Pietro Pagliardini
In un articolo su la Repubblica edizione di Firenze, l’architetto Antonio Godoli, direttore del Dipartimento Architettura degli Uffizi, presente all’incontro di Lèon Krier con la cittadinanza a Novoli, oltre a continuare nell’improponibile difesa d’ufficio (d’ufficio?) del Palazzo d’in-Giustizia di Leonardo Ricci, scrive, tra l’altro:
“Credo che l’errore del Comune fiorentino fu proprio quello di chiamare un unico progettista e di un preciso indirizzo architettonico a disegnare un pezzo di città, pensando così di risolvere automaticamente ogni problema, facendogli riproporre forma, dimensioni e tracciato uguali a quelli di un insediamento storico. Krier rappresenta quel pensiero che vuole il linguaggio dell’architettura moderna causa di ogni male, di ogni disagio, di qui il ritorno a canoni, principi del passato. E’ evidente il richiamo, il fascino dei centri storici ma essi sono prodotti da stratificazioni di eventi nei secoli, memoria del passaggio della vita, la ricostruzione artificiale della loro forma non riprodurrà mai la felicità di un tempo”. Conclude attribuendo a Krier stesso una parte della responsabilità per il disagio dei residenti. Non si capisce, in verità, come possa essere responsabile di un progetto non suo, nè l'articolo accenna ad una spiegazione, ma questo non è l'argomento del post.
L’architetto Godoli è un caso rappresentativo, e non mi riferisco alla persona ma al ruolo che egli svolge e all’istituzione che egli rappresenta ai massimi livelli, di uno strano sdoppiamento della personalità niente affatto infrequente nel mondo della tutela dei monumenti e del patrimonio storico in genere.
Una persona normale, anche un architetto normale, sarebbe portato ad immaginare che l’Istituzione che sovrintende al patrimonio storico dell’architettura dovrebbe nutrire un amore per determinate forme, per un certo tipo di architettura diciamo classica e che aspirasse a vedere riprodotta, almeno in parte, tale bellezza anche negli edifici e nella città nuova. Invece non è così. Diranno gli amici modernisti: ma è ovvio che non sia così, anche se sono restauratori (o conservatori?) vivono nel loro tempo e quindi desiderano l’architettura della modernità! Anzi, immagino che proseguirebbero, proprio per l’amore e il rispetto dell’arte e dell’architettura antica, desiderano, anzi auspicano ed esigono che non si faccia ad esse il verso creando “falsi” che, quand’anche fossero del tutto simili al vero, trarrebbero in inganno gli abitanti e gli osservatori, e sarebbero inoltre anacronistici e sbagliati perché non adatti alla società contemporanea. Forse direbbero anche altre cose, meno garbate, ma per certo queste non mancherebbero.
Tralasciando il luogo comune della non meglio identificata modernità, perché se io faccio un edificio oggi è moderno per definizione, anzi contemporaneo, ma questa semplice ed evidente verità è abbastanza dura da farla entrare in testa a molti, è interessante ricordare come il prof. Paolo Marconi spiega questo paradosso molto italiano nel suo libro “Il recupero della bellezza”. Egli lo fa risalire ad Arrigo Boito e alla trasposizione in architettura della deprecabile usanza del falso pittorico (venduto però come autentico). Ecco il distico di Boito sotto accusa: “far io devo così che ognun discerna/esser l’aggiunta un’opera moderna”.
Marconi avverte però che Boito si riferiva solamente al restauro archeologico ed era rivolto contro i falsari-duplicatori. A questo Marconi fa risalire la cultura modernista delle Soprintendenze, le quali seguono il principio della “conservazione” piuttosto che quella del restauro.
Ha sicuramente ragione, come avrà sicuramente ragione quando attribuisce anche a Cesari Brandi l’equivoco di aver assimilato le falsificazioni di oggetti d’arte finalizzate a frodi commerciali alle “repliche architettoniche a fini di conservazione dei monumenti, seguendo troppo pedestremente l’invettiva di Boito”.
