che si affacciano al lavoro, ognuno con l’intenzione di diventare “un grande Architetto” e mettere la propria indelebile firma sul territorio liberando la propria disinibita fantasia di Artista.
L’abitazione, o meglio “la casa”, il luogo della famiglia, il luogo in cui si costituisce l’autonomia dell’individuo, diviene “macchina per abitare”, diviene “un servizio” per il cittadino, privo di ogni valore simbolico.
Così negli anni 70 si promulgano leggi per l’edilizia popolare che fissano parametri su parametri e costringono sia ad una progettazione omologata (i “quartieri della 457” tutti uguali e riconoscibili in qualsiasi città d’Italia) sia a scelte tecniche di bassa qualità, che portano gli edifici a un degrado veloce. E su questa filosofia si è teorizzata e praticata la cosiddetta “industrializzazione edilizia”, che funziona solo su interventi di grande dimensione e con progettazioni ossessivamente omologate.
Parallelamente a questo tutto il sistema si evolve in maniera che i meccanismi, le strutture che presiedono alla costruzione della città debbano accrescersi in dimensione e complessità.
Chi ha fin dagli anni 60 partecipato alla costruzione di case in cooperativa sa che in quegli anni le cooperative erano ancora costituite dagli stessi utenti finali che si costruivano l’alloggio “in prima persona”. In seguito, per la promulgazione di una serie di leggi sulle assegnazioni e sui finanziamenti, la gestione è passata a strutture di livello superiore, più grandi e complesse, ed oggi l’utente della cooperativa non differisce di molto da un qualsiasi acquirente del mercato privato. Così si è interrotto il confronto tra i progettisti e i cittadini, che era un tempo la caratteristica della cooperazione.
Perché infatti fondamentale e comune a tutte le diverse facce di questo unico problema è il rapporto paternalistico nei confronti dell’utente che è sotteso a questo sistema culturale. Mentre per chi progetta un’automobile è fondamentale il gradimento finale dell’utente, per chi progetta la città è del tutto indifferente la verifica finale dei “consumatori”, il cosiddetto “successo di pubblico”. Vale solo il consenso interno a questo sistema, costruito sulle riviste specializzate, sulle cattedre universitarie e sui concorsi di progettazione.
Resta il fatto che l’altra faccia di questa medaglia, cioè dell’indifferenza alle reazioni dei consumatori, è proprio il degrado e l’esplosione delle periferie.
Così è più facile risanare con urbanizzazioni e servizi i quartieri abusivi costruiti in proprio dalla gente secondo un qualche criterio spontaneo, piuttosto che por mano alla riqualificazione di alcune tristemente famose macrostrutture, i cosiddetti “mostri” realizzati nei PEEP dalla mano pubblica e subito rifiutati dalla gente che li ha condannati a un veloce degrado. Per questi edifici l’unica soluzione rimane la demolizione.
Ma allora, se “tutto si tiene”, se cioè questo sistema culturale assolutamente coerente e inattaccabile (non c’è a tutt’oggi concorso in cui possa prevalere un progetto ideologicamente estraneo a questo sistema) ha governato fin qui la costruzione della città ed ha prodotto questi risultati, come si può far conto che dal suo interno sorga la soluzione del problema, se non ci sarà prima un “cambio di paradigma” che ne rimetta in discussione tutte le premesse?
Un filo di speranza viene dagli Stati Uniti, dove si va facendo strada la corrente del “New Urbanism”, un movimento che, partendo dalla constatazione del fallimento della città americana costruita sulle teorizzazioni del Modernismo, ne ha rimesso in discussione tutti i postulati e guarda ai valori urbani dei Centri Storici europei. Così noi Europei rischiamo di attardarci nell’ultimo degli ismi sopravvissuti, il Modernismo in Architettura, mentre altri si ispirano per il loro futuro proprio a quei meravigliosi spazi urbani che la nostra cultura ha saputo costruire in passato.
Lettera di un modernista pentito ad un antichista incallito
Caro Roberto,
ti mando una foto di Ragusa-Ibla, una della Chiesa Madre di Scicli e una di un paesaggio del ragusano . Sul paesaggio della prima foto mi sono affacciato per una settimana almeno due volte al giorno, ed ogni volta non ho potuto fare a meno di constatare quanto ampio sia il solco che divide il vecchio dal nuovo, l'antico dal moderno. La foto della Chiesa di Scicli con accanto la scuola non ha bisogno di commenti. Quella del paesaggio parla di un dialogo corretto con l'ambiente.
