Pietro Pagliardini
All’uscita, però, ognuno di noi ha ripreso il suo ruolo, la mente lievemente offuscata da qualche brindisi perché ad un collega più giovane, a me che obiettavo che la HAAS HAUS di Hollein a Vienna, davanti alla Cattedrale di Santo Stefano, è uno strappo, una inutile e brutta “cicatrice nel volto” di Vienna, è scappata una battuta il cui senso era, più o meno, questo: “E se fosse la Cattedrale di Santo Stefano lo strappo?”.
Ora dobbiamo tenere conto delle circostanze e quindi concedere le attenuanti generiche, né posso escludere che la mia affermazione possa essere stata formulata in modo altrettanto paradossale, tuttavia la battuta rappresenta la limpida estremizzazione di un concetto, espresso in forma assolutamente provocatoria che ribalta la realtà temporale e ipotizza un diverso, impossibile corso di eventi già avvenuti; è un modo di esprimere un pensiero ricorrendo ad una reductio ad absurdum imperfetta; è per me sintomatica di una diffusa mentalità che, nella tensione di giustificare l’architettura contemporanea, arriva a considerare o a ipotizzare sbagliata l’architettura antica e, di conseguenza, la storia.
Il significato di quella battuta, aldilà delle reali intenzioni, è che la città intera, così come ci è stata consegnata, deve, proprio essa, adeguarsi alle nostre forme, all’architettura contemporanea, ai nostri bisogni ma, direi, ai nostri capricci. Non si tratta più di limitare la tabula rasa al nuovo progetto ma di estenderlo anche al corpo e al cuore delle nostre città; ciò che conta è solo il qui, ora, il nostro immediato desiderio; tutto il resto è un impiccio che può essere tollerato fino al momento in cui l’arroganza del nuovo ha bisogno di spazio.
Se conta solo l’attimo, il qui-ora, senza relazione alcuna con la stratificazione della storia presente negli edifici, nelle strade, nelle piazze pre-esistenti, significa che la percezione del tempo, in architettura, si è ridotta alla durata del breve periodo che passa dall’ideazione del progetto alla sua realizzazione; poi segue subito un’altra fase temporale, altrettanto breve per il prossimo progetto e la prossima realizzazione, che trascurerà non solo l’architettura pre-esistente ma anche quella costruita un attimo prima, e così via.
Il tempo dell’architettura contemporanea diventa la somma di tanti istanti discontinui l’uno dall’altro.
Fino a quando il processo di crescita e sviluppo della città è avvenuto senza architetti, almeno nell’edilizia di base, seguendo regole dettate dalla “coscienza spontanea”, cioè senza la consapevolezza critica di chi “decide di fare un progetto di casa” ma semplicemente “decide di fare la casa” costruendola in base alle conoscenze tecniche disponibili, ai bisogni e all’idea diffusa e comune di casa che in quel determinato momento storico esiste, non c’era e non poteva esserci la consapevolezza di collocare quell’edificio come appartenente a quel determinato periodo storico e culturale e come sua specifica espressione artistica.
In un certo senso non c’era dunque la percezione del tempo nell’architettura, ma più propriamente direi nell’atto del costruire, perché senza la capacità critica di astrazione del progetto e del suo inserimento in una linea temporale di sviluppo dell’architettura, cioè senza una visione storicistica, la casa, quella casa, era per sempre, era cioè eterna. Chi costruiva lo faceva per sé e per la sua famiglia ma con lo scontato presupposto che il tempo di quella casa avrebbe coinciso con la durata dei materiali stessi e perciò praticamente infinita rispetto alla vita umana. L’edilizia, con la coscienza spontanea, ed anche l’architettura, quella più aulica degli edifici che costituivano “temi collettivi”, secondo la definizione di Marco Romano, erano certamente figlie della società, della sua cultura e della sua economia; in una società più chiusa, più organica e meno dinamica il tempo dell’architettura era necessariamente lungo; il cambiamento, il passaggio da una forma costruttiva all’altra, da uno “stile” all’altro, anche se qualitativamente apprezzabile, si riverberava nella città con un tempo molto lungo e la permanenza dei caratteri costruttivi e stilistici delle fasi precedenti era altrettanto lunga e, soprattutto, non in contrasto con il nuovo; o meglio il nuovo si omoegeneizzava al vecchio che, a sua volta, perpetuandosi anche in presenza del nuovo stile, non era però in opposizione al nuovo.