Ma a me sembra vi sia anche dell’altro, più profondamente legato alla cultura architettonica del novecento. Per questo riporterò parte di un post scritto circa un anno fa:
"Parlare di falso vuol dire partire inevitabilmente dalle teorie estetiche e dalla teoria del restauro. L’origine del dibattito e le diverse posizioni sono riconducibili a Ruskin e Viollet le Duc, l’uno con la sua intransigente visione di non restaurare i monumenti e lasciarli decadere per farli tornare parte della natura da cui provengono, una concezione frutto di profonde e rispettabili convinzioni personali ma difficilmente praticabile; l’altro con l’introduzione del restauro stilistico che ammette, quando non vi è sicurezza dell’originale, l'aggiunta cercando di interpretare le intenzioni autentiche dell’autore o, addirittura, l'invenzione, cioè il massimo del “falso”.
Ma è la Carta di Atene che istituzionalizza il concetto di falso, stabilendo che laddove vi è la necessità di inserire nuovi elementi, questi dovranno essere chiaramente leggibili, per riconoscerne l’epoca e per non creare, appunto, falsi.
Questa è la teoria che ha dominato il XX secolo e il metodo di lavoro delle Soprintendenze, trasformandola però nel manuale del politically correct dell’architettura, perché, col trascorrere del tempo, questa è trasmigrata, per osmosi, dal restauro al progetto, con la conseguenza che “l’antico” è stato definitivamente fossilizzato e fissato all’epoca di appartenenza e, per analogia con la teoria del restauro, il nuovo si dovrà esprimere con le forme e con i materiali del proprio tempo; così si è determinata la paradossale situazione che tutto ciò che è antico è intoccabile ma, quando si deve intervenire accanto ad edifici antichi o dentro la città storica si ammetterà qualunque cosa, purché “moderna”.
E’ da qui che è nato il luogo comune e il pregiudizio di falso = zotico; invece io affermo che la falsificazione è una qualità fondamentale dell’architettura”.
Ecco mi pare che questo post si adatti benissimo a quanto l’architetto Godoli ha scritto e a quanto ha detto durante l’incontro.
Per inciso, l’architetto ha dichiarato, con un certo orgoglio, di aver partecipato alla commissione che ha selezionato il progetto di Arata Isozaki per gli Uffizi.
Sì, proprio la famosa pensilina-gazebo.
E' stato forse l'unico momento della serata in cui si è sentito un mormorio e un mugugno proveniente da gran parte del pubblico, ma questo non l'ho letto ancora in nessun articolo di giornale.
24 giugno 2009
COMMENTO SU KRIER A NOVOLI
20 giugno 2009
GLI ARCHITETTI CON IL "FALSO" SEMPRE IN BOCCA
Pietro Pagliardini
Sul quotidiano La Nazione, nella cronaca di Arezzo, è uscito oggi questo articolo di Salvatore Mannino su quello “splendido falso” che è la Piazza Grande di Arezzo. Mannino, giornalista che segue con attenzione i fatti di città, sapendo e conoscendo quanto gli aretini siano affezionati alla loro Piazza Grande e quanto i turisti apprezzino questo spazio che non ha certo l’omogeneità e la coerenza di altre famose piazze italiane ma che riesce comunque a lasciare un forte ricordo di sé a distanza di anni, non solo non si è posto il problema se quei “falsi” sia stato bene farli ma ha anche ironizzato, con il suo virgolettato, sul fatto che qualcuno li possa chiamare falsi. Ma molti architetti, sono certo, penseranno che sia Mannino, sia gli aretini, sia i turisti siano tutti ignoranti e incolti.