Sono considerazione vacanziere, fatte in surplace, con i calzoni corti e le ciabatte.
Giulio dice che la Toscana non ha retto alla modernità ed ha ragione, ma non è un difetto genetico di noi toscani perchè neanche la Sicilia ha retto. In realtà credo che non abbia retto nessun territorio che possedesse una storia e qui la storia trasuda da ogni sasso, da ogni albero, da ogni giardino (gli aranceti), da ogni muro a secco lungo le strade e tra i campi, dalle facce della gente di campagna non ancora segnata dalle rotondità del benessere.
Sarà che nei luoghi non familiari l'occhio è più attento e critico ma a me sembra che qui non vi sia uno, dico uno, esempio di modernità, in sè bello o brutto, che possa reggere il confronto con il vecchio, che abbia una dignità, che si inserisca armonicamente con la natura o con la città. Ogni nuova costruzione o manufatto è uno strappo, un'offesa a ciò che esisteva e questo a prescindere dall'abusivismo o dalla regolarità della costruzione, dalla pianificazione o dalla spontaneità della stessa.
E qui la spontaneità abbonda; mentre da noi si limita a qualche baracchetta di campagna trasformata in residenza domenicale, in Sicilia vi sono intere zone "spontanee", castelli di c.a. abbandonati, case di tre piani con un piano finito e due grezzi, non si sa mai. Gela e Vittoria sono intere città "spontanee", inemendabili (viene voglia di sperare che sfugga qualche missile dalla vicina base di Comiso).
Ma il problema non è l'abusivismo, il problema è che la modernità non ha trovato canoni adeguati ai luoghi che possiedono una storia. Costruzioni normali, di qualità non pessima, sia come progetto che come esecuzione, sono totalmente dissonanti con il contesto naturale e/o urbano. Se fai attenzione potrai notare che il progettista della scuola di Scicli, in fondo, si è anche sforzato di interpretare forme barocche in chiave moderna: forse non era nemmeno uno sprovveduto per essere un progettista di paese negli anni 60!!!
Un territorio come questo, aspro, pietroso, arido, assolato, caratterizzato dalla dominante giallo-dorata delle sterpaglie e dal segno grigio della pietra che riverbera i raggi del sole, con piantagioni rade di olivi misti a carrubi, con i campi segnati non dai fossi (acqua poca) ma dai muri a secco che non hanno, in genere, funzione di retta, come in Toscana, ma di divisione delle proprietà e contenimento delle mandrie e che formano un reticolo fitto in cui questi sembrano vene sporgenti sul corpo rinsecchito di un affamato, non può sopportare né la casetta del geometra con la terrazza a sbalzo torno, torno né il condominio in c.a. verniciato al plastico, con le finestre orizzontali o verticali da cima fondo. La masseria o la villa con gli annessi attaccati sono le tipologie per questo territorio: tertium non datur, o almeno non ho visto altro di adeguato.
Constato tutto ciò con grande rammarico e con un senso di sconfitta, non tanto perchè io ho sbagliato a credere nell'architettura moderna quand'ero più giovane (di questo me ne frego alquanto, perchè è meglio accorgersi dei propri errori che perseverare, anche in politica), ma perchè scopro che la modernità e il progresso che hanno il grande merito di produrre benessere, ricchezza e libertà hanno fallito totalmente proprio nel campo della nostra "disciplina" mentre medici, informatici, agronomi, ecc possono essere orgogliosi delle loro scoperte. Noi architetti invece dovremmo solo vergognarci perchè non abbiamo capito veramente niente, ma in compenso non ci è mancata arroganza e presunzione. Ma queste sono considerazioni "intimistiche" che non hanno rilevanza generale.
Il vero rovello è invece di tipo intellettuale e consiste nel non riuscire a trovare soluzioni ai problemi, nel dover accettare e digerire il PARADOSSO DELLA MODERNITA': la libertà produce una società anti-urbana.
Proprio una società di uomini liberi che dovrebbe esaltare la polis come il luogo di massima espressione di libertà genera invece l'esplosione e la distruzione della città.