La città, cioè, era dotata di una grande inerzia, la quale diluendo nel tempo le modifiche, ha prodotto una sostanziale armonia, non priva delle “dissonanze” di cui parla Cacciari per Venezia.
E’ un fenomeno paragonabile allo scorrere di un fiume, che modifica e rimodella il proprio alveo di continuo, ad ogni piena erode una sponda e ingrossa l’altra, crea nuove anse, arrotonda le asperità delle pietre e le rende ciottoli, ma in un processo lento e continuo, raramente assumendo il carattere del cataclisma.
Si prenda ad esempio il Rinascimento. Questo è il momento storico in cui la figura dell’Architetto si afferma e si delinea come quella depositaria della conoscenza e della titolarità del progetto. Avviene dunque un fenomeno di specializzazione, anche se con caratteri affatto diversi da oggi, essendo questo un artista anche dedito a scultura e/o pittura. Fino ad allora aveva prevalso una visione più unitaria e condivisa del progetto, che era opera collettiva delle maestranze pur con la presenza di soggetti più propriamente dediti allo studio e alla concezione dell’insieme. I progetti urbanistici e architettonici assumono perciò, sotto la guida di un’unica figura, il carattere di unitarietà e sincronia, resa possibile anche dalla presenza del Principe, cioè di un unico committente; cambiano le concezioni spaziali, guidate e controllate dalla prospettiva; si afferma una concezione più autoritaria della trasformazione urbana, meno corale, meno “partecipata”, diremmo oggi.
Eppure la permanenza, anzi l’affermazione teorica di principi architettonici fondamentali, quali la triade Vitruviana, unita all’inerzia all’adattamento dell’edilizia di base, ha consentito la coesistenza ordinata del nuovo con il vecchio.
Si può affermare che il tempo dell’architettura, se pure ha subito una contrazione, conserva sempre un orizzonte molto ampio.
Quando è intervenuta la rottura di questo processo che definisco, in via sintetica e approssimativa, sufficientemente lento ma continuo e globalmente omogeneo?
Senza soffermarsi troppo su un’analisi storica precisa e dettagliata e dando perciò come acquisito il passaggio dell’illuminismo, dell’industrializzazione e delle grandi scoperte scientifiche, con le sue ricadute tecnologiche diffuse a livello di massa, credo che, almeno per l’Europa e per l’Italia, si possa segnare nel secondo dopoguerra.
In questo periodo vi è stata la coincidenza di due fattori: l’uno culturale, cioè l’applicazione generalizzata della rottura dei canoni architettonici elaborati nel trentennio precedente dal Movimento Moderno, l’altro economico, cioè la ricostruzione impetuosa e fuori dalle regole di controllo urbanistico sommata alla mancanza di regole architettoniche.
Questa fase contiene in sé il germe dell’attuale situazione: uno sviluppo edilizio elefantiaco, in città, con le grandi trasformazioni urbane soprattutto di aree dismesse dall’industria, in campagna, nei centri storici, soprattutto nelle grandi capitali e nelle metropoli, che costituisce la massa dell’impatto sul territorio, accompagnato dall’esistenza di un’architettura sfacciata e urlante, esclusivamente basata sull’immagine, sulla totale mancanza di riferimento alcuno alla triade Vitruviana, sull’uso di materiali sperimentali in un rapporto ambiguo tra causa ed effetto, non essendo ben chiaro il confine tra il materiale che accondiscende il progetto o l’inverso, cioè il materiale che crea il progetto.Queste nuove icone dell’architettura, quantitativamente non confrontabili con la massa edilizia diffusa, tuttavia ingombranti, invadenti e prevaricanti nel paesaggio urbano, diventano esempi, prototipi, campioni da ricopiare, imitare, riproporre, magari smembrandone e utilizzando alcune parti, su qualunque tipologia edilizia, contribuendo ancor di più a rendere la massa costruita informe, dissonante e chiassosa.