Se gli architetti afflitti da carie dentaria (e ce ne saranno, immagino) fossero coerenti con il loro pensiero, invece che usare dentiere in porcellana o impianti al titanio rivestiti di materiale il più simile possibile ai denti veri, usassero apparecchi che mostrassero la loro falsità, ad esempio l’oro, come accadeva una volta, allora m’inchinerei loro e sarei costretto a cambiare idea. Ma se, come immagino e come è giusto, anch’essi scendono, in questo caso, al livello dei comuni mortali e, oltre che conservare al massimo la funzionalità della loro masticazione, garantita dalla solidità del lavoro del dentista, vogliono anche salvaguardare la bellezza e l'ordine del loro volto con una dentatura il più mimetica possibile, per garantire l'armonia complessiva di quelle loro belle e pensose immagini delle riviste, allora la smettano di fare inutili discorsi sui “falsi” architettonici, perché i primi falsi ce li hanno proprio in quell'organo da cui escono tutte le stupidaggini sui falsi, al pari di tutti coloro che vi sono costretti dalla malattia.
E così ho scoperto che la Vitruviana triade di utilitas, firmitas e venustas non è esclusivo appannaggio dell’architettura ma anche dell’odontoiatria.
Almeno fino a che non arriveranno i critici odontoiatrici a fare danni.
16 giugno 2009
ANCORA UN LINK SUL TEMA RICOSTRUZIONE
Il Covile continua nell'approfondimento del tema restauro e ricostruzione con un articolo di Ettore Maria Mazzola.
Inevitabile il link:
10 giugno 2009
LEON KRIER A FIRENZE
Mercoledì 17 e Giovedì 18 giugno Lèon Krier sarà a Firenze per la presentazione di un libro e per un incontro pubblico con i cittadini.
Questo il testo pervenutomi dalla LEF Libreria Editrice Fiorentina:
L'interesse di questo incontro mi sembra stia, oltre che nella qualità del personaggio, anche nella possibilità di valutare se le idee, i progetti, l'architettura di Lèon Krier incontrino ai gusti e le aspettative della gente.
6 giugno 2009
UN LIBRO NON RECENTE DEL PRINCIPE CARLO
Mi è stato prestato un libro del Principe Carlo d’Inghilterra, “Uno sguardo sulla Gran Bretagna. La mia concezione dell’architettura”, 1989 edizioni Frassinelli. E’ un bel libro incentrato sulla Gran Bretagna ma con un occhio attento all’architettura in generale. Ne riporto qui alcuni brani tratti dall’introduzione per infrangere il luogo comune e il pregiudizio, diffuso ad arte, sulla sua presunta incompetenza e anche perché, pur essendo datato 1989, vi sono temi ricorsi di recente con la nota protesta delle archistar contro di lui. A distanza di tempo si ritrova a dover affrontare le stesse polemiche senza retrocedere di un passo. E per essere scritto venti anni fa mi sembra che il Principe abbia saputo cogliere con lucidità e competenza importanti problemi dell'architettura che ricorrono ancora oggi. E' perfino divertente vedere confermati tutti i vizi dell'establishment culturale del tempo (siamo nell'anno della caduta del muro di Berlino) e che continuano tutt'ora, anche se con un po' più di affanno.
Ad alcuni piace definire le mie idee sull’architettura e l’ambiente come reazionarie e contrarie al progresso e alle esigenze del mondo contemporaneo. Più mi addentro nel mondo torbido dell’architettura, della pianificazione e della proprietà edilizia, più mi accorgo della possente influenza di vari gruppi di interesse.
Da qui le reazioni spesso violente e velenose alle mie prese di posizione. Mi si imputa persino di abusare del mio potere (sic) in quanto principe di Galles, intervenendo in questioni che sarebbe più opportuno delegare agli architetti e di agire in modo antidemocratico.
Mi si dice che sono grossolanamente ingiusto nei riguardi della professione, in quanto punterei l’arma contro gli architetti, mentre in realtà i responsabili sarebbero i pianificatori, la proprietà edilizia, i politici a livello nazionale e locale. Perché allora ho preso di mira gli architetti in particolare? Perché sono convinto che è stato l’establishment degli architetti, o un gruppo potente al suo interno, che ha dettato legge negli ultimi anni Cinquanta e Sessanta. Sono stati loro a dimostrare la necessità di una “nuova” architettura ai fini della ricostruzione della Gran Bretagna postbellica e ad attuare scientemente una rivoluzione all’interno dell’ordine professionale e del loro sistema educativo. Sono stati i “grandi architetti” di questo periodo a persuadere tutti che il mondo sarebbe stato più sicuro nelle loro mani. I loro successori mantengono ancora prestigio e una specie di fascino tra i colleghi: decretano lo stile, controllano i curriculum e detengono posizioni di potere nel Royal Institute of British Architects (RIBA) e nella Royal Academy. Sono loro a governare con mano ferrea le scuole d’architettura e loro che vengono fatti passare per eroi dalle riviste di architettura, in gran parte osannati, e che stanno al centro dell’attenzione scarsamente critica della stampa in generale.