In fondo, duole ammetterlo, i ragionamenti di Branzi hanno un fondamento. Una società libera fatta da individui non uniti da forti legami tradizionali non può che portare alla disgregazione della città. Ogni individuo è un universo e ogni universo è un mondo a parte, che ha un suo inizio e una sua fine e non comunica con l'altro: come sperare di trovare valori comuni per la città! Certo la risposta di Branzi è quella di una presa d'atto di questa realtà e dunque la città non può che nascere dalla mente degli architetti creatori o creativi, che trattano l'architettura come un fatto di costume, come la moda o il design, come semplice comunicazione. Fare architettura o urbanistica, in queste condizioni, diventa solo un fatto di potere, come fare pubblicità ad un prodotto, perchè il potere più grande non è quello politico ma quello della comunicazione, del messaggio pubblicitario. L'architetto più bravo è l'architetto più potente, quello che riesce ad affermare il suo prodotto che dura una stagione (non so dire se la stagione dell'architettura sarebbe quello di una collezione autunno-inverno oppure avrebbe tempi più lunghi).
Ma la risposta di Branzi (o Mendini o Fuksas o chi altri) non soddisfa (non tanto per ma la "gente") e allora l'unica alternativa, molto pragmatica e molto poco dogmatica è quella di tornare all'antico nella semplice constatazione che soddisfa di più l'occhio e, forse, anche la coscienza. Se milioni di persone si spostano per visitare i centri storici italiani ed europei vuol dire che certi canoni formali sono duri a morire nel cervello della gente, o forse si adattano più ad esso che non le astrazioni dei suddetti Maestri. E allora ben venga Krier con le sue paradossali, buffe ma evocative architetture, ben vengano i muratoriani con la loro città irriproducibile (distanze, codice della strada, sismica, USL, sicurezza, anti-incendio, barriere architettoniche, ecc): sempre meglio un simulacro di città antica che una non-città.
Adesso avrai capito perchè il buon Giulio, nel suo foglietto in cui traccia una linea tra architetti modernisti e antichisti mi abbia collocato molto vicino al confine: io sono un border-line. Non riesco infatti, ed è un mio limite, a separare la scelta architettonica dalla società che la produce.
La libertà genera solitudine, individui liberi ma isolati l'uno dall'altro, che si riuniscono per lavorare, per grandi "eventi" (concerti, manifestazioni politiche, discoteche, vacanze, acquisti, ecc) ma che, in quanto liberi, sono incapaci di accordarsi insieme in un progetto unitario e condiviso di città. Ognuno ha la propria visione del mondo e aspira a vederla riconosciuta e nessuno è disposto a rinunciarvi. La Prova d'orchestra di Fellini è la miglior descrizione visiva di quanto penso: ogni musicista va per conto suo e il direttore è incapace di tenere unite le individualità.
La solitudine è il prezzo della libertà; solitudine esistenziale e solitudine sociale: il canone urbano e architettonico della solitudine è il vuoto, non il pieno. Nel vuoto non c'è città.
Per me che, nonostante recenti traversie personali, non ho perso l'ottimismo di fondo che mi fa vedere tutti i lati positivi del nostro tempo rispetto a quelli passati è durissimo (intellettualmente e non a livello di conflitto personale) non riuscire a risolvere questa contraddizione.
E allora, CHE FARE?
Sposare la causa degli antichisti, direbbe Danilo; ricreare false condizioni sociali perchè il bello è meglio del brutto (direbbe Catalano) sperando che ci sia più da ristrutturare che da creare ex-novo (ristrutturare vuol dire leggere ciò che c'è già e, oltre che più facile, crea meno problemi di coscienza).
Inoltre vi è, fortissima, la motivazione economica: il nostro territorio è veramente una enorme risorsa da conservare e valorizzare; distruggerlo con i nostri mostri moderni è come dare fuoco ai pozzi di petrolio.
Ma voglio concludere con una nota di ottimismo: la scelta antichista è anche il frutto di una società evoluta economicamente e culturalmente, post-moderna, non industriale ma terziaria avanzata, la quale, esaudito ed esaurito in gran parte il fabbisogno abitativo, si pone il problema di migliorare la qualità della vita e per fare ciò si rivolge a quei modelli più collaudati e che hanno più appeal sul mercato. Risolto il problema dell'essenziale, ricchi e pasciuti ci preoccupiamo del superfluo e il gusto si affina, nelle arti, nella cultura, nella moda, nell'alimentazione, nell'abitare e affrontiamo argomenti di ordine superiore, più evoluti.
Per fare ciò è necessario studiare quei modelli (tornano in campo i muratoriani) e applicarli con serietà altrimenti facciamo come la Fiat, che a furia di sbagliarli (i modelli) rischia l'estinzione.