L’architettura contemporanea, che è inevitabilmente figlia anch’essa della società, è certo pienamente consapevole dello scorrere della storia e del ruolo di testimone che l’architettura ha del proprio tempo; però è incerta, confusa e spesso superficiale nell’elaborazione degli accadimenti della società stessa.
Compie analisi frettolose sulle tendenze, giustifica i progetti affidandosi a grandi narrazioni prive di alcun riscontro concreto, immagina un presente e un futuro improbabile, si affida ad una maldigerita filosofia e scienza dell’indeterminatezza utilizzandola come un principio fondante delle proprie opere prefigurando, paradossalmente, scenari che proprio quelle scienze negano possano essere prevedibili.
In sostanza segue mode estetiche e mode sociologiche: dopo l’inurbamento c’è il ritorno ai piccoli centri? Si prende come una tendenza stabile e si interviene con la “modernità” in questi. La tecnologia e l’informatica consentono alcune possibilità di lavoro decentrato e domestico? Si costruisce prima una teoria approssimativa sulle ricadute territoriali e dopo si “costruiscono” interventi edilizi “pilota”, naturalmente non privi del necessario cablaggio (che poi te lo immagini che colpo di genio) e soprattutto si costruiscono case, strade, ecc. La società è liquida? Anche la città lo deve essere (che cosa significhi francamente non so).
Ognuna di queste analisi della società possiede una parte di verità ma nessuna è vera del tutto e, soprattutto, nessuna è vera per un lasso di tempo superiore a quello della costruzione degli edifici costruiti in base ad essa. L’unica verità costante della società contemporanea è la complessità (e questo lo dicono proprio coloro che ne fanno un cavallo di battaglia per costruire follie architettoniche); da questo dato di fatto vi è chi ne ricava un’architettura il cui tempo è l’attimo, al pari di un normale prodotto di consumo, di un modello d’auto, di un abito alla moda. Un’architettura effimera, priva di tempo e destinata ad una obsolescenza d’immagine e di qualità quasi immediata.
Passata la moda resterà la noia e, soprattutto, resteranno gli oggetti sul territorio, come macerie (capita a proposito questo progetto di MVRDV vincitore di un concorso a Tirana, il cui banale simbolismo suona, a mio avviso, come un’offesa ad un paese che, uscito da poco dalle macerie del comunismo, ora si ritrova nelle macerie della globalizzazione culturale). Inevitabile l’associazione d’idee con la attuale crisi finanziaria americana e mondiale per la quale si dice che “è finito un mondo”: Tremonti dice su IL FOGLIO che era facilmente prevedibile, e lui l’aveva prevista da tempo, perché si viveva nell’illusione, scambiata per realtà presente e futura, che la finanza creativa e debitoria potesse essere svincolata dall’economia reale. Chi l’avrebbe detto, invece, che saremmo tornati a forme massicce di intervento statale sull’economia proprio da parte del paese più liberista del mondo? Chi può escludere, dopo il ritorno ad una agricoltura produttiva e ricca, anche il ritorno alla produzione dei beni, una volta non più conveniente la delocalizzazione causa giusto aumento dei salari anche nei paesi emergenti e in via di sviluppo?
Ritrovare almeno un tempo umano per l’architettura è l’imperativo, almeno come principio di precauzione; costruire edifici che possano durare l’arco di qualche generazione e non il battito d’ali di una farfalla che, tra l’altro, come predicano sempre i nostri architetti amanti del caos, può scatenare un ciclone a migliaia di chilometri di distanza.
RINGRAZIAMENTO:
Caro L.
ti ringrazio per avermi dato la possibilità, con la tua frase, di fare questo post. Tu forse non sai come sia difficile e faticoso trovare argomenti e, quando se ne presenta uno, anche piccino, come ci si debba buttare a capo fitto e sfruttarlo al massimo!
E' chiaro che non sei minimamente responsabile di tutto il castello di amenità che ho costruito io su quella tua frase occasionale di fine serata e quindi questo post non intende, né potrebbe, esprimere il tuo pensiero. Però, nel bene o nel male, quella frase è la tua.
Saluti
Piero
N.B. Le foto aeree sono tratte da Visual Earth di Microsoft
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