Effettivamente questi signori sono così abituati a sfuggire alla critica, che il mio mite appunto in cui definivo il progetto No 1 Poultry “un vecchio apparecchio radio degli anni Trenta” fu considerato in certi ambienti un’interferenza incostituzionale nel processo di pianificazione.
Può sembrare una scappatoia, ma non ho un desiderio particolare di battermi contro gli architetti o gli speculatori edili.
D’altra parte sono preoccupato per il loro approccio filosofico rispetto all’intera questione della progettazione edilizia nella misura in cui in cide sulla gente e la sua vita.
Molti architetti e imprenditori edili credono che l’architettura debba rispecchiare lo spirito del tempo….dato e non concesso si sappia cos’è! Allo stesso modo in cui il Rinascimento ha rappresentato in architettura l’affrancamento dalle catene della chiesa medievale, così sostengono loro, l’architettura contemporanea deve rispecchiare il dominio dell’alta tecnologia e l’evidente trionfo meccanico dell’uomo sulla natura che per tanto tempo l’ha tenuto in scacco.
Evidentemente, in quest’ordine d’idee, il passato è ampiamente irrilevante e il suo significato e le sue lezioni devono essere cancellate.
Credo che quando un uomo perde il legame col passato perde l’anima. Allo stesso modo, se respingiamo il passato architettonico allora anche i nostri edifici perdono la loro anima. Se abbandoniamo i principi tradizionali su cui l’architettura si è basata per 2.500 anni o più, la nostra civiltà ne soffre. Le nostre vite possono essere dominate da forme di tecnologia sofisticata, ma noi possediamo anche un più grande retaggio.
Non c’è nulla di erroneo da imparare dal passato, nell’applicare le lezioni che i nostri predecessori hanno appreso con tanta pena, nel riconoscere che il nostro particolare retaggio isolano è il risultato della risposta a condizioni climatiche e alla disponibilità di determinati materiali locali e dell’ispirazioni fornita dai grandiosi esempi dell’architettura europea.
Questi concetti ci danno un senso di appartenenza di ordine, d’importanza vitale per il nostro sviluppo di esseri umani. Non siamo i soli a nutrire inquietudini per la strada intrapresa dall’architettura moderna o anche postmoderna. (Non fatevi confondere dal postmodernismo e dagli altri “ismi” che i critici di architettura escogitano per cullarci in un malinteso senso di sicurezza!).
In paesi come l’Arabia Saudita dove il ritmo dello sviluppo è stato sorprendentemente rapido e il concetto prevalente che vige è “se è americano”, “se “è nello stile di vita internazionale, deve essere la miglior cosa per noi”, cominciano a rendersi conto che nell’ansia di modernizzarsi allineandosi alle tendenze occidentali hanno perso qualcosa. Sta emergendo un movimento inteso a riscoprire l’eredità islamica e autoctona e a imparare dalla saggezza ambientale locale degli antenati che conoscevano alla perfezione l’arte di costruire tenendo in debita considerazione le condizioni climatiche prevalenti.