Il mercato è la nostra salvezza e la nostra guida.
Un'altra proposta in positivo: il prossimo obbiettivo potrebbe essere modificare le brutture esistenti, per esempio, rifare una bella facciata al palazzo della UPIM in piazza San Jacopo: sarebbe un bel manifesto del nostro Centro Studi Rinascimento Urbano (il progetto di ristrutturazione di Krier ad Alessandria è decisamente meglio del nuovo).
Adesso ti lascio, lascio questa splendida terrazza in un palazzo di Ibla (il centro storico di Ragusa), lo sfondo di questo meraviglioso presepe illuminato davanti a me e vado a dormire. Domani mi sposto a Noto, capitale del barocco, dove un grattacielo (dimensioni di quello scongiurato della Margheritone) è lì a ricordarci gli scempi edilizi della modernità.
Affogherò nel mare le mie ansie architettoniche. Madonna, quest'anno ho fatto le vacanze intelligenti!
Un saluto a te e ad Anastasia
Piero
16 marzo 2008
CENTRO STUDI PER IL RINASCIMENTO URBANO - Arezzo
Presidente Giulio Rupi, consiglieri: Paola Gigli, Danilo Grifoni, Pietro Pagliardini, Roberto Severi jr, Roberto Verdelli
Presidente onorario Leon Krier
Il punto cruciale da cui hanno inizio tutte le nostre riflessioni è la constatazione di un fallimento.
Negli ultimi 60 anni, a seguito dell’inurbamento, si è costruito attorno alle città italiane come alle città di tutto il pianeta un volume di nuovi edifici pari a tre, quattro e più volte quello fino allora realizzato nei i secoli precedenti, ma praticamente nulla di quello che si è realizzato, salvo pochi episodi isolati, ha raggiunto la qualità diffusa e generalizzata di tutto quello che era stato precedentemente costruito. A questo fine non sembri banale constatare che tra le mete del flusso turistico (il primo settore dell’economia mondiale) non vi sono certo le periferie costruite negli ultimi 60 anni ma i centri storici costruiti nei millenni precedenti.
Fa immediato seguito a questa constatazione la convinzione che questo fallimento planetario non sia dovuto a uno scherzo del destino ma abbia delle cause precise nelle ideologie architettoniche elaborate nei primi anni dello scorso secolo, ideologie penetrate, trasversalmente alle divisioni politiche, nel profondo della cultura di tutto quel secolo e tuttora operanti tra la maggioranza degli addetti ai lavori, come assiomi indiscussi e indiscutibili posti alla base delle scelte operative fondamentali.
Il punto di “tracollo ideologico” va individuato nel momento in cui si è proclamata la necessità di una totale rottura con il passato, in pratica l’idea di Architettura della Modernità come discontinuità rispetto a tutto quello che era stato elaborato nei secoli e nei millenni precedenti. Così la discontinuità, e con essa la dissonanza con il passato, si fecero programma in tutti campi della modifica dell’ambiente antropico, dal territorio alla forma della città alla forma degli edifici alla scelta dei materiali e fu stesa una proibizione inflessibile su tutto quanto poteva rifarsi a quel passato.
Le conseguenze di quella scelta sono molteplici, tutte legate tra loro e tutte legate alla scadente qualità di quello che è stato poi realizzato, soprattutto nel secondo dopoguerra, sulla scia di quelle indicazioni di fondo.
* * *
1 – La rottura con il passato ha fatto sì che la città antica, con le sue caratteristiche spaziali e le sue leggi di crescita fosse considerata ormai inadeguata a suggerire la progettazione degli spazi della città nuova.
Così si è creata “dal nulla” una nuova urbanistica, si sono organizzate le espansioni urbane su criteri assolutamente diversi da quelli che avevano prevalso fino a quell’epoca e sono sorte le periferie.
I Centri Storici si articolavano in degli spazi interni, luoghi di incontro e di relazione, vocati alla pedonalità, spazi familiari e amichevoli, fatti di fronti stradali compatti e di piazze. Le periferie venivano al contrario costruite come somma di episodi architettonici che di fatto non creavano alcuno spazio interno, ma anzi si contrapponevano a spazi esterni ed estranei, scarsamente pedonali e destinati al degrado. Con il che gli spazi pubblici e di incontro, che prima si identificavano con la città stessa, divennero spazi ostili e quindi condannati a fallire.