Nel Medio Oriente si ascolta con interesse crescente un notevole architetto egiziano Hassan Fathy, che per quarant’anni ha dovuto subire critiche e denigrazioni velenose da parte della classe professionale modernista per aver propugnato con ostinazione la causa dell’architettura islamica tradizionale. E’ stato sempre accantonato come un romantico privo di contatto con la realtà moderna. “Quando si attira l’attenzione della gente sull’estetica e la cultura”, ha scritto il dotto Fathy, “ti tacciano di romanticismo. Questo sta a dimostrare lo stato della nostra società attuale”. [Omissis]
Il dottor Fathy sostiene che “l’architettura per i ceti meno abbienti non deve essere concepita come la cura di una malattia particolare” e si schiera per un’”architettura fruibile sia dai ricchi sia dai poveri”, non privilegio di un determinato ceto sociale. L’estetica dovrebbe essere una componente di tutta l’architettura: “Purtroppo” lamenta il dottor Fathy, “oggi al popolo non è concesso il vantaggio estetico e si assimila a torto la povertà con la bruttezza, il che è un errore grave. Più i costi del progetto sono contenuti, maggior cura e attenzione dovrebbe essere prestata all’estetica”.
Il dottor Fathy è un uomo notevole, la cui voce coraggiosa dovrebbe essere ascoltata. Sentite questa: “Io dico che la bella architettura è un atto di civiltà verso chi entra nell’edificio; si inchina a voi ad ogni angolo, come in un minuetto….Ogni costruzione brutta è un insulto a chi le passa di fronte. Gni edificio dovrebbe rappresentare un ornamento e un contributo alla propria cultura. Ora è molto difficile raggiungere questo obiettivo perché abbiamo abbandonato la scala umana e il riferimento umano. Dobbiamo quindi reintrodurre questi due elementi, più la musicalità in architettura”.
Seguono alcuni link su Hassan Fathy e l'architettura tradizionale islamica:
http://www.youtube.com/watch?v=0myHEjXWElo
http://www.youtube.com/watch?v=LlWFjxd935s&feature=related
http://web.mit.edu/akpia/www/
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2 giugno 2009
IL PROF.PAOLO MARCONI SULLA RICOSTRUZIONE A L'AQUILA
Il Covile propone oggi uno straordinario intervento sulla ricostruzione A L'Aquila del Prof. Paolo Marconi, con una nota sull'autore del Prof. Ettore Maria Mazzola.
Corre l'obbligo di un link immediato:
COSA FARE IN CITTA' COME L'AQUILA DOPO IL TERREMOTO?
LETTERA APERTA DA UNO STUDENTE DI ARCHITETTURA
Questo post è stato scritto da Riccardo Verdelli, studente di architettura di Arezzo, che conosco e a cui avevo chiesto di scrivere qualcosa dopo aver scoperto che è animato da grande passione civile che non riversa solo nell'architettura.
Riccardo ha anche un blog, Il Verde Polemico. Il verde potrebbe avere un doppio senso ma il polemico, ve ne renderete conto, ne ha uno solo.
L'amico Piero mi ha chiesto qualche tempo fa di scrivere qualcosa, di riassumere i pensieri di uno studente di architettura che si appassioni al dibattito su architettura ed urbanistica; ecco, ci ho messo un sacco di tempo, ma alla fine ho trovato il tempo per farlo.
Proprio domenica un'interessante puntata di Report (ovviamente diretta a tutti, quindi magari un po' "banale" in alcuni passaggi per una persona del settore) mi ha dato la spinta: si parlava della morte dello strumento urbanistico e della nascita della città del palazzinaro. E' inutile dire quanto piacevole e confortante sia che anche la società civile finalmente si schieri contro le varie forme di non-città che proliferano oggi e che eminentemente sono sconfinati quartieri dormitorio o marmellate di villettopoli sparse qua e la.
Il punto forte della trasmissione stava proprio nella continua violenza cui son sottoposti i piani in Italia, raramente rispettati se un qualche imprenditore mette sul piatto soldi sufficienti a far rifiatare un comune, che accetta così di far stuprare in qualunque modo il proprio territorio, fregandosene non solo dei costi sociali di migliaia e migliaia di metri cubi messi in un posto alieno alla città, ma anche a quelli poi dovuti ad un'architettura che nelle migliori delle ipotesi è semplicemente banale.