La città, da sistema corale di edifici che ogni cittadino aveva realizzato adattando alle proprie esigenze individuali delle tipologie consolidate, divenne esposizione di episodi autonomi, liberamente creati, da valutarsi separatamente uno per uno, sulla base della capacità creativa del progettista.
Sappiamo bene che l’avvento dell’automobile ha introdotto nell’urbanistica della città nuove problematiche, ma riteniamo che questo sia un problema da risolvere conservando i valori spaziali della città europea, come essenziali e irrinunciabili per la qualità della vita del cittadino, in quanto la loro “evitabile” scomparsa sta alla base del degrado delle moderne periferie.
Riteniamo quindi che sia possibile progettare anche oggi delle vere strade e delle vere piazze e intendiamo operare perché vengano modificate tutte quelle normative edilizie che derivano dal pregiudizio urbanistico modernista e di fatto rendono estremamente difficile la progettazione di una città con spazi di tipo tradizionale.
2 – La rottura con il passato ha reso più facile e ha di fatto giustificato la rinuncia a un aspetto essenziale della città antica: l’integrazione delle funzioni.
Da allora, ogni volta che c’è stato da scegliere tra opzioni diverse, si è sempre finito per scegliere la soluzione che separava le residenze dalle altre attività e quindi aumentava la specializzazione delle diverse parti della città.
Sappiamo bene che l’urbanistica non è tanto la causa quanto piuttosto l’effetto delle trasformazioni sociali, che i centri commerciali e le zone industriali non sono soltanto scelte urbanistiche, ma se si parte dalla convinzione ideologica che si debba comunque identificare la Modernità con la separazione, la specializzazione, l’accorpamento, si finisce per scegliere sempre questa soluzione, anche quando altre soluzioni sono ugualmente possibili.
Riteniamo allora che l’integrazione della città antica debba comunque essere presa a riferimento e che si debbano sempre privilegiare quelle soluzioni urbanistiche che aumentano l’integrazione tra le funzioni e di conseguenza la quantità delle opzioni disponibili per il pedone.
3 – Il tessuto di base della città antica era un prodotto corale e anonimo di altissima qualità. I costruttori esprimevano la propria individualità all’interno di un sistema di regole e di consuetudini che venivano lentamente e costantemente rielaborate.
La rottura con la Storia ha lasciato i costruttori totalmente svincolati da qualsiasi regola e da qualsiasi codice: ne è risultata, inevitabile, una cattiva qualità dell’edilizia di base nella sua generalità.
Sappiamo bene che non esistono più le antiche civiltà organiche in cui la bellezza era il frutto spontaneo della società, ma proprio per questo riteniamo che oggi non sia possibile affidarsi al buon gusto e alla capacità artistica dei progettisti, ma si debba invece acquisire consapevolezza dei meccanismi che hanno prodotto gli ambienti della città antica per individuare regole generali e invarianti che, in nome della continuità della Storia, riteniamo tuttora idonee a progettare la città.
Solo in questa maniera l’Urbanistica e l’Architettura potranno ritornare a essere delle discipline trasmissibili al pari di qualsiasi altra disciplina (dalla Medicina all’Agricoltura etc.) e non saranno, come adesso, delle forme artistiche in cui, di contro a una pletora di mediocri non realizzati, pochi eletti quelli bravi, con la vocazione, riescono a formarsi alla bottega dei Maestri.
4 – Fino agli inizi del secolo scorso l’Architettura di tutte le epoche e di tutte le civiltà aveva mantenuto la sua figuratività, legata alla sua essenza tettonica. Si erano da sempre realizzati edifici che poggiavano solidamente sulla terra, si elevavano vincendo la forza di gravità e si concludevano infine verso l’alto.
La rottura con la Storia ha portato velocemente alla fine della figuratività nell’Architettura, e gli edifici sono divenuti pura composizione estetica di forme astratte.
Riteniamo invece che il rapporto esistenziale, istintivo, che lega l’uomo al suo ambiente richieda che gli edifici in cui vive conservino una qualche figuratività, legata all’essenza universale del costruire. Pensiamo quindi che non si possa imporre ai cittadini, nelle periferie delle città, una generalizzata perdita di figuratività degli edifici.
5 – La città antica costituiva un insieme organico integrato nel paesaggio e in questo organismo, cresciuto lentamente nei secoli, i diversi stili architettonici si sono integrati tra loro creando accostamenti assolutamente armonici.
La rottura ideologica con questa continuità storica ha fatto sì che l’espressione della Modernità venisse a identificarsi con un effetto di dissonanza e di contrasto. Ne è sorto un riflesso condizionato per cui un intervento nuovo inserito in un contesto storico deve necessariamente, sia nella forma che nei materiali, esprimere un carattere alieno rispetto al suo contesto, pena la condanna senza appello di “inautentico”.
Questa decontestualizzazione programmata, assunta come valore, ha di fatto impedito il trasmettersi di una cultura e di una pratica di rispetto per il paesaggio e per il contesto, ed è oggettivamente responsabile, nel senso più profondo, dei peggiori misfatti perpetrati (legalmente e coscientemente) dalla cultura urbanistica e architettonica ufficiale nel territorio. A tutt’oggi, nonostante che da decenni la contestualizzazione venga predicata nelle scuole di Architettura, quando all’atto pratico si deve scegliere tra diverse opzioni, l’establishment architettonico si schiera immancabilmente (diversamente dall’opinione pubblica) per la soluzione più dissonante.
Riteniamo al contrario che il nuovo debba porsi in continuità con l’esistente, che non si crea alcunché dal nulla, ma apportando (in meglio) modifiche e adattamenti a quello che è il risultato di secoli di Storia. Per ottenere questo ci si dovrà rendere consapevoli delle ragioni più profonde della struttura dei luoghi e continuare a farsene interpreti.
6 – Questo atteggiamento ideologico secondo il quale la Modernità è da porsi in totale discontinuità e quindi, di fatto, in dissonanza con l’antico, lo si ritrova anche nel campo della conservazione e del restauro. Se infatti, come sta scritto nella Carta del Restauro di Venezia, si parte dall’idea che ogni restauro dovrà evidenziarsi dal substrato originale, rifiutando qualsiasi anche leggera forma di mimetismo, si finirà con l’accettare le più vistose intrusioni moderniste applicate a preesistenze monumentali (sulle quali, correttamente, verrà esercitato un inflessibile controllo filologico) purché queste intrusioni siano chiaramente percepibili, cioè siano dissonanti con il contesto.
Riteniamo invece che bene hanno fatto i Fiorentini nel dopoguerra a ricostruire così com’era il ponte dell’Ammannati e i Veneziani a ricostruire identici il Campanile di San Marco e il Teatro della Fenice, e che bene hanno fatto gli Aretini a ricostruire in stile le case distrutte di Piazza Grande.
Riteniamo che, in presenza di preesistenze significative un’accorta operazione di mimesi sia da preferirsi a un intervento dissonante e non siamo inorriditi dai concetti di copia e di imitazione, che sono alla base della cultura urbana europea. Riteniamo che, come nel Rinascimento, la vera innovazione può derivare solo da un processo di profonda conoscenza e di continuità.
7 – Infine la rottura con la Storia ha prodotto la fine del rapporto democratico tra i costruttori e gli utenti, un rapporto di consenso da sempre intrinseco alla costruzione della città antica. Tutti i punti precedentemente enumerati possono essere interpretati anche sotto l’aspetto del ritorno a un rapporto di consenso tra l’Architettura e la gente.
Infatti la gente ama gli spazi interni della città antica, abbandona al degrado gli spazi esterni della città nuova e quando possono gli abitanti della periferia si riversano nel Centro storico. E la gente ama le strade del Centro antico anche per la varietà dell’offerta che lì viene presentata dalle diverse funzioni presenti.
Infatti la gente vuole costruzioni riconoscibili, case che sembrino case, e per sé chiede immancabilmente le soluzioni più figurative, non ama convivere con elementi dissonanti, ma ama spazi armonici, cui si aderisce spontaneamente, con l’istinto piuttosto che con l’intelletto.
Non possiamo allora accettare che un ambiente costruito possa risultare sgradevole a tutti quelli che sono obbligati a passarvi la propria esistenza e tuttavia essere legittimato dal solo fatto di piacere alla corporazione di quelli che lo hanno progettato. Ribadiamo che la distruzione di un rapporto consensuale tra l’uomo e il suo ambiente costruito mina alle radici la convivenza civile e la qualità della vita dei cittadini, ed è componente non piccola del disagio della nostra Civiltà.
Riteniamo quindi come componente essenziale del futuro Rinascimento Urbano, l’idea di gradevolezza, di piacevolezza dell’ambiente urbano e perciò auspichiamo la ricostruzione del rapporto democratico con la gente, alla quale andrà infine riconosciuto il diritto di esprimersi.