Cos'è oggi un architetto? A cosa si è ridotta la figura che nel tempo ha costruito le città? Se il lavoro dell'urbanista viene violentato in nome dei soldi dei palazzinari, se questi vuole spender poco e se i professori universitari insegnano che non ci sono regole, che tutto è soggettivo ma ingiudicabile, che ciò che fa un architetto è giusto e incontestabile? Cosa viene fuori da questo quadro? Architetti che quando siano rispettosi dell'architettura, della storia ma anche del progresso, dell'urbanistica, conoscitori della città, vengono comunque ridotti a poco più di "disegnatori di cartine". A che serve, dunque, che un urbanista presti attenzione a come e dove costruire, alle infrastrutture, alle linee di trasporto pubblico, quando poi un palazzinaro compra ettari ed ettari di terreno agricolo e si presenta al comune con i milioni degli oneri in mano e il comune non possa (o voglia, nella peggiore delle ipotesi) che prostituirsi per far cassa in qualche modo?
La questione è inevitabilmente prima politica che di qualunque altro tipo: evidentemente i comuni italiani non hanno soldi a sufficienza e voglio spendere critiche bipartisan a questo punto, o meglio fare un plauso e una critica a questo governo. Ben venga il federalismo fiscale, gli enti locali sono quelli a più stretto contatto con il cittadino e devono "prendersi cura" di lui, orribile la scelta di togliere l'ICI sula prima casa, ossigeno fondamentale per i comuni.
Oggi ci troviamo in condizioni serie, e non parlo di ambientalismo quanto di qualità della città, anche perché i professionisti capaci, che hanno la possibilità economica di non prostituirsi, hanno un ruolo marginale e possono essere facilmente scavalcati da un amministratore poco capace o semplicemente senza sufficienti fondi.
Lo strumento urbanistico dovrebbe avere un valore molto maggiore, dovrebbe essere "inviolabile" ed è qui secondo me che si può e deve ragionare di qualità edilizia, qualità urbanistica e ridensificazione della città, restituzione della città ai cittadini.
Sottrarre la città ai SUV e restituirla ai cittadini DEVE essere priorità in Italia dove, non fosse chiaro, nessuno viene a vedere i quartieri dormitorio o le villettopoli terzo millennio, ma si viene a vedere la meraviglia di centri storici stratificati, che offrono tessuti nei quali si legge la storia della città, la città dei cittadini; le città delle auto non interessano a nessuno, anzi potendo se ne fugge.
Il piano dovrebbe appunto essere inviolabile, ed indicare nuove aree, che valgano le "C" ma che siano esclusivamente dedicate a "premio" (preferisco scrivere in modo che sia chiaro a tutti, non so quanto sia vasto il tuo pubblico) per coloro i quali accettino la sostituzione edilizia. Dovrebbe cioè indicare gli edifici cittadini impropri e consentire, in funzione della sostituzione, di aggiungere metri cubi, tanti, tantissimi vi prego, se non in sito almeno in queste aree "C bis", e l'allargamento della città deve quindi esistere solo in funzione di una riqualificazione dell'esistente, e ovviamente rispettoso della città. L'esempio della sede della Banca Toscana ad Arezzo l'avevo già fatto (edificio moderno le cui storture sarebbero elencabili solo in un topic dedicato, ma situato in una strada ordinata e di un certo pregio architettonico): sostituisci quell'oggetto e io ti assicuro tanti metri cubi in più, nello specifico anche in sito, essendo l'edificio attuale molto basso rispetto al contesto, in altri casi in aree IMMEDIATAMENTE periferiche, che ovviamente deve individuare l'urbanista; questa dovrebbe essere la concessione che il comune potrebbe fare: può vendere spazio in virtù di una sostituzione che permetta di riqualificare la città, non può vendere la città per soldi, non può l'amministratore far prostituire la città.
I piani dovrebbero essere frequenti, e non indicare come allargare la città, ma come farla crescere qualitativamente, ma soprattutto dovrebbero essere inviolabili!!! Un accordo di programma può vertere su indici e standard, il comune può prendere la "mazzetta" (oggi è tecnicamente questo) per far costruire 100.000 mc laddove se ne potevan fare 80.000, non per far costruire laddove non si può.
Ne viene fuori un disastro sia ambientale (minori aree verdi, maggiori consumi di carburanti) che economico (maggiore dispersione per reti di utenze più lunghe, bisogno di nuove infrastrutture), che sociale (migliaia di cittadini che non si sentono cittadini, non padroni ma schiavi della città, di una città che è a sua volta schiava dell'auto).
Un comune può accettare un piano in più molto più facilmente che una casetta "più in la", una città può alzarsi e rimanere vivibile, non può farlo allargandosi a macchia d'olio.
Ed è qui che bisogna che il piano individui, dopo che abbia fallito la commissione edilizia, cosa c'è bisogno di sostituire, cosa non è città ma villettopoli, cosa non è città ma dormitorio, cosa non è edificio ma delirio di un architetto "universitario".
Assistiamo oggi in facoltà ad architetti che insegnano che non ci sono regole (ovviamente non tutti, ci mancherebbe), che tutto dipende dal gusto dell'architetto (quindi non ancora dello studente, che deve semplicemente assecondare il professore di turno e sperare di incontrarne il gusto), che non esistono regole, che quando si fa un intervento "deve essere chiaramente riconoscibile" e si portano esempi di abitazioni di Gehry, prontamente riproposti poi dagli studenti in pieno centro storico di Firenze, che quella di Richard Meier è una chiesa anche se a fare fotomontaggi che la collocassero altrove è stata scambiata (non scherzo) per centro velico per la Coppa America e per palazzetto dello sport.
Assistiamo alla negazione aprioristica del tetto a padiglione, che appare quasi come un'offesa, se presentata al professore, oppure ad obiezioni del tipo "ma qui c'è umidità" di fronte ad un tema "fai una casa in mezzo al letto dell'Arno" o a giudizi opposti su progetti identici presentati a soli 7 giorni di distanza.
All'interno di un panorama del genere forse la speranza può venire da "Report", inteso come società civile che si interessa al problema e si rende conto della situazione caotica (ad essere buoni) in cui versano l'urbanistica e l'architettura in Italia; forse la coscienza che il traffico si crea quando si costruisce male, violentando il piano, lasciando la città in mano ai palazzinari, forse la coscienza che l'inquinamento dipende da migliaia di alloggi cresciuti dove non era previsto né prevedibile né auspicabile, forse la nuova spinta ecologista verso consumi più bassi scoraggiata da distanze troppo grandi, forse la rinnovata tensione verso una città da percorrere a piedi potranno quello che politica, urbanistica ed architettura non hanno potuto, o forse voluto, cioè restituire la città ai cittadini. E questo è possibile restituendo l'urbanistica agli urbanisti e l'architettura agli architetti.
E purtroppo per questo la strada sarà lunga e passa anche da un'università che non forma architetti, forma studenti impauriti dal mondo dell'architettura, con nessuna forza culturale da opporre al dio denaro: come può un giovane architetto imporre una corretta visione architettonica che non ha ad un imprenditore che deliberatamente la nega poiché non economicamente vantaggiosa?
La strada è lunga, ma la società civile, se pur prima per la paura sismica e ora per la tensione ecologista, e non per una questione prettamente architettonico/urbanistica, può essere la spinta per riuscire in un prossimo futuro a recuperare le nostre città, a restituircele, togliendole dalle mani di amministratori inadeguati, architetti incompetenti ed urbanisti senza potere.
Spero di non essere stato troppo prolisso e di aver inquadrato la richiesta che mi hai fatto: questa è una sintesi (una sintetica sintesi...) della mia visione dell'architettura e dell'urbanistica attuali e delle prospettive delle stesse, o meglio delle mie speranze perché queste cambino nella direzione che auspico, e credo auspichi anche te.
Ciao Riccardo
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1 giugno 2009
RUDY RICCIOTTI SU ITALIA OGGI
Che non sia un prototipo di archistar?
ITALIA OGGI - RUDY RICCIOTTI:LE GRANDI OPERE A MILANO SONO DI ARCHITETTI APOLIDI